Utero artificiale: la tecnologia è pronta, noi?

Un problema di certo non trascurabile nel mondo globalizzato è la sopravvivenza dei bambini nati pre-termine, che possono soffrire di complicazioni gravi dovute alla mancanza di sviluppo degli organi o agli effetti collaterali delle terapie mediche. Finora, le tecniche per mantenere in vita i feti fuori dall’utero materno sono state poco efficaci, ma oggi, con l’innovativo dispositivo di EXTEND (Extra-uterine Environment for Newborn Development) è possibile ridurre drasticamente i numeri per favorire la crescita extrauterina dei nati estremamente prematuri.

Perchè è difficile mantenere in vita un neonato estremamente prematuro?

Un neonato estremamente prematuro è un bambino nato prima delle 28 settimane di gestazione. Questi bambini richiedono un’assistenza intensiva specifica per poter vivere, ma le loro probabilità di sopravvivenza restano comunnque molto scarse.
Prima di tutto, i loro organi non sono ancora del tutto formati e funzionanti. In particolare, i polmoni si trovano in uno stadio di immaturità, non hanno la capacità di effettuare gli scambi gassosi tra ossigeno e anidride carbonica in modo adeguato e sono privi di una sostanza, il suffractante, che permette agli alveoli di non collassare gli uni sugli altri. Per sostenere la respirazione dei neonati, si utilizza una macchina chiamata ventilatore, che eroga aria arricchita di ossigeno attraverso un tubo che viene inserito nella trachea. Tuttavia, può arrecare danni ai polmoni dei neonati, causando cicatrici e infiammazioni.
In secondo luogo, i nati pretermine, hanno una circolazione sanguigna instabile, sono soggetti ad emorragie sia interne che esterne e, a causa di un debole sistema immunitario, sono esposti ad un elevato rischio di infezioni batteriche e virali che determinano principalmente sepsi, meningiti ed enterocoliti necrotizzanti.
Risulta pertanto evidente come mantenere in vita un neonato estremamente prematuro sia una sfida scientifica e medica che richiede tecnologie avanzate e personale qualificato.

Lo studio

I ricercatori del Children’s Hospital di Filadelfia hanno progettato un dispositivo capace di consentire la sopravvivenza di feti di agnello all’età gestazionale di 95 giorni e di peso compreso tra i 600-700g per un massimo di 4 settimane. L’età gestazionale degli animali presi come modello corrisponde all’età gestazionale umana di 23-25 settimane alla quale, fuori dal grembo materno, il feto va in contro a decesso.

Obiettivi

Il sistema EXTEND utilizza un circuito di ossigenazione senza pompa collegato al feto tramite un’interfaccia del cordone ombelicale che viene mantenuta all’interno di un circuito chiuso di “liquido amniotico” che simula l’ambiente dell’utero fisiologico. I ricercatori hanno osservato che gli agnelli hanno conservato una buona stabilità emodinamica, normali parametri di emogasanalisi e ossigenazione ed hanno mantenuto la pervietà della circolazione fetale. Con un adeguato supporto nutrizionale, gli agnelli del sistema in analisi, mostrano una normale crescita somatica, maturazione polmonare, crescita cerebrale e mielinizzazione.

Struttura del dispositivo EXTEND

Il dispositivo è costituito da un sistema di tubi, canule e porte a tenuta stagna maneggiati dai ricercatori in un ambiente sterile. Le pecore gravide sono state sottoposte ad una isterotomia per accedere all’utero ed è stato inciso il cordone del feto per mettere in evidenza i vasi e procedere all’incanulazione. Gli animali sono stati fatti nascere chirurgicamente e successivamente inseriti nella BioBag attraverso una porta sigilabile. La BioBag è una membrana di polietilene che grazie alla sua trasparenza, permette di visualizzare il proseguimento della gestazione extrauterina. In seguito alla perfusione di liquido amniotico sintetito all’interno di BioBag, il dispositivo è stato trasportato un un supporto mobile termostatato capace di garantire una temperatura costante al feto. Il liquido amniotico sintetico, viene filtrato e incanulato attraverso una porta a tenuta stagna all’interno della BioBag. Mediante una seconda porta questo viene defluito, riciclato e successivamente rimesso in circolo.
Per quanto riguarda il fusso sanguigno extracorporeo, si basa su un sistema senza pompa dotato di due cateteri ombelicali (UA) che defluiscono il sangue refluo ricco di prodotti di scarto ad un ossigenatore collegato ad un miscelatore di gas a bassa resistenza. Il sangue filtrato viene arricchito di nutrienti (principalmente carboidrati, proteine e tracce di lipidi) e successivamente reinserito in circolo mediante un catetere ombelicale che simula l’azione della vena ombelicale (fisiologicamente nel feto le arterie ombelicali portano sangue privo di O2 e ricco di CO2, mentre la vena ombelicale sangue ricco di O2 e nutrienti). Gli scarti vengono analizzati per visualizzare una eventuale sofferenza fetale e successivamente scaricati.

Differenze tra il dispositivo BioBag e l’utero umano

L’utero è un organo piriforme, cavo ed impari che fa parte dell’apparato genitale femminile ed è tenuto in situ da vari legamenti che lo fissano alla parete pelvica e agli organi adiacenti.
Analogamente, la BioBag simula la funzione dell’utero umano in quanto risulta essere estensibile, riesce a contenere diversi litri di liquido amniotico ed è tenuto ”in situ” su un supporto termostatato atto a garantire la giusta temperatura e pressione a seconda della specie che viene impiantata al suo interno.

Lo scambio dei gas e dei nutrienti nell’utero materno avviene attraverso la placenta, un organo che si sviluppa durante la gravidanza e permette la comunicazione tra il sangue della madre e quello del feto attraverso il cordone ombelicale. Quest’ultimo è una struttura che contiene due arterie e una vena circondate da una sostanza gelatinosa ed irregolare.
Nel sistema della BioBag, la vascolarizzazione e l’ossigenazione dipendono da un ossigenatore e da un sistema di ricircolo e filtrazione tramite dei condotti che simulano l’azione della vena e delle arterie ombelicali.

Nel grembo materno il feto è immerso nel liquido amniotico, un fluido prodotto sia dalle membrane che rivestono l’utero che dal feto stesso. Il liquido amniotico permette il mantenimento di una temperatura costante, consente il movimento al feto, previene lo sviluppo di infezioni e favorisce lo sviluppo degli organi.
Una funzione analoga è svolta dal liquido amniotico contenuto all’interno della BioBag che, tuttavia, viene sintetizzato in laboratorio.

Infine, il corpo della madre permette la regolazione di parametri vitali quali temperatura, pH e pressione, mentre nel dispositivo di cui sopra, questi sono controllati con un sistema computerizzato che utilizza determinati algoritmi.

Conclusioni e prospettive future

Questo dispositivo potrebbe determinare un drastico calo delle morti e della morbilità dei nati estremamente pretermine. Tuttavia, anche se il modello ovino conferma la sicurezza e l’efficacia del metodo, restano comunque rilevanti le questioni etiche che andrebbero affrontate prima di passare agli studi sull’uomo. Inoltre, gli autori dichiarano di non voler applicare EXTEND a pazienti al di sotto della soglia di vitalità attuale, ma questa eventualità andrebbe comunque valutata e dovrebbe essere oggetto di riflessione etica.

Francesca Umina

Bibliografia

Un sistema extrauterino per sostenere fisiologicamente l’agnello estremamente prematuro | Comunicazioni sulla natura (nature.com)

Superfetazione: rarità della gravidanza

Il termine superfetazione deriva dal latino superfetare (“concepire di nuovo”), il suo reale significato è quello di una “fecondazione in più” o “fecondazione ulteriore”.  Il termine viene utilizzato per indicare come dopo la fecondazione di un ovulo e la conseguente formazione di un feto all’interno dell’utero, si verifichi eccezionalmente un altro ciclo e la fecondazione di un altro ovulo. Se la seconda fecondazione avviene durante lo stesso ciclo mestruale, parliamo di superfecondazione.

Cosa s’intende per superfetazione

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La superfetazione è un processo poco conosciuto che accade con maggior frequenza negli animali, ma è possibile che avvenga anche nella specie umana (anche se rarissimo come evento). Si tratta del concepimento di un secondo feto quando è già iniziata la gestazione. Questo processo implica due feti in gestazione nella stessa donna ma con diverse epoche gestazionali.
Nonostante l’arresto dell’ovulazione con la gravidanza, in casi eccezionali questo può non avvenire. Quindi, se la donna continua ad ovulare dopo essere rimasta incinta, uno di questi ovuli può essere fecondato.

Come avviene il ciclo riproduttivo femminile

www.liceoalighieri.edu.it

Il ciclo riproduttivo femminile si compone di quattro fasi:

  • la Fase mestruale o mestruazione: è determinata dal calo della produzione di estrogeni e progesterone da parte delle ovaie che provoca lo sfaldamento dell’endometrio. Il diminuito livello degli estrogeni e del progesterone determina una costrizione delle arterie uterine e le cellule, prive di ossigeno, cominciano a morire sviluppando il flusso mestruale;
  • la Fase preovulatoria costituisce il periodo compreso fra la fine della fase mestruale e l’ovulazione. Intorno al 6° giorno, un singolo follicolo, in una delle due ovaie, supera in dimensione gli altri e diventa follicolo maturo che si accresce finché è pronto per l’ovulazione, formando una sorta di protuberanza sulla superficie dell’ovaio;
  • la Fase ovulatoria, che avviene di solito al 14° giorno, consiste nella rottura del follicolo maturo e la conseguente espulsione di un ovocita secondario nella tuba uterina;
  • la Fase postovulatoria rappresenta il periodo che intercorre fra l’ovulazione e l’inizio della mestruazione successiva.

A seguito dell’ovulazione, il follicolo maturo collassa e le restanti cellule follicolari si ingrossano e vanno a formare il corpo luteo (fase luteinica).
Se avviene la fecondazione il corpo luteo persiste oltre le due settimane e continuerà a secernere progesterone, necessario per accogliere l’embrione nelle prime fasi della gravidanza.

La fecondazione consiste nella fusione dei nuclei dei due gameti (spermatozoo e ovulo) per formare lo zigote.

www.periodofertile.it

Cause di superfetazione

Gli specialisti credono che le cause della superfetazione siano ormonali, in seguito a specifici trattamenti, come la fecondazione assistita. Nella maggior parte dei casi questo si deve alla stimolazione delle ovaie.

Il medico, concretizza la presenza di superfetazione durante l’ecografia di routine, evidenziando le differenze tra i due feti. Una gravidanza di gemelli normale, è diversa da una gravidanza come questa, quando ci sono almeno due settimane di differenza tra i feti.

Gli specialisti trattano il caso come una gravidanza multipla fino al momento del parto. Generalmente viene pianificata una data per far nascere i bambini, aspettando che il feto più piccolo sia ben sviluppato. Dato che i due bambini sono stati concepiti in diversi cicli mestruali, ancora si discute se siano gemelli o meno.

it.quora.com

Caso clinico

Si crede che il numero sia aumentato per via del continuo aumento di procedimenti di riproduzione assistita Ma questi casi, più frequenti da una decina d’anni, sono stati riscontrati anche nella mitologia greca.

Tra i casi più recenti, citiamo quello verificatosi nel Regno Unito. La storia di R.R. può risultare assurda ma è vera: in attesa della sua bimba Rosalie, quando in grembo già cresceva suo figlio, Noah. Tutto inizia da una semplice ecografia di routine, durante la quale viene riscontrata la presenza di due feti. Non due gemelli come ci si aspetterebbe ma due bimbi concepiti a distanza di tempo l’uno dall’altro, esattamente 21 giorni dopo il primo concepimento.

Asma Khalil, professore di ostetricia e portavoce del Royal College of Obstetricians and Gynecologists, in merito al caso riferisce:

Il fenomeno è incredibilmente raro; tanto da risultare impossibile assegnare una cifra precisa su quanti casi si verificano in un anno ma, facendo una stima approssimativa, possiamo arrivare a uno o due.

Nel mondo umano, i casi noti in letteratura scientifica di superfetazione sono all’incirca 10, dal 1960 ad oggi. Il motivo che spiega il perché alcune donne sperimentano la superfetazione e altre no, non è ancora chiaro alla scienza.

Perchè è un’evenienza così rara

invitra.it

È raro perché una volta che una donna rimane incinta, l’ulteriore ovulazione – quando le cellule uova vengono rilasciate dalle ovaie – viene soppressa, quindi, è molto improbabile che le uova vengano rilasciate, per non parlare di un ovulo che viene fecondato e di un’ulteriore gravidanza in corso.

Conclusioni

Ad oggi i casi riscontrati nel mondo sono davvero pochi, ma la clinica s’impegna ogni giorno di più per approfondire l’argomento e le possibili correlazioni con l’ambiente riproduttivo della donna.

www.cure-naturali.it

 

Alice Pantano

Sitografia

www.treccani.it

www.nostrofiglio.it

www.msdmanuals.com

quimamme.corriere.it

www.ilfattoquotidiano.it

 

 

Dagli studenti per gli studenti: Placenta, cos’è e a cosa serve

L’intera gestazione spesso viene scambiata da molti per un miracolo. Questa in realtà viene resa possibile, dalla fecondazione al parto, grazie a dei processi chimico-fisici e biologici. In particolare, lo studio della medicina e della scienza divulgativa ci fanno capire l’importanza e la bellezza del corpo umano femminile, in particolare di un organo strettamente correlato alla linea femminile umana: la placenta.

  1. Che cos’è e da cosa deriva?
  2. Da cosa è formata? 
  3. Posizioni della placenta
  4. A cosa serve?
  5. Funzione endocrina della placenta
  6. Secondamento

Che cos’è e da cosa deriva?

La placenta è un organo vascolare temporaneo, nonché uno dei numerosi annessi embrio-fetali (i restanti sono sacco vitellino, amnios, cordone ombelicale, allantoide e corion). Questa dopo il parto, insieme a tutti gli altri annessi, verranno espulsi grazie al fenomeno detto “secondamento”.

Immagine illustrativa del feto con il cordone ombelicale e la placenta, lateralmente. Fonte

La placenta deriva da una struttura embrionale detta blastocisti che prende il nome di sinciziotrofoblasto. Con l’impianto della blastocisti, l’endometrio uterino potrà diventare decidua. Prima di questa fase, che prende il nome di decidualizzazione, noi avremo un altro periodo facente parte strettamente del ciclo uterino che prende il nome di predecidualizzazione, fase in cui lo strato funzionale dell’utero (endometrio) si prepara per divenire decidua. Infatti, in questa fase, l’endometrio assume e trattiene molto glicogeno e lipidi che saranno di fondamentale importanza per la nutrizione embrionale. Il sinciziotrofoblasto, una volta penetrato all’interno della decidua, potrà emettere delle propaggini digitiformi che prendono il nome di villi coriali i quali, evolvendo, daranno vita ad un forte sistema vascolare capace di poter permettere l’afflusso di sangue all’interno di cavità, dette lacune, presenti nella placenta ormai formata.

Da cosa è formata?

La placenta è formata da due facce:

  • La faccia fetale (o corionica): presenta un aspetto traslucido (dato dall’epitelio amniotico), l’inserzione del cordone ombelicale e alcuni vasi placentari;
  • La faccia materna (o basale): qui notiamo un aspetto del tutto diverso. Vediamo che essa appare opaca e ruvida e avrà un aspetto molto particolare dato da strutture “irregolarmente poligonali”, detti cotiledoni.

I cotiledoni saranno divisi tra di loro esternamente da dei solchi intercotiledonali, internamente da dei setti intercotiledonali. Le due facce non si scolleranno tra di loro grazie a dei villi aderenti. L’altra tipologia di villi, presenti nelle lacune tra i villi aderenti, prendono il nome di “villi fluttuanti”. La differenza tra i due sono i punti di partenza e di arrivo: quelli aderenti nascono dalla faccia corionica e si fermano a quella basale, mentre quelli fluttuanti partono dalla corionica senza immettersi nel piatto basale.

Villi immersi nelle lacune della placenta. Fonte

Posizioni della placenta

La posizione dipende dal punto in cui si impianta l’embrione durante la “finestra d’impianto” (ottimale per un concepimento tra la 19esima e la 24esima giornata del ciclo uterino). Fisiologicamente la placenta potrà formarsi adesa alla parete posteriore o anteriore dell’utero, laterale destra o sinistra, fundica (cioè alla porzione apicale dell’utero, il fondo). Se la placenta dovesse coprire parzialmente o completamente l’orifizio uterino interno si chiamerà placenta previa. Questa si forma dopo il corpo dell’utero, all’altezza del collo di questo, ed è presente nel 3% delle gravidanze singole. Questa può indurre mortalità materna, emorragia antepartum, intrapartum o postpartum (prima, durante o dopo il parto), isterectomia e sepsi. La diagnosi viene effettuata grazie ad una ecografia transvaginale dopo la 32esima settimana di gestazione. Visivamente è riconoscibile, se la donna è sintomatica, a causa di un sanguinamento di color rosso acceso e non doloroso.

Immagine illustrativa di una Placenta previa. Fonte

A cosa serve?

Siamo abituati a vedere la madre come uno dei nostri punti di riferimento, e questo possiamo confermarlo già in “vita intrauterina”; la placenta infatti potrà:

  • mediare il passaggio di molte sostanze nutritive presenti nel sangue della madre e di fondamentale importanza energetica per il feto, come: glucosio, trigliceridi, acqua, proteine, ormoni, Sali minerali, vitamine;
  • sostituire alcuni organi che non sono momentaneamente attivi, come il polmone e i reni. Infatti, la placenta potrà favorire uno scambio di gas e quindi avvicinare l’ossigeno e allontanare l’anidride carbonica; inoltre, potrà garantire la depurazione e l’omeostasi, ovvero la tendenza dell’organismo di autoregolare l’ambiente interno nonostante le variazioni di quello esterno, solitamente data dal rene;
  • consentire la formazione di un sistema immunitario con il passaggio di anticorpi; sfortunatamente, però, a causa della stessa placenta potremmo favorire il passaggio anche di strutture dannose per il feto stesso come alcol, droga, nicotina e sostanze cancerogene (presenti nella sigaretta), virus e batteri;
  • fornire una funzione endocrina, di cui parleremo adesso.

La placenta estratta. Fonte

Funzione endocrina della placenta

Tra i vari ruoli svolti dalla placenta, uno dei più affascinanti è la regolazione ormonale che ci viene data da questo formidabile annesso. Infatti, questa sarà capace di secernere ormoni come:

  • hCG (gonadotropina corionica umana), ormone molto simile all’LH (altra gonadotropina secreta dall’ipofisi, in questo caso). Questo ormone serve per non far regredire il corpo luteo, presente a livello ovarico, il quale secernerà progesterone fino alla settima settimana circa. Inoltre, il dosaggio della hCG nel sangue serve per il test di gravidanza;
  • progesterone, secreto dalla settima settimana in poi.; questo ormone serve per evitare la fase mestruale del ciclo uterino con la quale inevitabilmente provocheremmo il rigetto della blastocisti (e del feto, in un secondo momento);
  • hPL (lattogeno placentare umano), il quale incide sul metabolismo materno; infatti, questo diminuisce la sensibilità all’insulina e, di conseguenza, favoriremo un innalzamento della glicemia e quindi garantiremo una maggior apporto energetico per il feto stesso; infine, questo ormone può indurre processi metabolici con i quali poter ottenere più precursori utili per la formazione di glucosio stesso (processi come la lipolisi, chetogenesi ecc.);
  • estrogeni, con i quali si eviterà la formazione di altri follicoli; questi ormoni sono fondamentali per garantire la fase estrogenica, prima fase del ciclo ovarico con la quale appunto si otterrà la maturazione di un follicolo secondario pre-antrale a follicolo pre-ovulatorio.

Secondamento

Questo fenomeno rappresenta l’ultima fase del parto. Circa 15-30 minuti dopo la nascita del bambino, si hanno delle contrazioni uterine fisiologiche che favoriscono l’espulsione della placenta insieme a tutti gli altri annessi embrio-fetali. Qualora il parto dovesse perdurare per più di 1 ora, il medico effettuerà una manovra manuale detta Manovra di Brandt-Andrews o ricorrerà all’utilizzo di farmaci.

Dario Gallo

 

Bibliografia:

https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-salute-delle-donne/travaglio-e-parto-fisiologici/parto

https://www.my-personaltrainer.it/salute/placenta.html

https://www.nurse24.it/ostetrica/placenta-previa-anomalie-posizione-placenta.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Secondamento

https://it.wikipedia.org/wiki/Ormone_lattogeno_placentare

https://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/omeostasi.html

Dagli studenti per gli studenti: Toxoplasmosi, sintomi e trasmissione

Spesso, dietro la bontà degli alimenti come carne, verdura e frutta, che consumiamo giornalmente, potrebbe celarsi uno tra i tanti microscopici patogeni che popolano i nostri territori! Parliamo di “Toxoplasma Gondii”, parassita responsabile della toxoplasmosi.

Cos’è la toxoplasmosi

La toxoplasmosi è una zoonosi causata dal Toxoplasma gondii, un parassita che compie il suo ciclo vitale solo all’interno delle cellule. Può infettare moltissime specie e trasmettersi da un animale all’altro, attraverso l’alimentazione di carne infetta e il contatto con le feci di un animale infetto.

L’essere umano contrae la toxoplasmosi per ingestione di Toxoplasma gondii; i potenziali veicoli del contagio per via orale sono:

  • Le feci di gatti infetti: per infettarsi, non è sufficiente toccare le feci di gatti o altri animali infetti, ma occorre anche portarsi le mani in bocca (o manipolare qualcosa che poi finirà in bocca) senza averle lavate accuratamente;
  • L’acqua contaminata: condizione che interessa i paesi in via di sviluppo e quelli più poveri, nei quali i livelli igienici sono ancora molto scadenti;
  • La carne, la frutta e gli ortaggi contaminati: la carne contaminata è pericolosa solo se non cotta adeguatamente (la cottura distrugge Toxoplasma gondii). Frutta e verdura contaminate, sono pericolose solo se consumate a crudo. A maggior rischio sono quelle coltivate a terra (es: fragole e insalata);
  • Le posate e gli utensili da cucina contaminati: anche un coltello da cucina può essere veicolo di infezione. Ciò è possibile viene impiegato per tagliare carne cruda contaminata e successivamente usato per mangiare senza prima averlo lavato con acqua e sapone.

È doveroso segnalare che l’ingestione non è l’unica via di contagio; infatti è possibile contrarre la toxoplasmosi anche dopo una trasfusione di sangue o trapianto di organo da donatore infetto.

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Animali maggiormente a rischio

In genere, i gatti sviluppano la toxoplasmosi dopo aver cacciato ed essersi nutriti di prede altrettanto infette. Per questo, la toxoplasmosi nel gatto, dipende fondamentalmente dallo stile di vita condotto dall’animale: i gatti selvatici e quelli domestici che trascorrono molto tempo all’aperto sono maggiormente a rischio.
Dopo aver contratto la toxoplasmosi, i gatti espellono il parassita responsabile con le feci per diverse settimane. All’escrezione, tali feci non sono generalmente contagiose; lo diventano nel giro di 24-48 ore, che è il tempo che serve al patogeno in esse presenti per assumere una forma attiva.
Anche gli animali da allevamento e la selvaggina possono contrarre la toxoplasmosi se il cibo di cui si nutrono proviene da aree di terreno contaminate da feci infette.

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Sintomi

Nelle persone sane e con un sistema immunitario pienamente funzionante, la toxoplasmosi è di norma asintomatica, tanto che i pazienti non si rendono nemmeno conto di esserne affetti. Nei rari casi in cui è sintomatica, gli effetti sono: mal di testa, dolori muscolari diffusi, senso di malessere e stanchezza (sintomi simili influenzali), ingrossamento dei linfonodi, mal di gola e febbre.

Nei soggetti con un sistema immunitario deficitario, come malati di AIDS, pazienti oncologici e immunosoppressi, la toxoplasmosi costituisce un’infezione sempre temibile e associata a un ricco quadro di conseguenze.

Negli adulti, il tempo di incubazione della toxoplasmosi va da 5 a 23 giorni. Da alcuni studi è emerso che l’infezione impiega meno tempo a svilupparsi quando il veicolo di contagio sono state le feci dei gatti infetti (5-20 giorni contro i 10-23 giorni quando il contagio è avvenuto per ingestione di carne contaminata).

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Parassita in gravidanza

Se una donna in gravidanza contrae la Toxoplasmosi e non viene curata, c’è la possibilità che trasmetta l’infezione al feto (40% dei casi), con il rischio di aborto spontaneo. Ciò che ne consegue è: il ritardo di crescita intrauterina, nascita prematura, con gravi sequele o con neonato morto.
Se invece la Toxoplasmosi viene contratta prima della gravidanza di solito non viene trasmessa al feto, poiché la donna -a meno che non abbia un sistema immunitario compromesso- ha sviluppato un’immunità permanente. Tuttavia, se si programma una gravidanza, è bene aspettare circa sei mesi dall’infezione.
I possibili danni da Toxoplasmosi in gravidanza variano in base al periodo in cui è stata contratta l’infezione:
durante il periodo del concepimento, le probabilità di passare l’infezione al feto sono molto basse (5%);
nel primo trimestre di gravidanza, le probabilità che accada (circa 17%) sono basse. Tuttavia, il rischio di aborto spontaneo è alto e i possibili danni al feto piuttosto gravi, poiché i suoi organi sono ancora in formazione;
durante il secondo e terzo trimestre di gravidanza, le probabilità di trasmissione sono maggiori (65-90%, specialmente nelle ultime 3 o 4 settimane di gestazione), ma le possibili conseguenze sono meno gravi poiché il feto è già formato.
Nella quasi totalità dei casi (90%) questi neonati non hanno sintomi alla nascita, ma li sviluppano nel corso dei mesi o addirittura degli anni successivi.
Al contrario i prematuri oppure i nati a termine piccoli per età gestazionale, sviluppano i sintomi già alla nascita o poco dopo. Nel caso di infezione nel neonato, anche se apparentemente sano, dovrà essere seguito per almeno tutto il primo anno di vita per poter escludere eventuali danni cerebrali e visivi nei mesi successivi.

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Trattamento e prevenzione

In genere, se non causa sintomi di rilievo, la toxoplasmosi non richiede alcun trattamento particolare. Quando è associata ad un importante quadro sintomatologico, è prevista una cura basata sull’impiego di due antibiotici: la pirimetamina e la sulfadiazina. Il trattamento in gravidanza varia in relazione a quando la gestante contrae l’infezione.
La prevenzione della toxoplasmosi passa attraverso la cottura dei cibi. È opportuno evitare il consumo di carne cruda, soprattutto agnello, maiale e manzo, insaccati, salumi e carpacci. Stessa precauzione deve essere riservata ai vegetali, che devono essere cotti per evitare il rischio di infezione. Se si possiede un gatto domestico, eliminare quotidianamente gli escrementi dalla sua lettiera, avendo cura di lavarsi le mani dopo ogni operazione di pulizia. Se si ha la passione del giardinaggio, indossare sempre un paio di guanti durante tale attività ed evitare di portare le mani alla bocca.

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Conclusioni

Negli ultimi anni, grazie a test sierologici più sofisticati, è possibile non solo accertare la diagnosi, ma disegnare anche una terapia. Allo stato attuale non esiste un vaccino contro la toxoplasmosi, ma applicando buone pratiche comportamentali è possibile ridurre notevolmente il rischio di contrarre questa malattia.

Alice Pantano

Bibliografia

https://www.epicentro.iss.it/toxoplasmosi/

www.fondazioneveronesi.it

www.saperidoc.it

www.ospedalebambinogesu.it

www.izsvenezie.it

Il ”nuovo” gruppo sanguigno Er: una scoperta iniziata nel 1982

Scoprire un nuovo gruppo sanguigno è importante perché, in questo modo, è possibile effettuare correttamente molte diagnosi. Il gruppo sanguigno più recentemente scoperto è stato quello denominato Er e gli studi su di esso hanno avuto inizio nel lontano 1982 a carico dei ricercatori dell’NHS Blood and Transplant e dell’Università di Bristol. 

Indice dei contenuti

  1. I gruppi sanguigni, gli antigeni e gli anticorpi
  2. Il  nuovo gruppo sanguigno
  3. Perché è importante distinguere i gruppi sanguigni?
  4. L’importanza della scoperta

I gruppi sanguigni, gli antigeni e gli anticorpi

I gruppi sanguigni sono delle componenti ereditarie e si identificano grazie agli antigeni presenti sulla superficie dei globuli rossi. Il Sistema AB0 è il più importante tra i 38 sistemi di gruppi sanguigni umani, ed è composto da quattro gruppi (A, B, AB, 0) a seconda che venga rilevato l’antigene A, il B, entrambi o nessuno.
Gli antigeni sono molecole riconosciute estranee dal nostro organismo. Esse provocano l’attivazione del sistema immunitario, con conseguente formazione di anticorpi destinati  al sangue o ai tessuti.
Gli anticorpi, detti anche immunoglobuline, sono invece delle proteine prodotte dai linfociti B nella loro forma matura di plasmacellule, in grado di combinarsi con una porzione dell’antigene, l’epitopo,  nel corso di una reazione immunitaria. Essi svolgono, infatti, una funzione protettiva nei confronti dell’organismo.

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Il nuovo gruppo sanguigno

La scoperta del gruppo Er  è dovuta a tre nuovi antigeni che non corrispondono a quelli che distinguono i quattro gruppi sanguigni già noti del sistema AB0.
Gli studi hanno avuto inizio quando, durante una gravidanza, due neonati morirono di morte cerebrale. La morte era causata, secondo i medici, da una incompatibilità tra il gruppo sanguigno della madre e quello, appunto, del neonato. Infatti, tale incompatibilità si verifica quando una madre Rh negativa partorisce un figlio Rh positivo come il padre.
Successivamente, il team di ricercatori dell’NHSBT del Regno Unito ha analizzato il sangue di 13 pazienti. Sono stati così identificati cinque varianti degli antigeni Er: Er a, Er b, Er 3, Er 4 e Er 5.
Sequenziando il codice genetico dei pazienti, il team è stato in grado di individuare il gene che codifica per le proteine della superficie cellulare.
Il gene preso in considerazione è il PIEZO1. Questo codifica per una proteina che aiuta le cellule a sentire le variazioni locali della pressione dei fluidi, in questo caso del flusso sanguigno. Ciò è necessario per aggiungere l’antigene Er alla superficie delle cellule ematiche.

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Perché è importante distinguere i gruppi sanguigni?

Quando i globuli rossi espongono sulla superficie della membrana degli antigeni che il nostro corpo ha classificato come non-self, il sistema immunitario si attiva, inviando anticorpi per segnalare la distribuzione delle cellule che contengono l’antigene sospetto.
In rari casi, può succedere che i tessuti del feto vengono riconosciuti come estranei dall’organismo della madre e, quindi, aggrediti. Gli anticorpi della classe G (IgG) che vengono prodotti passano attraverso la placenta, portando alla malattia emolitica nel neonato.

 

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L’importanza della scoperta

Alla luce della recente scoperta è difficile fare delle stime sulla frequenza delle varie versioni, ma sembrerebbe che l’isoforma più rara di Er sia Er b, mentre il Er 5 sembrerebbe quella più comune nelle popolazioni africane, dove darebbe un vantaggio nei confronti della malaria. Sebbene le informazioni sulle ultime tre versioni non sono approfondite, possiamo dire che lo studio ha messo in evidenzia il potenziale-antigenicità anche di proteine molto poco espresse e la loro rilevanza per la medicina trasfusionale.

Sofia Musca

Bibliografia

https://www.repubblica.it/salute/2022/10/11/news/scoperto_nuovo_gruppo_sanguigno-369513886/
https://www.rainews.it/articoli/2022/10/scoperto-un-nuovo-gruppo-sanguigno-si-chiama-er-b225ce8b-67ed-4c54-971f-6e9df949c227.html
https://www.vanityfair.it/article/er-e-stato-scoperto-un-nuovo-sistema-di-gruppi-sanguigni
https://www.pianetachimica.it/mol_mese/mol_mese_2018/07_Piezo1_Canale_Meccanosensibile/07_Piezo1_Canale_Meccanosensibile.htm
https://www.humanitas.it/enciclopedia/anatomia/sistema-immunitario-ematologico/gruppo-sanguigno/
https://www.wired.it/article/gruppi-sanguigni-nuovo-sistema-er-scoperta-utilita-clinica/

Pillola contraccettiva maschile: la parità ‘’intima’’

Pillole per lei, ma anche per lui. Tra qualche tempo sarà possibile ampliare l’orizzonte della contraccezione con l’introduzione sul mercato della pillola anticoncezionale maschile, avendo la possibilità di promuovere ulteriormente la prevenzione delle gravidanze indesiderate.

  1. Contraccezione maschile
  2. La speranza della parità in capsula
  3. La novità
  4. Sicurezza al 99%
  5. Il vantaggio della sterilità reversibile
  6. Parere femminile sulla contraccezione maschile 
  7. Conclusioni

Contraccezione maschile

Circa un quarto delle coppie pratica la contraccezione attraverso metodi che riguardano il maschio e la loro percentuale è in costante aumento. Questi possono essere suddivisi secondo il meccanismo d’azione:

  • impedire l’inseminazione, cioè l’introduzione di spermatozoi in vagina;
  • impedire la spermatogenesi;
  • alterare il potere fecondante degli spermatozoi senza necessariamente influenzarne la produzione.

https://www.google.com

La speranza della parità in capsula

La pillola contraccettiva femminile è stata approvata negli anni 60 e, fin da subito, si è cercato di intervenire anche per sviluppare un equivalente maschile. Poichè l’anticoncezionale femminile agisce sfruttando degli ormoni che tendono ad interrompere il ciclo mestruale, si è pensato di sfruttare la stessa metodica agendo sul testosterone. Tuttavia, in seguito alle prime somministrazioni si sono osservati effetti collaterali, quali aumento di peso, attacchi di depressione, aumento del colesterolo e rischi di sviluppo di malattie cardiache.

La novità

Gli scienziati dell’Università del Minnesota, hanno sviluppato un contraccettivo non ormonale in grado di ridurre il rischio di concepimenti indesiderati. Lo studio è stato presentato durante l’American Chemical Society (ACS) Spring Meeting 2022, un incontro ibrido che si è tenuto dal 20 al 24 marzo. Attualmente, gli uomini hanno solo due opzioni efficaci affinchè vengano controllate le nascite: preservativi e vasectomia. Tuttavia, i preservativi sono monouso ed inclini ad essere difettosi. Al contrario, la vasectomia  è considerata una forma permanente di sterilizzazione maschile. L’intervento è costoso e non sempre ha successo. Pertanto, gli uomini hanno bisogno di un contraccettivo efficace, duraturo ma reversibile, simile alla pillola anticoncezionale per le donne.

Sicurezza al 99%

I ricercatori hanno studiato il recettore alfa dell’acido retinoico (RAR-), che parte di una famiglia di tre recettori nucleari che legano l’acido retinoico, una forma di vitamina A. Esso svolge un ruolo cruciale nella crescita cellulare, formazione del liquido seminale e nello sviluppo embrionale. Il farmaco in sperimentazione, inibisce il gene RAR- e provoca sterilità reversibile. L’eccipiente chimico “YCT529”, viene somministrato per via orale ai topi maschi per quattro settimane. Trascorso tale periodo si è notata una riduzione drastica nella produzione di spermatozoi, risultando efficace al 99% nel prevenire la gravidanza, senza effetti collaterali osservati.

Il vantaggio della sterilità reversibile

Da quattro a sei settimane dopo la fine del trattamento i roditori sono stati di nuovo in grado di riprodursi. La sperimentazione umana, visti i risultati incoraggianti dei test, potrebbe iniziare entro la fine dell’anno, mentre per la commercializzazione ci sarà da attendere almeno un quinquennio. La dottoressa Gunda Georg, direttrice del laboratorio di ricerca che ha condotto l’esperimento, si è dimostrata ottimista sui possibili effetti che il farmaco potrebbe sortire sull’uomo, nonostante non ci sia alcuna garanzia.

Fonte: https://s3.eu-central-1

Parere femminile sulla contraccezione maschile

Attraverso un questionario, somministrato a tutte le donne di età compresa tra i 16 anni e l’età della menopausa, sono stati raccolti i pareri delle donne sulla figura maschile nel campo della contraccezione. Tra le donne, il 69,7% è favorevole a lasciare che gli uomini si occupino della contraccezione, senza fare riferimento a un metodo specifico. Dopo essere state informate delle informazioni mediche relative ai contraccettivi maschili esistenti e a quelli in fase di sviluppo, la percentuale di donne a favore è scesa al 46,7%. Il metodo più accettabile per la maggior parte delle donne è la pillola maschile, che è ancora in fase di sviluppo. La maggior parte (78,4%) delle donne nel sondaggio si sentiva insufficientemente informata sulla contraccezione maschile.

Conclusioni

Se la percentuali di risposte positive risulteranno accettabili sugli uomini così come nei ratti, potremo finalmente affermare di avere una risposta contraccettiva efficace e non invasiva.

Alice Pantano

Bibliografia

Covid-19: il rischio per bambini e donne in gravidanza

In uno scenario mondiale in cui la pandemia di COVID-19 desta preoccupazioni e miete nuove vittime sono molte le questioni lasciate irrisolte. Tra queste, la convinzione speranzosa che la SARS-CoV2 non colpisca i pazienti di età pediatrica. Ma, è proprio così? 

La malattia da COVID-19 (o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV2) è una condizione patologia su base infettiva eziologicamente associata al virus SARS-Cov2, che comporta da un punto di vista clinico:

  1. Un quadro asintomatico;
  2. Un quadro sintomatico con febbre, tosse secca, astenia, mialgie, congestione nasale, vomito, diarrea. Nei casi più severi: polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale.

La COVID-19, che ha reso l’Italia il Paese con il maggior numero di contagi dopo la Cina, colpisce meno frequentemente i pazienti di età pediatrica. Tale caratteristica accomuna il SARS-CoV2 con il SARS-CoV (responsabile della SARS, nel contesto della quale non furono registrati morti tra bambini ed adulti di età posta al di sotto dei 24 anni). Il più grande studio cinese nell’ambito di COVID-19, pubblicato su JAMA l’11 febbraio, riportava determinate cifre significative: dei 44.672 casi confermati all’identificazione del genoma virale sul tampone, solo meno dell’1% era associato a pazienti di età al di sotto dei 10 anni. Attualmente in Italia tra i contagiati:

  • meno dello 0,5% presenta un’età compresa tra 0 e 9 anni;
  • meno dell’1% presenta un’età compresa tra 10 e 19 anni.

Il minor numero di contagi in età pediatrica può essere associato:

  1. A fattori esterni: la popolazione di età pediatrica, rapportata alla popolazione adulta, è meno esposta a luoghi che potrebbero favorire la rapida diffusione del virus quali treni, aerei, stazioni, aeroporti;
  2. A fattori intrinseci al sistema immunitario. Secondo studi recenti la popolazione pediatrica presenta una resistenza intrinseca al SARS-CoV2 per una maggior espressione della risposta immunitaria innata e per una minor espressione dei recettori indicati con l’acronimo di ACE2 (Angiotensin-converting enzyme 2),  evenienza che deriva da uno studio condotto nel 2006 sui topi. Il SARS-CoV2 lega tale recettore per invadere sia gli elementi cellulari polmonari che altri distretti (cuore, mucosa del cavo orale, mucosa del distretto gastrointestinale, distretto epatobiliare).

I bambini rappresentano vettori per la trasmissione dell’infezione?

I pazienti di età pediatrica possono comunque infettarsi, risultando dei vettori per la trasmissione dell’infezione, motivo per il quale uno dei provvedimenti, precocemente messo in atto dal governo cinese e successivamente italiano, comprende la chiusura delle scuole. I pazienti di età pediatrica possono di fatto ammalarsi, anche se meno frequentemente rispetto ai pazienti di età adulta, presentando nella maggior parte dei casi sintomi lievi e/o moderati. 

La COVID-19 si manifesta con gli stessi sintomi nei pazienti adulti e pediatrici?

Secondo i dati raccolti dal Children Hospital di Wuhan, l’infezione sintomatica da COVID-19, comprende:

  1. Tosse (65% dei casi);
  2. Febbre (60% dei casi);
  3. Diarrea (15% dei casi);
  4. Scolo mucoso in retrofaringe (15% dei casi);
  5. Rantoli (15% dei casi);
  6. Distress respiratorio (5% dei casi);
  7.  Linfopenia  (35% dei casi);
  8. La TC del torace mostra immagini simili a quelle rilevabili in età adulta: aree di addensamento a livello subpleurico, con caratteristiche a vetro smerigliato, oppure aree di addensamento caratterizzate da alone infiammatorio circostante; la quasi totalità dei casi presenta, tuttavia, un quadro radiologico lieve.

COVID-19 e gravidanza: che rischio corre il feto?

Nelle scorse settimane un neonato londinese è risultato positivo al virus dopo essere nato da madre con polmonite COVID-19. Sono noti anche altri casi in Cina, tra cui Xiao Xiao, la neonata guarita spontaneamente dopo soli 17 giorni di vita.
Uno studio recentemente pubblicato su The Lancet ha esaminato nove donne incinte tra i 26 e i 40 anni con polmonite da SARS-CoV-2; sono stati analizzati:
–  Campioni di liquido amniotico;
– Sangue cordonale;
– Latte materno;
Successivamente sono stati eseguiti tamponi faringei sui neonati, tutti risultati negativi, concludendo che non c’è evidenza di infezione intrauterina attraverso la placenta, o tramite latte materno. Bisogna aggiungere, tuttavia, che le nove donne hanno subito un parto cesareo al terzo trimestre e che la limitata casistica non ha consentito di effettuare ulteriori studi.
Ad oggi, un’eventuale infezione neonatale da SARS-CoV-2 potrebbe essere acquisita per via respiratoria dalla madre nel post partum, basti pensare alla vicinanza tra il viso della madre e quello del bimbo durante l’allattamento.
Caterina Andaloro
Bibliografia
1.Epidemia COVID-19. Istituto superiore di sanità, Roma.
integrata-COVID-19_09-marzo-2020.pdf [accesso in data 11/03/2020]
2. Lee P-I et al., Are children less susceptible to COVID-19? Journal of Microbiology,
Immunology and Infection. 2020. https://doi.org/10.1016/j.jmii.2020.02.011.
3. Xia W et al. Clinical and CT features in pediatric patients with COVID‐19 infection:
Different points from adults. Pediatric Pulmonology. 2020;1–6.
4. General Office of the National Health Commission of China. Diagnosis and
Treatment Protocol for 2019‐nCoV. 5th ed. Beijing, China: National Health
Commission of China;

Lo stress in gravidanza potrebbe decidere il sesso del neonato, e non solo

Dalla notte dei tempi, esistono decine e decine di credenze popolari sui segnali che possano predire se il neonato sarà maschio o femmina. La presenza o meno di nausee mattutine, la forma della pancia, la pelle più secca o più morbida, persino la preferenza di cibi dolci o salati e (l’inquietante) test del pendolo sulla pancia. Ma non è tutto così casuale. 

Il sesso del neonato è influenzato precocemente da una vasta serie di fattori. 
Un recente studio condotto alla Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons ha dimostrato come condizioni di stress durante la gravidanza possano influire in modo statisticamente significativo sul sesso del neonato, e non solo. Anche la durata della gravidanza, le complicanze perinataliil peso alla nascita e lo sviluppo del sistema nervoso sono soggetti a variazioni. 

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, è stato condotto su 187 gestanti, con età compresa tra i 18 e i 45 anni, senza alcuna condizione clinica patologica. Sono stati quindi formati tre gruppi sulla base delle condizioni di stress individuali. Ma come è possibile valutare in modo oggettivo lo stress? 

I ricercatori hanno utilizzato 27 indicatori specifici per lo stress psicologico, fisico e sociale, quantificati tramite informazioni raccolte sia con questionari sia tramite misurazioni dirette. 
Il campione iniziale di 187 gestanti è stato quindi suddiviso in tre gruppi: 

  • HG (healthy group): il 66.8% delle donne si è dimostrato essere in piena salute. 
  • PSYG (psychologically stressed group): il 17.1% delle donne si è mostrato in maniera clinicamente evidente affetto da stati ansiosi, depressione e stress psicologico. 
  • PHSG (physically stressed group): il 16% delle gestanti ha presentato uno stress fisico rilevante, determinato valutando la pressione arteriosa sistemica, il BMI (indice di massa corporea), l’apporto calorico, lo stress ossidativo e altri parametri. 

Con sorpresa i risultati ottenuti sono stati piuttosto netti
Premesso che nella popolazione generale il rapporto di nati maschi/femmine è pari a 105/100, a vantaggio quindi dei maschi, tale rapporto è stato confermato (23/18) nel gruppo HG, mentre nel gruppo PSYG è stato pari a 2/3 e nel gruppo PHSG a 4/9, con un’inversione in entrambi i casi rispetto alla norma. 

Inoltre, sia nel gruppo PSYG, ma in modo più significativo nel gruppo PHSG, i neonati sono stati partoriti mediamente con 1 settimana e mezza di anticipo rispetto al gruppo HG, con una percentuale di prematuri aumentata pari al 22% contro il 5% (mentre 9.9% è la media negli USA). 

Un’altra differenza importante è relativa a due valori utilizzati come indici di sviluppo del sistema nervoso del feto, ovvero la frequenza cardiaca media nel feto e l’accoppiamento tra questa e il movimento del feto stessoSono stati rilevati una frequenza media minore e un accoppiamento alterato, il che correla con uno sviluppo nervoso più lento. 

Infine, il peso alla nascita dei neonati dei due gruppi “patologici” è stato minore e, specialmente nel gruppo PSYG, si è avuto un numero di complicanze perinatali significativamente incrementato. 

Queste evidenze, puramente statistiche, hanno tuttavia delle basi biologiche che già da anni vengono discusse. Numerose ricerche scientifiche indicano che i feti di sesso maschile sono meno adatti a sopravvivere in condizioni non ottimali, com’è stato già osservato in altri mammiferi. 

Uno studio della DOHaDInternational Society for Developmental Origins of Health and Diseaseha dimostrato una maggiore vulnerabilità maschile durante lo sviluppo. I feti maschili presentano, in fasi precoci, uno sviluppo più lento rispetto ai femminili, per cui sarebbero più vulnerabili per un arco di tempo più esteso. Inoltre, geni X-linked correlati ad una maggiore capacità di sopravvivenza sono espressi a maggiori livelli nella placenta femminile, giustificando la più alta resistenza a condizioni non ottimali.  

Ricercatori del Robinson Institute’s Pregnancy and Development Group hanno scoperto che in corso di un evento stressante in gravidanza, i feti maschi crescono più velocemente mentre le femmine restano “più piccole“, garantendosi una maggiore probabilità di sopravvivenza. Ciò dipenderebbe principalmente da una diversa risposta agli ormoni materni, controllata differentemente dalla placenta del feto maschile e femminile. 

Secondo alcuni autori il senso biologico di questi meccanismi è dato dalla spinta evolutiva, che favorirebbe il sesso femminile in condizioni avverse come stress o ridotta disponibilità calorica.
È dunque plausibile che le donne soggette a stress tendano a perdere le gravidanze maschili con aborti spontanei in un periodo gestazionale talmente precoce che talvolta nemmeno si accorgono di essere rimaste incinte. 

Ulteriori studi hanno già sostenuto l’idea che l’isolamento sociale e lo stress psicofisico che ne deriva abbiano effetti sulla regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, influenzando la produzione di ormoni quali il cortisolo, riducano la produzione di fattori neurotrofici e alterino il sistema immunitario materno amplificando i processi proinfiammatori. Tutto questo, analizzato a livello molecolare, ha certamente un effetto diretto sulla salute mentale e fisica della madre e quindi sullo sviluppo del feto. 

Risultati immagini per maternal psychosocial stress

Non a caso, proprio lo stress psicosociale, tra i 27 fattori utilizzati nella valutazione delle gestanti, è quello che meglio ha contraddistinto i tre gruppi. E ancor più curiosamente, decine di studi hanno dimostrato statisticamente che in popolazioni colpite da eventi tragici come terremoti, o addirittura negli USA in seguito all’assassinio del Presidente Kennedy o agli attacchi terroristici alle torri gemelle, si è verificato un decremento delle nascite maschili. Uno studio del 2006 su oltre 700 mila nascite a New York ha infatti dimostrato come il livello di nascite maschili sia sceso ai minimi storici nei mesi successivi all’11 settembre. 

ricercatori concludono quindi che lo stress, inteso come condizione clinicamente rilevabile e misurabiledovrebbe essere in futuro incluso nei pannelli di controllo prenatali, così come tra i fattori su cui intervenire per prevenire una serie di problematiche prima e dopo il parto.
Il rallentato sviluppo del sistema nervoso fetale, la maggiore incidenza di complicanze perinatali, di aborti spontanei e di parti pretermine, potenzialmente correlati (soprattutto nel maschio) a disordini neurologici quali autismo, dislessia e ADHD (sindrome da deficit di attenzione ed iperattività), giustificano a pieno titolo tale intenzione.  

A detta degli stessi autori, sono necessari ulteriori studi che confermino le evidenze ottenute, ma questa ricerca funge da utile terreno di base da ampliare e arricchire. 
Il messaggio chiave è che l’utero è una “casa” molto influente, probabilmente più della casa in cui il bambino crescerà, e quanto questa casa sia accomodante dipende in maniera determinante dalla salute, anche mentale, della madre. 

Davide Arrigo 

 

Fonti: 

https://www.pnas.org/content/early/2019/10/08/1905890116.short?rss=1
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31221426
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5286731/

Né omozigoti né eterozigoti: lo straordinario caso dei gemelli “quasi identici”

La gravidanza gemellare è un evento affascinante che è tuttora oggetto di intenso studio. A differenza di numerosi mammiferi, la gravidanza gemellare è poco frequente nell’uomo, infatti, meno del 2% delle gravidanze umane sono gemellari, anche se tale percentuale è in aumento a causa dell’utilizzo sempre più diffuso di farmaci per la fertilità.

Innanzitutto, i gemelli sono tradizionalmente classificati in monozigoti ed eterozigoti.

gemelli omozigoti originano da un singolo zigote, quindi da un singolo spermatozoo e da una singola cellula uovo
Durante le primissime fasi dello sviluppo dello zigote, vengono a separarsi due masse cellulari che daranno origine a due individui geneticamente identici, dello stesso sesso e dello stesso aspetto. Inoltre, i gemelli monozigoti possono o meno condividere la stessa placenta e lo stesso sacco amniotico, in base all’esatto momento e alla sede di separazione, per cui si distinguono in monocoriali e bicoriali e in monoamniotici e diamniotici.

I gemelli eterozigoti originano ognuno da un diverso zigote, quindi da due spermatozoi che fecondano due distinte cellule uovo.  
L
o sviluppo degli zigoti è indipendente l’uno dall’altro, caratterizzato sempre da sacchi amniotici e placente separati. In questo caso, quindi, i gemelli hanno profili genetici diversi, condividendo circa il 50% dei loro genomi, così come accade per fratelli non gemelli.
I gemelli eterozigoti sono molto più frequenti, costituendo i 2/3 di tutti i parti gemellari.

Questa classificazione si è rivelata tuttavia incompleta poiché esiste una terza modalità di genesi di gemelli: si tratta dei cosiddetti gemelli semi-identici o sesquizigoti, di cui sono stati documentati finora solamente due casi 

Il primo caso è stato documentato nel 2003 in un articolo pubblicato sul The New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste scientifiche in campo medico, ed ha scosso profondamente il postulato secondo cui i gemelli monocoriali sono sempre monozigoti.  

Protagonista dello studio è una donna di 48 anni che ha partorito due gemelli in seguito a fertilizzazione in vitro. Un primo esame ecografico alla sesta settimana di gestazione ha evidenziato la presenza di due gemelli monocoriali diamniotici, da cui l’ipotesi di due gemelli monozigoti. L’esame successivo, a 12 settimane, ha confermato il precedente; tuttavia, l’esame a 20 settimane ha rivelato che i due gemelli erano di sesso differente, evento impossibile in caso di gemelli monovulari
Gli autori concludono l’articolo parlando di “gemelli eterozigoti monocoriali” ed esaminando una serie di possibili ipotesi che giustifichino tale evento, senza però giungere ad una spiegazione; emerge inoltre il dubbio che sia stata la fecondazione in vitro a influenzare l’intero processo. 

Tale studio ha stimolato numerosi scienziati a trovare spiegazioni valide, finché nel 2015 si è verificato un secondo caso, esaminato e pubblicato nel 2019. 

Protagonista in questo caso è una donna di 28 anni che ha partorito due gemelli in seguito a fertilizzazione naturale. L’esame ecografico nel primo trimestre ha evidenziato una gravidanza gemellare monocoriale diamniotica, indicativa di monozigosi. Anche in questo caso, a partire dalla 14esima settimana sono apparsi segni evidenti di discordanza del sesso dei due gemelli, in disaccordo con l’ipotesi di monozigosi 

Sono stati quindi svolti numerosi esami, differentemente dal primo studio, anche durante la gravidanza. Sono state eseguite due amniocentesi, ovvero prelievi di liquido amniotico, una per ogni sacco amniotico: tale esame permette infatti sia analisi a livello genetico e cromosomico, sia dosaggi di enzimi, proteine ed altre molecole.
Proprio grazie all’analisi dell’assetto cromosomico è stato dimostrato che un feto possedeva cromosomi sessuali XX ed uno XY; sono state analizzate anche le tracce di DNA fetale nel sangue materno ad ulteriore conferma dei test eseguiti. 

Analisi genetiche crociate tra i campioni dei due feti, basate sulla valutazione degli SNP (Single Nucleotide Polymorphismmarcatori polimorfi del DNA), hanno mostrato identità, per ogni locus genico, di almeno un allele; ovvero nel complesso un’uguaglianza genetica di almeno il 50%, come ci si aspetterebbe per due gemelli eterozigoti. 
La stessa analisi è stata eseguita per comparare il genoma dei feti con quello dei genitori. Da questo sono emersi risultati sorprendenti: i gemelli condividono il 100% del genoma di origine materna ed il 77.7% del genoma di origine paterna, con un totale del 89% di genoma condiviso, condizione inadeguata sia per gemelli monozigoti che dizigoti. 

Stavolta gli scienziati sono giunti ad una spiegazione del fenomeno, anche sulla base dei seguenti presupposti 

  • Usando un modello bovino, Destouni e colleghi hanno dimostrato che più corredi genetici all’interno di uno zigote possono segregare indipendentemente, con un processo atipico definito “divisione cellulare eterogonica”.  
  • In seguito a fertilizzazione di un ovulo da parte di due spermatozoi, si può avere separazione del genoma paterno in due diverse linee cellulari tramite formazione di un fuso mitotico tripolare; si viene a formare anche una terza linea, caratterizzata dal solo genoma paterno, che però, come dimostrato da studi eseguiti sul topo da McGrath e colleghi, non può sopravvivere. 

Mettendo insieme il tutto, la teoria prevede che due differenti spermatozoi fecondino una singola cellula uovo, dando vita a tre diverse linee cellulari, di cui quella con genoma esclusivamente paterno non sopravvive, a differenza delle altre due che danno vita a due gemelli detti sesquizigoti, monocoriali e diamniotici. 

Gli autori concludono che “la sesquizigosicondizione in cui i gemelli sono geneticamente identici per quanto concerne il genoma ereditato da un genitore, e diversi per circa il 50% per quanto concerne il genoma ereditato dall’altro genitore, è una terza forma di gemellarità. Geneticamente, può essere considerata un intermedio variabile tra la monozigosi e l’eterozigosi.
Grazie a questo studio è stata quindi ampliata la concezione di gemellarità, che non si limita più alla monozigosi e all’eterozigosi, con l’introduzione di una terza possibilità di fecondazione, sebbene essa sia un evento davvero raro ed eccezionale. 

Gli eventi che portano alla nascita di un nuovo individuo a partire da due singole cellule, una materna e una paterna, che devono incontrarsi nel luogo e nel momento giusti, e poi l’embriogenesi, la crescita del feto, sono processi di per sé complessi e tutt’altro che chiariti, che rendono consapevoli di quanto ancora bisogna comprendere della biologia dello sviluppo umano.
La fecondazione produttiva di una cellula uovo da parte di due spermatozoi era considerata un evento impossibile, incompatibile con la vita. Il raro e particolarissimo caso dei gemelli sesquizigoti è un fenomeno che fa ancor più riflettere sulla capacità della natura, a volte, di compiere dei miracoli biologici che, come in questo caso, permettono alla vita di proseguire, sebbene le condizioni di partenza violino un percorso fisiologico risultato di milioni di anni di evoluzione. 

Davide Arrigo 

Fonti: 
https://www.nejm.org/doi/abs/10.1056/NEJMoa1701313
https://www.nejm.org/doi/abs/10.1056/NEJMoa030050
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/6722870
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27197242