Le 5 cose che mancano di più al messinese fuorisede

 

Conduce spesso una vita di stenti, ogni giorno affronta eroicamente l’integrazione in un mondo che non gli appartiene, il suo cuore batte alla vista del Pilone e la sua anima sussulta al pensiero dell’arrivo del pacco da giù: è lo studente fuorisede, o meglio, il messinese fuorisede.

Che tra Nord e Sud esistano delle differenze è cosa nota e, diciamocelo, non si tratta di stereotipi ma di dure realtà. Lo studente fuorisede vive ogni giorno sulla propria pelle questo incolmabile divario che separa Nord e Sud, gelida Polentonia e calda Terronia. E se fino a Napoli sembra ancora di avvertire una flebile aria di casa, dal Tevere in su non ci resta che piangere.

 

Sono certa che tutti voi abbiate un amico messinese fuorisede e sono altrettanto sicura del fatto che almeno una volta vi sia capitato di dover sopportare eventuali lamentele e piagnistei causati dalla nostalgia di casa. Perché mio caro buddace medio,  portavoce del motto “a Messina non c’è nenti”, sappi che ogni giorno, tra lo zallume e l’inciviltà, godi anche di tanti piaceri per cui il messinese fuorisede ti invidia dannatamente.

Ecco a voi le cinque cose di cui il nostro messinese fuorisede sente maggiormente la mancanza.

  1. Le braciole

Nessuno, eccetto i suoi conterranei, possono comprendere la necessità di gustare questo piatto almeno una volta a settimana. La sofferenza del fuorisede dovuta all’astinenza da braciole si acuisce ulteriormente nel momento in cui, pronunciato il nome indicante questo nettare degli dei, si rende conto che nessuno riesce a comprendere nemmeno di che cosa stia parlando. Perché no, non si tratta semplici “involtini di carne”, si chiamano “braciole”: adesso andate e diffondete il Verbo. State molto attenti a non pronunciare questo nome invano, il desiderio di braciole del messinese fuorisede è tale che sarebbe disposto persino a darvi un rene, pur di averne qualcuna in cambio.

  1. La granita

Sarebbe capace di mangiarla a colazione, pranzo, merenda, persino per cena. Una “menza ca’ panna” starebbe bene anche a fine pasto, così per digerire la caponatina di mamma. Stiamo parlando ovviamente di Granita, quella vera, con sapori e odori chiaramente percepibili, ben diversa dalla “gratta checca” che ogni buon messinese userebbe al massimo per fare l’ ice challenge a luglio. Nei suoi sogni più reconditi il messinese fuorisede immagina di accarezzare la sacra coppola della brioche e immergerla con la giusta grazia in un velo di panna. E fidatevi, la più grande dimostrazione d’affetto che possiate ricevere da un buddace non è una teglia di parmigiana né un chilo di salsiccia condita (sebbene siano sempre molto gradite). Stima e affetto insuperabili sono racchiusi in questa frase fortemente evocativa: “ti vogghiu beni comu a testa da brioscia”. Ditelo così “ti amo” al messinese fuorisede. Non riuscirebbe a trattenere la lacrimuccia.

  1. Il mare dello Stretto

Il messinese potrebbe anche spostarsi senza l’aiuto di google maps e della stella polare, ma non del suo mare. Lo stretto è un vero e proprio punto di riferimento. Non a caso, già alla vista delle sponde calabre, il fuorisede comincia a ritrovare il dovuto senso dell’orientamento e ha come la sensazione di tornare a respirare. Tra alte montagne e grigi palazzoni si sente infatti schiacciato, come fosse sul vecchio 79 direzione Faro alle ore 14 di un qualunque giorno scolastico. Solo la vista dello Stretto sarebbe capace di donargli quella stupenda sensazione di libertà, paragonabile solo a quella provata non appena sbottonati i pantaloni dopo il pranzo di Natale con i parenti.

  1. Il dialetto

Chiedere allo studente fuorisede di non parlare in dialetto sarebbe come chiedere alla nonna terrona di non dirti “stai sciupato” ogni qualvolta ti veda/senta (sì, perché anche il tono di voce rivela se non mangi). Non ce la fa, il suo cuore non può sopportare anche questo. Piuttosto chiedetegli di non parlare in italiano. Ricorrere a espressioni dialettali, specialmente in preda a momenti di ira o in (rarissimi) istanti di euforia, è una necessità, fa bene all’animo. E poi, amici/nemici polentoni, vi assicuriamo che la nostra amarezza nel constatare che non potete comprendere espressioni tanto profonde e potenti come “cuntari quantu u dui i coppi quannu a briscula è a spadi”, “semu chiù di cani brasi” o “camurria” supera di gran lunga il vostro sbigottimento nel sentirle pronunciare. Il fuorisede infatti si impegna moltissimo per fare in modo di esplicare al meglio il senso più profondo di questi vocaboli, ma ogni traduzione che si rispetti non potrà mai dirsi perfetta. Per cui al messinese fuorisede non resta che rassegnarsi, nessuno lassù al di fuori di se stesso potrà mai capirlo.

  1. Il clima tropicale

Il messinese è geneticamente formato per risiedere in ambienti caldi. Costringerlo a vivere in territori in cui si sfiorano soglie più basse dei 12 gradi sarebbe come chiedere a un orso polare di vivere all’Equatore. Non riesce a resistere, ha proprio difficoltà a sopravvivere. E se il fuorisede decidesse di fare il trasgressivo, indossando il giubbotto di pelle a novembre, ne pagherebbe immediatamente le conseguenze con un bel febbrone. Sembra quasi che le sue difese immunitarie vogliano urlargli “Imbecille, se vuoi fare lo splendido tornatene giù”. Così al fuorisede non resta che piangere al pensiero che nella sua città avrebbe potuto tranquillamente indossare maglietta a maniche corte e giacchetta leggera, giusto per zittire la mamma apprensiva. Può solo consolarsi con il calore del suo cuore, proveniente direttamente dalla sua Sicilia bedda.

Giusy Mantarro

Messina e le sue dolci tradizioni

Siamo a Messina, terra di antiche dominazioni e influenze straniere. Terra di passaggio, grazie alla sua posizione di favore sul Mediterraneo che ne ha fatto punto di approdo per numerosi popoli, alcuni dei quali si soffermarono più a lungo di altri lasciando un po’ delle loro tradizioni anche sulle nostre tavole che ritroviamo ancora oggi, soprattutto in alcuni dolci della tradizione messinese.

A differenza del resto della Sicilia presenta influenze arabe molto minori, il che rende i suoi dolci molto meno zuccherati e melensi. Si sa, la città dello Stretto è famosa in fatto di dolci, con i quali contribuisce notevolmente al buon nome di tutta la Sicilia con cui condivide molte delle sue specialità, forte della sua antichissima storia, interessata soprattutto dall’influenza greca e spagnola.

La tradizione vuole che, a seguito della dominazione spagnola del 1600, allorquando la città stava passando un periodo di grande depressione, le monache di un convento di clausura – esistente ancora oggi – in occasione di feste popolari cominciarono a fare dolci da offrire alla popolazione, spesso da loro inventati come: Nzuddi, un biscotto mandorlato all’uovo, immancabile nella pasticceria panaria messinese. I Sospiri di Monaca, anch’essi immancabili nella piccola pasticceria delle domeniche messinesi. Si tratta di soffici savoiardi ripieni di ricotta dolce, il quale nome sembra proprio provenire dalle loro creatrici che si dice sospirassero di gioia ogni volta ne mangiassero uno.  Si racconta, inoltre, che in occasione del Carnevale offrissero quelli che risultano essere i diretti antenati della famosissima Pignolata. Si trattava, inizialmente, di mucchietti di pinoli fritti e amalgamati col miele che avevano la forma di una pigna, da cui il nome di pinolo del biscotto e pignolata dell’intero dolce. Successivamente si cominciò a mischiare insieme al frutto della pasta all’uovo; l’esperimento ebbe degli ottimi risultati e col passare del tempo la pasta all’uovo sostituì in toto i pinoli, fino a renderlo il dolce gustoso e ricoperto di glassa –  nella versione cioccolato e limone –  che ben conosciamo oggi.

Nel periodo pasquale l’aria dello stretto si profuma di cannella e semi di sesamo, e dai forni di tutto il messinese l’aroma dolce e pungente attira i cittadini in cerca dei morbidissimi Panini di cena, le cui origini si perdono nella tradizione della città. Questi dolci rappresentano il pane che Gesù condivise con gli Apostoli durante l’ultima cena e per questo tradizione vuole che si facciano il Giovedì Santo, anche se spesso ormai si trovano anche fuori periodo. Curiosa è la tradizione messinese circa la produzione di particolari dolcetti correlati alla festa dei defunti: le ossa di morto ( c.d morticini), proprio a ricordare, sia nel nome che nella forma, l’oggetto della celebrazione. Si tratta, infatti, di dolcetti composti dalla bicroma pasta garofalo bianca e nocciola. E i più allegri e colorati dolci in pasta reale che per via della loro forma, che riproduce fedelmente svariati frutti, sono comunemente conosciuti come frutta martorana.

Proseguendo nel calendario delle feste, Immacolata fa rima con Niputiddata, dolcetti dalla pronuncia tutta messinese e dalla classica forma a stella. Fatti di pasta frolla molto sottile, profumano l’aria in città nel periodo natalizio con il loro ripieno di frutta secca, fichi secchi, mandorle, canditi e cacao. Ma al di là dei periodi festivi, ci sono dei veri e propri must, che non possono mai mancare sulle tavole dei messinesi, che oltre ad essere delle delizie per il palato sono dei veri e propri momenti di sacra convivialità. E’ il caso del dolce messinese per eccellenza, quello che dopo una lunga e stressante settimana ti dice che finalmente è arrivata la domenica, quello per cui “uno spazietto libero lo trovo!” sempre, quello che non si conta in fette, pezzi o porzioni, ma “palle” è la sua unità di misura. Stiamo parlando del – rigorosamente chiamato – Bianco e Nero, il piramidale mucchietto di profitteroles ripieni di panna montata (il bianco), e ricoperti accuratamente da una crema al cioccolato (il nero), e con le immancabili scaglie di cioccolato, sottili da sciogliersi in bocca. Insomma, un vero e proprio classico immancabile. E’ la volta delle dolci salate sfinci messinesi, dolci fritti, ricoperti di zucchero semolato e tipicamente ripieni di uva passa. Il nome deriva dal latino spongia, spugna, a sua volta mutuato dal greco a indicare la loro consistenza morbida e irregolare come una spugna. Gli arabi le soprannominavano sfang.

Forse meno conosciuto a chi non è del posto, il Lulù alla messinese, un sorprendente dolce fatto di pasta choux (o pasta bignè) di solito abbastanza grande e dalla forma bizzarra e irregolare – quasi a ricordare un cavolo – ripieno di panna e talvolta anche di crema al cioccolato. A Messina, durante tutto l’anno, è possibile mangiare delle dolcissime pesche. Parliamo di un dolce dalla tipica forma ispirata fedelmente all’omonimo frutto. Si tratta di due mezze sfere di pasta brioches, tenute insieme al centro da uno spesso strato di crema chantilly e guarnite con ciliegie candite. Non sono tipiche di un momento o periodo precisi, ma vanno mangiate a sentimento, il momento giusto è esattamente quello in cui se ne ha voglia, che sia la colazione, la merenda o un qualsiasi momento della giornata.

Stilare una lista completa di tutti i dolci della tradizione messinese risulta impresa davvero ardua, ma un focus sulle specialità dedicate alla colazione è d’obbligo.
Decretata patrimonio dell’umanità direttamente dai messinesi, la Granita. Lei, l’unica e inimitabile, invidiata in tutto il mondo e oggetto di continue imitazioni che per i messinesi fa rima con profanazioni. Quella che per il resto del mondo non è altro che ghiaccio tritato guarnito con sciroppo, nella sua versione originale si tratta di una semplice miscela di acqua e purea o succo di frutta fresca di stagione o con caffè e cacao, addolcita a piacere e lasciata gelare in freezer per poi essere servita appena frullata e con aggiunta di panna appena montata nella sua versione “mezza con panna“, accompagnata dall’insostituibile brioche col tuppo, da intingere accuratamente. Anche la granita risale al periodo arabo della Sicilia e deriverebbe dal loro sherbet. In origine si usava la neve raccolta sui monti Nebrodi e la granita era chiamata rattata (grattata). Poi la neve passò da ingrediente a refrigerante. Insomma, una terra di tradizioni e storia non solo da raccontare ma anche da mangiare fatta di riti gelosamente custoditi, ma anche generosamente condivisi col resto del mondo, che hanno fatto della pasticceria siciliana una delle più famose al mondo.

 

Giusi Villa