Cisgiordania, giornalista di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano

Ai giornalisti deceduti durante reportage in zone di conflitto si aggiunge il volto di Shireen Abu Akleh, dipendente dell’emittente televisiva Al Jazeera, colpita con un proiettile alla testa e morta poco dopo essere stata portata in ospedale in gravissime condizioni.

L’uccisione di Shireen

La 51enne con cittadinanza americana e palestinese si trovava in Cisgiordania, territorio rivendicato dalla Palestina, ma sotto il controllo delle forze israeliane; in un campo profughi nella città di Jenin. Stava documentando un’incursione militare di matrice israeliana quando, arrivata sulla scena di un raid dell’esercito israeliano, è stata uccisa con un proiettile alla testa. Accanto a lei, Ali Al-Samoudi, un suo collega, è stato colpito da un proiettile alla schiena. Portato in ospedale, ora si trova in condizioni stabili. Come gli altri giornalisti presenti sulla scena, anche Shireen indossava il giubbotto antiproiettile con su scritto “press” e persino l’elmetto, normalmente utilizzati per proteggersi dai pericoli dei conflitti. Questo rende chiara la volontà di chi ha sparato.

Shireen Abu Akleh (Fonte: friulisera.it)

Al Jazeera accusa gli israeliani

L’emittente con sede in Qatar accusa i militari israeliani del decesso della giornalista conosciuta in tutto il mondo arabo e che, per trent’anni, si era fatta portavoce dei conflitti tra palestinesi e israeliani. In difesa, i componenti dell’esercito israeliano affermano di aver aperto il fuoco dopo essere stati esposti al “fuoco massiccio“, evidenziando la possibilità che la giornalista possa essere stata uccisa dai palestinesi. Le parole di Al-Samoudi, però, non lasciano spazio a equivoci:

“Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sulla scena. Se ci fosse stata, non saremmo stati in quella zona.”

Una giornalista di Quds News Network lì presente, Shatha Hanaysha, ha dichiarato che, nonostante Shireen fosse già caduta a terra, il fuoco non si è fermato e, nell’immediato, nessuno è stato in grado di raggiungerla per aiutarla.

Le reazioni israeliane e americane

L’autopsia è stata condotta all’Istituto di medicina legale Al Najah di Nablus. Intanto il ministro israeliano degli esteri, Yair Lapid, afferma che Israele ha offerto ai palestinesi “un’indagine patologica congiunta” sulla morte di Abu Akleh:

“I giornalisti devono essere protetti nelle zone di conflitto e tutti noi abbiamo la responsabilità di arrivare alla verità.”

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Tom Nides, si dice “molto triste” nell’apprendere la morte della donna e incoraggia “un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte” in un tweet.

L’orrore del funerale

Inquietanti“: è così che la Casa bianca definisce le immagini dei funerali che hanno fatto il giro del web. Tutto è cominciato all’uscita della bara dall’ospedale di Beit Hanina, quartiere arabo di Gerusalemme est: la polizia ha impedito che la bara fosse sollevata per essere portata in spalla da un gruppo di persone tra cui il fratello della giornalista. Successivamente la polizia ha assalito con i manganelli coloro che portavano il feretro della donna, facendolo inclinare verticalmente e quasi cadere. Al Jazeera ha ritenuto “aggressivo” l’atteggiamento della polizia israeliana in una circostanza così delicata. Gli agenti hanno giustificato il proprio comportamento sostenendo che dal corteo funebre sono state lanciate contro di loro pietre e altri oggetti.

Funerali di Shireen (Fonte: farodiroma.it)

 

Eleonora Bonarrigo

 

 

La nostra intervista a Rula Jebreal

La resistenza ad ogni forma di dittatura, il coraggio di dire no, quelle piccole azioni quotidiane che possono portare la nostra società ad una nuova consapevolezza, tanti gli spunti che si possono trarre dal discorso di Rula Jebreal, insignita del dottorato honoris causa in Scienze Politiche, durante la lectio magistralis tenutasi presso l’Aula Campagna del Dipartimento Scipog.

Noi di UniVersoMe abbiamo avuto l’onore di intervistare la famosa giornalista. Ha introdotto la nostra chiacchierata il dott. Antonio Tavilla, direttore responsabile della nostra testata, di seguito ha posto le domande Francesca Umina, direttrice Unit Giornale.

Nella foto da sinistra Francesca Umina, la dottoressa Rula Jebreal, il Rettore Prof. Salvatore Cuzzocrea. ©Antonio Tavilla

L’intervento di Antonio Tavilla: la missione del giornalismo

Lei è un’osservatrice internazionale del giornalismo, una professione messa in crisi dai social ma anche dall’insufficiente libertà di stampa. Qual è la sua visione? Cosa vuole dire ai ragazzi che si vogliono approcciare a questo mondo?

 Quello del giornalista è il mestiere più bello al mondo. Interessatevi alle questioni internazionali: ci sono molte opportunità, magari non locali, magari non nazionali. Studiate le lingue, studiate soprattutto l’inglese, cominciate a comunicare con i vostri colleghi del futuro attraverso i social media. Una delle mie migliori amiche stava studiando filosofia quando è avvenuto l’attentato alle Torri gemelle. E’ diventata giornalista il giorno dopo. Qualunque cosa scegliate di fare, ricordate che l’eccellenza non è data dallo status dei media locali, non sarà mai così. Dovete guardare al futuro, ma soprattutto al mondo globalizzato. Se non vi assumono in un giornale locale o nazionale, continuate a cercare. Io vi aspetto sulle prime linee, se siete bravi sappiate che vi assumeranno. Ho studiato e capito cose che l’America voleva raccontate, sono stata assunta perché dicevo cose che nessuno diceva: sul dittatore saudita, su Putin, sui genocidi, sugli stupri etnici. Non c’è notizia che non leggo, non c’è una foto che non guardo. Tutti i giorni cerco di leggere, di studiare, di imparare, ma soprattutto cerco di rapportarmi con persone che la pensano diversamente da me. Solo così potete diventare eccellenti. Io sono convinta che voi avete gli strumenti: siete europei, vivete in un mondo libero. Io ho vissuto sotto la dittatura, non c’era internet. Ma ce l’ho fatta. E se ce l’ho fatta io, ce la farete ancor di più voi. Vi aspetto, ovunque c’è un posto per voi. Se un giornale non riconosce il vostro valore, c’è qualcun’ altro che vi noterà.

Le domande della redazione: denuncia, riflessione e intraprendenza

 Vorrei chiederle una riflessione su un estratto del diario di Anna Frank: ‘’Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto […]  eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità’’. Lei ha alle spalle un’infanzia difficile. Da questo però, ha tratto le parole per lottare, affinché vengano riconosciuti i diritti delle donne e dell’umanità. Crede anche lei che prima o poi questa spietata durezza umana cesserà? Condivide la speranza di Anna?

Grazie. Io non avevo altra scelta se non quella di combattere, altrimenti sarei morta. Combattere è la linfa che mi tiene viva moralmente, e sono fiera di vedere questa generazione di donne straordinarie che combatte. Però non possono farcela da sole. Per questo la loro voce è rappresentata da persone come me e dai media.

Rula Jebreal, il Rettore Prof. Salvatore Cuzzocrea. ©Angelica Rocca

Lei ha affermato poc’anzi che la donna è spesso bottino di guerra. Ma è noto che dopo gli scontri sono proprio le donne a ricostruire il Paese. Dobbiamo temere un arretramento, sia a livello europeo che mondiale, in termini di emancipazione femminile, in seguito a quello a cui stiamo assistendo?

Le donne ricostruiscono e sono quelle che subiscono. C’è una frase bellissima di un poeta mediorientale che afferma che le persone che la guerra ha distrutto sono quelle che poi ritornano, ricostruiscono e salvano praticamente il mondo. Non lo so questo, devo ammettere che parte della mia rabbia è legata ai traumi. Detto questo, vedo una speranza straordinaria nel gruppo di donne della mia terra che, nonostante tutto quello che subiscono, mantengono un amore per la vita. Questa bambina (bambina ucraina nata nella metro n.d.r.) nata pochi giorni fa in un rifugio, quando guarderà in quel filmato sé stessa, sarà una leader straordinaria, perché capirà la lotta che lei ha dentro, essendo nata nonostante una dittatura, in un contesto di guerra. Penso a una leader così per il futuro, che racconterà la sua storia per sensibilizzare le generazioni rispetto alla lotta per la libertà e per la democrazia. Ogni tanto la sofferenza rafforza: nel mio caso mi ha dato una spina dorsale d’acciaio, ma non ha reso le mie emozioni d’acciaio. Quelle sono rimaste vive perché, guardando gli occhi di generazioni come la vostra, vedo che l’attaccamento che ho per la vita continua a vivere dentro di me e quello non lo concederò al nemico, non gli darò la soddisfazione di distruggermi, perché i regimi autoritari stanno cercando di fare questo nei confronti di tutti quelli che sono critici, giornalisti, attivisti e dissidenti.

Si sta combattendo una battaglia contro un nemico armato, Putin. Una persona tutt’altro che ignorante: si è laureato nel 1975 in legge, ha dalla sua parte lo strumento della cultura. A discapito di questa, degli studi, della conoscenza e soprattutto della coscienza del passato, assistiamo agli eventi drammatici di questi giorni. Secondo lei, lo studio come si ripercuote sul pensiero e sulle azioni?

Quando mi raccontano dell’ Isis, dei “barbari” dell’Africa e del Medio Oriente, vorrei ricordare a tutti voi che nazismo e fascismo sono nati durante un’era straordinaria per l’Europa che, nonostante la crisi economica, stava vivendo un periodo di vero rinascimento culturale, grazie a filosofi, intellettuali, giornalisti. Tanti uomini legati a Hitler erano persone sofisticate che hanno però fatto un calcolo errato pensando di eleggere il Führer e poi di controllarlo. Ma quando crei un mostro, quest’ultimo finisce per mangiarti. Alla base c’è questo calcolo opportunista che abbiamo visto anche con Putin: per tanti anni, tante persone hanno ignorato la sua criminalità perché ritenevano che in qualche modo i soldi l’avrebbero eccitato a tal punto da fargli mettere da parte il suo lato criminale. Non solo hanno sottovalutato, ma non hanno capito per nulla chi era Putin e cosa voleva dal primo giorno: una persona che si è servita dello strumento degli studi per arrivare al potere e utilizzare quest’ultimo in maniera distruttiva, violenta. Questo fa capire che i dittatori non sono persone ignoranti o inconsapevoli delle loro azioni, bensì gente ancor più pericolosa, proprio perché utilizza l’arma dell’istruzione per esercitare il potere in maniera più diabolica. Quando Putin incontrò per la prima volta Trump ad Helsinki, si vantò dei suoi missili supersonici, in grado di far evaporare una città intera e affermò di poterli utilizzare a differenza del leader americano, in quanto quest’ultimo era invece ostacolato da un governo democratico. Stava già dicendo a Trump, quattro anni fa, di essere disposto ad usare armi nucleari, armi non convenzionali, capaci di uccidere centinaia, migliaia di persone. Non solo Trump non ha compreso con chi avesse a che fare, ma tante persone del nostro mondo, persone intelligentissime, hanno pensato che in qualche modo avrebbero potuto manipolarlo, controllarlo, sedarlo. Invece la bestia è sempre stata lì, prima o poi sarebbe uscita fuori.  Il business, i rapporti ambigui con i dittatori danneggiano noi e rafforzano loro. Tanti uomini che hanno creato bombe nucleari erano persone istruite, sapevano cosa stavano creando. L’essere istruito non è garanzia di moralità. Ci sono persone molto semplici, umili, che hanno più moralità di tante persone istruite. Però come possiamo utilizzare la cultura per far avanzare i diritti umani e la democrazia? Questo è un argomento su cui bisogna riflettere. Sappiamo che c’è molta tolleranza verso ideali fascisti. Sono stati scritti libri sull’inferiorità della razza che sostengono che se hai una goccia di sangue nero sei inferiore, non meriti diritti. E li hanno scritti intellettuali inglesi, tedeschi, persone laureate ad Harvard o presso altre università importanti. Ma il fatto di considerare la vita umana in termini di superiorità o inferiorità è già un primo passo verso i genocidi. Da cosa nascono tutti i genocidi se non da parole, ideali – molto spesso – di morte?

Non basta quindi trovare riparo nella torre d’avorio della cultura per poter guardare dall’alto con sguardo incolpevole la barbarie che accade là fuori nel mondo. Sono parole forti quelle di Jebreal, poco rassicuranti, ma che ci invitano a stare sempre all’erta, a cogliere la sfida di utilizzare il potere che abbiamo (quello dato dall’istruzione, dalle nuove tecnologie della comunicazione) per assumerci la responsabilità di imprimere una direzione diversa e più giusta al mondo. Perché «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Non possiamo perciò non ringraziare Rula per avercelo ricordato e aver risposto alle nostre domande, dandoci modo di riflettere criticamente sulle questioni più scottanti della nostra contemporaneità. 

Redazione UniVersoMe 

 

 

È morto Ubaldo Smeriglio, giornalista e scrittore: oggi i funerali

 

Stampalibera.it

Lo scrittore e giornalista 52enne Ubaldo Smeriglio, a seguito di una malattia che non gli ha lasciato scampo, ci ha lasciati ieri mattina a Messina.

Non solo il suo impegno come giornalista nei casi di cronaca nera e giudiziaria, ma anche dinanzi alla macchina da scrivere con i suoi romanzi che lasciavano convergere la prosa di Hemingway e di Garcia Marquez.

Un profondo senso di giustizia quello cui lo si riconosceva nella sua professione di scrittore e giornalista, prima con il settimanale l’Isola, poi per il Corriere del Mezzogiorno e infine anche per la Gazzetta del Sud.

 

Gazzettadelsud.it

“Sono figlio di un corsaro della corona e di una principessa dell’estremo oriente”, questo si legge nel suo profilo Facebook; così, lui, amava definirsi: forse per sottolineare il suo spirito ribelle e curioso, amante della vita e di ogni dettaglio che potesse scorgervi attraverso l’occhio attento della sua imperitura passione: la scrittura.

“Non forzare la realtà”, infatti, soleva ripetere.

Nell’ultima esperienza professionale con il gruppo “Caronte-Tourist”, il suo estro prolifico aveva partorito “Onde Sonore”, un itinerario artistico e musicale.

I funerali si svolgeranno oggi alle 15 nella chiesa di Santa Maria di Gesù a Provinciale.

 

Antonino Giannetto

 

Studenti, professori e giornalisti a confronto sulla figura di Mario Francese, a quarant’anni dal suo omicidio

Si svolgerà mercoledì 13 febbraio, alle ore 10.30  presso la Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, un seminario sul tema “Il giornalista con la schiena dritta. Riflessioni su Mario Francese a quarant’anni dall’uccisione”.

Ospite dell’incontro Giulio Francese, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Sicilia; interverranno il prof. Giovanni Moschella, Presidente del Centro sulle Mafie, il prof. Luigi Chiara, Direttore del Centro sulle Mafie, il prof. Marco Centorrino, docente di Sociologia della Comunicazione, Claudia Benassai, giornalista e Alessio Gugliotta, coordinatore UniVersoMe,  testata giornalistica degli studenti Unime.

L’evento, organizzato dalla redazione di UniVersoMe, si concluderà nel pomeriggio in Sala Senato con un workshop giornalistico rivolto agli studenti dell’Ateneo.

Qui di seguito si allega il link del form che deve essere compilato per potersi iscrivere all’evento: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeLklSWHXVkXcCNu__x9jhB4FsEV4TjXkwnA355sPL2oSXRkw/viewform

Arkadij Babchenko, la finta morte del reporter russo

Il 29 Maggio scorso, una delle notizie che è passata (ingiustamente) inosservata in mezzo al trambusto generato dalla questione del “Governo si, Governo no” è stata sicuramente quella relativa all’omicidio di Arkadij Babchenko, giornalista russo che da anni raccontava le atrocità che la guerra provocava su Moskovskij KomsomoletsNovaja Gazeta e altre testate nazionali.

Dal 2017 aveva lasciato il suo paese per rifugiarsi prima in Repubblica Ceca e poi in Ucraina, a Kiev, per sfuggire alle numerose minacce di morte che riceveva ormai quotidianamente, specialmente da parte dei sostenitori del governo di Vladimir Putin di cui si era sempre dimostrato un forte critico, pubblicando articoli e post sui propri social denunciando i mali che la Russia stava alimentando con gli interventi in Siria (2015) e nell’Ucraina dell’ Est (2014). E proprio a Kiev, in quella casa dove ormai abitava stabilmente da quasi un anno insieme alla moglie e alla figlia, è stato ritrovato il suo cadavere ricoperto di sangue e con tre fori di proiettile nella schiena. A darne l’allarme è stata proprio la compagna che per prima ha visto il corpo del marito, ormai senza vita. Il pensiero è arrivato spontaneo e l’omicidio è subito stato ricollegato alle numerose minacce di morte indirizzate a Babchenko scatenando così l’indignazione tra i colleghi giornalisti e le autorità locali.

Ma, solo 24 ore dopo l’accaduto, durante una conferenza stampa indetta proprio per dare maggiori spiegazioni sull’argomento, a presiedere l’incontro era presente proprio il giornalista russo che tutti credevano morto. Dopo i primi momenti di comprensibile sbigottimento e di lacrime per un collega che credevano morto, i giornalisti presenti in sala hanno avuto la possibilità di conoscere la realtà che si celava dietro quella tragica notizia.

“Sono ancora vivo. Mi scuso con mia moglie e con i miei colleghi per l’inferno che gli ho fatto passare negli ultimi due giorni”

Vassilij Gritsak, capo dei Servizi segreti ucraini (Sbu), ha spiegato che la sua “morte” era stata inscenata, in accordo con le autorità ucraine, per sventare un omicidio che era stato commissionato al prezzo di 40mila dollari e del quale le autorità erano venute a conoscenza 2 mesi prima. L’uomo che aveva organizzato il vero attentato alla vita di Babchenko, un cittadino ucraino, era stato arrestato proprio quella mattina.

Dopo aver reso pubblica la notizia la reazione dei social è stata duplice, da un lato in molti hanno espresso grande sollievo; dall’altro invece, in molti si sono detti indignati per la strumentalizzazione che gli Sbu hanno compiuto per manipolare l’informazione a loro vantaggio, forte sostenitore di questa tesi è stato Christophe Deloire, segretario di Reporter senza frontiere.

Dello stesso avviso è stata la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova che in un post su Facebook si è detta felice per le reali condizioni del giornalista, criticando però, duramente, il governo ucraino per la speculazione fatta sulla informazioni in loro possesso.

In un lungo articolo pubblicato da Babchenko un anno fa sul sito “The Question“, il giornalista rispondeva così alla domanda “Adesso hai paura di morire“:

“Certo, morire fa paura. Sempre. Se qualcuno dice il contrario, non credetegli. E, per quanto mi riguarda, più si va avanti, più fa paura. Perché non si può sempre avere fortuna. Il limite della fortuna è limitato. Puoi aver fortuna una volta. Due. Cinque. Ma prima o poi arriverà il giorno che…”

Giorgio Muzzupappa

Gli Aspiranti Giornalisti

giornal

Siamo tornati! Dopo aver cercato di abbattere lo stereotipo legato al modo di portare i capelli (se non hai letto, oltre ad essere una brutta persona, clicca qui ), oggi affronteremo un argomento ancora più spinoso, ancora più deprimente, ancora più stereotipato: gli aspiranti giornalisti.

Come se non fosse già abbastanza dover fare a pugni con una società che ha di te la stessa considerazione che hanno gli studenti per la bibliografia dei testi universitari, e con tante persone che ti accollano epiteti poco simpatici come giornalista terrorista, si aggiungono una serie di stereotipi poco simpatici.

Cercheremo di sfatarne giusto 5.

1- Sì, esiste il corso di laurea di Giornalismo. Sembra lapalissiano, ma non tutti (anzi, la quasi totalità delle persone con cui mi trovo a discorrere in merito all’argomento) sanno che esiste in tanti Atenei, soprattutto nel nostro, un indirizzo giornalistico. Sfido tutti voi aspiranti giornalisti che frequentano questo corso, ad affermare che non si sono mai sentiti dire: “Ti piacerebbe fare il giornalista? E che studi? Scienze della comunicazione?”. Sì, cari amici, esiste.

2- Non esiste solo il giornalismo sportivo. Questo poi, forse è quello che mi è più caro. La dimensione che tante persone hanno del giornalismo è distorta: sei giovane, segui lo sport = farai il giornalista sportivo. No, fortunatamente non è un dogma nemmeno questo, e per quanto lo sport possa essere appassionante, non esiste un settore del giornalismo che viene univocamente ambito dagli aspiranti giornalisti.

3- Non ci ispiriamo per forza a qualcuno. Tanti hanno un modello, un riferimento, qualcuno cui ci si ispira. È tipico degli amici dell’aspirante giornalista iniziare ad etichettarlo: “Oh Travaglio!”. “Ti senti più Di Marzio o Marianella?”. Quello che dovete sapere, amici, è che non ci ispiriamo per forza ad un altro giornalista: ognuno, nel corso della propria formazione, assume un determinato stile (e sarebbe strano se così non fosse), senza dover emulare quello di un altro professionista del settore. P.S. Mi hanno davvero chiesto: “Ma se fossi un commentatore sportivo, esulteresti alla  Caressa o alla Compagnoni?”, qui non mento, MARIANELLA ORA E SEMPRE, MERAVIGLIOSAMENTE.

4- L’aspirante giornalista non vive in un film americano. Avrete certamente presente i classici film americani in cui il giovane giornalista passeggia nervosamente in redazione nella propria stanza (vedi tu, una stanza tutta tua…) , fumando venti sigarette ed aspettando che “la fonte” lo chiami per rivelare chissà quali segreti di Stato. Ecco, nella vita reale non è proprio così: più che altro ti trovi ad aspettare comunicati stampa o notizie del calibro “Rubata gallina sulla Tommaso Cannizzaro”, cercando disperatamente una rete Wifi, il più delle volte scrivendo da device poco adatti come telefonini che puntualmente saranno scarichi.

5- Non per forza moriremo di fame. Uno su mille ce la fa. Ringraziando Gianni Morandi che ci concede la licenza poetica, ammettiamo che questo è lo stereotipo più difficile da abbattere. Sarà forse uno strano senso sadico a portarci ad intraprendere la strada del giornalismo, pur sapendo le difficoltà del mestiere, ma il requisito fondamentale per essere un aspirante giornalista è una fiducia sconfinata nei propri mezzi ed un pizzico di illusione verso la vita. Per sfatare questo stereotipo, contattate i membri della redazione fra vent’anni. O in alternativa lanciateci una moneta al semaforo.

Alessio Micalizzi

Io non taccio: combattere con vigore per la libera informazione

Mai smettere di parlare, investigare, raccontare la verità senza paura, come ogni buon cittadino. Queste le motivazioni principali ma ancor di piu, i temi scottanti che hanno animato la presentazione di ieri, lunedi 28 Dicembre, presso la Feltrinelli Point in via Ghibellina, del romanzo”Io non taccio: l’Italia dell’informazione che dà fastidio” edito da CentoAutori, casa editrice di Villa Ricca, a Napoli, dove denunciare e portare aria nuova è difficile. Scritto da otto giornalisti, accomunati dall’aver subito tutti minacce e intimidazioni, con tanto di aggressioni fisiche, per aver fatto sempre il loro dovere al servizio della libera informazione, il libro ha ricevuto il Premio “Paolo Borsellino” 2015 e e nelle varie storie raccontate cerca di tratteggiare il quanto mai vituperato mestiere del giornalista: pagato poco o niente, difeso a intermittenza dalle Istituzioni, in un paese dove la corruzione e il malaffare pervadono ormai incessantemente la vita pubblica. Storie di umiliazioni, sofferenza: tutto per difendere il proprio diritto a parlare, a non tacere di fronte alle ingiustizie che avvengono nel proprio territorio. Presente Paolo Borrometi, coautore del libro, con il quale hanno dialogato le giornaliste Gisella Cicciò (RTP) Rosaria Brancato (Tempo Stretto), che al termine dell’incontro ha accettato di scambiare quattro chiacchiere con noi.

1. La libera informazione vive oggi un momento particolare. Ma è piu facile essere giornalisti oggi rispetto magari a trent’anni fa?

Bella domanda. Sicuramente trent’anni fa c’era una coscienza civile diversa. La società se sentiva di dover stare vicino ad un giornalista ci stava, oggi probabilmente è diverso ma dipende in un certo senso dai mezzi di comunicazione che abbiamo adesso. Pensando alla mia terra, da Giovanni Spanpinato ( ucciso nel 1972) a me è cambiato realmente poco, soprattutto nella capacità corale di descrivere un territorio o un problema. In questo senso un aiuto fondamentale puo’ venire dai giovani che piu di noi devono lottare e cercare sempre la verità in ogni circostanza.

2. Lei ha parlato spesso dello strumento della querela, fim troppo abusato da chi in un certo senso minaccia i giornalisti chiedendo risarcimenti milionari. Puo’ capitare il contrario?

Non si vuole assolutamente dire che esistono solo querele ingiuste contro i giornalisti ma credetemi, è un fenomeno drammatico. Se guardiamo le statistiche notiamo che oltre il 70% delle querele fatte a chi scrive si risolvono in un nulla di fatto, ma creano tanti problemi. È chiaro che anche noi sbagliamo: sono il primo a dire che la mia categoria deve tirarsi un po’ le orecchie a vicenda diciamo. Penso al titolo di qualche tempo fa sul Giornale “Bastardi islamici”. Il direttore della testata è stato, a mio avviso, giustamente querelato e questo è un esempio sbagliato di giornalismo. Dobbiamo sicuramente avere senso di responsabilità, abbiamo uno strumento, la penna, che dobbiamo sempre utilizzare nel migliore dei modi.

3. E l’opinione pubblica invece? Com’è cambiata rispetto a trent’anni fa?

Io oggi la vedo molto distratta. Ci si blocca spesso su polemiche di piccolo taglio e ci si interessa poco dei temi davvero importanti. Ci vorrebbe uno scatto d’orgoglio dell’opinione pubblica, specialmente per quel riguarda la politica, che se certamente è colpevole , ha però come complice il silemzio e il qualumquismo della gente. C’è un problema con le nostre coscienze e dobbiamo essere consapevoli che se ci giriamo dall’altro lato siamo complici.

4. Si dice spesso che Messina e Ragusa, della quale lei è originario, sono province “babbe”. Ma se i babbi siamo noi, gli intelligenti chi sono?

Dobbaimo capire che ci hanno sempre chiamati “babbi” ma non lo siamo proprio.. I furbetti del quartierino sono stati aiutati in un certo senso dall’ auto- convimzione di essere immuni dalla malavita organizzata. Oggi sappiamo che la provincia di Ragusa è usata come sede d’investimenti per le latitanze degli uomini d’onore e non ultimo, per essere il luogo d’incontro della Camorra, della Stidda, di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, per quanto riguarda il settore dei trasporti e dei mercati ortofrutticoli.

5. Abbiamo di fronte una quotidianetà difficile da vivere, soprattutto per noi studenti. C’è un messaggio che lei vorrebbe dare?

Non credo di esserne capace (ride ndr). Dico solamente quando a un ragazzo gli viene detto “sei il futuro di questo paese” lo si allontana dalle responsabilità. I ragazzi sono il presente di questo paese e debbono essere consapevoli. Non si deve mai delegare ad altri, nè lasciarsi andare, informarsi sempre su quel che succede intorno a noi e coricarsi la sera con la coscienza pulita. È l’unico messaggio che posso dare.