Tregua a Gaza: possiamo parlare realmente di pace?

In vigore la terza fase del “cessate il fuoco”

GAZA CITY. Dopo estenuanti e prolungate maratone negoziali, condotte sotto la cruciale mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti, è entrata ufficialmente in vigore la terza fase del ”cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi di Gaza. L’intesa, siglata dopo quasi due anni di conflitto ad alta intensità e devastazione infrastrutturale, mira a stabilizzare la regione e a fornire un sollievo immediato alla popolazione. Tuttavia, la soddisfazione diplomatica cozza con la complessa e rischiosa fase di implementazione, dove la stabilità è minacciata da condizioni umanitarie disperate e dall’assenza di soluzioni ai nodi politici fondamentali.

I dettagli del protocollo di tregua

​L’accordo attuale si concentra inizialmente su misure di emergenza, rinviando le decisioni politiche strutturali a future negoziazioni.

Il fulcro della Fase I dell’intesa è lo scambio reciproco di detenuti e ostaggi, una priorità assoluta per entrambe le parti.
Il protocollo stabilisce il rilascio di un numero definito di ostaggi israeliani inclusi civili e militari ancora in vita, sebbene il numero esatto resti un punto di frizione e il recupero dei corpi dei deceduti.

In cambio, Israele si è impegnata a liberare un contingente di prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri.

Questo processo non è esente da tensioni, con le parti che continuano a negoziare le liste definitive e i meccanismi di verifica.

​Parallelamente, l’accordo prevede l’avvio di un ritiro parziale e graduale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) da alcune aree strategiche all’interno della Striscia di Gaza.

Questo disimpegno, che mira a ridurre la frizione diretta con i civili, prevede il riposizionamento dell’esercito lungo linee di sicurezza concordate.

Una task force congiunta di monitoraggio, che include ufficiali di Stati Uniti, Egitto, Qatar e potenzialmente altri attori regionali, è stata proposta per supervisionare l’osservanza del cessate il fuoco e del riposizionamento militare.

La clausola prevede anche l’impegno, seppur vago, per il disimpegno totale da specifiche zone entro un periodo definito.

Emergenza umanitaria: una catastrofe senza precedenti

​La componente umanitaria ha dominato gran parte dei colloqui, vista la catastrofe che affligge i circa 2,3 milioni di abitanti della Striscia, la cui dipendenza dagli aiuti esterni è totale. L’accordo ha sbloccato l’apertura di corridoi umanitari dedicati che consentono l’ingresso di un numero significativamente aumentato di camion al giorno carichi di aiuti di prima necessità, superando i livelli precedenti.

​La priorità assoluta è stata data al carburante, indispensabile per la riattivazione dei generatori negli ospedali – molti dei quali hanno cessato le operazioni a causa dei danni o della mancanza di energia – e per il funzionamento degli impianti di desalinizzazione dell’acqua potabile. Sono state inoltre incrementate le forniture di materiali medici e chirurgici, cruciali per un sistema sanitario devastato.

​A titolo di concessione economica, sono state apportate modifiche a lungo richieste alle restrizioni imposte: l’ampliamento della zona di pesca concessa ai pescherecci di Gaza è finalizzata a ripristinare almeno in parte l’economia locale, mentre è stato approvato un incremento dei permessi di lavoro temporanei per i residenti della Striscia in Israele, sebbene tale misura sia stata criticata per la sua natura limitata e revocabile.

L’incertezza civile

Nonostante l’entrata in vigore del cessate il fuoco, le condizioni sul terreno rimangono disperate.
Fonti delle Nazioni Unite e dei cluster umanitari stimano che la vasta maggioranza della popolazione sia sfollata, ammassata in insediamenti temporanei e in rifugi sovraffollati, esposta a gravi rischi igienico-sanitari e a malattie trasmissibili.

Il protocollo prevede l’immediato avvio della riabilitazione delle infrastrutture essenziali  comprese le reti idriche, elettriche e fognarie e l’invio massivo di mezzi pesanti per la rimozione delle macerie da quartieri interi, ridotti in polvere.

Tuttavia, le ONG come Médecins Sans Frontières e Oxfam sottolineano che, data la mole della distruzione, il volume degli aiuti necessario per una ricostruzione significativa e per il ritorno alla normalità richiederà un impegno finanziario e logistico massivo e duraturo, stimato in anni.

La popolazione vive in uno stato di estrema precarietà psicologica, con la consapevolezza che questa pausa potrebbe essere solo temporanea.

Dichiarazioni ufficiali e nodi politici irrisolti

Nonostante l’accordo sul cessate il fuoco, i punti di maggiore tensione che hanno innescato la crisi restano sul tavolo negoziale.

Il limite di questa intesa risiede, infatti, nella sua natura circoscritta, che rinvia le questioni politiche fondamentali a una successiva Fase II o le lascia completamente irrisolte.

​Il Primo Ministro israeliano ha ribadito in dichiarazioni ufficiali che l’obiettivo strategico a lungo termine rimane il disarmo completo di Hamas e la smilitarizzazione totale della Striscia. Condizioni che i gruppi armati palestinesi rifiutano categoricamente.

​Similmente, l’accordo non offre alcuna soluzione alla questione della governance post-bellica: non è stato definito chi dovrà amministrare Gaza dopo il ritiro parziale, né è stato affrontato il ruolo della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in una possibile riunificazione amministrativa. Il tema fondamentale di un orizzonte politico stabile  che includa lo status dei rifugiati, la piena libertà di movimento e la definizione di confini permanenti per un potenziale Stato palestinese è stato sistematicamente evitato, lasciando intatti i motori del conflitto ciclico.

​La tregua in vigore è dunque vista dagli analisti come una sospensione negoziata della violenza, essenziale per ragioni umanitarie, ma non come un vero e proprio accordo di pace.

La sua durata dipenderà interamente dalla volontà delle parti di onorare le limitate concessioni reciproche, in un contesto dove la sfiducia storica e i nodi politici irrisolti mantengono alto il rischio di una nuova e inevitabile escalation.

Caterina Martino

 

Macron ammette la responsabilità della Francia nel genocidio in Ruanda

Ieri il Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron, durante una visita nella capitale del Ruanda Kigali, ha ammesso la responsabilità della Francia nel genocidio del popolo dei tutsi avvenuto tra il 7 aprile e giugno del 1994. A distanza di 27 anni ed in onore dell’anniversario, il presidente francese ha visitato il Paese centrafricano dopo più di dieci anni dall’ultima visita ufficiale, ai tempi di Sarkozy. Lo sfondo è quello del Kwibuka27, ossia la giornata che (in lingua kinyarwanda) significa “commemorazione“, “resilienza“, “coraggio“.

Parla di responsabilità, il presidente, ma non di un diretto coinvolgimento. Poi specifica che tale responsabilità consiste nell’aver, per troppo tempo, «preferito il silenzio anziché il vaglio della verità». La colpa della Francia sarebbe, dunque, di aver fiancheggiato un regime genocidario pur non essendovi complice. D’altro canto, il Ruanda ha per molto tempo accusato la Francia di aver attivamente partecipato al genocidio e non è tuttavia un segreto che abbia, ai tempi, fornito armi e milizie che si sarebbero successivamente rese partecipi del genocidio.

Le scuse del Presidente, pur andando contro le aspettative di una “piena ammissione di colpa”, hanno tuttavia acceso le speranze di un dialogo tra i due paesi che non si aveva ormai da decenni. Il Presidente del Ruanda Paul Kagame – che, col suo Fronte Patriottico Ruandese, pose fine al genocidio – ha tuttavia ritenuto le parole del presidente Macron «più importanti delle scuse. Sono state la verità».

(fonte: dw.com)

L’importanza di un presidente giovane e la scelta delle parole

Perché è importante che sia stato proprio Macron a compiere l’ammissione di colpa della Francia? E perché si è parlato di “responsabilità” anziché di “diretto coinvolgimento” della Francia?

Nell’analizzare l’accaduto, la professoressa dell’Università di Firenze Mariastella Rognoni, ospite al programma RaiNews24, ha sottolineato la scissione temporale dell’establishment francese di oggi rispetto a quello di ieri.

Macron, spiega, ai tempi aveva solo 17 anni. Non poteva essere in alcun modo coinvolto nei fatti condotti dall’Eliseo. In più, il suo partito non esisteva ancora. Vi è una cesura nei fatti.

Il non aver parlato di un diretto coinvolgimento da parte della Francia significa, di fatto, l’escludere che chi ha agito abbia agito a nome del Paese. Ciò ha un importante rilievo dal punto di vista del diritto internazionale, in cui vige una regola precisa: uno Stato può essere ritenuto responsabile dei fatti commessi dai suoi cittadini se tali fatti si sono verificati sotto un diretto controllo del paese stesso. Controllo che, tuttavia, può manifestarsi nei modi più vari.

I fatti del 1994

Nel 1994, tra le 800mila ed il milione di persone persero la vita a causa di un genocidio che coinvolse le popolazioni interne dello Stato del Ruanda. In particolare venne perseguitata l’etnia dei Tutsi, come risultato di un odio interetnico tra Tutsi e Hutu residuo dell’occupazione belga; la discriminazione si basava su ragioni somatiche. Durante l’occupazione belga (1919-1962) agli Hutu venivano riservate mansioni umili e poco retribuite rispetto al potere attribuito ai Tutsi, causando un risentimento che lacerò inevitabilmente i rapporti tra le popolazioni.

(Memoriale dedicato ad alcune delle vittime del genocidio – fonte: dw.com)

Con la decolonizzazione, gli Hutu – che rappresentavano circa l’80% della popolazione ruandese – strapparono il potere ai Tutsi e nel 1973 l’Hutu Juvénal Habyarimana depose l’allora Presidente del Ruanda dando vita ad una dittatura che proseguì fino al 1994, anno della sua morte e pretesto per lo scoppio del massacro ruandese.

Dal 7 aprile iniziarono ad essere massacrati a colpi di machete i Tutsi e gli Hutu imparentati con questi, proseguendo per circa 100 giorni. Il ruolo della Francia fu importante: Mitterrand, l’allora Presidente della Repubblica, diede il proprio sostegno agli Hutu ed all’eredità di Habyarimana, istigandoli alla rivolta ed offrendo al commando degli Interahamwe un addestramento da parte dei soldati francesi.

Il genocidio dei Tutsi ebbe termine nel luglio 1994 in seguito alla presa di controllo del Fronte Patriottico Ruandese – guidato dall’oggi Presidente Kagame – ed alla sua vittoria sulle forze degli Hutu.

 

Valeria Bonaccorso

La Resistenza di Primo Levi

“A noi non più vivi, noi già per metà dementi
Nella squallida attesa del niente.”

Chi era Primo Levi?

Sono passati 33 anni dal 11 Aprile 1987, data nella quale la cultura italiana – e mondiale – perse Primo Levi, scrittore e poeta. La sua penna era rivolta soprattutto alla descrizione dell’ambiente che lo circondava.

Nato a Torino il 31 Luglio 1919, da una famiglia di origine ebraica, Levi fu appassionato al mondo non solo di scrittura ma anche di scienza: infatti, dopo essersi diplomato a Liceo Classico, si iscrive alla facoltà di Chimica nel 1937  a Torino e ottiene la laurea quattro anni più tardi, nonostante le difficoltà nel trovare un relatore a causa delle leggi razziali.

Nel 1942 si trasferisce a Milano per lavorare in una azienda farmaceutica; successivamente, insieme ad alcuni amici, si addentra nel mondo dell’antifascismo ed entra a far parte del Partito D’azione clandestino, partito fondato nel 1942 con l’obiettivo di cambiare la società italiana in modo radicale per spezzare definitamente il fascismo.

Fonte: Prospect

Un anno dopo, in seguito alla militanza fra i partigiani in Valle d’Aosta, Levi fu arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1944. Sarà liberato solo il 27 Gennaio 1945, quando l’Armata Rossa intervenne nel campo Auschwitz III dove era stato trasferito.

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.”

Se questo è un uomo

Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.


Primo Levi viene deportato in un campo di concentramento in cui vive l’orrore del genocidio: testimonierà la terribile esperienza nel suo libro più famoso Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, due anni dopo la fine della guerra e dell’incubo.

Inizialmente il libro fu rifiutato due volte dalla stessa casa editrice, l’Einaudi, e il manoscritto fu pubblicato dalla piccola casa editrice Francesco De Silva. Levi espone come gli ebrei – ma non solo- furono trattati all’interno dei lager. Quindi l’opera si configura non soltanto come una testimonianza diretta, ma anche come importante traccia storica: l’autore non racconta solo la sua vicenda  personale, ma si concentra su tutti i condannati costretti a vivere come animali da macello.

Il racconto si svolge in prima persona e parte dalla prigionia in Italia (Dicembre 1943) per poi descrivere la deportazione in Polonia nel 1944. La narrazione avviene in modo cronologico e si svolge in 17 capitoli; la scrittura è scorrevole e limpida, per far sì che tutti possano comprendere le sue parole, ma soprattutto per far capire la verità al mondo intero. Lui stesso dichiara “il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”.

Fonte. Alamy.it

Quindi il libro è un tomo anche di stampo moralistico oltre che storico e biografico. Ci spiega come l’essere umano può perdere la dignità solo per la volontà di un gruppo di altri esseri umani – nazisti e fascisti – di affermare la superiorità della razza pura, trasformando i “non puri” in corpi inermi. Il libro può essere comparato all’Inferno dantesco, giacché descrive come è stato possibile creare l’inferno nel mondo in cui viviamo. Se facciamo caso, sono molte le similitudini: una in particolare riguarda i soldati nazisti, i quali possono essere comparati a Caronte. Quest’ultimo accompagnava le anime all’inferno: la stessa cosa vale per gli ebrei che entravano all’interno dei campi accompagnati dai propri carnefici. Purtroppo, solo alcuni sono riusciti ad uscirne; ma, come Primo Levi, hanno potuto portare le loro testimonianze affinché un tale orrore non fosse mai dimenticato.


Pensiero

Levi con il suo lavoro ci fa comprendere i meccanismi più bui dell’essere umano, ma ci fa vedere anche la parte più limpida dell’individuo e come quest’ultima possa essere sporcata per l’affermazione di un pensiero. Ci fa comprendere come il terrore non paralizzi l’individuo, ma lo spinga ad agire per migliorare la società che lo circonda e per far conoscere la verità. Il pensiero di Levi ci impone di ricordare l’amore e la solidarietà per un mondo fatto di libertà e non dì schiavitù; il suo pensiero si può riassumere con una sola parola: resistenza.

“Tra l’uomo che si fa comprendere e colui che non si fa comprendere c’è un abisso di differenza. Il primo si salva la vita.”

Alessia Orsa