Macron ammette la responsabilità della Francia nel genocidio in Ruanda

Ieri il Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron, durante una visita nella capitale del Ruanda Kigali, ha ammesso la responsabilità della Francia nel genocidio del popolo dei tutsi avvenuto tra il 7 aprile e giugno del 1994. A distanza di 27 anni ed in onore dell’anniversario, il presidente francese ha visitato il Paese centrafricano dopo più di dieci anni dall’ultima visita ufficiale, ai tempi di Sarkozy. Lo sfondo è quello del Kwibuka27, ossia la giornata che (in lingua kinyarwanda) significa “commemorazione“, “resilienza“, “coraggio“.

Parla di responsabilità, il presidente, ma non di un diretto coinvolgimento. Poi specifica che tale responsabilità consiste nell’aver, per troppo tempo, «preferito il silenzio anziché il vaglio della verità». La colpa della Francia sarebbe, dunque, di aver fiancheggiato un regime genocidario pur non essendovi complice. D’altro canto, il Ruanda ha per molto tempo accusato la Francia di aver attivamente partecipato al genocidio e non è tuttavia un segreto che abbia, ai tempi, fornito armi e milizie che si sarebbero successivamente rese partecipi del genocidio.

Le scuse del Presidente, pur andando contro le aspettative di una “piena ammissione di colpa”, hanno tuttavia acceso le speranze di un dialogo tra i due paesi che non si aveva ormai da decenni. Il Presidente del Ruanda Paul Kagame – che, col suo Fronte Patriottico Ruandese, pose fine al genocidio – ha tuttavia ritenuto le parole del presidente Macron «più importanti delle scuse. Sono state la verità».

(fonte: dw.com)

L’importanza di un presidente giovane e la scelta delle parole

Perché è importante che sia stato proprio Macron a compiere l’ammissione di colpa della Francia? E perché si è parlato di “responsabilità” anziché di “diretto coinvolgimento” della Francia?

Nell’analizzare l’accaduto, la professoressa dell’Università di Firenze Mariastella Rognoni, ospite al programma RaiNews24, ha sottolineato la scissione temporale dell’establishment francese di oggi rispetto a quello di ieri.

Macron, spiega, ai tempi aveva solo 17 anni. Non poteva essere in alcun modo coinvolto nei fatti condotti dall’Eliseo. In più, il suo partito non esisteva ancora. Vi è una cesura nei fatti.

Il non aver parlato di un diretto coinvolgimento da parte della Francia significa, di fatto, l’escludere che chi ha agito abbia agito a nome del Paese. Ciò ha un importante rilievo dal punto di vista del diritto internazionale, in cui vige una regola precisa: uno Stato può essere ritenuto responsabile dei fatti commessi dai suoi cittadini se tali fatti si sono verificati sotto un diretto controllo del paese stesso. Controllo che, tuttavia, può manifestarsi nei modi più vari.

I fatti del 1994

Nel 1994, tra le 800mila ed il milione di persone persero la vita a causa di un genocidio che coinvolse le popolazioni interne dello Stato del Ruanda. In particolare venne perseguitata l’etnia dei Tutsi, come risultato di un odio interetnico tra Tutsi e Hutu residuo dell’occupazione belga; la discriminazione si basava su ragioni somatiche. Durante l’occupazione belga (1919-1962) agli Hutu venivano riservate mansioni umili e poco retribuite rispetto al potere attribuito ai Tutsi, causando un risentimento che lacerò inevitabilmente i rapporti tra le popolazioni.

(Memoriale dedicato ad alcune delle vittime del genocidio – fonte: dw.com)

Con la decolonizzazione, gli Hutu – che rappresentavano circa l’80% della popolazione ruandese – strapparono il potere ai Tutsi e nel 1973 l’Hutu Juvénal Habyarimana depose l’allora Presidente del Ruanda dando vita ad una dittatura che proseguì fino al 1994, anno della sua morte e pretesto per lo scoppio del massacro ruandese.

Dal 7 aprile iniziarono ad essere massacrati a colpi di machete i Tutsi e gli Hutu imparentati con questi, proseguendo per circa 100 giorni. Il ruolo della Francia fu importante: Mitterrand, l’allora Presidente della Repubblica, diede il proprio sostegno agli Hutu ed all’eredità di Habyarimana, istigandoli alla rivolta ed offrendo al commando degli Interahamwe un addestramento da parte dei soldati francesi.

Il genocidio dei Tutsi ebbe termine nel luglio 1994 in seguito alla presa di controllo del Fronte Patriottico Ruandese – guidato dall’oggi Presidente Kagame – ed alla sua vittoria sulle forze degli Hutu.

 

Valeria Bonaccorso

La Resistenza di Primo Levi

“A noi non più vivi, noi già per metà dementi
Nella squallida attesa del niente.”

Chi era Primo Levi?

Sono passati 33 anni dal 11 Aprile 1987, data nella quale la cultura italiana – e mondiale – perse Primo Levi, scrittore e poeta. La sua penna era rivolta soprattutto alla descrizione dell’ambiente che lo circondava.

Nato a Torino il 31 Luglio 1919, da una famiglia di origine ebraica, Levi fu appassionato al mondo non solo di scrittura ma anche di scienza: infatti, dopo essersi diplomato a Liceo Classico, si iscrive alla facoltà di Chimica nel 1937  a Torino e ottiene la laurea quattro anni più tardi, nonostante le difficoltà nel trovare un relatore a causa delle leggi razziali.

Nel 1942 si trasferisce a Milano per lavorare in una azienda farmaceutica; successivamente, insieme ad alcuni amici, si addentra nel mondo dell’antifascismo ed entra a far parte del Partito D’azione clandestino, partito fondato nel 1942 con l’obiettivo di cambiare la società italiana in modo radicale per spezzare definitamente il fascismo.

Fonte: Prospect

Un anno dopo, in seguito alla militanza fra i partigiani in Valle d’Aosta, Levi fu arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1944. Sarà liberato solo il 27 Gennaio 1945, quando l’Armata Rossa intervenne nel campo Auschwitz III dove era stato trasferito.

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.”

Se questo è un uomo

Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.


Primo Levi viene deportato in un campo di concentramento in cui vive l’orrore del genocidio: testimonierà la terribile esperienza nel suo libro più famoso Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, due anni dopo la fine della guerra e dell’incubo.

Inizialmente il libro fu rifiutato due volte dalla stessa casa editrice, l’Einaudi, e il manoscritto fu pubblicato dalla piccola casa editrice Francesco De Silva. Levi espone come gli ebrei – ma non solo- furono trattati all’interno dei lager. Quindi l’opera si configura non soltanto come una testimonianza diretta, ma anche come importante traccia storica: l’autore non racconta solo la sua vicenda  personale, ma si concentra su tutti i condannati costretti a vivere come animali da macello.

Il racconto si svolge in prima persona e parte dalla prigionia in Italia (Dicembre 1943) per poi descrivere la deportazione in Polonia nel 1944. La narrazione avviene in modo cronologico e si svolge in 17 capitoli; la scrittura è scorrevole e limpida, per far sì che tutti possano comprendere le sue parole, ma soprattutto per far capire la verità al mondo intero. Lui stesso dichiara “il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”.

Fonte. Alamy.it

Quindi il libro è un tomo anche di stampo moralistico oltre che storico e biografico. Ci spiega come l’essere umano può perdere la dignità solo per la volontà di un gruppo di altri esseri umani – nazisti e fascisti – di affermare la superiorità della razza pura, trasformando i “non puri” in corpi inermi. Il libro può essere comparato all’Inferno dantesco, giacché descrive come è stato possibile creare l’inferno nel mondo in cui viviamo. Se facciamo caso, sono molte le similitudini: una in particolare riguarda i soldati nazisti, i quali possono essere comparati a Caronte. Quest’ultimo accompagnava le anime all’inferno: la stessa cosa vale per gli ebrei che entravano all’interno dei campi accompagnati dai propri carnefici. Purtroppo, solo alcuni sono riusciti ad uscirne; ma, come Primo Levi, hanno potuto portare le loro testimonianze affinché un tale orrore non fosse mai dimenticato.


Pensiero

Levi con il suo lavoro ci fa comprendere i meccanismi più bui dell’essere umano, ma ci fa vedere anche la parte più limpida dell’individuo e come quest’ultima possa essere sporcata per l’affermazione di un pensiero. Ci fa comprendere come il terrore non paralizzi l’individuo, ma lo spinga ad agire per migliorare la società che lo circonda e per far conoscere la verità. Il pensiero di Levi ci impone di ricordare l’amore e la solidarietà per un mondo fatto di libertà e non dì schiavitù; il suo pensiero si può riassumere con una sola parola: resistenza.

“Tra l’uomo che si fa comprendere e colui che non si fa comprendere c’è un abisso di differenza. Il primo si salva la vita.”

Alessia Orsa