Dagli studenti per gli studenti: Brains wide open, QI ed età del potenziamento

In un mondo in continuo sviluppo, l’intelligenza (dal verbo latino intelligere che significa comprendere, percepire) è il miglior strumento che l’uomo ha in suo possesso.
Sulla base di cosa si può definire un soggetto intelligente? E soprattutto, come allenarsi per esserlo di più?

Indice dei contenuti

Lo sviluppo del primo test di intelligenza

Qui noi separiamo intelligenza e istruzione trascurando quest’ultima nei limiti del possibile.
Non sottoponiamo il soggetto ad alcun test in cui possa avere successo per mezzo dell’apprendimento mnemonico, di fatto non rileviamo neanche la sua incapacità di leggere, se si presenta il caso; è solo il suo livello di intelligenza naturale che viene preso in considerazione”

Binet

L’affermazione sopracitata introduce in maniera esplicita l’obiettivo che ha mosso lo psicologo francese Binet a prendere le distanze da una commissione di esperti, incaricata dal governo francese di sottoporre a visita psichiatrica tutti i bambini, così da confinare i ”ritardati” in istituti per malati mentali.
Binet, infatti, riteneva la formazione di classi di recupero molto più efficace.
Il problema era: come misurare l’intelligenza ai fini dell’individuazione dei bambini non in grado di esercitare facoltà comuni a tutti gli altri?

Il test

Binet ha inserito in un test i compiti che i bambini brillanti erano in grado di svolgere e lo ha somministrato a diverse classi con l’obiettivo di rendere il test accessibile anche ad altri psicologi, così che potesse essere utilizzato al fine di calcolare il fattore g con una semplice formula:

età mentale ÷ età cronologica x 100

Con età mentale si specifica il grado di sviluppo dell’intelligenza.
Risulta però fondamentale considerare che dopo il primo decennio di vita, l’intelligenza si sviluppa molto più lentamente fino a stabilizzarsi. Dunque, per risalire al dato ricercato, è opportuno calcolare il quoziente di deviazione, mediante la seguente formula:

punteggio individuale ÷ punteggio medio 

Il punteggio medio è ottenuto dalle persone della stessa età del soggetto di cui vogliamo trovare il fattore g.

Falsi miti sui “geni tormentati”

Come osservabile nel grafico, il 68% della popolazione possiede un QI compreso tra i valori di 85 e 115.
Cosa accade se viene calcolato un punteggio al di sotto o al di sopra di oltre 15 punti del valore medio?
Si presentano soggetti ipodotati ( definiti disabili intellettivi) o iperdotati.
I soggetti iperdotati sono stati spesso oggetto di numerose rappresentazioni cinematografiche (basti pensare a “Beautiful mind”, un classico nella storia del cinema) che li hanno descritti come persone brillanti, creative, spesso incomprese, dunque affette da una certa forma di psicopatologia. Anche sui bambini gifted (bambini con specifiche abilità, superiori alla media, in determinati campi) ricorre lo stereotipo di “bambino genio” a cui la natura ha assegnato un dono.
Molti psicologi hanno contrariamente dimostrato che in realtà i soggetti con iperdotazione cognitiva tendono ad adattarsi e ad essere meno predisposti a malattie fisiche e mentali mentre, coloro che hanno un QI di 15 punti in meno rispetto alla media, a 20 anni hanno un rischio del 50% in più di essere affetti da schizofrenia, disturbi della personalità etc.

La misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario. Ognuno di noi è un genio, ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.

Einstein

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Intelligenza tra natura e cultura

L’idea che l’intelligenza sia in un certo senso legata alla biologia risale a Platone che, pur avendo una formazione prettamente filosofica, basata sullo studio dell’anima più che della mente, sosteneva che gli individui possiedono strutture necessarie al mondo sensibile basate su forme apprese prima della nascita in un iperuranio.
Con l’avvento della psicologia ed il suo continuo progresso, le ricerche neuropsicologiche registrano un aumento del numero di geni coinvolti nello sviluppo dell’intelligenza. Infatti, sono 40 i nuovi geni identificati da un gruppo di ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam e del King’s College di Londra. Tuttavia, questi geni sono coinvolti in numerosi altri processi, dunque risulta inappropriato parlare di geni dell’intelligenza, capacità che si dimostra sempre più essere il prodotto di una complessa serie di interazioni.

Condivisione genetica

Ma le persone con geni in comune, hanno QI simili?
Sebbene i membri di una stessa famiglia condividano tra di loro i geni, come due fratelli o due gemelli dizigoti che condividono il 50% dei geni e gemelli monozigoti che ne condividono il 100%, è però anche vero che vivono l’ambiente e le esperienze (molto più influenti dei geni sullo sviluppo dell’intelligenza) in modo diverso, capaci di plasmare l’individuo e renderlo più o meno stimolato verso lo sviluppo e l’allenamento di determinate facoltà cognitive. 

L’intelligenza non è immutabile nel tempo

Contro coloro che, erroneamente, ritengono che la nostra intelligenza sia influenzata esclusivamente dai geni e dunque   la ritengono immutabile, si pone la registrazione di un dato non poco importante definito effetto Flynn, che registra l’aumento del punteggio medio del QI di circa 30 punti in più rispetto ad un secolo fa (provato da uno stesso test usato sulla popolazione, ma in tempi differenti).
Questo dipende probabilmente dall’inizio di un periodo storico, che ha avuto inizio con la rivoluzione industriale, in cui la vita sottopone l’uomo a problemi sempre più simili a quelli che compongono i test d’intelligenza.
Non soltanto quella collettiva, ma anche l’intelligenza individuale ha un proprio sviluppo: è tra l’adolescenza e la mezza età che questa raggiunge il suo massimo potenziamento per poi declinare nella vecchiaia, probabilmente per il rallentamento dei processi neurali nell’elaborazione delle informazioni.

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Verso la creazione di superuomini

L’intelligenza può sicuramente essere accresciuta per mezzo del denaro (infatti appartenere ad uno status socioeconomico basso concorre, ad esempio, ad essere esposti a tossine ambientali che possono danneggiare lo sviluppo cerebrale, non poter accedere a diete e cure mediche ottimali) e dell’istruzione. E’ stato osservato, difatti, che quando l’inizio degli studi di un bambino viene ritardato da guerre, epidemie o mancanza di insegnati qualificati è notevole il declino del QI.
Negli ultimi anni, inoltre, sono stati condotti degli esperimenti per la produzione di farmaci che potrebbero migliorare i processi psicologici sottostanti alle prestazioni intellettive, ma che possono avere effetti collaterali e portare all’abuso.
Gli scienziati, attraverso la manipolazione dei geni che rendono possibile lo sviluppo dell’ippocampo (area in cui ha sede la trasformazione della memoria a breve termine in memoria a lungo termine), hanno ”creato” dei topi transgenici più ”intelligenti”. Da ciò hanno dedotto che nei mammiferi è possibile il potenziamento genetico dell’intelligenza e della memoria.
Quanto però sarebbero sicure per l’essere umano queste tecniche? Quanto costerebbero? Chi potrebbe averne accesso? Ma soprattutto, i miglioramenti apportati verrebbero utilizzati per il bene comune o si formerebbe una casta di superuomini con il mondo nelle mani?
Sono queste le domande che dobbiamo porci e a cui dobbiamo trovare una risposta, andando incontro alla cosiddetta Età del Potenziamento.

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Laura Sciuto

Bibliografia

https://www.stateofmind.it/2016/03/quoziente-intellettivo
https://festivalpsicologia.it/argomenti/bambini-iperdotazione-cognitiva
https://www.psichepedia.it/index.php/la-percezione/404-percezione-teoria-innatista-ed-empirista
https://www.stateofmind.it/2015/04/effetto-flynn-intelligenza/#:~:text=Flynn%20ha%20rilevato%20che%20nel%20corso%20del%20secolo%20scorso%2C%20il,stato%20denominato%20appunto%20Effetto%20Flynn.
Fonte principale: Manuale di Psicologia Generale di D.Schacter, D.Gilbert, M.Nock, D.Wegner.

Prima sequenza completa del genoma umano: 21 anni di ricerca

Dopo due decenni, i ricercatori hanno generato la prima sequenza completa e senza interruzioni di un genoma umano.

    Indice articolo:

Cos’è un genoma?

Un genoma è l’insieme completo di istruzioni genetiche di un organismo. Ogni genoma contiene tutte le informazioni necessarie per costruire quell’organismo e consentirgli di crescere e svilupparsi.
Il nostro corpo è composto da milioni di cellule (100.000.000.000.000), ognuna con il proprio set completo di istruzioni per comporci, come un ricettario per il corpo. Questo insieme di istruzioni è il nostro genoma, ed è costituito da DNA.  All’interno di esso c’è un codice chimico unico che guida la nostra crescita, sviluppo e salute. Questo è determinato dall’ordine delle quattro basi nucleotidiche che compongono il DNA, ovvero adenina, citosina, guanina e timina, indicati con le lettere A, C, G e T. Il DNA ha una struttura contorta a forma di doppia elica. I singoli filamenti di DNA sono avvolti in strutture chiamate cromosomi.

Rappresentazione grafica del DNA e del genoma https://upload.wikimedia.org

I nostri cromosomi si trovano nel nucleo all’interno di ogni cellula, dove le sezioni del DNA vengono “lette” insieme per formare i geni. I geni controllano diverse caratteristiche, come il colore degli occhi e l’altezza. Tutti gli esseri viventi hanno un genoma unico, quello umano è composto da 3,2 miliardi di basi, ma altri organismi hanno dimensioni del genoma diverse.
Se stampati, i 3,2 miliardi di lettere nel tuo genoma riempirebbero una pila di libri tascabili alta 61 m oppure 200 elenchi telefonici di 500 pagine.

Human Genome Project

Nel 2020 un team di scienziati statunitensi e britannici aveva prodotto la sequenza di DNA senza interruzioni, dall’inizio alla fine, di un cromosoma X umano, cosa già trattata in uno scorso articolo.
Questa volta gli scienziati hanno generato il primo genoma umano completo e senza gap, due decenni dopo che lo Human Genome Project ha inizialmente prodotto una bozza. La ricerca è stata completata dal consorzio Telomere to Telomere (T2T), che includeva la leadership dei ricercatori del National Human Genome Research Institute (NHGRI) degli Stati Uniti, parte del National Institutes of Health degli Stati Uniti; Università della California, Santa Cruz e l’Università di Washington, Seattle. Sei articoli che comprendono la sequenza completata appaiono in Science, insieme ad altri complementari in diverse riviste.
Avere una sequenza completa e priva di lacune di circa tre miliardi di basi del DNA umano, è fondamentale per l’intero spettro della variazione genomica umana e per comprendere i contributi genetici per determinate malattie. Le analisi della sequenza completa del genoma aumenteranno significativamente la conoscenza dei cromosomi, comprese mappe più accurate per cinque bracci cromosomici, il che apre nuove linee di ricerca. Questo aiuta a rispondere alle domande di biologia di base su come i cromosomi si segregano e si dividono correttamente. Il consorzio T2T ha utilizzato la sequenza del genoma ora completa come riferimento per scoprire oltre due milioni di varianti aggiuntive nel genoma umano. Questi studi forniscono informazioni più accurate sulle varianti genomiche all’interno di 622 geni clinicamente rilevanti.

La generazione di una sequenza del genoma umano veramente completa rappresenta un incredibile risultato scientifico, fornendo la prima visione completa del nostro progetto di DNA“, ha affermato il dottor Eric Green, direttore di NHGRI.

 

https://www.ck12.org

Le ultime tecnologie di sequenziamento

Secondo i ricercatori, nell’ultimo decennio sono emerse due nuove tecnologie di sequenziamento del DNA che hanno prodotto letture di sequenze molto più lunghe. Il metodo di sequenziamento del DNA di Oxford Nanopore può leggere fino a un milione di ‘’lettere’’ di DNA con una precisione modesta, mentre il metodo di sequenziamento del DNA di PacBio HiFi può leggere circa 20.000 lettere con una precisione quasi perfetta. I ricercatori del consorzio T2T hanno utilizzato entrambi i metodi di sequenziamento del DNA per generare la sequenza completa del genoma umano.
Il sequenziamento completo si basa sul lavoro dello Human Genome Project, che ha mappato circa il 92% del genoma e della ricerca intrapresa da allora. Migliaia di ricercatori hanno sviluppato strumenti di laboratorio, metodi computazionali e approcci strategici migliori per decifrare la sequenza complessa.
Quest’ultimo 8% include numerosi geni e DNA ripetitivo ed è paragonabile per dimensioni a un intero cromosoma. I ricercatori hanno generato la sequenza completa del genoma utilizzando una linea cellulare speciale che ha due copie identiche di ciascun cromosoma, a differenza della maggior parte delle cellule umane, che trasportano due copie leggermente diverse. Hanno inoltre osservato che la maggior parte delle sequenze di DNA appena aggiunte erano vicine ai telomeri ed ai centromeri ripetitivi.

Conclusioni

Il costo del sequenziamento di un genoma umano, utilizzando tecnologie di “lettura breve” che forniscono diverse centinaia di basi di sequenze di DNA alla volta, è solo di poche centinaia di dollari, essendo diminuito in modo significativo dalla fine del Progetto Genoma Umano. Tuttavia, l’utilizzo di questi metodi di lettura, lasciano ancora alcune lacune nelle sequenze genomiche assemblate. L’enorme calo dei costi di sequenziamento del DNA si unisce a maggiori investimenti in nuove tecnologie di sequenziamento del DNA per generare letture di sequenze di DNA più lunghe senza compromettere l’accuratezza.

Queste informazioni fondamentali rafforzeranno i numerosi sforzi in corso per comprendere tutte le sfumature funzionali del genoma umano, che a loro volta rafforzeranno gli studi genetici sulle malattie umane“, ha concluso Green.

 

Gabriele Galletta

 

Fonti: https://www.science.org/doi/10.1126/science.abj6987

Sopravvivere al freddo dell’Artico: una questione genetica

Gli uomini hanno colonizzato il pianeta in maniera efficiente, tanto da occupare gli ambienti più rigidi dal punto di vista climatico. Il National Snow and Ice Data Center dell’Università di Boulder in Colorado (Usa) afferma che circa 4 milioni di persone vivono al di sopra del Circolo Polare Artico. Il 10% di loro fa parte di una popolazione indigena.
Come fanno, dunque, gli individui che abitano al Polo Nord a sopravvivere alle bassissime temperature di questi territori? Quando necessario, l’uomo, per tentare di mitigare gli effetti avversi sulla sua salute, riesce ad adeguarsi fisiologicamente alle esposizioni croniche al freddo. Una parte di questo adattamento include cambiamenti genetici, ma anche risposte morfologiche e fisiologiche.

  1. Origini: l’Homo di Denisova e l’Homo di Neanderthal
  2. L’enigma dei Fuegini ed il grasso bruno
  3. Quali sono i geni associati al freddo?
  4. Adattamenti metabolici
  5. Come si è modificato il corpo?
  6. Effetti sulla salute
  7. Conseguenze del riscaldamento globale

Origini: l’Homo di Denisova e l’Homo di Neanderthal

 

https://ilbolive.unipd.it

Gli incroci dell’Homo Sapiens con l’Homo di Denisova in Siberia e di Neanderthal in Europa, avvenuti decine di migliaia di anni fa, sono correlati alla comparsa di alcune modificazioni genetiche.
Il genoma dell’Homo di Denisova, specie umana scoperta nel 2008, secondo uno studio condotto dall’Università di Copenhagen, presenta delle somiglianze con quello delle popolazioni siberiane, in particolare degli Inuit. Essi, infatti, possiedono due geni, TBX15 e WARS2, che consentono al corpo di generare calore bruciando grasso bruno.
L’Homo di Neanderthal, invece, oltre a disporre di un corpo tozzo e arti corti e muscolosi, possedeva un naso del 29% più largo rispetto all’Homo Sapiens, che gli permetteva non solo di scambiare volumi d’aria maggiori, ma anche di riscaldare ed umidificare meglio l’aria che respirava, assicurandogli la sopravvivenza in zone fredde e secche.

L’enigma dei Fuegini ed il grasso bruno

Recentemente, Lucio Gnessi e Giorgio Manzi dell’Università La Sapienza di Roma, hanno studiato i reperti ossei dei Fuegini, popolazione della Terra del Fuoco estinta circa un secolo fa, identificando due varianti genetiche mai descritte.
La ricerca dimostra come i Fuegini, grazie ai loro geni, fossero capaci di accumulare più grasso bruno rispetto al normale durante tutta la loro vita. Il grasso bruno viene bruciato al fine di produrre calore in risposta ad un calo della temperatura. Coloro che vivono in zone temperate, al contrario dei Fuegini, ne possiedono molto poco e non sempre in forma attiva, cioè in grado di produrre calore. Solo nei neonati è sempre presente in grande quantità. Il neonato, al momento della nascita, affronta uno shock termico del tutto improvviso, in quanto la temperatura ambientale è notevolmente più bassa rispetto a quella intrauterina. Il corpo del neonato reagisce allo stimolo freddo mettendo subito in atto dei meccanismi di produzione di calore, in cui interviene in primo luogo proprio il grasso bruno.

Quali sono i geni associati al freddo?

Quarant’anni fa, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, osservò che il 60% dei geni “antifreddo” posseduti dalle popolazioni indigene di tutto il mondo erano legati all’ambiente in cui vivevano.
Quelli connessi alle basse temperature sono circa 20.
Uno dei più importanti, ad esempio, è il TRPM8, il quale codifica un “sensore della temperatura” che permette di far percepire il freddo. Nelle popolazioni che vivono nell’estremo Nord, è molto frequente la presenza di una determinata variante di TPRM8 che rende meno sensibili al freddo: la possiede l’88% della popolazione in Finlandia; soltanto l’1% in Nigeria.

Un’altra modificazione significativa riguarda una particolare mutazione del gene ACTN3, il cui compito è quello di promuovere un aumento del tono muscolare. Sebbene sia posseduta da circa un miliardo e mezzo di individui, è più diffusa tra coloro che risiedono in aree fredde. I ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma hanno, infatti, scoperto che chi è in possesso di questa mutazione presenta una temperatura interna più alta rispetto alla normalità anche in condizioni critiche.

https://link.springer.com

Adattamenti metabolici

In media, il metabolismo basale delle popolazioni dell’Artico è del 19% più alto rispetto a quello di chi abita in zone temperate, ma può superare addirittura il 50%.
Proprio per questo, sono stati individuati geni associati al consumo di energia e al metabolismo.
Alcuni ricercatori dell’Università di Cambridge (Uk), che hanno condotto uno studio su popolazioni siberiane, hanno dichiarato:

«Ci sono segni inequivocabili di una selezione che ha favorito un più elevato metabolismo basale in grado di aumentare la capacità di riscaldarsi, e bassi livelli di grassi nel sangue, per la presenza del metabolismo energetico accelerato».

Inoltre, Matteo Fumagalli dell’University College di Londra, ha notato come gli Inuit, pur mangiando enormi quantità di grassi, non presentano un rischio insolito di sviluppare colesterolo alto o malattie cardiovascolari. Ciò è dovuto ad un’altra mutazione genetica.

«Pensavamo che la protezione cardiovascolare fosse dovuta alla preponderanza di grassi omega-3 nella dieta. Nel 100% degli Inuit, invece, è presente una mutazione genetica che ne modifica il metabolismo lipidico rendendo possibile consumare quantità spropositate di grassi, che, pur essendo buoni come quelli del pesce, non darebbero risultati altrettanto positivi se consumati dagli europei, dato che solo il 2% di loro possiede questo tipo di adattamento metabolico. Tutto ciò ha, però, portato con sé anche un cambiamento morfologico evidente, riducendo l’altezza di un paio di centimetri», afferma Matteo Fumagalli.

http://www.anagen.net

Come si è modificato il corpo?

La bassa statura è una peculiarità tipica di tutti i popoli dell’Artico. Possedere un corpo massiccio, infatti, garantisce che il calore venga preservato più efficacemente. Essi presentano, inoltre, un naso alto e stretto ed occhi sottili e allungati, che servono a preservare meglio le mucose, ed un pannicolo adiposo più spesso, che rappresenta uno strato di tessuto connettivo adiposo localizzato al di sotto della cute, che fa sì che i tratti del viso risultino più arrotondati.
In alcuni casi, solo alcune parti del corpo possono adattarsi alle basse temperature.

«Gli indiani dello Yukon sono esposti al freddo in modo discontinuo. Durante la caccia, solamente le estremità si rivelano utili a contrastare il freddo, permettendo così il mantenimento di una temperatura corporea più elevata», chiarisce Tiina Maria Makinen dell’Università di Oulu in Finlandia.

Effetti sulla salute

Se da un lato questi adattamenti conferiscono notevoli benefici alle popolazioni dell’Artico, dall’altro presentano un rischio più elevato di sviluppare determinate malattie. In particolare, la variante del gene TRPM8 predispone maggiormente allo sviluppo di emicrania e, secondo alcuni, persino di aneurismi cerebrali. Dall’analisi del genetista Konstantinos Voskarides dell’Università di Cipro, inoltre, emerge che tutte queste variazioni sono correlate all’insorgenza di tumori.

«L’incidenza di certi tipi di tumori, specialmente al polmone, al seno e al colon retto, è decisamente maggiore tra le popolazioni dell’Artico. L’esistenza di metodi che consentono all’organismo di sopportare le basse temperature ha, verosimilmente, aumentato il rischio di insorgenza di tumori. Essi non hanno comunque influito sui processi di selezione naturale, in quanto, solitamente, questi individui si ammalano da adulti, dopo aver avuto figli», spiega Voskarides.

Conseguenze del riscaldamento globale

In conclusione, se si considera che queste popolazioni si sono evolute per secoli in modo da sopravvivere in ambienti così rigidi, difficilmente riusciranno ad adeguarsi tanto velocemente ad un cambiamento climatico drastico come quello degli ultimi anni. L’Arctic Council afferma, infatti, che i Poli si stanno riscaldando molto più rapidamente rispetto al resto del mondo. Ciò farà sì che tutti i popoli stanziati in queste zone perderanno il proprio habitat, dovranno modificare la loro alimentazione e, in casi estremi, saranno costretti a migrare.

https://phys.org

Erica D’Arrigo

Per approfondire:

https://www.focus.it/scienza/scienze/perche-inuit-sopportano-freddo

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20515840/

https://www.uniroma1.it/it/notizia/due-mutazioni-genetiche-alla-base-della-straordinaria-resistenza-al-freddo-dei-fuegini-gli

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4861193/

Il “peso” del DNA nell’obesità

L’obesità è uno dei problemi più rilevanti del mondo occidentale, attribuibile allo stile di vita e non solo.

Basti pensare che in Italia, nel 2015, il 35% della popolazione è in sovrappeso, mentre il 9,8% è obesa. Si tratta di un fenomeno in continua crescita, che non risparmia nessuna fascia di età. I motivi sono vari, ma una scorretta dieta e una vita sedentaria sono i più importanti.

Sono soltanto fattori modificabili a favorire lo sviluppo di sovrappeso e obesità? In realtà altri protagonisti concorrono allo sviluppo di queste condizioni, anche se in passato veniva dato loro un ruolo marginale.

Si è visto, infatti, che molti geni regolano il metabolismo del tessuto adiposo e un corretto controllo del peso corporeo, tra cui FTO e IRX3.

Milioni di mutazioni possono influenzare in diversa misura l’obesità: può bastare soltanto un gene mutato ed è il caso di MC4R, ovvero il recettore della melanocortina. Un suo deficit potrebbe correlare con un’obesità monogenica, cioè dovuta alla mutazione di un solo gene.

Si tratta però di una patologia rara, e più comunemente l’obesità è causata dall’interazione di più geni e l’ambiente (fondamentalmente lo stile di vita).

Ma se i geni hanno un ruolo così importante, è possibile prevedere se un bambino diventerà obeso?

Uno studio pubblicato sulla rivista Cell, condotto dai ricercatori del Broad Institute del Massachusetts Institute of Technology e dell’ Università di Harvard, ha cercato di dimostrare proprio questo, studiando circa 2.1 milioni di variazioni poligeniche in più di 300.000 individui.

I dati sono stati ricavati dal più grande studio sull’obesità, pubblicato nel 2015 sulla rivista Nature. I soggetti sono stati stratificati in base al loro BMI (Body Mass Index) assegnando un punteggio definito GPS (Genome-wide Polygenic Score) che raggruppa tutti i possibili fattori di rischio ereditabili.

Lo score si basa sulla frequenza di determinate mutazioni genetiche: più sono presenti più il GPS aumenta, correlandosi ad un maggiore BMI.

Relazione tra GPS e BMI medio (A), peso espresso in kg (B), percentuale di obesità grave (C)

Si tratterebbe, quindi, di un vero e proprio test in grado di predire, già alla nascita, il rischio di diventare obesi.

Il Polygenic Score è direttamente collegato alla probabilità di sviluppare un’obesità grave (BMI>40).

Nonostante diversi valori nel GPS non correlino con significative differenze di peso nei primi mesi di vita, queste vengono a palesarsi durante l’infanzia. Infatti, ragazzi con un punteggio molto alto pesano mediamente 12 kg in più rispetto ad un soggetto con GPS basso.

Differenze nel peso in base all’età e rischio correlato.

È stato dimostrato anche che, soggetti con Polygenic Score elevato hanno una probabilità di diventare obesi molto simile a soggetti con mutazione del recettore della Melanocortina.

Se si parla di obesità, però, dobbiamo parlare anche di tutto ciò che circonda questa patologia. Infatti, sovrappeso e soprattutto obesità sono un fattore di rischio per numerose affezioni, tra cui eventi cardiovascolari e ipertensione arteriosa, insulinoresistenza e diabete, alterazioni nel metabolismo dei lipidi… che se presenti contemporaneamente caratterizzano quella che viene definita come sindrome metabolica.

Dato che questo test può predire la possibilità di diventare obesi, indirettamente potrebbe predire anche il rischio cardiometabolico e la mortalità. Infatti, un alto GPS è associato ad un rischio elevsdi sviluppare diabete mellito, patologie coronariche e scompenso cardiaco. La mortalità aumenta del 19%.

La grande novità dello studio sta nella possibilità di individuare precocemente soggetti con numerosi fattori di rischio ed optare per scelte terapeutiche mirate.

Nonostante si tratti di un test molto affidabile, è possibile che alcuni soggetti con uno score elevato abbiano un BMI ottimale. Come si spiega?

Ciò è causato da una proprietà dei geni in questione, ovvero la penetranza incompleta. Nonostante la presenza di più mutazioni, queste rimangono silenti e il soggetto, quindi, non manifesterà alcuna patologia.

Abbiamo ammesso, dunque, l’importanza che hanno dei fattori intrinseci come i geni nello sviluppo di obesità e sovrappeso; ma questo non deve di certo escludere una vita sana e una prevenzione adeguata nei soggetti a rischio. Infatti, adottando una dieta corretta e svolgendo una regolare attività fisica, è possibile tenere il rischio cardiometabolico pari a quello di un soggetto con un GPS basso.

Carlo Giuffrida

 

 

Bibliografia:

Polygenic Prediction of Weight and Obesity Trajectories from Birth to Adulthood. Khera et al., 2019, Cell.

https://doi.org/10.1016/j.cell.2019.03.028

Genetic studies of body mass index yield new insights for obesity biology. Locke et al., 2015 , Nature.

https://www.nature.com/articles/nature14177

Il gene che controlla il destino delle cellule staminali neurali

Il cervello è uno degli organi più complessi ma al contempo più studiati. Sin dall’antichità si cerca di capire i suoi meccanismi e ancora oggi si conosce ben poco.

I primi riferimenti scritti sull’encefalo si hanno con il Papiro Chirurgico di Edwin Smith, anche se per gli egizi non aveva un vero e proprio interesse anatomico. Soltanto con Ippocrate e altri filosofi del mondo ellenico come Platone si andò verso un pensiero “encefalocentrico”, considerando il cervello il centro del pensiero.

Fogli VI e VII del Papiro Edwin Smith.

 

Secondo la classificazione di Giulio Bizzozero, il cervello rientra nei tessuti perenni, ovvero tessuti composti da cellule che, a compiuta maturazione, perdono la capacità di replicare.

Nonostante questa classificazione sia ancora accettata, è stata dimostrata la presenza di cellule staminali nel sistema nervoso degli adulti, le quali potrebbero sostituire neuroni danneggiati o cellule gliali.

Infatti, tutto il sistema nervoso è composto sia da cellule neuronali propriamente dette, deputate alla creazione e trasmissione di impulsi nervosi ma anche da cellule che compongono la neuroglia. Quest’ultima è un insieme di cellule con numerosi ruoli, tra cui il sostegno, la difesa, la riparazione tissutale ma anche una importante funzione metabolica.

Le principali cellule gliali sono rappresentate dagli astrociti, oligodendrociti e dalla microglia.

Sia i neuroni che la maggior parte delle cellule gliali derivano da precursori neuronali disposti a livello della corteccia cerebrale; ma qual è lo stimolo che indirizza la maturazione verso forme gliali o verso la neurogenesi?

Cellule gliali del sistema nervoso centrale.

 

 

Uno studio italiano, condotto dal Laboratorio di Sviluppo Corticale della SISSA, studiando celulle staminali nervose murine e umane, ha cercato di risolvere questo interrogativo.

Si è ipotizzato che l’iperespressione di uno specifico gene potesse causare un aumento della neurogenesi a discapito della astrogenesi. (Con il termine astrogenesi si intende la nascita di astrociti a partire da cellule staminali).

L’ipotesi si è rivelata corretta, scoprendo per la prima volta un vero e proprio direttore d’orchestra nel controllo delle cellule staminali durante lo sviluppo embrionale.

Si tratta del gene FOXG1 (Forkhead Box Protein G1), il quale trascrive per un fattore di trascrizione fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso centrale.

FOXG1 è un gene già noto, associato ad alcune patologie neurologiche congenite.

Tra le più importanti possiamo ricordare la sindrome di Rett e la sindrome di West.

La sindrome di Rett è un’affezione neurologica che si presenta sin dai primi mesi di vita. È caratterizzata dalla presenza di un grave ritardo mentale, associato alla presenza di movimenti stereotipati delle mani. I soggetti affetti possono presentare anche alterazioni e ritardo dello sviluppo.

Essendo una patologia genetica, sono state riscontrate mutazioni di alcuni geni, tra cui MECP2 ed anche di FOXG1.

La sindrome di West, patologia definita anche come spasmi infantili, è caratterizzata da spasmi assiali, ritardo psicomotorio e la presenza di alterazioni elettroencefalografiche. In questo caso le cause sono diverse, infatti la malattia può essere secondaria a malformazioni o ad eventi ischemici, ma può anche essere la manifestazione di mutazioni genetiche. Anche qui, tra i vari geni implicati, viene menzionato FOXG1.

Ma in condizioni normali come agisce FOXG1? Associando allo studio in vitro uno studio in vivo, il gruppo di ricerca ha dimostrato due meccanismi d’azione: esso può causare direttamente la repressione di alcuni geni che favoriscono la nascita di astrociti (Gfap, S100β , Aqp4), o indirettamente, attraverso un effetto pleiotropico sulle vie regolatrici della differenziazione delle cellule staminali corticali.

I pathways fondamentali in questo meccanismo sono quattro (IL6/Jak2/Stat1,3; Bmp/Smad1,5,8; Nrg1/ErbB4ICD-NcoR e Dll1/Notch1ICD), tutti coinvolti nel controllo dello sviluppo astrogliale.

 

Vie dirette ed indirette della modulazione dei geni astrogliali.

 

Successivamente, confrontando la corteccia cerebrale di embrioni di topo si è visto che vi è una riduzione delle cellule staminali neurali esprimenti FOXG1 con l’avanzare dello sviluppo embrionale. Questo dimostra che vi è una sorta di esaurimento funzionale di suddette cellule.

Lo studio è stato riprodotto anche su cellule staminali umane, dimostrando che meccanismi del tutto sovrapponibili sono presenti nella nostra specie.

Possiamo dunque dire che si è di fronte ad un’importante scoperta: FOXG1 avrebbe una funzione centrale nella regolazione astrogenica e neurogenica, quindi nello sviluppo del sistema nervoso centrale durante la vita embrionale.

Con la scoperta dei meccanismi che stanno alla base della regolazione delle cellule staminali esprimenti FOXG1 vengono aperti possibili nuovi scenari sulla diagnosi precoce e sul trattamento di patologie congenite quali sindrome di Rett e di West.

Carlo Giuffrida