“A’ pistola lasciala e guarda Il Padrino”: 5 motivi per recuperare un cult

Il 15 marzo 1972 fu proiettato per la prima volta quello che non è un semplice film, ma un vero e proprio capolavoro con la “C” maiuscola: Il Padrino (The Godfather), tratto dall’omonimo romanzo di Mario Puzo.

Proprio in occasione del suo “compleanno d’oro” – oro che ha, effettivamente, intascato con un botteghino da ben 1.144.234.000 di dollari! –, è tornato in sala in versione restaurata, dandoci l’opportunità  per scoprire e, chissà, innamorarci del gangster-movie per eccellenza, di un lungometraggio che ha fatto la storia del cinema e che tutti, dal più appassionato dei cinefili al più giovane dei profani, dovrebbero conoscere.

E se non foste ancora convinti del perché questa pellicola è ancora oggi così famosa, ecco a voi 5 motivi (in realtà, ce ne sarebbero molti di più!) per cui dovreste  mettervi comodi ad ammirare l’opera d’arte del regista Francis Ford Coppola 

1) Il tema della famiglia

Non esiste citazione più adatta per descrivere Il Padrino di questa: «Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo». E non è un caso che il film si apra proprio con uno degli eventi più importanti per una famiglia, che può finalmente riunirsi: il matrimonio della figlia di Don Vito Coreleone, Connie (Talia Shire).

La trilogia, infatti, narra dell’ascesa e della caduta di una “famigghia” di immigrati, prima che di un clan mafioso, nell’America del secondo dopoguerra che, spesso, contrasta la vita “alla siciliana”  o – peggio – gli interessi della Famiglia.

Il matrimonio di Connie Corleone. Fonte. Paramount Pictures

In particolare, racconta del passaggio del testimone da un padre a un figlio. Il primo, Vito Corleone ( Marlon Brando), è un uomo saggio che, agli spargimenti di sangue, preferisce l’uso della ragione e che, nel momento del declino, si avvicina al figlio. Il secondo, Mike Corleone ( Al Pacino), è un po’ la “pecora bianca” di una famiglia che, come lo stesso afferma, “non gli somiglia”. Ma si sa, nessuno può sfuggire al proprio destino (e ai propri doveri), neanche lui…

E in questa Famiglia, il ruolo della fimmina è sacro fino a Donna Carmela Corleone (Morgana King) perché, con il passare delle generazioni, si assiste a una loro progressiva marginalizzazione. Basti pensare a Kay Adams (Diane Keaton) che, da amata fidanzata cui raccontare tutti gli intrighi della Famiglia, diventa moglie scomoda cui sbattere la porta in faccia.

Diane Keaton e Al Pacino in una delle prime scene del film. Fonte: Paramount Pictures

Coppola è riuscito a presentarci, senza pregiudizi e buonismo, una famiglia che poteva sedersi tranquillamente a tavola e, tra una portata e l’altra – rigorosamente della tradizione sicula – organizzare lo sterminio di un clan nemico o il battesimo di un neonato.

2) Più di un assaggio di Sicilia (e del messinese)

La Sicilia e non New York o il Nevada, sfondo dei loschi affari dei Corleone nel secondo film, è il vero teatro dell’ascesa e dell’epilogo del clan. Evocata nell’accento dei personaggi, nelle tradizioni, nelle musiche, che portano la firma di un fuoriclasse quale Nino Rota (compositore del maestro Fellini) e persino in quelle arance presagio costante di malaugurio, l’isola spicca nella bellezza delle sue campagne arse e dei suoi paesini tipici in molte scene.

Oltre alla stazione in stile liberty di Giardini Naxos, che compare nel terzo capitolo e al Teatro Massimo di Palermo con le sue scale, scenario perfetto per l’ultimo tragico atto di questa saga familiare, innumerevoli sono le location sicule in cui Coppola scelse di girare sin dal primo film. E quasi tutte in provincia di Messina (Forza d’Agrò, Motta Camastra). Una su tutte Savoca, con la sua Chiesa di San Nicolò, dove Michael sposerà Apollonia e il celebre Bar Vitelli, in cui chiede la mano della ragazza al padre di lei, che altro non è in realtà che un antico palazzo baronale.

Il corteo nuziale di Michael e Apollonia ( Simonetta Stefanelli) per le strade di Forza d’Agrò. Fonte: Paramount Pictures

La fotografia di Gordon Willis a questo proposito è straordinaria: con i suoi chiaroscuri crea delle scene – dipinto in grado di trasmettere una sensazione di mistero, di “mala sorte” e di intrighi sottaciuti agli spettatori, che enfatizzano personaggi che, come ognuno di noi, nascondono un lato cattivo. Un cambio di lente si ha, invece, proprio nelle scene girate in Sicilia. Fotogrammi che richiamano quasi delle vecchie polaroid, o forse i ricordi catturati nei pomeriggi estivi che gli immigrati, costretti a scappare da questa terra tanto bella quanto maledetta, portavano nella loro memoria una volta giunti in terra straniera.

3) La finzione che incontra la realtà

Nonostante la sceneggiatura scritta a quattro mani, molte delle scene diventate cult del film sono state spontanee. Il gatto che Don Vito accarezza nella prima sequenza del film non era un membro scritturato del cast ma, dopo essersi imbattuto nelle coccole della troupe, rimase sul set costringendo il neo-padroncino Marlon a ridoppiare la scena per via delle fusa troppo rumorose.

Marlon Brando assieme alla sua costar felina. Fonte: Paramount Pictures

“Naturale” è anche il nervosismo di Luca Brasi (Lenny Montana) alla presenza del temuto Padrino alias la star Marlon Brando. Talaltro Marlon, per mettere a suo ago il collega o, più probabilmente, per fargli uno scherzo (si dice che fosse un gran burlone), entrò in scena con un biglietto sulla fronte con scritto: «Vai a fare in…».

Fortunata perché poi diventata di uso comune, sebbene non prevista, è la frase di Peter Clemenza (Richard S. Castellano):  «A pistola lasciala… Pigliami i cannoli», che avrebbe dovuto dire solo «lascia la pistola», dopo l’omicidio  del sospettato traditore Paulie Gatto (John Martino). E, infine, è vera la reazione del “cinematografaro” Jack Woltz (John Marley) alla vista di una testa di cavallo vera nel suo letto… effetto sicuramente bene riuscito ma, Francis, avremmo preferito di gran lunga un manichino!

4) Lo charme di Al Pacino

Ci perdoni Sylvia Plath per questo sacrilegio, ma rivisitando un suo verso possiamo ammettere (a malincuore!) : “ogni donna adora un gangster”. E questo gangster è proprio Michael Corleone, alias l’affascinante Al Pacino nell’interpretazione che l’ha fatto conoscere al grande pubblico. Fu proprio un occhio femminile – quello della moglie di Coppola – a scorgere il potenziale dell’attore.

Se il don Corleone di Brando rimane impresso nell’immaginario comune per la parlata strascicata e le battute tipiche del vocabolario di un uomo d’onore, quello di Pacino, il nuovo Don Corleone consacrato con quel “baciamo le mani” a chiusura del primo film, punta tutto sullo sguardo di due grandi occhi scuri che “bucano lo schermo”, sul silenzio ambiguo – quasi passivo aggressivo – e autoritario dell’uomo d’affari, sui binari del non detto su cui corre il nuovo codice mafioso.

Al Pacino ne “Il Padrino I”

Come non dar ragione a questo punto a Diane Keaton che prese una sbandata per il suo collega di set? Artisticamente azzeccata ma “eticamente pericolosa” la scelta di Coppola: di Michael Corleone finiamo scena dopo scena per innamorarci e – ancor peggio – ci ritroviamo a spalleggiarlo nelle sue scelte al di là del bene e del male.

5) Il più famoso film di mafia in cui la “mafia” non è mai nominata

Coppola ha raccontato che, dal primo all’ultimo ciack, ha dovuto lottare più volte con la casa produttrice, rischiando anche il licenziamento.

Uno scontro si ebbe al momento del casting. Il regista fece di tutto per affidare la parte di Don Vito a Marlon Brando e quella di Michael ad Al Pacino, nonostante il parere contrario dei produttori, avversi al primo perché caduto in disgrazia e notoriamente una “testa calda”, e al secondo perché allora “sconosciuto”.

E pensare poi che per la Paramount, che voleva un regista italo-statunitense, Coppola non era nemmeno la prima scelta! Se non erano loro nemici, chi altro lo è?

Aveva ragione Don Vito a dire:

“Tieni i tuoi amici vicino, ma i tuoi nemici ancora più vicini”

Ma nemico numero uno della celebre major cinematografica fu proprio uno dei veri boss delle “cinque famiglie” di New York: l’italoamericano Joe Colombo, che osteggiò la produzione dietro l’alibi della cattiva pubblicità che il film avrebbe inferto alla comunità di Little Italy. Volantinaggio e sabotaggio fino ad arrivare ad esplicite minacce nei confronti di Al Ruddy, produttore esecutivo, e di Robert Evans, uno dei capi della Paramount, furono le strategie messe in atto da Colombo e dai suoi adepti affinché l’occhio della cinepresa non illuminasse il fenomeno mafioso. Poi la deposizione delle armi: Colombo incontrò i produttori e si arrivò al compromesso.

La produzione poteva proseguire con la benedizione del “padrino” a patto che nello script non comparisse mai la parola “mafia”. Una concessione omertosa? Forse, considerando che da allora non poche furono le intrusioni della malavita reale nel set: molti scagnozzi furono scritturati nel cast (uno su tutti Al Martino nei panni di Johnny Fontaine) e la produzione non conobbe ostacoli per girare in molti quartieri di Little Italy.

Francis Ford Coppola sul set de “Il Padrino III”. Fonte: LaPerrera.mx

 

Ad ogni modo, in questo controverso e oscuro intreccio di arte e vita, ci rendiamo conto perché Il padrino può considerarsi cult e pochissimi suoi epigoni possono vantare lo stesso titolo. C’è una regola aurea che circola nelle scuole di cinema ed è quella di non esprimere con tante parole un concetto che puoi rappresentare con le immagini.

Non importa allora che Don Vito Corleone e i satelliti che gli gravitano attorno non siano chiamati “mafiosi”: lo spettatore lo sa già sin dalla prima scena, dal primo cenno, dai rituali con cui si decide e si comunica con freddezza spietata il destino della famiglia e dei suoi nemici. Coppola la mafia non la nomina, ma la racconta, in maniera più che realistica. Una narrazione mitologica? Troppo romantica come qualche detrattore ha affermato? O azzardatamente priva di etica? La risposta  è racchiusa come al solito nelle immagini, in quell’ultima celebre scena ( silenziosa!) che conclude la trilogia … e che non vi sveleremo.

Angelica Rocca

Angelica Terranova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla scoperta degli Oscar: The Irishman

The Irishman – voto UVM: 4/5

Martin Scorsese è tornato, questa volta più agguerrito che mai. Dopo il fiasco al botteghino del film Silence (2016) ha deciso di creare un’opera di 210 minuti in cui ha esaltato il suo passato cinematografico ed ha riproposto tematiche, già precedentemente affrontate, in chiave più matura e riflessiva. Scopriamo insieme perché ha già conquistato il favore della critica e, pertanto, potrà ambire a più di una statuetta.

Locandina del film – Fonte: MYmovies.it

Produzione

Per The Irishman il regista ha affermato: “volevo fare un film con i miei amici“; dunque, ha formato un cast stellare che comprende Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci ed Harvey Keitel, riunendo così le colonne portanti del genere gangster in un unico lungometraggio.

Inizialmente, il progetto di The Irishman fu rifiutato da diverse case di produzione, visto l’elevato budget richiesto per girare in CGI (Computer-generated imagery), finché non è intervenuta Netflix, che ha finanziato la pellicola. Diversi utenti della piattaforma streaming si sono lamentati della lunghezza del film, etichettandolo come “noioso, terribile e confusionario” esclusivamente per la durata, senza porre attenzione alla regia ed alle grandissime interpretazioni degli attori. E non è un caso che il film abbia ottenuto ben 10 candidature agli Oscar.

Regia: tra introspezione ed evoluzione del cinema di Scorsese

La pellicola, candidata nella categoria miglior film, ha riproposto al grande pubblico quegli aspetti della vita criminale già mostrati dal regista in Goodfellas (1990) e Casinò (1995), rimodellandoli con lunghe scene in cui i personaggi riflettono sul loro passato. Di conseguenza, l’intero film diventa un’evoluzione del cinema stesso di Scorsese, il quale ci fa comprendere lo stato d’animo ed i pensieri di un gangster giunto ormai alla fine dei suoi giorni, dopo aver vissuto in maniera frenetica un’esistenza segnata dai peccati più terribili.

The Irishman potrebbe infatti essere considerato il sequel diretto di Quei bravi ragazzi dove la “bella vita” condotta dai criminali a base di alcol, soldi sporchi, donne favolose e voglia di espandere il proprio potere, alla fine viene annichilita e smembrata semplicemente dallo scorrere inevitabile del tempo, che obbliga i protagonisti a guardare dentro sé stessi ed a tirare le somme.

Quei bravi ragazzi (Goodfellas) – Fonte: thecinematograph.it

Il regista, a 79 anni, decide di raccontarsi all’interno della pellicola, mostrandoci le ansie e le paure della vecchiaia che ormai incombe irrimediabilmente. E lo fa su una solida base, poggiata sul suo modo di fare cinema, che lo ha consacrato negli anni ’90 tra i più grandi registi della storia. La maestria di Martin Scorsese nel dirigere i suoi attori , facendoli immedesimare in modo quasi mistico nei vari personaggi, e nello sperimentare innovative tecniche di ripresa è stata riconosciuta dall’Academy, che gli ha riservato la nona nomination della sua carriera al premio come miglior regista.

Il cast

Joe Pesci dopo 24 anni torna a recitare con De Niro in un film di Scorsese. L’ultima volta fu in Casinò, e non a caso si ritrova nel quintetto dei candidati per il miglior attore non protagonista. La prova d’attore di Pesci dovrebbe essere proiettata in tutte le scuole di recitazione per far comprendere cosa sia realmente un attore e cosa debba fare per poter essere considerato tale. Pesci è stato capace di interpretare alla perfezione il capomafia Russell Bufalino, replicando le movenze tipiche di un siciliano in età avanzata e trasmettendo emozioni proprio per mezzo della gestualità.

Robert De Niro ha suggerito al regista di prendere, per il ruolo di Jimmy Hoffa, il collega Al Pacino, con il quale aveva già recitato in Sfida senza regole (2008) ed in Heat-La sfida (1995).  Il protagonista di Scarface, anche a 79 anni, riesce magistralmente a rivestire il ruolo di uno dei più importanti sindacalisti degli anni ’60, donandogli tutto il suo carisma ed esaltando la simpatia e la genialità di un uomo estremamente potente. Anche per Al Pacino è arrivata la candidatura all’Oscar (migliore attore non protagonista).

Robert De Niro, Al Pacino e Ray Romano in una scena del film – Fonte: The Post

Lo sceneggiatore Steven Zaillian ha ottenuto la nomination per la miglior sceneggiatura non originale: nessuna sorpresa, data la fluidità della narrativa e l’abilità di Zaillian nel raccontare storie realmente accadute. Lo scrittore non è nuovo nell’approcciarsi a storie reali ed è riuscito a riproporne gli eventi più emblematici della vicenda, enfatizzando le emozioni che le persone provano vivendoli, come fece anche per Schindler’s List.

Nessuna candidatura -a malincuore- per Robert De Niro ed Harvey Keitel, che quando recitano insieme (come fu in Taxi Driver) danno vita a momenti indimenticabili di vero cinema, grazie all’armonia che scorre tra i due attori (osservabile nel film solo per pochi minuti).

In conclusione, The Irishman è una pellicola degna di far parte della lunga lista di opere d’arte dirette da Martin Scorsese.

Forse non sarà ai livelli di Taxi Driver, Toro scatenato o Quei bravi ragazzi, ma il regista ci presenta un’opera diversa, più matura e ricercata, ricca di innovazioni e sicuramente di altissimo rango. Con le sue 10 candidature ai premi Oscar del 2020 è, obiettivamente, tra i migliori film dell’anno.

 

Vincenzo Barbera