Tajani: “Pronti a invio truppe se nascesse Stato palestinese”

Nella giornata di ieri, 16 aprile, il Vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha affermato, presente presso un forum dell’Ansa:

” Il governo italiano è fortemente impegnato per la pace, siamo amici di Israele ma vogliamo lavorare per la pace, compreso l’invio eventuale di truppe qualora si volesse creare uno Stato palestinese.”

Ferma la condanna italiana dell’attacco iraniano contro Israele, in risposta all’attacco israeliano del consolato iraniano a Damasco, a sua volta condannato dall’Italia e dall’Ue.
Il ministro aggiunge e rilancia la soluzione a due stati, israeliano e palestinese che, però, non veda in alcun modo ai propri vertici Hamas. Il capo del gabinetto degli Esteri ha sottolineato di aver invitato in Italia il nuovo Primo Ministro dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese), Mustafa.

 L’Italia guida il G7 : ” Obiettivo è la pace”

Anno importante per Roma, l’Italia è infatti alla guida del G7. Il prossimo incontro si terrà a Capri tra il 17 e il 19 aprile, e avrà quale tema principale e obiettivo chiave la pace, come rimarca il ministro: “siamo impegnati alla difesa dei nostri valori, sempre, per raggiungere la pace nella giustizia”.
La linea dell’Italia è quella della condanna di qualsivoglia rappresaglia o contrattacco che possa creare un’escalation nel Medioriente, che andrebbe ad aggiungersi alla già spinosa questione degli Houthi.
Qualora venisse creato lo stato Palestinese, quindi, a detta del Ministro il governo invierebbe militari italiani, in rispetto dell’Art. 11 della Costituzione, intervenendo per sorreggere una presenza occidentale a fare da cuscinetto, impegnata quindi in un’operazione di peacemaking e peacebuilding.

L’esecutivo ha voluto ha voluto mantenere e rafforzare la propria presenza nella zona Mediorientale e in quelle adiacenti.
Quindi un filo rosso che unisce la politica estera italiana, l’impegno in Medioriente al pari del mantenuto e rafforzato impegno italiano in Africa. Significativa la presenza italiana in Niger “Gli italiani sono ben visti: non c’è stata mai in Niger una manifestazione contro di noi”. L’Italia presto aprirà un’ambasciata in Mauritania.

Quale sponda del Mediterraneo dell’Europa, l’Italia desidera avere un ruolo chiave nella stabilizzazione delle zone rosse dell’Africa subsahariana e del Medioriente. Sempre il Vicepremier al Forum ha rimarcato che “Lasciare quello spazio significa aiutare una maggiore presenza russa, cinese e iraniana”.
L’Italia dunque, oltre al ruolo di stabilizzazione, aspira, come da agenda politica del governo al ruolo di protagonista nel difendere i valori liberal-democratici contro le autocrazie, le quali invece, con finanziamenti e azioni presso stati africani ed arabi, minano al lavoro dell’Unione Europea.

Le aspettative sulla situazione in Ucraina

Altro nodo importante affrontato ieri dal ministro è l’Ucraina, dalle parole del ministro :

“siamo di fronte a un’offensiva russa sul terreno e dal cielo, noi li stiamo aiutando in tutti i modi possibili a resistere, perché solo se non c’è una sconfitta ucraina si può dare vita a un tavolo della pace, perché per sedersi bisogna essere contendenti non un vincitore e un vinto, altrimenti ci sarebbe un diktat del vincitore e non un accordo”.

L’augurio del ministro è che si sblocchino gli aiuti Usa, qualunque sia l’esito delle elezioni. Resta fermo l’impegno italiano in Ucraina “noi continueremo la nostra parte da tutti i punti di vista, politico, finanziario, anche militare”.

Chiaro l’interesse del ministro e dei Paesi Ue nel volere continuare a sostenere la difesa ucraina, per mantenere la pace sul resto d’Europa, prevenire ulteriori azioni russe e lanciare un monito ad altri attori internazionali che paventano azioni di conquista o riconquista di territori.
La linea italiana si colloca quindi in piena consapevolezza in totale armonia al diritto internazionale generalmente riconosciuto e lancia chiari messaggi ed inviti ad altri Paesi del globo.
In conclusione Tajani rivendica “Avere l’Italia alla guida del G7 è un’ opportunità per tutti per avere la pace”.

Marco Prestipino

G7 a Hiroshima. Tra gli obiettivi sicurezza, economia e ambiente

Lo scorso 21 maggio si è concluso il summit del G7 nella città di Hiroshima, in Giappone. I leader dei sette Paesi si ritrovano, come ogni anno, a discutere dei temi principali all’ordine del giorno: un probabile inasprimento delle sanzioni contro la Russia per l’invasione in Ucraina, di proposte per l’economia globale e cambiamento climatico.

Cos’è il G7 e perchè l’Italia ne fa parte

Il G7 è un forum intergovernativo delle sette maggiori potenze economiche a livello mondiale dei Paesi avanzati: Francia, Germania, Italia, Canada, Giappone, Stati Uniti e Regno Unito. Alle riunioni annuali sono invitate anche una delegazione dell’Unione europea e altri Paesi fuori dal G7, soprattutto quelli in via di sviluppo.

Nato come un’assemblea per il dialogo e il coordinamento in materia economica e finanziaria, il G7 ha esteso i suoi ambiti di intervento riguardanti attività internazionale come l’aiuto allo sviluppo e il contributo alla pace e alla sicurezza globali. Non solo, negli ultimi anni, l’attenzione del G7 si è focalizzata su temi come l’energia sostenibile, la lotta al cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, la salute, l’eguaglianza di genere.

Ogni riunione prevede una presidenza a rotazione tra i membri. Il compito della presidenza di turno è quello di proporre le priorità del gruppo, coordinare le attività fra i membri, curare la pubblicazione e la diffusione dei documenti, organizzare le riunioni.

Il G7 ha natura informale: non esiste un segretariato né altre strutture permanenti ad esso dedicate. Le decisioni assunte dal Gruppo non hanno carattere vincolante, seppur influenzano in modo considerevole le politiche dei membri e degli altri Stati del mondo.

leader g7 giappone
Leader del G7 davanti al memoriale della Pace a Hiroshima, Giappone. Fonte: Rainews

Zelensky a Hiroshima

Avuto luogo a Hiroshima 78 anni dopo dal primo bombardamento atomico, il vertice ospiterà il presidente ucraino Volodymyr Zelensky che si è recato in presenza al G7 di quest’anno. I leader hanno espresso ulteriore sostegno a Kiev, impegnata, soprattutto in queste settimane, in una controffensiva militare.

Sul piano degli aiuti, Zelensky ha ottenuto dal presidente americano Joe Biden l’impegno a nuovo pacchetto da 375 milioni di dollari e un’apertura concreta alla cosiddetta jet coalition: la strategia per aiutare Kiev attraverso l’utilizzo degli F-16.

Zelensky non sembra aver ottenuto solo questo: un vertice sulla formula di pace Ucraina potrebbe tenersi a luglio, a 500 giorni dall’inizio della guerra, con la partecipazione dei paesi del G7 e dell’Ucraina. Il presidente ucraino dichiara infatti:

Presto saranno 500 giorni di guerra su vasta scala, già a luglio. È un periodo di tempo simbolico, un buon mese per riunire un vertice sulla formula di pace, un vertice della maggioranza mondiale. Un vertice di tutti che rispetta l’onestà e vuole porre fine a questa guerra. Vi invito a unire gli sforzi congiunti. La formula di pace è stata sviluppata in modo che ciascuno dei suoi punti fosse supportato da risoluzioni delle Nazioni Unite. In modo che tutti nel mondo potessero scegliere il punto che possono aiutare a implementare

Zelensky e Biden al G7
Il presidente Zelensky al vertice G7 di Hiroshima. Fonte: ANSA

I punti salienti

Tra gli ordini del giorno le nuove possibili sanzioni che colpiscono l’economia russa. I leader dichiarano la volontà di rimanere uniti nell’imporre sanzioni coordinate e altre azioni economiche per minare ulteriormente la capacità della Russia di portare avanti la sua aggressione nei confronti dell’Ucraina. L’intenzione sarebbe quella di ampliare le azioni per garantire che le esportazioni di tutti gli articoli usati per l’aggressione russa siano limitati, tra cui le esportazioni di macchinari industriali, strumenti e altre tecnologie che la Russia utilizza per ricostruire le sue macchine da guerra. Non solo, nel mirino anche coloro che operano in questi settori chiave, come quello manifatturiero, delle costruzioni e dei trasporti, e servizi alle imprese.

Inoltre, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha annunciato che si sta lavorando per limitare il commercio dei diamanti russi. Ha fatto sapere che comunicherà ai leader dei Paesi ospiti al vertice l’importanza di applicare le sanzioni per fermare la Russia nella guerra contro l’Ucraina.

Nel corso del suo intervento riguardante l’economia globale, Giorgia Meloni dichiara della necessità di una migliore e più efficace collaborazione con il Sud Globale. Quindi di un lavoro unanime per dare forma a un ordine economico internazionale libero e aperto, concentrarci sull’espansione delle relazioni commerciali, rimanendo fermi sui principi di apertura, trasparenza, concorrenza leale e Stato di diritto.

In più, il presidente francese Emmanuel Macron Francia proporrà un “nuovo patto finanziario internazionale” per la lotta alla povertà e ai cambiamenti climatici, in un summit che si è tenuto a Parigi il 22 e 23 giugno. La Francia propone un nuovo impegno per mobilitare e liberare risorse. L’obiettivo è anche mobilitare finanziamenti privati per far sì che non si debba scegliere tra lotta alla povertà e lotta per il clima e la biodiversità.

Prossima tappa: G7 in Puglia

L’Italia sarà protagonista della prossima riunione del G7. Il presidente del consiglio dei ministri Giorgia Meloni lo ha annunciato al governatore Michele Emiliano, prima della conferenza stampa. Dichiara di aver scelto la regione per ragioni simboliche, perchè “il Sud del mondo sarà centrale, abbiamo scelto la Puglia perché ha un significato simbolico, legato alla posizione geografica.

Proprio per questo, come afferma il presidente della regione:

Ho avuto modo di ringraziarla per il grande riconoscimento che il Governo italiano, con questa scelta, ha dato a noi tutti. Un riconoscimento straordinario del lavoro che la Puglia ha svolto con riferimento al dialogo tra oriente e occidente, in permanente connessione con Papa Francesco, e della nostra capacità di accoglienza di tutti i popoli del mondo. Ci impegneremo con tutte le nostre energie per far fare all’Italia una bella figura

Victoria Calvo

Nuove sanzioni alla Russia: embargo sul petrolio russo e price cap di 60 dollari

L’Unione Europea, dopo l’invasione ingiustificata dell’Ucraina lo scorso 24 febbraio, ha imposto alla Russia una serie di nuove sanzioni. Queste si aggiungono alle misure restrittive già in vigore dal 2014 in conseguenza all’annessione della Crimea.
Tra i principali obiettivi prosciugare i conti del Cremlino. “L’economia russa sarà distrutta, pagherà e sarà responsabile di tutti i suoi crimini” ha dichiarato la presidenza ucraina. Per eliminare i guadagni russi e mettere così in difficoltà gli sforzi bellici si è detto basta a petrolio e gas.

Per colpire l’economia russa, l’Ue parla in termini di divieti d’esportazione (entità europee non possono vendere determinati prodotti alla Russia), e d’importazione (entità russe non sono autorizzate a vendere determinati prodotti all’UE). In giugno è stato adottato un pacchetto di sanzioni che vieta l’acquisto, l’importazione o il trasferimento via mare di petrolio greggio (non lavorato) e di alcuni prodotti petroliferi dalla Russia all’UE. Queste restrizioni entrate in vigore ieri (5 dicembre) per il petrolio greggio, mentre per gli altri prodotti petroliferi raffinati come diesel, benzina da febbraio 2023.

Trovato un accordo per un tetto al prezzo dell’oro nero 

Nel mercato del gas la riduzione dei flussi di forniture da Mosca verso l’Europa ha fatto aumentare i prezzi. Alla fine la Russia nel corso del 2022 ha venduto meno e guadagnato di più. Per evitare questo paradosso, anche per il petrolio oltre all’embargo è stato applicato un tetto massimo al prezzo in accordo tra Unione Europea, membri del G7 e l’Australia.
Il price cap è stato fissato a 60 dollari al barile, imposto ai prezzi del petrolio russo venduto in stati terzi. Questo provvedimento vieterà alle compagnie di fornire servizi che consentono il trasporto del petrolio russo oltre il tetto stabilito. Al fine di limitare le entrate che Mosca trae dalle sue forniture in Cina o in India.

Grafico price cap sul petrolio russo, Fonte: Sky tg24

L’accordo siglato dagli ambasciatori dei paesi membri dell’Ue a Bruxelles, era rimasto in sospeso in attesa delle decisioni della Polonia. Perché il versante polacco era stato critico sull’efficacia del tetto fisso, si richiedeva un prezzo molto più basso pari a 30 dollari al barile. L’attuale prezzo di un barile di petrolio russo, denominato “Urals oil”, è di circa 65 dollari poco sopra il tetto europeo, quindi un impatto realmente contenuto nel breve periodo. Sembra che il funzionamento del meccanismo di price cap verrà rivisto ogni due mesi, per rispondere all’esigenze di mercato. Sarà fissato a meno del 5%, al di sotto del prezzo medio di mercato del petrolio e dei prodotti petroliferi russi, calcolato sulla base dei dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’Energia.

A differenza del gas, il petrolio può essere trasportato via mare. Così quello che l’Europa non comprerà più dalla Russia, potrà arrivare ad esempio dall’Arabia Saudita e altri produttori del Golfo Persico. Sono difficili questi equilibri, ma per Bruxelles questo servirà a stabilizzare i prezzi globali dell’energia.

“Stiamo lavorando a tutta velocità”, ha affermato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, “non ci fermeremo finché l’Ucraina non avrà prevalso sull’illegale e barbara guerra di Putin”. La von der Leyen attraverso un tweet ha ribadito le decisioni sull’embargo e il price cap.


Gianclaudio Torlizzi
, osservatore ed esperto del settore, ha dichiarato che “questo tetto è stato deciso proprio per non creare shock sul mercato e per danneggiare lentamente Mosca”. Ma bisogna ora vedere quali saranno le reazioni del Presidente Putin e dell’Opec.

Russia: Stop greggio a chi aderisce al price cap 

La Russia non accetterà il price cap sul prezzo del suo petrolio. Stiamo valutando la situazione. Sono stati fatti alcuni preparativi per questo tetto. Vi informeremo su come sarà organizzato il lavoro una volta terminata la valutazione”

Queste le parole ai giornalisti di Dmitrij Peskov, noto portavoce del Cremlino, dopo le decisioni dell’Ue. Da tempo per compensare il suo export dalle perdite europee, Mosca si sta rivolgendo ad altri mercati come l’Asia. Essendo secondo produttore di petrolio al mondo ha dirottato gran parte delle sue forniture in India, Cina e altri paesi asiatici a prezzi scontati. Questo ha portato ad una diminuzione dell’esportazioni, ma i guadagni si sono mantenuti. Per esempio la Cina, nonostante le politiche “zero covid”, ha acquistato circa 2 milioni di barili al giorno di petrolio russo negli ultimi mesi.

Alexander Novak, vice-primo ministro russo in conferenza, Fonte : The New York Times

Mosca ha ribadito chiaramente che “non intende vendere il suo oro nero”, a nessuno dei paesi che adottano il tetto ai prezzi. “Venderemo petrolio e prodotti petroliferi ai paesi che lavorano con noi, sulla base delle condizioni di mercato. Anche se questo volesse dire che dobbiamo ridurre la produzione” dichiara Alexander Novak, vice-primo ministro russo.
Secondo alcune analisi del New York Times però circa il 55% delle petroliere che trasportano il petrolio russo fuori dal paese battono bandiera della Grecia, paese dell’Ue. Mentre i principali assicuratori di questi carichi hanno sede nell’Unione Europea e nel Regno Unito, un paese del G7. Aggiunge il giornale che la Russia utilizza compagnie di altri paesi, ma passare tutte le sue esportazioni a fornitori alternativi sarebbero probabilmente più costoso e meno sicuro per gli acquirenti.

 

 

Queste sanzioni funzioneranno?  

L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec) e i suoi alleati, gruppo noto come Opec+ , ha concordato sull’attenersi al proprio obiettivo di produzione di petrolio. Fra le restrizioni a Mosca, il lockdown da covid in Cina e il rallentamento dell’economia globale, l’organizzazione prende tempo e tiene invariati gli attuali livelli di produzione. Una mossa per gli analisti di “wait and see” che ha senso, in attesa di capire l’impatto delle nuove misure contro la Russia.

Zelensky, presidente ucraino, ritiene che il price cap sia una decisione “non seria”, si tratterebbe di “fissare un limite abbastanza buono per il bilancio dello Stato terrorista”. Alcuni ritengono che l’embargo sul petrolio non funzionarà come sperato e i prezzi saliranno. La Russia avrà dei vantaggi come gli altri paesi esportatori. Tutto il peso cadrà sui consumatori, già schiacciati dalla più grave crisi inflazionistica degli ultimi decenni.

In Italia, le sanzioni contro la Russia hanno portato dei risultati paradossali. Il nostro paese ha ridotto di molto la sua dipendenza dal gas russo, ma il petrolio è continuato ad arrivare. Questo dovuto anche alla presenza di una delle principali raffinerie del paese la “Lukoil Isab” di Priolo, che poteva acquistare solo petrolio russo. L’Italia così ha aumentato di molto la sua esposizione sul petrolio russo, tanto d’acquistarne quasi la metà. Da oggi questo non potrà più accadere!
Come ha dichiarato l’amministratore delegato di Eni, Claudio DescalziL’embargo al petrolio russo sarà un duro colpo” quindi “bisognerà stare attenti a trovare il petrolio altrove. Tutto ciò che potremmo recuperare arriverà dagli Stati Uniti”.


                                                                                                              Marta Ferrato

Nuovo colpo di scena sulle origini del Covid: l’indagine di Jesse Bloom

Si aggiunge un nuovo tassello nel mosaico delle origini del Covid-19 grazie allo studio condotto dallo scienziato statunitense Jesse Bloom.

L’indagine di Jesse Bloom

In arancione le particelle del virus SarsCoV2 – Fonte: www.ansa.it

Il virologo Jesse Bloom, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, ha condotto un’indagine che potrebbe gettare una nuova luce sulle origini della pandemia. Come riportato su Biorxiv (che raccoglie gli articoli non ancora vagliati dalla comunità scientifica), il ricercatore americano ha ritrovato sequenze del virus che risalgono all’inizio della pandemia, che sarebbero state pubblicate da un team di ricercatori cinesi nell’archivio del National Institute of Health (NIH) americano e poi, pochi mesi dopo, rimosse per oscurarne l’esistenza. Bloom, come si legge nel documento, sarebbe riuscito a recuperare i file cancellati da Google Cloud e a ricostruire le sequenze parziali di 13 campioni di virus raccolti da pazienti ricoverati tra gennaio e febbraio 2020 a Wuhan.

Bloom dice di aver contattato i ricercatori cinesi per chiedere perché hanno rimosso i dati senza ricevere alcuna risposta. Dettagli in merito arrivano dal NIH che ha affermato di aver rimosso le sequenze su richiesta del ricercatore che ha presentato i dati e che, quindi, detiene i diritti sugli stessi. Secondo quanto detto dallo scienziato cinese all’istituto americano, le informazioni sulle sequenze, dopo essere state aggiornate, sarebbero state poi pubblicate su un’altra banca dati. Bloom ha invece detto di non aver trovato le sequenze in nessun altro database di virologia che conosce.

C’è ancora molto da sapere sulle origini del Covid

Per alcuni scienziati le affermazioni rafforzano i sospetti che la Cina abbia qualcosa da nascondere sulle origini della pandemia, per altri il lavoro investigativo di Bloom è molto rumore per nulla, perché gli scienziati cinesi hanno poi pubblicato le informazioni virali in una forma diversa, e le sequenze recuperate aggiungono poco a ciò che si sa sulle origini della SARS-CoV-2.

Se da una parte è vero che questa scoperta non cambia il quadro scientifico sulle prime settimane della diffusione del virus, dall’altra parte mette in luce sia la carenza di trasparenza da parte di Pechino, sia che ancora agli scienziati potrebbero mancare molti tasselli per trarre conclusioni accurate sulle origini del covid. “Penso che fornisca ulteriori prove che questo virus era probabilmente in circolazione a Wuhan prima di dicembre, certamente, e che probabilmente, abbiamo un quadro meno che completo delle sequenze dei primi virus”, ha affermato Jesse Bloom.

L’ipotesi della fuga dal laboratorio di 18 scienziati

La scoperta di Bloom rafforza quel clima di sospetti e dubbi alimentato da politici e scienziati. Ne è espressione la lettera di 18 scienziati, pubblicata circa un mese fa su Science, in cui si legge che l’ipotesi secondo cui un coronavirus del pipistrello avrebbe contaminato l’uomo attraverso un animale intermedio non è ancora l’unica da considerare attendibile. “L’obiettivo di questa lettera è fornire un sostegno scientifico alle persone che hanno il potere di lanciare un’inchiesta internazionale Potranno evocarla per dire che scienziati di alto livello, in una serie di campi pertinenti, pensano che sia necessaria un’inchiesta rigorosa sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio”, ha detto la biologa molecolare Alina Chan, una delle coautrici dell’articolo.

Laboratorio a Wuhan – Fonte: www.ansa.it

A mettere in discussione le posizioni ufficiali rilasciate dall’autorità cinesi, c’è poi Le Monde. Nel giorno in cui la lettera veniva pubblicata su Science, infatti, sul quotidiano francese è apparso un articolo riguardante uno studio universitario condotto nei laboratori dell’Istituto di virologia di Wuhan sul virus RaTG13. Si tratterebbe di un virus prelevato nel 2013 in una miniera abbandonata a Mojiang, nella provincia dello Yunan, dove vivevano pipistrelli che nella primavera del 2012 hanno contagiato sei operai. Stando allo studio, tre di questi operai sono morti per le conseguenze di una malattia polmonare che presentava sintomi molto simili a quelli da Covid-19. Da questo lavoro universitario sembra emergere il fatto che gli scienziati, non solo fossero a conoscenza, ma anzi avessero avuto modo di studiare questi coronavirus ben più di quanto non abbiano fatto intendere a partire dal momento in cui è scoppiata la pandemia.

La richiesta di nuove indagini di Biden e del G7

Il presidente Joe Biden – Fonte: www.ansa.it

Lo stesso Biden a fine maggio ha chiesto all’intelligence americana un rapporto sulle origini del Covid-19 entro 90 giorni, cioè entro fine agosto. La Casa Bianca non esclude nulla, neppure una diffusione deliberata del Covid-19.

Anche i leader del G7, dopo il vertice di tre giorni in Cornovaglia, hanno chiesto all’Oms una tempestiva e trasparente indagine sulle origini del Covid. “Chiediamo progressi su una fase due di uno studio dell’Oms sulle origini del Covid-19 che sia libero da interferenze”.

Chiara Vita

Global Minimum Tax, la nuova tassa per colpire le Big Tech e i paradisi fiscali

Sabato i Ministri delle Finanze degli Stati appartenenti al G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) riuniti a Londra hanno raggiunto un primo accordo – ma la strada rimane lunga e impervia – sulla Global Minimum Tax (Aliquota Minima Globale). Ma di cosa si tratta?

La Global Minimum Tax, fortemente voluta dall’amministrazione Biden e dalla Segretaria del Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen, è una proposta che prevede un’imposta minima sulle società multinazionali del 15% a livello globale. La tassazione agirebbe in base a due principi, un tempo fortemente sfruttati a proprio favore dalle grandi aziende, specialmente dalle Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft):

  • Pay your fair share of taxes, “Pagare il giusto contributo”;
  • Level Playing Field, “Parità di condizioni”.

Una particolarità di questa tassa consisterebbe in un’azione individuata in base a dove la vendita viene realizzata e, quindi, nel paese in cui vengono effettivamente realizzati i profitti. Lo scopo è palese: come ha sottolineato la Segretaria del Tesoro Yellen, mirerebbe a porre fine ad «un’esperienza lunga 30 anni di corsa al ribasso nella tassazione d’impresa», ovverosia il fenomeno che induce i governi a ridimensionare drasticamente le imposte societarie nel tentativo di attrarre investimenti da parte delle grandi multinazionali. Uno degli obiettivi sarebbe, dunque, colpire i paradisi fiscali.

(fonte: globalist.it)

I paradisi fiscali ed il divario sociale

Un report del 2016 dell’OXFAM International (Confederazione Internazionale di organizzazioni non-profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale) ha evidenziato come il divario tra classi sociali, all’interno di paesi a bassa tassazione, sia accentuato da questo fenomeno.

I governi che riducono il carico fiscale per le grandi imprese, hanno di fronte a sé due alternative: tagliare le spese per i servizi pubblici indispensabili per ridurre la disuguaglianza e la povertà, oppure ovviare alla riduzione delle entrate aumentando le imposte sulle fasce sociali meno abbienti, per esempio l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Nell’Africa sub-sahariana le imposte indirette come l’IVA, che gravano in misura sproporzionata sui più poveri, costituiscono in media il 67% del gettito fiscale e colpiscono maggiormente le donne. I maggiori profitti delle imprese derivanti da una minore imposizione fiscale vanno invece a beneficio degli azionisti e dei proprietari delle corporation, persone prevalentemente già abbienti, accentuando così ulteriormente il divario tra ricchi e poveri.

La ratio della scelta dei paradisi fiscali (tra i quali spiccano diversi paesi europei o del continente europeo come Svizzera, Paesi Bassi, Irlanda, Cipro e Lussemburgo) sarebbe, come già accennato, di attrarre gli investimenti delle multinazionali. Eppure il report intende smentire quest’utilità, affermando che il criterio della bassa tassazione non rientra tra i “12 criteri” principali con cui le società, in base al Global Competitiveness Report (GCR), decidono dove investire. Il Rapporto generato dal Forum Economico Mondiale individua i paesi che più abilmente riescono a provvedere al benessere dei propri cittadini.

(fonte: europa.today.it)

La posizione europea tra i sì, i no e i forse

Alcuni paesi europei come Francia e Italia – che sono, tra l’altro, già muniti di una propria Digital Tax – hanno accolto la proposta positivamente, pur essendo determinati a mantenere i propri criteri di tassazione finché la Global Tax non si realizzerà. Tuttavia, altri paesi come Cipro e Irlanda (che annoveriamo tra i principali paradisi fiscali societari) si sono espressi in contrario alla proposta, con Cipro che minaccia di apporre il veto in Consiglio UE (per cui è necessaria l’unanimità dei consensi in materia fiscale).

D’altro canto, l’Osservatorio Europeo sulla Tassazione – ha rivelato Il Fatto Quotidiano in un articolo – ritiene che un’aliquota del 15% sia inadeguata. Difatti, con una tassazione del genere sulle multinazionali appartenenti a ciascun paese UE, l’Osservatorio ha calcolato un gettito aggiuntivo complessivo che ammonterebbe a 50 miliardi (di cui 2,7 all’Italia), contro i 170 miliardi (di cui 11,1 all’Italia) che si realizzerebbero se l’aliquota sulle società ammontasse all’originario 25% ipotizzato per la global tax

La proposta finora discussa rappresenta senza dubbio, per la maggior parte degli interlocutori, un possibile risultato storico, ma dal punto di vista italiano la percentuale andrebbe di gran lunga sotto l’attuale 24% imposto dall’IRES (Imposta sul reddito delle società). 

Il futuro della proposta

È previsto entro il prossimo mese un incontro del G20 a Venezia per discutere sull’approvazione della proposta da parte dei più grandi paesi in via di sviluppo. Intanto, rimane aperta la questione riguardante la tassazione sui servizi digitali delle grandi aziende tecnologiche (come le Big Tech) nelle varie giurisdizioni. Gli USA mirerebbero ad eliminare tali giurisdizioni, minacciando anche d’imporre dazi e sanzioni e, in generale, di condurre alcune piccole guerre commerciali ai paesi che non intendano rinunciarvi.

Per gli USA è dunque necessario un « adeguato coordinamento tra l’applicazione delle nuove regole fiscali internazionali e la rimozione di tutte le tasse sui servizi digitali».

 

Valeria Bonaccorso