Premio Nobel per la Fisica 2020: dalle galassie ai buchi neri

Stoccolma, 6 ottobre: il premio Nobel per la Fisica 2020 conferma ancora le teorie di Einstein.

Quest’anno la Reale Accademia di Svezia premia gli scienziati Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez per i loro contributi al misterioso mondo dell’astrofisica. Tra galassie e buchi neri, curiosiamo un po’ più a fondo nei loro lavori.

Il contributo di Penrose

Pensatore libero, anticonvenzionale ed eclettico, Roger Penrose è un matematico e cosmologo inglese, vincitore del 50% del premio Nobel per la Fisica 2020 grazie ai suoi studi del 1965. Grazie a dei brillanti metodi matematici è riuscito a provare che la formazione dei buchi neri è una solida previsione della teoria della relatività generale. Egli ha dimostrato che, al centro dei buchi neri, la materia si addensa inesorabilmente a tal punto da divenire una singolarità puntiforme con densità infinita. Ha compreso anche che i buchi neri rotanti possono liberare enormi quantità di energia, sufficienti a spiegare l’emissione delle più potenti sorgenti di radiazione dell’universo, quali i quasar e i lampi di raggi gamma.

Prima fotografia di un buco nero.

Ma cos’è, in effetti, un buco nero?

Per provare a comprendere un concetto così complesso, esploriamo quanto teorizzato dal celebre Albert Einstein con la teoria della relatività generale del 1916. Essa si basa sul modello matematico dello spaziotempo elaborato da Minkowski, che ha introdotto la struttura quadridimensionale dell’universo: la posizione di ogni punto viene individuata non soltanto dalle tre coordinate dello spazio, ma anche dal tempo. In questo senso, ogni punto dello spaziotempo rappresenta un vero e proprio evento, verificatosi in un dato luogo ed in un preciso momento.

Abbandoniamo quindi le idee newtoniane di spazio e tempo assoluti e distinti e immaginiamo lo spaziotempo come una sorta di “tessuto universale”, in cui sono immersi tutti i corpi celesti esistenti. Questi, per definizione, possiedono una certa massa, proprietà fondamentale affinché si generi attrazione gravitazionale (e quindi un campo) sui corpi vicini. L’intuizione chiave di Einstein fu che un campo gravitazionale curvi lo spaziotempo. Più un corpo è massiccio, più è forte il suo campo gravitazionale, maggiori sono la deformazione che causa ed i condizionamenti che impone al moto dei corpi vicini.

Un buco nero è quindi una concentrazione di massa talmente imponente da far collassare lo spaziotempo su se stesso in un unico punto, chiamato singolarità. Attorno a questo si trova una porzione di spazio delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi. Una volta oltrepassato tale confine, non c’è alcun modo né per la materia, né per le radiazioni, di sfuggire all’attrazione gravitazionale. Per scamparvi, infatti, dovrebbero raggiungere una velocità infinita.

Un po’ complicato? Per avere un’idea di ciò che accade, immaginiamo di lasciar scivolare una sfera su un telo elastico. Intuitivamente, esso cederà a delle deformazioni. Se adesso aggiungessimo un’altra sfera di massa minore, noteremmo che le curvature sarebbero trascurabili rispetto a quelle generate dal primo corpo. Il secondo, inoltre, essendo più leggero, tenderebbe a convergere sempre più velocemente verso il primo, il che è un po’ quello che accade ai corpi celesti che orbitano attorno al buco nero.

Deformazione dello spaziotempo a seconda della massa.

I lavori di Genzel e Ghez

I buchi neri sono fenomeni tra i più potenti e affascinanti dell’intero Universo. Viene da chiedersi dove sia il buco nero più vicino a noi, quanto sia esteso o quanto siamo distanti dal suo orizzonte degli eventi. I due scienziati Genzel e Ghez hanno risposto a queste domande.

Se dobbiamo a Penrose la dimostrazione teorica dell’esistenza dei buchi neri, è invece merito degli scienziati Genzel e Ghez il contributo sperimentale alla loro osservazione. Il tedesco Reinhard Genzel e la statunitense Andrea Ghez, vincitori del restante 50% del premio, hanno studiato per oltre due decadi il comportamento delle stelle situate in prossimità del centro della Via Lattea. In questa zona, nascosta alla vista da una densa nube di polveri interstellari, hanno visto come le stelle danzino attorno ad un buco nero supermassiccio, Sagittarius A*, un mostro di massa pari a 4 milioni di volte quella del Sole.

Ma c’è di più: la necessità di misure sempre più precise ha portato alla creazione di strumenti di tecnologia all’avanguardia, come il Very Large Telescope in Cile o l’interferometro infrarosso Gravity, grazie ai quali l’Europa detiene un ruolo da protagonista nel panorama della grande ricerca scientifica internazionale.

                             ESO’s Very Large Telescope (VLT) 

La scelta di assegnare il premio Nobel a questi lavori riconferma ancora oggi l’importanza e la validità della teoria della relatività di Einstein. Stuzzica l’immaginario collettivo sulla complessità ed il fascino del cosmo, fonte inesauribile di scoperte ed altrettanti interrogativi. Quindi naso all’insù ed occhi fissi alle stelle: i misteri del nostro Universo sono ancora tutti da scoprire.

Giulia Accetta

Giovanni Gallo

La Scienza di Star Trek tra Teletrasporto e Viaggio Interstellare

Le avventure di Star Trek sono davvero uno spettacolo di scienza o soltanto un mix di fantascienza senza senso? Sarà possibile arrivare a realizzare le fantastiche innovazioni che abbiamo ammirato sia nella serie originale che nei programmi successivi, o si tratta di fantasie hi-tech ideate per trascendere la realtà

In Star Trek la scienza fa spesso da fondamento alla trama: la tecnologia è essenziale per i membri dell’equipaggio della “USS Enterprise”, affinché riescano a svolgere il loro compito. “Star Trek è scritto in modo abbastanza intelligente ed è più fedele alla scienza di qualsiasi altra serie di fantascienza mai mostrata in televisione“, ha dichiarato il fisico David A. Batchelor.

Un delicato equilibrio tra l’accuratezza scientifica e il rischio di commettere imprecisioni è costante nello spettacolo, aspetto caratterizzante di tutti gli episodi. Ecco spiegate alcune delle tecnologie standard di Star Trek, più o meno in ordine crescente di “incredibilità scientifica”.

Dispositivi di occultamento (Invisibilità)

Ad oggi esistono dispositivi di occultamento rozzi, che consistono in ingombranti strati di meta-materiali i quali possono nascondere solo piccoli oggetti dalla visibilità, in una gamma limitata di colori. Nuove varietà di meta-materiali produrranno senza dubbio effetti migliori, ma allo stato attuale non sembrano in grado di fornire una completa invisibilità.

Una foto di come appaino i meta-materiali Fonte:coscienza-universale.com

Trasportatore (Teletrasporto)

Non abbiamo ancora la minima idea di come costruire un trasportatore simile a quello che osserviamo in azione durante gli episodi di Star Trek. Questo dispositivo sfrutta un raggio che viene irradiato da un punto A a un punto B, dove si ferma precisamente e ricostruisce il soggetto trasportato. Tutti gli atomi e le molecole rimaterializzati appaiono così nella posizione corretta e adesi tra loro, come se non fosse avvenuta alcuna smaterializzazione.
Ma, nel rimaterializzarsi, come mai tutto rimane integro quando una folata di vento, così come la costante forza di gravità, dovrebbero disturbare i singoli atomi? Nessuna legge fisica dà oggi un indizio su come ciò potrebbe essere anche solo pensabile. Il massimo che è stato ottenuto finora è teletrasportare un piccolo numero di atomi e fotoni, al fine di sviluppare i computer quantistici.

Propulsione a curvatura

La capacità di manipolare lo spazio è il concetto più importante della velocità di curvatura. Nell’universo di Star Trek, essa è ottenuta tramite l’uso di una trasmissione a curvatura. Questa reazione crea del plasma altamente energetico (elettro-plasma), dotato di un proprio campo magnetico e che reagisce con le bobine di curvatura dell’astronave. Le bobine di curvatura sono tipicamente racchiuse in una navicella di curvatura. Il tutto genera un “campo di curvatura” o “bolla” attorno all’Enterprise, consentendo alla nave e al suo equipaggio di rimanere al sicuro mentre lo spazio si manipola.

Questo modello di viaggio spaziale implica l’allungamento del tessuto dello spazio-tempo in un’onda che fa contrarre lo spazio davanti a un oggetto, mentre quello dietro di esso si espande. E’ un po’ come se tale oggetto tirasse la sua destinazione verso di sé, mentre spinge indietro il suo punto di partenza. L’oggetto dovrebbe quindi essere in grado di “cavalcare” questa regione di spazio piatto.

Schema propulsione a curvatura Fonte: How Staff Works

La Metrica di Alcubierre

Questo modello rientra nella “Metrica di Alcubierre”, la quale, interpretata nel contesto della Relatività Generale, prevede che una bolla di curvatura possa formarsi in una regione precedentemente piatta dello spazio-tempo e allontanarsi a delle velocità che superano quella della luce. L’interno della bolla costituisce il sistema di riferimento inerziale per qualsiasi oggetto che la abita.

Sostanzialmente la nave non si muove all’interno di questa bolla, ma viene trasportata mentre la regione stessa si muove. Gli effetti relativistici convenzionali, come la dilatazione del tempo, non si applicherebbero. Quindi, le regole dello spazio-tempo e le leggi della relatività non sarebbero violate nel senso convenzionale.

Questo metodo non si basa su un movimento più veloce della luce in senso stretto, poiché un raggio di luce all’interno di questa bolla si muoverebbe sempre più velocemente della nave. È invece “più veloce della luce” nel senso che la nave raggiunge la sua destinazione più velocemente di un raggio di luce che viaggia fuori dalla bolla di curvatura.

Metrica di Alcubierre Fonte: Çetin BAL

Ma è davvero possibile costruire un’astronave del genere?

Il fisico Miguel Alcubierre ha suggerito l’uso della cosiddetta “materia esotica“, un tipo teorico di materia con energia negativa. Se potesse essere scoperta o creata, la materia esotica potrebbe respingere lo spazio e il tempo e creare un campo gravitazionale.

Le difficoltà

Per prima cosa, non esistono metodi noti per creare una bolla di curvatura di questo tipo in una regione dello spazio che non ne contenga già una. In secondo luogo, supponendo che ci sia un modo per generare tale bolla, non esiste ancora alcun modo noto per abbandonarla una volta entratici. Di conseguenza, la “Metrica di Alcubierrerimane, almeno fino a questo momento, solo una teoria.

Nel 2012 l’Advanced Propulsion Physics Laboratory della NASA (Eagleworks) ha annunciato di aver iniziato a condurre esperimenti per capire se un “motore a curvatura” fosse effettivamente realizzabile. Durante il progetto è stato sviluppato un interferometro per rilevare le distorsioni spaziali prodotte dall’espansione e dalla contrazione dello spazio-tempo della Metrica. Nel 2013 sono stati pubblicati i risultati del loro test sul campo di curvatura, durato 19,6 secondi in condizioni di vuoto, ma tali risultati sono stati inconcludenti.

Attualmente una tecnologia del genere sembra ancora possibile e i tentativi di provare il contrario sono stati finora infruttuosi. Come possiamo però ambire a diventare una specie interstellare, quando tutte le sperimentazioni necessarie richiederebbero secoli?
Per fortuna, come la storia ci ha insegnato, ciò che è considerato impossibile cambia nel tempo.

Conclusione

Star Trek è una divertente combinazione di scienza reale e scienza immaginaria. La scienza reale rappresenta lo sforzo di omaggiare le più grandi conquiste dell’umanità, mentre la scienza immaginaria è un campo di gioco che espande e stimola la mente.
Si tratta senz’altro dell’unica serie di fantascienza realizzata con un grande rispetto per la vera scienza e per la scrittura intelligente.

 

Live long and prosper 🖖

Gabriele Galletta

The Martian: la fisica strampalata di Hollywood

Un’analisi scientifica del film di Ridley Scott, tra buffe imprecisioni e trovate (poco) geniali.

Avere una laurea in fisica ha diverse ripercussioni. La perdita della sanità mentale? Certo, soprattutto quella. Ma anche guardare un film con occhio critico (anzi, ipercritico). Così è stato quando ho avuto la felice idea di guardare “The Martian – Il sopravvissuto”, prodotto e diretto da Ridley Scott.

Siamo su Marte. L’equipaggio della missione Ares 3 della NASA raccoglie campioni da analizzare. Ancora non ho fatto in tempo a trovare la mia sedia al multisala che noto il primo errore: la camminata degli astronauti. Essendo la gravità marziana, infatti, circa un terzo di quella terrestre, gli astronauti avrebbero dovuto procedere per piccoli balzelli.

L’equipaggio ad un certo punto è costretto a partire a causa di una violenta tempesta. Domanda: ci sono tempeste così violente su Marte?  Parecchio improbabile, quasi impossibile. Questo perché la densità dell’atmosfera marziana è circa 1/100 di quella terrestre. Ma vabbè, partono.

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene colpito da dei detriti e trafitto da un palo di metallo; creduto morto a causa dei danni elettronici riportati nella tuta, viene lasciato sul pianeta rosso. Ovviamente, da buon americano, si toglie il palo ben inserito nel suo intestino con estrema facilità, per poi chiudersi la ferita con una spillatrice, senza nemmeno imprecare un po’ per il dolore. Se fossi un medico mi indisporrei un po’, ma sono un fisico, dunque glisso su questa parte e vado avanti.

A questo punto il nostro Superman marziano, conscio che nel breve periodo non c’è nessuna possibilità che la NASA possa tornare a riprenderlo, è costretto ad affidarsi al suo ingegno e alle sue conoscenze scientifiche per sopravvivere all’angusto territorio marziano. Da buon botanico (ma anche ingegnere, fisico, chimico, biologo, Iron man e uomo ragno) pianta delle patate, presenti nella base che avevano costruito, nella notoriamente fertile terra marziana, che concima con un po’ di escrementi dei suoi colleghi et voilà, ecco una coltivazione intensiva di patate!

Watney: passione agricoltore.

“Oh cavolo, manca l’acqua”. Così prende l’idrazina, elemento fondamentale nei carburanti liquidi per i razzi, e la unisce all’ossigeno per creare dell’acqua. Il tutto andrebbe fatto in un ambiente completamente isolato. È interessante sottolineare come, se proprio voleva dell’acqua, poteva riscaldare della terra marziana! Infatti, per ogni metro cubo di terra marziana ci sono circa 35 litri di acqua sotto forma di ghiaccio. Ma effettivamente fa meno figo.

Le patate crescono, Watney balla e se la spassa nella sua beata solitudine, trova anche il modo di mettersi in contatto con la Terra. Qui il regista sottolinea come la comunicazione fra i due pianeti sia un po’ problematica, e questo è più che giusto. Infatti, i segnali che trasportano le informazioni, per percorrere il tragitto Terra-Marte possono impiegare dai 6 ai 40 minuti. Finalmente una cosa fisicamente corretta, direte. Si, è vero. Ero contento.

La gioia di Watney sapendo che su Marte non c’era la suocera.

A questo punto Ridley Scott si è accorto che il suo capolavoro stava diventando un film della Disney e inserisce di prepotenza un colpo di scena. A causa di un malfunzionamento, si stacca il portellone che manteneva la base spaziale pressurizzata e con una temperatura umanamente accettabile. Infatti, la temperatura di Marte può andare da un minimo di -140 °C in “inverno” fino ad un massimo di 20 °C in “estate”. Ora, ammesso che fosse estate, comunque il nostro astronauta sfortunato si ritrovava a dover risolvere il problema della forte differenza di pressione (pari circa ad una atmosfera) tra il dentro e il fuori della base spaziale. E lui ci riesce! Come? Con un telo di plastica e un po’ di scotch. È una cosa possibile? Manco per scherzo. Con una tale differenza di pressione nemmeno la colla di Giovanni Mucciaccia poteva tenere il telo ancorato alla base.

“Cos’altro potrebbe andare storto?” e si stacca il portellone.

Ah, nel frattempo si vede un bellissimo tramonto così simile a quello terrestre. Anzi, aspetta, troppo simile: il tramonto sulla Terra è rosso perché i raggi solari vengono deviati in un certo modo dalle particelle presenti nell’atmosfera, ma avendo l’atmosfera marziana densità e composizione molto differenti da quella terrestre il tramonto sarebbe dovuto apparire di colore blu-indaco.

I compagni di avventura del buon Watney vengono poi informati del fatto che lo hanno lasciato solo a marcire su Marte. Dato che si sentivano più in colpa di me quando mangio la pizza al primo giorno di dieta, allora decidono di tornare a prenderlo. Atterrare sulla Terra e ripartire costerebbe troppo e gli farebbe perdere troppo tempo, così sfruttano l’effetto fionda per prendere velocità e tornare su Marte. Questa manovra è corretta e spesso usata nei viaggi spaziali per far prendere velocità alle navicelle: in poche parole, ci si avvicina abbastanza al pianeta per essere attirati dal suo campo gravitazionale, ma non troppo da caderci dentro e schiantarsi al suolo. In questo modo, come suggerisce il nome, si viene catapultati a velocità maggiore, proprio come funzionerebbe con una fionda. Nel frattempo gli astronauti, per alcune riparazioni, si avventurano in passeggiate spaziali senza nessun tipo di imbracatura o sostegno. Tanto, se sbagli di un millimetro puoi solo fluttuare per l’eternità nello spazio, che sarà mai.

Watney è estasiato (e giustamente direi, dopo tutti quei mesi a mangiare patate). Per poter effettivamente ricongiungersi al resto dell’equipaggio, Watney necessitava, ovviamente, di una navicella: fortuna che su Marte c’era già quella destinata alla missione successiva ad Ares 3, che riesce a raggiungere grazie ad un Rover marziano vicino alla sua base. Dalla NASA, però, gli dicono che deve alleggerirlo parecchio per far sì che parta. Bene, praticamente lo smonta tutto, e la parte finale del razzo, smontata anche quella, la copre con un telo di plastica attaccato con dello scotch (si, lo so, la fantasia non è il suo forte).

Rover marziano.

Gli altri astronauti nel frattempo arrivano in soccorso e Watney parte. Piccola parentesi: sapete cosa sono quelle stelle cadenti che vedete la notte di San Lorenzo? Sono piccoli detriti che entrano nell’atmosfera terrestre e, viaggiando ad alta velocità a causa dell’attrazione gravitazionale, prendono fuoco a causa dell’attrito con l’aria. Ora, va bene che l’atmosfera marziana è molto più rarefatta di quella terrestre, ma può un telo di plastica sopportare la velocità e il calore prodotto dall’attrito dovuto dal contatto telo-atmosfera? No. Lo scotch non avrebbe retto e il telo avrebbe preso fuoco.

Il signor Scott ha voluto inserire un ultimo colpo di scena. I fisici della NASA hanno sbagliato i calcoli di 200 metri. Possono sembrare pochi, ma a quelle velocità, anche solo qualche metro può risultare decisivo. Watney non sa come raggiungere i suoi compagni. Allora gli viene l’idea: “Buchiamo la tuta, in modo da sfruttare il getto d’aria come propulsore”. Dopo essermi ripreso dallo shock, con la mia ragazza che mi assicurava che presto sarebbe finito tutto, ho analizzato la situazione. Le tute spaziali sono pressurizzate e isolanti. Se fai un buco nella tuta, oltre a morire subito di freddo, a causa della fortissima differenza di pressione i polmoni collasserebbero. Quindi, in effetti, non gli rimane che scegliere come morire.

Inoltre, ci sono due piccole e insignificanti leggi della fisica che cozzano con questa genialata: i principi di conservazione della quantità di moto e del momento angolare. Infatti, una volta bucata la tuta, Watney doveva calcolare l’angolo di uscita del getto con elevatissima precisione, perché una volta stabilita la direzione del getto d’aria (e quindi una certa direzione del moto in un sistema isolato, come lo spazio) non la si può più cambiare in virtù del fatto che la quantità di moto si conserva. La stessa cosa vale per la conservazione del momento angolare: sempre se non fosse morto subito, una volta bucata la tuta molto probabilmente avrebbe cominciato a girare intorno ad un asse del tutto casuale. Anche se avesse raggiunto il comandante della missione, che nel frattempo si era fiondata a prenderlo, avrebbero cominciato a girare insieme senza riuscire a fermarsi, come nel tagadà della fiera. Tutto ciò perché lo spazio è vuoto e non si ha l’attrito.

Alla fine il nostro eroe, dopo mille peripezie, torna sano e salvo a casa ad insegnare come sopravvivere mangiando patate su Marte.

Nonostante i continui mancamenti durante la visione del film, devo dire che tutto sommato mi è piaciuto. Pieno di errori, certo, ma da un film di Hollywood non pretendo l’accuratezza scientifica dei documentari di Alberto Angela. Quindi gustatevelo, ma con occhio critico… da fisico.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

La Fisica di Star Wars #2: spade laser e Rotta di Kessel

Benvenuti in questo secondo episodio dedicato alla galassia lontana lontana, bando alle ciance andiamo a vedere le lightsabers e la rotta di Kessel.

Lightsabers

Le prime forme dell’arma erano conosciute come “protosabers” che richiedevano pacchi batteria, collegati all’elsa della lightsaber, attaccati a cinture indossate dai Jedi. Non erano l’ideale in quanto limitavano i movimenti dei Jedi durante il combattimento.

I componenti necessari per il funzionamento della lightsaber sono contenuti nell’elsa, il cuore dell’arma. Qui accade tutta la fisica, o forse la magia. Contiene le celle di potenza e vari altri componenti che puoi vedere nella foto sotto.

Descrizione di come l’energia delle cellule di potenza è diretta attraverso una serie di lenti di focalizzazione ed energizzatori che convertono l’energia in plasma. Fonte: Starwars Fandome

Si dice che le lightsabers siano composte da laser. Tuttavia, l’utilizzo dei laser solleva diversi problemi.

Qualcosa che rifletta la fine del raggio

Se avessi una spada laser, non esisterebbe un modo per “fermare” il raggio a una certa lunghezza. Andrebbe avanti e taglierebbe tutto lungo suo cammino. Sono in corso ricerche che sfruttano le leggi della meccanica quantistica e della relatività per fermare la luce per un breve periodo di tempo, ma non sarà ancora pratico in quanto si tratterebbe di un effetto temporaneo.

I laser non si scontrano

L’altro problema con i laser è che i fotoni non hanno massa. Se due fasci di luce si attraversassero, questi non si scontreranno, si incroceranno e continueranno a tagliare tutto.

Nella foto della cella di potenza nell’elsa ho menzionato il plasma. Il plasma è il quarto stato della materia, è un gas ionizzato superhot, il che significa che il gas diventa così caldo e/o così eccitato che gli elettroni perdono il legame con il loro atomo, rendendo il gas altamente conduttivo.

La spada laser al plasma ha diversi problemi legati a temperatura e incontrollabilità. Il plasma è altamente conduttivo, quindi grazie alle leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell possiamo controllarne la forma con un campo elettromagnetico, degli scienziati in Francia stanno cercando di controllarlo tramite la fusione nucleare.

Quando due lame al plasma entrano in contatto diretto, quasi certamente si verifica una riconnessione magnetica, provocando un rilascio esplosivo del plasma delle spade.

Eulero e Heisenberg dimostrarono che, per intensità sufficientemente elevate, la luce può effettivamente interagire con se stessa (effetto dovuto alle fluttuazioni quantistiche del vuoto).

Fonte di alimentazione compatta e abbastanza potente

L’energia necessaria per alimentare qualcosa di così potente richiederebbe una grande batteria. Non qualcosa di portatile. Per renderla abbastanza potente avresti bisogno di 15 MWh di energia, quanto basta per alimentare una piccola città.

Utilizzando tecniche di laser ad altissima intensità, è stato dimostrato che è necessaria un’incredibile quantità di energia per alimentare una simile spada laser. Se la fonte di energia fosse la fusione nucleare, una simile spada laser richiederebbe 1011 kg di combustibile per funzionare per un minuto.

E’ possibile nel mondo naturale della scienza replicare questo pezzo di armamento?

Il fisico teorico Michio Kaku nel suo libro ‘La fisica dell’impossibile’ ne parla brevemente. Crede che in questo secolo saremo abbastanza avanzati con la nostra nanotecnologia per fare grandi progressi nel campo delle batterie. Suggerisce di usare come lama un’asta telescopica in ceramica resistente al calore. Ci consentirebbe di esercitare il potere del plasma e quindi realizzare una spada laser che non violerà nessuna legge della fisica.

Rotta di Kessel

Mai sentito il famoso vanto di Han Solo secondo cui il Millennium Falconha fatto la rotta di Kessel in meno di 12 parsec“? Pochi sanno che da una prospettiva astronomica non aveva senso. Un Parsec è un’unità di distanza, non di tempo.

Perché Solo dovrebbe usarlo per spiegare la velocità del Millenium Falcon?

Ci sono due teorie. La prima è che la frase detta da Solo contenesse un errore di terminologia. La seconda è molto più interessante: quando Obi-Wan si è seduto di fronte ad Han Solo in quella cantina angusta, avrebbe incontrato un viaggiatore del tempo.

Cos’è il parsec?

Coniato dall’astronomo britannico Herbert Hall Turner, il termine “parsec” viene da “parallasse” e “secondo“, 1 parsec di distanza equivale a 3,26 anni luce (3,08×1016 metri).

The Essential Atlas, la rotta di Kessel era un percorso di 18 parsec (59 anni luce), utilizzato dai contrabbandieri per aggirare i blocchi imperiali, il cui percorso viaggia attorno a “The Maw“, un ammasso di buchi neri.

Perché Solo dovrebbe descrivere la velocità con cui ha viaggiato usando la distanza?

Per ridurre la distanza percorsa, i piloti dovrebbero aggirare pericolosamente i bordi dei buchi neri, cercando di evitare la spaghettificazione. Se Solo era un pilota abbastanza abile da volare abbastanza vicino ai buchi neri, e tagliare quasi 20 anni luce, allora la sua nave era davvero veloce.

Immagine della Rotta di Kessel Fonte: Slashgear

Essendo in grado di ballare attorno alle singolarità (buchi neri), il Millennium Falcon si afferma come una nave veloce e il vantarsi di Solo ha senso. Ma questo solleva un problema più intrinseco: la rotta Kessel copriva quasi 40 anni luce di cosmo. Se Star Wars seguisse le leggi della fisica, prendere quella rotta cambierebbe la cronologia della vita di Han Solo.

In A New Hope, Solo stabilisce che il Millennium Falcon può andare “0,5 oltre la velocità della luce“, accendendo la speranza per un’argomentazione scientificamente accurata. La velocità della luce è il limite di velocità universale e niente può superarla.

Viaggio nel tempo

Poiché la rotta di Kessel accorciata copre 12 parsec (39,6 anni luce), una nave che viaggia quasi alla velocità della luce impiegherebbe poco più di 39,6 anni per arrivarci. Considerando la dilatazione del tempo, chiunque guardasse la rotta di Kessel avrebbe visto Solo accelerare per 40 anni, ma Solo stesso avrebbe vissuto solo poco più di mezza giornata. Nel tempo necessario a Han per completare solo una rotta di Kessel, nel resto della galassia passano 40 anni.

C’è la scappatoia dell’azionamento a curvatura. Se riesci a percorrere una distanza minore piegando lo spazio stesso, non c’è problema di dilatazione del tempo. Ma un dispositivo di azionamento a curvatura non è mai menzionato esplicitamente in Star Wars.

Come potrebbe funzionare una simile rotta di contrabbando? Chi ha la lungimiranza di contrabbandare qualcosa che l’altra parte non vedrà per 40 anni? E immagina come funzionerebbe per il contrabbandiere. Parte per una rotta Kessel, e 16 ore dopo torna per scoprire un mondo cambiato.

“May the Force be with You, Always!”

 

Gabriele Galletta

La Fisica di Star Wars #1: dalle pistole laser alla maschera di Darth Vader

Dalla velocità della luce agli hyper drive, dalle spade laser ai robot autonomi, Star Wars è stato sicuramente molto in anticipo sui tempi, nonostante risalga diversi anni fa.

L’obiettivo principale dei film di Star Wars non è la valenza scientifica, bensì il dramma, la filosofia e la scienza politica. Anche se nell’epopea interstellare la scienza e la tecnologia sono parte integrante nelle sue ambientazioni.

Le tecnologie di domani erano in piena esposizione. Alcune sono diventate realtà (ologrammi, display a testa alta, braccia robotiche), altre sono in vista (atterraggio di persone su altri pianeti, robot in ogni casa), alcune potrebbero non esistere mai (stelle artificiali e, purtroppo, vere spade laser).

Andiamo a vedere in questa prima parte alcune di queste tecnologie:

Blaster bolts

Star Wars fa un uso massiccio di blaster e armi ioniche, attribuiti a proiettili di luce basati su laser, plasma o particelle. I personaggi possono essere visti fuggire, o persino schivare quei dardi, e gli stessi dardi blaster possono essere visti volare a una velocità moderata-elevata. Schivare un proiettile laser, in realtà, sarebbe quasi impossibile, poiché viaggerebbe alla velocità della luce. A causa di ciò, è ragionevole che il fuoco del blaster passi come una scintilla e colpisca il bersaglio. A volte, i personaggi chiamano i dardi “dardi laser” che, sebbene non viaggino alla velocità della luce, sono fatti di intensa energia luminosa.

Tuttavia, molte fonti canoniche ufficiali di Star Wars affermano che la tecnologia blaster è diversa dai laser reali. Secondo il canone ufficiale, sono una forma di fascio di particelle. Ciò è supportato dal modo in cui le pareti “sigillate magneticamente” le deviano.

L’Accademia polacca delle scienze in collaborazione con l’Università di Varsavia è riuscita a filmare un impulso laser ultra corto utilizzando telecamere che producono miliardi di fotogrammi al secondo. Questi impulsi laser erano così potenti che quasi istantaneamente ionizzavano gli atomi che incontravano, determinando la formazione di un filamento di fibra di plasma.

Gli effetti di un blaster su un bersaglio vivo sono stati ritratti più o meno allo stesso modo in ogni episodio della serie di Star Wars. Poiché i dardi blaster sono costituiti da energia basata sulla luce o sulle particelle, i dardi brucerebbero attraverso la carne di un bersaglio, alcuni addirittura esplodendo contro il loro bersaglio, esercitando una grande forza. Quest’ultimo effetto era di solito evidente da un blaster con dimensioni maggiori. È stato persino dimostrato che i blaster sfruttano l’energia del plasma come munizioni, che è raffigurata come dardi blu.

Vibrazioni nel vuoto

Star Wars è famoso per i suoi epici combattimenti spaziali. I suoni di blaster, motori ed esplosioni possono essere ascoltati in quelle scene spaziali. Lo spazio tuttavia è vuoto e, poiché il suono richiede la propagazione della materia, il pubblico non dovrebbe sentire alcun suono.

Ciò è stato spiegato in alcuni media di Star Wars come il risultato di un sistema di sensori che crea un suono tridimensionale all’interno della cabina di pilotaggio o della plancia, che corrisponde al movimento esterno di altre navi, come una forma di interfaccia multimodale. Nel romanzo canonico “Lords of the Sith viene spiegato che i personaggi in una galassia lontana, molto lontana, in effetti non sentono alcun suono nello spazio se non più confinati dai loro caschi.

Pertanto, la capacità del pubblico di sentire il suono nel vuoto non viene condivisa dai personaggi iconici; è invece sfruttata solo dagli spettatori come interpretazione per immaginare quali suoni sentiamo nei film come artefatti fuori dall’universo.

Maschera Darth Vader

La prima cosa che si sente dopo la Marcia Imperiale è di solito il respiro affannoso di Darth Vader. Vader ha il disturbo respiratorio più ampiamente riconosciuto nel mondo del cinema e c’è una vera scienza a sostegno di questo.

All’ospedale universitario danese Rigshospitalet, gli studenti hanno studiato le abitudini respiratorie di Vader per capire meglio come diagnosticare i problemi respiratori in base al suono. Questo studio peer-reviewed ha concluso che i problemi polmonari di Vader provenivano dalla inalazione di gas caldo e particelle vulcaniche su Mustafar, dove ha perso il suo duello con Obi-Wan Kenobi. I gas hanno causato un’infiammazione cronica dei suoi polmoni con formazione di tessuto spesso e rigido. La sua maschera è una camera iperbarica pressurizzata indossabile che forza l’aria nei suoi polmoni, rendendolo in grado di sopravvivere.

Schema di funzionamento della maschera di Vader Fonte: Star Wars Fandom

Il team di ricerca ha scoperto che la frequenza respiratoria di Vader variava in base al suo livello di attività. Quando si sedeva o aveva una conversazione casuale con l’Imperatore, il suo respiro era di 13 atti al minuto. Era aumentato a 16 durante le responsabilità quotidiane, come torturare dipendenti o nemici, e a 25 quando era stressato. Il suo respiro raggiungeva i 29 respiri al minuto quando era in duello o camminava veloce. La maschera evidentemente ha funzionato come soluzione per Vader per 22 anni. Vader richiedeva un’integrazione costante di ossigeno insieme a pressioni positive delle vie aeree per supportare la respirazione e prevenire l’insufficienza delle stesse.

A causa di tali scoperte, il team ha concluso che la maschera era un sistema avanzato di pressione positiva delle vie aeree bilivello (BPAP) e che il disturbo respiratorio di Vader includeva elementi sia ostruttivi che restrittivi derivanti da infiammazione alveolare cronica, fibrosi e forse deformità toraciche. Tutta questa scienza dietro Darth Vader e la sua maschera deriva semplicemente dai suoi schemi di respirazione e dalla tecnologia della maschera.

In conclusione

Molte delle funzionalità o delle tecnologie utilizzate nell’universo di Star Wars non sono ancora considerate possibili. Nonostante ciò, i loro concetti sono ancora probabili.

Anche se non possiamo necessariamente attribuire queste scoperte scientifiche solo a Star Wars (molte di queste idee risalgono a molto prima), possiamo dire che Star Wars potrebbe essere la ragione per ispirare molti scienziati a continuare e migliorare ciò che è stato già scoperto e fatto. Soprattutto, a Star Wars hanno contribuito scienziati che pensavano alla tecnologia futura, più che mai. Scienziati di spunto che scarabocchiano formule su carta con la Marcia Imperiale che suona in sottofondo.

Nella seconda parte scopriremo le famosissime lightsaber e il segreto di Han Solo sulla rotta di Kessel.

“May the Force be with You, Always!”

Gabriele Galletta

 

I misteri della pioggia extraterrestre tra diamanti, rubini e zaffiri

Si avvicina la stagione autunnale e come ben sappiamo le piogge insieme a essa. Diamo per scontato ciò che abbiamo ma bramiamo ciò che ci manca. Nel nostro pianeta piove acqua, in base alle zone è un evento eccezionale o meno, ma comunque un evento a cui siamo abituati e al quale quasi non facciamo più caso. Ma cosa succederebbe se al posto di acqua piovesse ferro o meglio ancora diamanti? Impossibile direte voi, ma come scopriremo, questi eventi non sono poi così lontani dalla realtà in altri pianeti.

Cosa piove sugli altri pianeti?

Come vedremo in base alla composizione dell’atmosfera di ogni pianeta cambia la tipologia di pioggia.

Venere (Acido solforico)

Venere è il secondo pianeta dal Sole e, per molti versi, è proprio come la Terra. È simile per dimensioni, massa, composizione e persino vicinanza al Sole, ma è qui che finiscono le somiglianze. L’atmosfera di Venere è composta per il 96,5% da anidride carbonica, mentre la maggior parte del restante 3,5% è azoto.

La sua atmosfera è estremamente densa e si stima che la massa atmosferica sia 93 volte quella dell’atmosfera terrestre, mentre la pressione sulla superficie del pianeta è circa 92 volte quella sulla superficie terrestre. Le prime prove indicavano il contenuto di acido solforico nell’atmosfera, ma ora sappiamo che si tratta di un costituente piuttosto minore (sebbene ancora significativo) dell’atmosfera.

Poiché la CO2 è un gas serra e Venere ne ha così tanto, le temperature sul pianeta raggiungono i 462 °C, molto più alte di quelle di Mercurio, che è molto più vicino al Sole.

L’atmosfera venusiana sostiene nuvole opache di acido solforico, che si estendono da circa 50 a 70 km. Sotto le nuvole c’è uno strato di foschia fino a circa 30 km e al di sotto è chiaro. Al di sopra del denso strato di CO2 vi sono spesse nubi costituite principalmente da anidride solforosa e goccioline di acido solforico.

Composizione dell’atmosfera di Venere

Il fatto è che non piove sulla superficie di Venere, mentre la pioggia di acido solforico cade nell’atmosfera superiore, evapora a circa 25 km sopra la superficie.

HD 189733 b (Vetro)

HD 189733 b è un pianeta extrasolare a circa 63 anni luce dal Sistema Solare. Il pianeta è stato scoperto nel 2005.

Con una massa del 13% superiore a quella di Giove, HD 189733 b orbita attorno alla sua stella ospite una volta ogni 2,2 giorni, rendendolo un cosiddetto Giove caldo. I Giove caldi sono una classe di pianeti extrasolari le cui caratteristiche sono simili a Giove, ma che hanno temperature superficiali elevate perché orbitano molto vicino alla loro stella.

Il pianeta è stato scoperto utilizzando la spettroscopia Doppler, un metodo indiretto per rilevare pianeti extrasolari. Fondamentalmente, non osservi il pianeta stesso, studi le sue stelle e noti piccole oscillazioni in esso con spostamenti Doppler. Nel 2008, un team di astrofisici è riuscito a rilevare e monitorare la luce visibile del pianeta, il primo successo di questo tipo nella storia. Questo risultato è stato ulteriormente migliorato dallo stesso team nel 2011. Hanno scoperto che l’albedo planetario è significativamente più grande nella luce blu che nel rosso. Ma il blu non proviene da un oceano o da qualche superficie acquosa, proviene da un’atmosfera nebulosa e turbolenta che si crede sia intrisa di particelle di silicato, la materia di cui è fatto il vetro naturale.

Il pianeta ha venti incredibilmente veloci e una temperatura stimata di oltre 1000 °C, quindi la pioggia è probabilmente più orizzontale che verticale.

Ricostruzione di HD 189733 b della Nasa

Nettuno (Diamanti)

Nettuno è l’ottavo pianeta del Sistema Solare. La composizione di Nettuno è simile a quella di Urano e diversa da quella dei giganti gassosi come Saturno e Giove.

L’atmosfera di Nettuno è composta principalmente da idrogeno ed elio, insieme a tracce di idrocarburi e forse azoto; tuttavia, contiene una percentuale maggiore di “ghiacci” come acqua, ammoniaca e metano.

Il tempo di Nettuno è caratterizzato da sistemi di tempeste estremamente dinamici, con venti che raggiungono velocità di quasi 600 m/s (2160 km/h). L’abbondanza di metano, etano ed etino all’equatore di Nettuno è 10-100 volte maggiore che ai poli. È stato teorizzato che Urano e Nettuno frantumino effettivamente il metano in diamanti e gli esperimenti di laboratorio sembrano confermare che ciò è possibile. Tuttavia, hai bisogno di pressioni significative per farlo, e devi percorrere circa 7000 km all’interno del pianeta, ma il pianeta è fatto di gas (grosso modo l’80% di idrogeno, il 19% di elio e l’1% di metano).

Si stima che ad una profondità di 7000 km le condizioni possano essere tali che il metano si decomponga in cristalli di diamante che piovono verso il basso come chicchi di grandine.

I diamanti possono essere molto rari sulla Terra, ma gli astronomi ritengono che siano molto comuni nell’universo. Diamanti di dimensioni molecolari sono stati trovati nei meteoriti e recenti esperimenti suggeriscono che grandi quantità di diamanti si formano dal metano sui pianeti giganti del ghiaccio come Urano e Nettuno. Alcuni pianeti in altri sistemi solari possono essere costituiti da un diamante quasi puro.

Nettuno e Urano non sono unici in questo senso. C’è una buona possibilità che molti altri giganti gassosi nella nostra galassia abbiano atmosfere simili. In effetti, uno studio recente ha scoperto che un particolare pianeta chiamato 55 Cancri E ha un mantello che potrebbe essere principalmente diamante. Questo perché la composizione del pianeta contiene alti livelli di atomi di carbonio che, a temperature e pressioni previste, verrebbero compressi in diamanti.

OGLE-TR-56b (Ferro)

Gli astronomi dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA) di Cambridge lo rilevarono nel 2003. All’epoca era il pianeta più lontano mai scoperto e, sebbene quel record sia stato battuto da tempo, non abbiamo davvero imparato molto a proposito.

OGLE-TR-56b è anche un Giove caldo, con una temperatura superficiale stimata di 2000 °C, che è abbastanza calda da formare nuvole fatte di atomi di ferro. Non abbiamo informazioni dirette per confermarlo, sebbene gli astronomi abbiano riportato prove della pioggia di ferro sulle nane brune, le cosiddette “stelle fallite“, oggetti troppo grandi per essere un pianeta ma troppo piccoli per essere una stella.

Le dimensioni di Ogle-tr-56b messe a confronto con quelle di Giove

Titano (Metano)

Titano è la più grande luna di Saturno. È l’unico satellite naturale noto per avere un’atmosfera densa e l’unico oggetto diverso dalla Terra in cui è stata trovata una chiara evidenza di corpi stabili di liquido superficiale. Titano ha mari liquidi fatti di idrocarburi, laghi, montagne, nebbia, oceani sotterranei e sì, piove metano su Titano. In effetti, la Terra e Titano sono gli unici mondi del Sistema Solare in cui piove liquido su una superficie solida. Anche in questo caso, la pioggia è metano e non acqua.

HAT-P-7b (Rubini e Zaffiri)

I diamanti non sono abbastanza? Segnali di potenti venti mutevoli sono stati rilevati su un pianeta 16 volte più grande della Terra chiamato HAT-P-7b, ma non è certo la cosa più impressionante di questo pianeta. Sebbene sia difficile confermarlo, gli astronomi ritengono che le nuvole su questo pianeta sarebbero fatte di corindone, una forma cristallina di ossido di alluminio che forma rubini e zaffiri.

Anche se uno spettacolo del genere sarebbe senza dubbio visivamente sbalorditivo, è anche un posto infernale. A parte queste nuvole insolite, HAT-P-7b rimane molto importante come primo rilevamento del tempo su un pianeta gigante gassoso al di fuori del sistema solare.

Questi casi sono solo l’inizio della conversazione sulla pioggia su altri pianeti. Non siamo nemmeno entrati nella neve di ghiaccio secco su Marte, pioggia di elio liquido su Giove o della pioggia di plasma sul Sole.

L’universo è un luogo grande e selvaggio e stiamo appena iniziando a graffiarne la superficie. Sebbene possa piovere acqua sulla Terra, questa non è assolutamente la regola: su molti pianeti diversi, può piovere molte cose diverse. Chissà cosa scopriremo in futuro?

Gabriele Galletta

 

Nuove tecnologie per un mondo sempre più green: TiO2 e fotocatalisi

Le proprietà fotocatalitiche del TiO2 possono rivoluzionare il settore rinnovabile, grazie alle loro capacità di decontaminazione

 

Al giorno d’oggi, una delle più grandi sfide che il mondo si trova ad affrontare è il passaggio da uno sfruttamento intensivo delle risorse terrestri ad un utilizzo “green” di ciò che la Terra ci offre.

Così il mondo della ricerca ha ideato vari dispositivi per sfruttare le energie rinnovabili, quali celle solari (delle quali abbiamo parlato in un precedente articolo), pale eoliche, reattori nucleari, ecc. Ma una conversione green passa anche attraverso la pulizia dell’acqua che utilizziamo e dell’aria che respiriamo.

Per venire incontro a queste esigenze, gli scienziati si sono affidati ai materiali fotocatalitici. Cosa sono? E soprattutto, cos’è la fotocatalisi?

La fotocatalisi

La fotocatalisi, secondo la Treccani, è “l’azione in virtù della quale alcuni materiali semiconduttori […] sotto l’azione della luce possono dar luogo a reazioni di riduzione o di ossidazione di sostanze indesiderate presenti anche in piccole quantità”.

Può anche essere definita come l’accelerazione della velocità di processo di una fotoreazione per la presenza di un catalizzatore (materiale che modifica la velocità di una reazione chimica, senza rientrare nei prodotti finali).

Un fotocatalizzatore, nella fattispecie, diminuisce l’energia di attivazione di un determinato processo, in modo che sia più semplice che inizi.

La fotocatalisi eterogenea avviene quando scegliamo come sistema fotocatalizzatore un insieme di particelle di semiconduttore aventi proprietà fotocatalitiche, poste a contatto con l’acqua o il gas con i quali vogliamo che reagiscano. Quando il fotocatalizzatore viene esposto alla luce, vengono generati degli stati eccitati capaci di dare il via a reazioni redox o trasformazioni molecolari.

Cosa avviene nel dettaglio?

Ricordando la struttura a bande dei semiconduttori (che abbiamo spiegato nel precedente articolo), quando un fotone di energia superiore all’energy gap colpisce il semiconduttore, viene prodotta una coppia elettrone – lacuna, con l’elettrone che passa quindi dalla banda di valenza alla banda di conduzione. Nei semiconduttori alcune di queste coppie elettone fotoeccitato – lacuna diffondono sulla superficie della particella catalitica, prendendo parte alla reazione chimica con le molecole assorbite: donatore o accettore.

Uno dei più utilizzati e promettenti semiconduttori, avente una forte attività fotocatalitica (grazie all’assorbimento diretto di fotoni, può partecipare a reazioni chimiche di superficie), è il biossido di Titanio (TiO2), o più semplicemente la Titania. Possiede infatti delle proprietà uniche:

  1. Alto indice di rifrazione e alto grado di trasparenza nella regione dello spettro visibile, che lo rendono ideale nell’energy storage, nonostante assorba solo il 5% della radiazione solare incidente;
  2. alta porosità;
  3. alta affinità superficiale;
  4. bassi costi e facile produzione in grandi quantità (che lo rendono quindi scalabile per le aziende);
  5. inerzia chimica;
  6. non tossicità;
  7. biocompatibilità.

La Titania si presenta in 3 forme cristalline (rutilo e anatasio, le quali sono le forme più diffuse in natura, e la brookite) e in fase amorfa. La fase rutilo è più stabile rispetto all’anatasio, ma la seconda possiede una maggiore attività fotocatalitica.

 

Nell’immagine possiamo vedere le strutture delle fasi a) anatasio e b) rutilo

 

Ma quali applicazioni ha il TiO2?

DECONTAMINAZIONE

Abbiamo detto che, se un fotone ha una energia maggiore dell’energy gap, produce una coppia elettrone-lacuna.

Una delle caratteristiche degli ossidi dei metalli semiconduttori è il forte potere ossidante delle loro lacune. Queste possono, ad esempio, reagire con l’acqua assorbita sulla loro superficie: si ha così la formazione di un radicale ossidrile molto reattivo (OH). Lacune e gruppi ossidrili possono ossidare la maggior parte dei contaminanti organici, riuscendo così a decontaminare l’acqua.

Quando una molecola di ossigeno presente nell’aria reagisce con un elettrone, invece, si comporta come accettore di elettroni per formare uno ione super-ossido, particelle fortemente reattive capaci di ossidare materiali organici inquinanti.

Queste due applicazioni rendono il TiO2 ideale per l’applicazione nella decontaminazione di acqua e aria.

PRODUZIONE DI MATERIALI AUTOPULENTI

Uno strato sottilissimo di Titania è utilizzato anche come copertura nelle lastre di vetro. Quando un fotone incidente colpisce questo strato di TiO2 si producono, come è noto, elettroni e lacune. Attraverso i meccanismi precedentemente descritti, molte sostanze organiche adsorbite dalle superfici vengono decomposte e, grazie all’idrofilia foto-indotta, vengono fatte scorrere dall’acqua sulle superficie, che porta con sé i materiali inquinanti.

La caratteristica idrofila della superficie avviene grazie alle reazioni redox che avvengono a seguito della irradiazione di fotoni. In questo processo viene espulso ossigeno, creando quindi una vacanza. Queste vacanze vengono colmate dall’acqua producendo gruppi ossidrilici adsorbiti e quindi siti idrofili superficiali, mentre il resto della superficie mantiene caratteristiche idrofobiche. Maggiore è l’esposizione alla radiazione solare, maggiori saranno i siti idrofili che si formeranno. L’acqua piovana, quindi, tenderà a formare un fil continuo, piuttosto che raccogliersi in gocce, rendendo più facile il trasporto di inquinanti.

 

Fonte: Tribuna di Treviso

 

ABBATTIMENTO DELL’INQUINAMENTO CITTADINO DA NOx

Immaginiamo di dotare le pavimentazioni stradali e le pareti delle varie strutture cittadine di coperture composte da TiO2. I gas inquinanti prodotti dalle automobili, come il NOx, filtrano attraverso la superficie porosa e si legano alle particelle di TiO2. Quando i fotoni incidono la Titania, vengono prodotte le solite coppie elettrone-lacuna, si ottiene la fotoattivazione e quindi la decomposizione di gas nocivi quali NO e NO2, adsorbite nelle particelle e trasformati in acido nitrico (HNO3). L’acqua piovana porta con sé quindi l’acido nitrico come ioni nitrati, del tutto innocui, oppure il carbonato di calcio alcalino contenuto nei materiali può neutralizzare l’acido. Questo processo è quindi simile a quello che avviene nelle piante e negli alberi grazie alla fotosintesi clorofilliana.

 

Fonte: materialidesign.it

 

AZIONE ANTIMICROBICA

Batteri e funghi, anche molto resistenti, come l’Escherichia coli e lo Staphylococcus, vengono decomposti grazie al forte potere ossidante della Titania. Il TiO2 è molto più forte di altri agenti antimicrobici, perché agisce anche quando le superficie sono coperte da cellule e quando i batteri si stanno attivamente propagando.

 

Conclusioni

Il TiO2 continua a stupire i ricercatori grazie alle sue proprietà fotocatalitiche. In futuro, un suo largo utilizzo potrebbe garantire una notevole decontaminazione di materiali inquinanti e batteri, rendendo sempre più “green” le città in cui viviamo.

 

 

Giovanni Gallo

Nuove tecnologie per un mondo sempre più green: celle solari di ultima generazione

La sfida dei ricercatori di tutto il mondo per migliorare l’efficienza dei dispositivi fotovoltaici

Parola d’ordine: energia rinnovabile. Come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, una delle sfide più difficili ma al contempo stimolanti è la ricerca di fonti di energia rinnovabili che garantiscano l’indipendenza dai combustibili fossili, soddisfacendo al contempo la richiesta energetica mondiale.

Sulla Terra sono numerose le fonti di energie rinnovabili. Si pensi ad esempio al vento, alle maree, alle onde, ai nuclei radioattivi, ecc.; ma ce n’è una, proveniente dallo spazio, che se sfruttata a dovere può risultare promettente: l’energia solare.

Il Sole, quotidianamente, grazie alle reazioni nucleari che avvengono al suo interno, invia sulla Terra una quantità spaventosa di radiazioni. È stato calcolato che ogni giorno il Sole irradia alle soglie dell’atmosfera terrestre, in media, 1367 W/m2 di potenza, che può essere raccolta e convertita in energia elettrica. Per ottenere questa conversione, bisogna tenere conto di diversi fattori:

  • Climatici, come la copertura nuvolosa: le nuvole bloccano parte della radiazione solare;
  • Geografici, come la latitudine: all’equatore l’energia solare raccolta sarà maggiore che ai poli;
  • Tecnologici, ovvero l’efficienza di raccolta delle celle solari, che sarà l’oggetto di discussione di questo articolo.

Andremo quindi a vedere com’è strutturata una cella solare, come funziona e quali sono le recenti innovazioni nel settore.

CELLE SOLARI – INFORMAZIONI PRELIMINARI

Le più comuni celle solari sono realizzate in Silicio, uno dei più abbondanti materiali presenti nella crosta terrestre, appartenente alla classe dei semiconduttori e, in assoluto, il re indiscusso dell’elettronica. Infatti gli hardware dei più comuni dispositivi tecnologici, dallo smartphone al computer, dalla televisione alla lavatrice, sono realizzati con questo importante materiale semiconduttore.

Ma quali sono le proprietà del Silicio, che permettono alle celle solari di convertire l’energia solare in elettrica?

Addentrandoci un po’ più a fondo nella fisica della materia, apprendiamo come i solidi abbiano tutti una struttura definita “a bande”: banda di valenza (nella quale sono presenti gli elettroni legati ai nuclei) e banda di conduzione (nella quale sono presenti gli elettroni non legati ai nuclei che permettono, dunque, la conduttività). In base a come queste sono disposte, possiamo distinguere conduttori, semiconduttori ed isolanti.

  • Nei conduttori, banda di valenza e banda di conduzione sono sovrapposte: ciò permette agli elettroni di poter facilmente “slegarsi” dai nuclei e passare in banda di conduzione, in modo da consentire il passaggio di elettricità.
  • Negli isolanti, invece, non vige questa proprietà, poiché gli elettroni sono fortemente legati ai nuclei e quindi è difficile il loro passaggio dalla banda di valenza alla banda di conduzione.
  • Nei semiconduttori, che altro non sono che una via di mezzo tra conduttori e isolanti, le bande di valenza e di conduzione sono energeticamente distanti tra loro, ma in modo da non rendere troppo difficile il passaggio di un elettrone dall’una all’altra banda.

 

Struttura a bande

 

Ma quindi, nelle celle solari come avviene la conversione dell’energia solare in energia elettrica?

Quando un fotone (particella di luce) raggiunge la cella solare, un elettrone in banda di valenza assorbe la sua energia e raggiunge la banda di conduzione, lasciando una lacuna (vacanza di un elettrone) in banda di valenza. Grazie ad un sistema esterno, gli elettroni che raggiungono la banda di conduzione vengono raccolti e utilizzati per l’alimentazione domestica.

Questa conversione presenta, però, una serie di problematiche. Le più importanti sono:

  • la riflessione: alcuni fotoni incidenti vengono riflessi dagli strati superficiali della cella solare;
  • l’efficienza di ricezione dei fotoni: non tutta la luce che raggiunge le celle solari viene raccolta;
  • la ricombinazione: molti degli elettroni che raggiungono la banda di conduzione si ricombinano con le lacune, cioè tornano in banda di valenza, rendendo quindi nulla la raccolta dei fotoni che li ha generati.

Al fine di ottimizzare questi dispositivi, i fisici hanno incentrato la loro ricerca sul miglioramento dell’efficienza di ricezione, evitando il più possibile la ricombinazione.

Negli ultimi anni, sono stati realizzati diversi tipi di celle solari, ognuna di loro con le proprie peculiarità e limitazioni. Andremo ora a descrivere il funzionamento di alcune di esse.

CELLE SOLARI ETEROGIUNZIONE

Le celle solari eterogiunzione, tra tutti i dispositivi fotovoltaici, sono tra le più promettenti. Sono composte da strati di diverso materiale, aventi quindi diversi energy gap (ovvero l’apporto energetico che necessita un elettrone per passare dalla banda di valenza a quella di conduzione). I suddetti strati vengono impilati, in genere, partendo da quello con energy gap maggiore sulla superficie fino ad arrivare a quello con energy gap minore; questa struttura permette alle celle solari di prendere la maggior parte dei fotoni, tutti con energie diverse, compresi nello spettro solare.

 

Pannelli fotovoltaici eterogiunzione

 

Al Liten, uno degli istituti di ricerca della francese Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives, sono state prodotte delle celle solari eterogiunzione con un picco dell’efficienza di conversione (la capacità del processo di ricevere un fotone e convertirlo in elettricità) del 24,25%. Questo risultato è stato raggiunto grazie agli sviluppi sugli strati trasparenti di ossido conduttivo e ai sempre minori danni associati al trattamento degli strati durante la produzione. “I test eseguiti confermano che la tecnologia delle celle eterogiunzione in silicio è praticabile sia in termini di tecnologia che di producibilità”, spiegano gli scienziati. I prossimi obiettivi dell’istituto di ricerca sono quelli di diminuire i costi, rendendo le celle fruibili in larga scala, aumentandone l’efficienza.

CELLE SOLARI CON NANOFILI DI SILICIO

Questo tipo di celle solari presenta la superficie coperta da nanofili di Silicio drogati che, grazie alle loro piccolissime dimensioni (alcuni nanometri), riescono a catturare meglio i fotoni incidenti mediante le loro proprietà quantistiche.

 

Gaute Otnes, Lund University

 

Ad oggi questi dispositivi non sono fruibili sul mercato, ma i ricercatori le considerano comunque molto promettenti, nonostante ai pro si contrappongano anche diversi contro: se è vero che queste celle solari sono molto poco dispendiose e occupano meno spazio rispetto alle celle solari comuni, è anche vero che alcuni meccanismi non si conoscono ancora alla perfezione (come per esempio la fase di drogaggio dei nanofili) ed inoltre l’efficienza non è ancora elevatissima rispetto ad altre tecnologie.

CELLE SOLARI ORGANICHE

Le celle solari organiche si ispirano al processo naturale della fotosintesi clorofilliana. Sono composte da tutti quei dispositivi fotovoltaici realizzati tramite l’utilizzo di composti organici, ovvero in base carbonio. La loro struttura è composta a strati realizzati con materiali fotoattivi, intercalati tra due elettrodi conduttivi, ed un substrato composto da vetro o plastica flessibile.

 

In questa figura possiamo notare la flessibilità delle celle solari organiche

 

Le miscele di materiali che compongono gli strati presentano dei pigmenti che hanno il compito di assorbire la radiazione solare, mentre gli altri componenti estraggono gli elettroni. La gamma di pigmenti che possono essere impiegati include quelli a base vegetale, come le antocianine derivate dai frutti di bosco, i polimeri e le molecole sintetizzate.

In questa famiglia di celle solari si possono annoverare: le celle “dye sensitized” (la cui parte fotoelettricamente attiva è costituita da un pigmento, da ossido di titanio e da un elettrolita), organiche (la cui parte attiva è totalmente organica o polimerica), ibride organico/inorganico e ibride biologico.

L’efficienza di queste celle solari non permette ancora un largo utilizzo nel settore privato, ma in prospettiva possono essere molto promettenti grazie alle loro caratteristiche “green”: infatti, i pigmenti naturali sono facilmente biodegradabili e i costi di produzione sono molto ridotti rispetto alle normali celle solari.

CELLE SOLARI CON PEROVSKITI

Il gruppo di ricerca guidato da Steve Albrecht e Bernd Stannowski ha prodotto, presso i laboratori dell’Helmholtz Center di Berlino (HCB), una cella solare tandem realizzata con due semiconduttori, Silicio e Perovskite, che ha raggiunto una efficienza del 29,15%. Questo valore, confermato dal CalLab del Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems (ISE), risulta essere tra i più alti mai raggiunti nel campo del fotovoltaico.

 

Cella solare Silicio-Perovskite

 

La struttura Silicio-Perovskite possiede una tale efficienza grazie alle proprietà elettroniche dei due materiali: infatti il Silicio cattura i fotoni meno energetici, mentre la Perovskite raccoglie i fotoni ad energia maggiore. In tal modo la cella solare riesce a coprire la quasi totalità dello spettro solare, massimizzando l’efficienza.

Nonostante gli ottimi risultati sperimentali raggiunti dalle celle solari Silicio-Perovskite, i costi non le rendono ancora competitive a livello industriale.

CONCLUSIONI

Negli ultimi anni, sempre più gruppi di ricerca si stanno impegnando per migliorare le caratteristiche delle celle solari al fine di ottenere una larga scalabilità, senza venir meno alle esigenze riguardo l’efficienza. I risultati ottenuti fino ad ora sono molto promettenti e stimolanti, sebbene ancora le celle solari non siano tra i dispositivi più efficienti per la produzione di energia rinnovabile.

Nei prossimi articoli vedremo altri esempi di energie rinnovabili e dispositivi per il loro utilizzo.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Studiare Fisica a Messina: alla sua scoperta dal micromondo al macromondo

Se si chiede ad uno studente quali sono le materie più temute, sicuramente tra di esse compaiono la Matematica e la Fisica. Ma questo timore è giustificato? Questa intervista vi convincerà a studiare Fisica presso l’Ateneo messinese.

 

 

Perché uno studente oggi dovrebbe iscriversi al Corso di Laurea in Fisica a Messina?

La Fisica a Messina ha una lunga ed affermata tradizione sia in ambito teorico che sperimentale. Le conoscenze e competenze specifiche acquisite di fatto risultano utili anche nell’ambito socio-economico, dove la capacità di analisi di un fisico diventa strategica.

«Il bello della fisica – dice la prof.ssa Fazio – è quello di capire com’è fatto il mondo che ci circonda. È emozionante poter studiare fenomeni che ancora non sono stati compresi e trovare nuovi ed imprevisti comportamenti». I laureati in Fisica a Messina, alla stessa stregua dei colleghi di altre Università nazionali, sono considerati molto preparati e riescono ad acquisire importanti posizioni tanto in Italia quanto all’estero. Le numerose applicazioni fisiche, corrispondenti a diversi sbocchi occupazionali, devono essere di incoraggiamento ad intraprendere tale percorso formativo.

Inoltre: “L’ambiente Fisica a Messina è molto stimolante – aggiunge il Dr. Gallo – io stesso come laureato in Fisica a Messina posso dire che è “a misura di studente”, e questo consente dialogo continuo e collaborazione tra studenti e docenti”.

Quale circostanza particolarmente importante l’ha portata a scegliere di studiare fisica?

“Perché avevo una passione per la conoscenza delle leggi che regolano la natura”, risponde il Dr. Corsaro. “La Fisica è la scienza che comprende e descrive le leggi naturali in modo quantitativo. Tanto la ricerca di base quanto le numerose applicazioni fisiche affascinano da sempre coloro che vedono nello studio l’unico modo di crescita personale volta all’affermazione nella vita sociale e nel mondo del lavoro”.

Qual è il profilo tipo di un laureato in Fisica Triennale? E dopo la Triennale?

Risponde il Coordinatore del CdL Prof. Rosalba Saija: “Il corso di Laurea Triennale di Fisica forma laureati provvisti di una valida cultura nella fisica e nelle tecnologie fisiche basata sulla capacità di lavorare utilizzando il metodo scientifico in maniera sistematica”.

Inoltre, “Il laureato triennale in Fisica, previo superamento dell’esame di stato, può iscriversi alla Sezione B dell’Ordine Professionale dei Chimici e dei Fisici. Può accedere ai corsi di Laurea Magistrali e ai corsi di Master di I livello di Area Scientifica. Presso l’Ateneo di Messina è attivo il corso di Laurea Magistrale in Physics caratterizzato da tre curriculum:

  • Condensed Matter Physics organizzato per far acquisire agli studenti competenze volte alla progettazione di nuovi materiali e dispositivi per il mondo HighTech;
  • Fisica Applicata per far acquisire agli studenti competenze in biofisica e fisica biomedica;
  • Fisica Nucleare e Particellare, con lo scopo di sviluppare strumentazione scientifica all’avanguardia e contribuire alla ricerca di base”.

Dopo la laurea Magistrale, è possibile accedere al Corso di Dottorato di Ricerca in Fisica. “Si tratta di un periodo di formazione – afferma la prof.ssa Crupi, Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Fisica – di figure professionali di alto livello per intraprendere la carriera scientifica o lavorare nel settore industriale. “Un’altra occasione di formazione di alto livello presso l’Ateneo messinese è offerta dalla Scuola di Specializzazione in Fisica Medica”, aggiunge la prof.ssa Mezzasalma. “Durante questo percorso gli specializzandi, attraverso l’acquisizione di conoscenze in campo radioterapico, di medicina nucleare e diagnostica per immagini, maturano una competenza di alto livello professionale come operatori sanitari.

Quali sono i livelli occupazionali di un laureato in Fisica Triennale e in Fisica Magistrale provenienti dall’Università di Messina?

La prof. Mezzasalma chiarisce: “È da sottolineare come la totalità dei laureati in Fisica Triennale prosegua gli studi ai corsi di laurea Magistrali sia presso la stessa Università che altri Atenei. Tale risultato risulta essere perfettamente in linea con quanto avviene a livello nazionale. Per quanto riguarda invece i laureati a un anno e a cinque anni dalla laurea, esclusi quelli che già lavoravano prima della stessa, l’inserimento nel mondo del lavoro risulta, secondo gli ultimi dati Alma Laurea, del 75% e 80% rispettivamente, con una quota del 75% di laureati che nel lavoro utilizzano in misura elevata le competenze acquisite con la laurea”.

Ma quali sono i ruoli concreti ai quali può aspirare uno studente che sceglie di laurearsi in Fisica?

Le figure professionali più richieste sono: operatori di apparecchi medicali utilizzati nell’ambito della diagnostica, tecnici statistici (uso di sistemi di modellizzazione e simulazione), tecnici della qualità industriale ed ambientale ed insegnanti. Il prof. Andrea Mandanici sottolinea che UNIME offre la possibilità di completare in sede tutti gli stadi della formazione necessari per accedere al ruolo di insegnante nelle scuole medie e superiori, fornendo sostegno agli studenti grazie ad una politica di costi contenuti e borse di studio e sostegno alle attività Erasmus.

Uno studente di Fisica a Messina ha la possibilità di avere una formazione internazionale e di accedere a Large Facilities?

“Entrambi i Corsi di Laurea sia Triennale che Magistrale – risponde la prof.ssa V. Venuti – incoraggiano gli studenti a fruire di periodi di formazione all’estero. Nell’ambito del Corso di Laurea Triennale ciò può avvenire sia in forma di frequenza di corsi sia per lo svolgimento di attività di tirocinio, mentre alla Magistrale può avvenire attraverso lo svolgimento di attività di preparazione della prova finale”. Aggiunge la prof.ssa Trimarchi: “Poiché buona parte delle ricerche svolte dai docenti messinesi in fisica nucleare e particellare, in struttura della materia e fisica applicata vengono effettuate presso grandi centri di ricerca (CERN di Ginevra, ELSA di Bonn, ILL e ESRF di Grenoble,  Centro Elettra Sincrotrone di Trieste), i nostri studenti possono usufruire dell’esperienza stimolante di prendere parte a esperimenti presso queste sedi, partecipando ad esempio alla realizzazione di esperimenti in ambiti di frontiera quali la fisica delle particelle elementari e alla progettazione di nuovi materiali per applicazioni HighTech”.

Quali sono le azioni intraprese dall’Ateneo di Messina rivolte alla collocazione nel mondo del lavoro dei laureati UNIME?

Il Centro di Orientamento e Placement (COP) supporta studenti e Laureati dell’Ateneo fornendo strumenti finalizzati all’acquisizione di competenze utili per costruire un efficace percorso professionale personale. Con tali iniziative, i laureandi possono scoprire le competenze maggiormente richieste oggi, come affrontare un colloquio o accedere a incontri on-line (https://www.unime.it/it/centri/cop/open-unime-lavoro-0).

Giovanni Gallo

Qui un approfondimento con le domande più frequenti.

L’incomprensione di un genio: il viaggio di Boltzmann alla scoperta dell’entropia

La lotta di uno scienziato, dalla visione avanguardistica, per far accettare la sua scoperta

Immaginate di trovarvi nella Vienna di fine ‘800, immersi in quel panorama fertile e stimolante della Belle Époque, che avrebbe influenzato, con profondi mutamenti, tutto il secolo successivo. Mutamenti, questi, che investirono anche il mondo della fisica, grazie ad importanti contributi quali quelli dei fisici Maxwell, Lorentz, e…Ludwig Boltzmann.

 

Ludwig Boltzmann

Nato a Vienna nel 1844, Boltzmann fu docente di fisica-matematica all’università di Graz, ambiente che gli permise di conoscere due tra i padri fondatori della termodinamica: Helmholtz e Kirchhoff. Fra i suoi più importanti lavori si possono annoverare la teoria cinetica dei gas, che stabilisce il legame tra l’energia di un gas e la sua temperatura assoluta, e la legge di Stefan-Boltzmann che descrive come la quantità di energia irradiata da un corpo nero (come il Sole) sia proporzionale alla quarta potenza della sua temperatura assoluta. La scoperta che, però, più rivoluzionò il panorama scientifico internazionale fu la formulazione statistica dell’entropia.

Ma cos’è davvero l’entropia?

Concetto tanto affascinante quanto complesso, dal punto di vista fisico l’entropia è definibile come una funzione di stato, ossia una grandezza fisica che dipende unicamente dal suo stato iniziale e finale, non tenendo conto del percorso che collega i due estremi. Spesso banalmente associata al disordine di un sistema, essa è in realtà un concetto intuitivamente molto astratto, e questo, di certo, Boltzmann l’aveva compreso.

Nel 1877, infatti, il fisico viennese fornì una descrizione statistica dell’entropia, secondo cui questa varia in base alle diverse configurazioni assunte dai microstati che compongono l’intero sistema in esame: se l’entropia è massima, vorrà dire che il nostro sistema ha raggiunto uno stato di equilibrio termodinamico!

Equazione statistica dell’entropia

Personalità complessa e tormentata, Boltzmann mal sopportò le critiche che la comunità scientifica rivolse alla sua nuova descrizione di entropia. Infatti, la fisica statistica era un concetto ancora troppo all’avanguardia, se comparato alla più consolidata e “rassicurante” fisica classica. Per anni Boltzmann tentò di far accettare la sua formulazione, senza purtroppo ottenere i risultati sperati; fu così che il 5 ottobre 1906, durante quella che apparentemente sembrava una semplice vacanza di famiglia, egli si suicidò impiccandosi a Duino (Trieste), per motivi incerti ma intuibili data la sua personalità dalle cangianti sfumature. Tra le cause più accreditate per questo gesto estremo, spicca certamente la sfiancante battaglia che egli dovette compiere durante la sua intera vita per difendere la propria creazione, tanto da scegliere di far incidere come epitaffio la sua formula sull’entropia.

Sepolcro di Ludwig Boltzmann

Forse poiché appesantita dall’apparente freddezza di formule matematiche e concetti così complessi, non viene debitamente riconosciuto alla scienza lo stesso stretto legame emotivo che intercorre tra un poeta e la sua poesia, tra un compositore e la propria opera. La vita di Ludwig Boltzmann è l’esempio più lampante e sconvolgente di come, in realtà, la ricerca scientifica sia ben diversa dall’immaginario comune: un vero e proprio processo creativo, non soltanto volto alla scoperta delle leggi che regolano l’universo attorno a noi, ma anche di quelle che dominano il mondo sfaccettato della nostra interiorità.

Subito dopo la sua morte, le evidenze sperimentali confermarono a pieno la teoria di Boltzmann, costringendo la comunità scientifica a riconoscere al fisico austriaco la sua importanza per la nascente fisica statistica.

Giovanni Gallo

Giulia Accetta