Questo piccolo grande amore: la storia che non ti aspetti

Parlare d’amore non è semplice, non esiste una definizione universale che possa racchiudere l’enorme ed enigmatico significato di questo termine. Ognuno di noi ha vissuto almeno una storia che l’ha cambiato per sempre.
C’è chi dice che l’amore abbia la capacità di toglierci il respiro e chi come me che invece pensa che l’amore ti dia fiato.

I due protagonisti Andrea e Giulia. Fonte: pinterest.com

Una produzione tutta made in Italy

Questo piccolo grande amore è un classico senza tempo che racconta la storia d’amore tra Andrea e Giulia, nata nel 1972 in un bar durante una manifestazione studentesca. La pellicola viene prodotta in Italia nell’anno 2009 dal regista Riccardo Donna.

L’incontro tra i due protagonisti, inconsapevolmente, segnerà le loro vite per sempre: Andrea (Emanuele Bosi) sente di essersi legato alla bellissima Giulia (Mary Petruolo) sin dal primo istante e si lascerà ammaliare dal suo sguardo e dal suo fascino. Anche Giulia però da quel momento in poi, tra mille paure e incertezze, inizierà a pensare all’incontro fatto in precedenza. Andrea e Giulia provengono da due mondi diversi: amici, idee, percorsi differenti. Lui è al primo anno di architettura mentre lei è all’ultimo anno di liceo classico.

La loro storia d’amore conoscerà diverse fasi che verranno accompagnate da svariati brani del famosissimo cantante Claudio Baglioni. Il film in questione non nasce solo come esempio di genere romantico e sentimentale ma anche e soprattutto musicale. Il titolo, infatti, prende il nome da uno dei brani più famosi dello stesso Baglioni.

Una tenerissima pellicola che non ha paura di mettere il piede sull’acceleratore dei sentimenti per raccontare la prima vera storia d’amore, fatta di corse contro il tempo, risate, incoscienza, tenerezza, paura.

Andrea: Vieni andiamo giù.

Giulia: Ma già ci sono stata.

Andrea: Si, ma non con me!

Andrea e Giulia mano nella mano. Fonte: pensieriparole.it

Il film che non ti aspetti

Il film non vuole assolutamente mostrarsi come un trattato storico sulla generazione degli anni ’70. Seppur sia ambientato in quel periodo, l’intento è quello di raccontarci un amore giovane che si scontra con le difficoltà degli adulti.
Assisteremo alla partenza di Andrea, l’allontanamento di Giulia, i primi litigi e i primi distacchi. Sotto questo punto di vista, la pellicola funziona abbastanza bene.

Giulia: Ma perché innamorarsi in inglese si dice “fall in love”, cadere in amore?

– Maestra Di Inglese: Perché me lo chiedi?

– G: Perché innamorarsi dovrebbe significare un’altra cosa, essere liberi, volare in alto, scalare una montagna. Ma non cadere in basso.

– M: Ma non è cadere in basso, è cadere e basta. Nel senso di abbandonarsi, non avere freni, lasciarsi andare.

– G: No… no invece vuol dire precipitare. Andare giù.

Seguiranno diversi sentimenti contrastanti, tipici delle prime relazioni. Si percepisce molto bene ogni stato d’animo dei due ragazzi, dalla rabbia al desiderio di ritrovarsi, a quella idea illogica di non vedersi mai più.

Andrea e Giulia in una scena del film. Fonte: movieplayer.it

Questo piccolo grande amore, la canzone

Questo piccolo grande amore è riconosciuto come il brano più importante, oltre che conosciuto, di tutto il percorso artistico di Claudio Baglioni, nonché anche un classico della musica pop italiana. Secondo alcune statistiche il brano risulta essere il più venduto in Italia ed inoltre diversi artisti si sono cimentati nella cover di questa canzone: tra questi Mina, Fiorello, Mino Reitano.

Come tutti, ascoltandolo, ricorderemo diverse cose vissute. Attimi di vita condivisi con persone importanti. Attimi che riemergono e vivono nella sfera del nostro universo, del nostro mondo interiore. Esistono libri, film, canzoni che ci riportano proprio lì, in quel sogno che perennemente continuiamo a mandare avanti nella nostra mente, spesso aggiungendoci tasselli in più, campati in aria sul nostro volere, sulla nostra fantasia. Sono sicura che almeno una volta in tutta la nostra vita, ci siamo abbandonati all’ascolto (per caso o per volere) di Questo piccolo piccolo amore, ricordando quell’esatto frammento temporale, quel messaggio con su scritto «Scendi, sono sotto il tuo portone», quegli occhi in cui avremmo affogato volentieri, quel piccolo grande amore.

Lei mi guardava con sospetto
Poi mi sorrideva e mi teneva stretto stretto
Ed io
Io non ho mai capito niente
Visto che oramai non me lo levo dalla mente
Che lei, lei era
Un piccolo grande amore
Solo un piccolo grande amore

I soliti, o quasi, romantici

Ed anche se noi non saremo sempre i soliti – o quasi – romantici, sono sicura che ci sono cose che ci accomunano: siamo amanti dell’amore e delle belle sensazioni. Oggi voglio celebrare la dolcezza dei ricordi, anche di quelli più amari.

Dicono che la nostra generazione non sappia amare come una volta, io penso piuttosto che non ci sia una vera e propria bilancia che possa pesare i due contesti o i molteplici tipi di amore. Però penso che Questo piccolo grande amore, il film, riesca a celebrare molto bene la delicatezza di un inizio e le pillole amare di una qualsiasi storia d’amore.

Annina Monteleone

Oscar 2021: ecco cosa è successo nella notte più attesa dagli amanti del cinema

Gli Oscar di quest’anno sono stati senza dubbio inusuali rispetto agli standard soliti dell’Accademy: la cerimonia si è infatti svolta in differenti location, data l’impossibilità per molti dei protagonisti di viaggiare o anche solo di potersi riunire nella normale location del Dolby Theatre.

L’evento

La cerimonia si è infatti svolta in diverse sedi: il Dolby Theatre e la Union Station a Los Angeles, più svariati altri luoghi da cui gli attori hanno ricevuto i loro premi. Tutto ovviamente per assicurare il rispetto delle norme anti Covid e garantire allo stesso tempo la presenza fisica degli invitati alla cerimonia: la loro assenza è infatti costata cara ad altri eventi come i Golden Globe, che hanno visto più che dimezzato il proprio pubblico.

Il Dolby Theatre, tradizionale scenario della magica notte degli Oscar. Fonte: flickr.com, © 2016 American Broadcasting Companies

Un’altra innovazione rispetto ai precedenti anni è stato anche il ritmo dell’evento stesso, che si è rivelato essere molto più incentrato sui premi stessi: si è scelto infatti di eliminare le gag tra un premio e l’altro che costituivano prima parte integrante dello show, così come si è scelto anche di rivedere l’ordine delle premiazioni in sé: il miglior film è stato infatti eletto quasi all’inizio della serata in contrasto con la convenzione che lo vede come “portata finale”, persino in eventi che prendono gli Oscar ad esempio.

I film

I lungometraggi più importanti quest’anno sono senza alcun dubbio quelli candidati come miglior film: Nomadland racconta la storia dei nuovi nomadi americani, che colpiti dalla grave crisi economica del 2008 si ritrovano ad affrontare una nuova vita senza fissa dimora; The sound of metal racconta poi il tema della sordità di un musicista, Minari quello del pregiudizio razziale, mentre Mank e Una donna promettente raccontano rispettivamente la storia dello sceneggiatore di Quarto Potere e di una donna che porta avanti una vendetta per la violenza di cui è stata testimone.

I premi

Questa edizione ha visto come maggiori contendenti al più alto numero di statuette Netflix e Disney, che si sono alla fine spartiti tra loro due un totale di 12 premi, con Netflix che ha prevalso con  7 premi.

Importante caratteristica delle premiazioni di quest’anno è stata la grande inclusività: Chloé Zhao, regista di nazionalità cinese,  è stata la seconda donna nella storia dell’evento a vincere il premio come miglior regista; sono stati premiati anche Daniel Kaluuya come miglior attore non protagonista e il film Ma Rainey’s Black Bottom per miglior trucco e costumi, girato con un cast di personaggi interamente di colore. Ci si sarebbe aspettati anche un premio al compianto Chadwick Boseman, che è invece andato ad Anthony Hopkins eletto miglior attore protagonista per il film The Father. Anche il film Soul è stato eletto come miglior lungometraggio d’animazione avendo un protagonista di colore.

Anthony Hopkins, vincitore dell’Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione in “The father”. Fonte: flickr.com

Il premio più importante come miglior film è stato poi dato a Nomadland, come tra l’altro molti pronosticavano. Il film ha anche raccolto il premio alla miglior attrice, donato a Frances McDormand.

A completare i premi i due alla miglior sceneggiatura, Una donna promettente e The Father, quello ai miglior effetti special per Tenet, e quello per la miglior attrice non protagonista dato a Yoon Yeo-jeong per la sua performance nel film Minari. Nulla da fare invece per Laura Pausini, con il trionfo di Fight for You.

I protagonisti

Un altro elemento di rottura rispetto alle edizioni precedenti è stata la presenza di più conduttori della serata, diversamente dal singolo che di solito presenta sul palco: la cerimonia è stata fatta partire da Regina King e proseguita poi da attori come Brad Pitt e Harrison Ford, in continuazione della tradizione che vede i precedenti premi Oscar premiare i nuovi vincitori.

Chloe Zhao, vincitrice dell’Oscar “miglior regia” per “Nomadland”. Fonte: Vegafi, wikimedia.org

Oltre ciò però la serata ha sicuramente sancito per l’industria un ritorno che si speri continui con la riapertura delle sale, perché come ha anche detto Chloé Zhao questo medium vive nei cinema e sul grande schermo. Quella che stiamo vivendo deve limitarsi ad essere solo, per quanto lunga e dolorosa, una parentesi.

 

                   Matteo Mangano

Il Processo ai Chicago 7: cronaca di uno dei più grandi processi politici della storia americana

Due ore di pellicola in cui ci si sente realmente spettatori di un vero processo -Voto UVM: 4/5

Nonostante la pandemia abbia caratterizzato tutto il 2020 e stia continuando ad accaparrarsi anche buona parte del 2021 con i cinema ancora chiusi, non possiamo dire tuttavia di essere rimasti a corto di grandi produzioni cinematografiche trasmesse dalle varie piattaforme streaming.

Una di queste è Il Processo ai Chicago 7 da una produzione del genio di Spielberg, regia e sceneggiatura firmate da Aaron Sorkin, reduce del successo ai Golden Globe e con ben 5 nominations per gli Oscar 2021.

Vicenda storica

Questa pellicola, la prima con cui inauguriamo la nostra maratona dedicata agli Oscar 2021, narra una vicenda realmente accaduta: una pagina di storia occidentale in cui è protagonista la nazione più “democratica” del mondo.

Siamo a Chicago nell’agosto del 1968, in piena rivoluzione giovanile e studentesca a seguito del maggio francese. “Impera” il movimento culturale e pacifista degli hippie:  cresce l’impegno politico all’interno delle università e, in seguito alle proteste studentesche, le nuove generazioni stanno maturando una certa autonomia ideologica. Forse il mondo sta cambiando.

Ma è anche l’anno in cui il Presidente Johnson, succeduto a Kennedy, incrementa il numero di truppe da inviare in Vietnam. Sullo sfondo abbiamo anche le proteste degli afroamericani che lottano per i loro diritti sia attraverso il movimento delle Pantere Nere, sia attraverso l’ala più pacifista di Martin Luther King che quell’anno stesso troverà la morte.

“Anni 60” contro una classe dirigente ancora “anni 50″.

Fonte: Gli acchiappafilm- Scena dello scontro con la polizia

A Chicago, nell’occasione della Convention democratica per scegliere il candidato che dovrà sfidare Nixon alle prossime elezioni presidenziali, molti giovani di diversa estrazione sociale, culturale e anche ideologica si riuniscono con l’unico intento di protestare pacificamente contro la guerra in Vietnam. Purtroppo incontreranno manganelli e gas lacrimogeni. Vi saranno feriti e oltre 700 arresti, ma solo sette tra i manifestanti subiranno un processo con l’accusa di cospirazione e di aver istigato la rivolta.

 Struttura del film

Ne esce fuori un legal drama, o per dirla all’italiana un “giudiziario americano” con tutte le caratteristiche del genere: dall’ambientazione nell’aula del processo e negli uffici giudiziari, polizieschi e penitenziari ai colori della fotografia tendenzialmente più cupi, per poi passare ad una spiccata dialettica che Sorkin attribuisce a ciascun personaggio sia esso imputato, difensore, giudice, pubblica accusa o teste che depone.

Fonte: Io Donna- il giudice Julius Hoffman in aula (Frank Langella)

La maggior parte del film è dedicato alle udienze che vedono come protagonisti i sette imputati che sono i due hippie Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) e Jerry Rubin (Jeremy Strong), i due studenti del movimento SDS (Students for a Democratic Society) Tom Hayden ( Eddie Redmayne) e Tennis Davis ( Alex Sharp),  i fabbricanti di piccoli ordigni rudimentali Lee Weiner (Noah Robbins) e Jhon Froines ( Daniel Flaherty), l’attivista pacifista David Dellinger (John Carroll Lynch) e “l’ottavo” imputato poi escluso dal processo Bobby Saele (Yahya Abdul Mateen II), uno dei capi delle Pantere Nere che non aveva partecipato attivamente, ma viene arrestato semplicemente perché “nero”.

Fonte: Rivista Studio- Bobby Seale con il legale William Kunstler (Mark Rylance)

Il regista si serve poco della finzione; si basa invece sulle trascrizioni delle udienze dibattimentali di quello che è stato uno dei più grandi processi politici della storia americana. Difficile non notare come agli imputati venga negato il diritto ad un equo processo davanti ad un giudice di parte già pienamente propenso a condannarli.

Vengono fuori le storture di un sistema giudiziario fortemente politicizzato: giudici e procuratori generali (pubblica accusa) sono eletti dal Congresso dietro nomina del Presidente. E ancora ci saranno depistaggi e corruzione: insomma un processo politico alle intenzioni.

D’altro canto Sorkin metterà in luce anche le varie fazioni e gli scontri ideologici esistenti all’interno dei movimenti giovanili di attivisti. Da un lato abbiamo Abbey Hoffman, interpretato in modo encomiabile da Sacha Baron Cohen, membro del Partito Internazionale della Gioventù,  convinto di demolire l’establishment con la rivoluzione culturale. All’opposto abbiamo il più moderato e politically correct Tom Hayden, che snobba il proselitismo degli anarchici e pacifisti hippie come Hoffman; secondo lui la rivoluzione passa attraverso l’impegno politico che porti poi  giustizia e uguaglianza al popolo. Nonostante tutto l’obiettivo dei due è uguale: cambiare il sistema.

Fonte: Wired- Tom Hayden

Con un cast d’eccezione in cui vi è anche la partecipazione straordinaria di Michael Keaton, Il Processo a Chicago 7 conquista 5 meritatissime nominations agli Oscar nelle categorie miglior film, miglior attore non protagonista a Sacha Baron Cohen, miglior fotografia, miglior montaggio e miglior sceneggiatura originale.

                                                                                                                                                                                                Ilenia Rocca

La stella polare del cinema: Stanley Kubrick

Oggi 22 anni fa ci lasciava colui che – dalla maggior parte degli amanti del cinema – è considerato il miglior regista di sempre.

Genio e sregolatezza, gentile ma maniacale, imprevedibile e audace, Stanley Kubrick ha incantato il pubblico e la critica mediante i suoi film.

Noi di UniVersoMe vogliamo rendergli omaggio andando ad analizzare tre dei suoi più grandi lavori.

Stanley Kubrick – Fonte: greenme.it

Arancia Meccanica (1971)

Kubrick in questa pellicola non ha fatto sconti a nessuno, infatti se c’era qualcosa di violento da mostrare lui lo ha enfatizzato.

Concentriamoci ad esempio sull’agghiacciante scena dello stupro.

Una delle azioni di per sé più vili che un individuo possa mai commettere, nel film viene rappresentata con tutta la brutalità tipica di questo malsano gesto e viene resa esponenzialmente ancor più disturbante dalle note di Singing in the rain cantate dal protagonista Alex DeLarge (Malcolm McDowell).

Originariamente l’attrice di questa scena era un’altra, la quale fortemente provata dall’intensità della scena e stremata dagli infiniti ciak girati dal regista (famoso per arrivare a girare una medesima scena anche 150 volte) decise di lasciare il ruolo ad Adrienne Corri.

La maniacalità di Stanley sul set per poter ottenere il massimo anche nei dettagli è una caratteristica che di certo lo contraddistingue dagli altri colleghi.

Dagli antefatti che precedono la scena dello stupro però emerge un altro elemento fondamentale del genio di Kubrick, ovvero il saper ascoltare il proprio istinto. Da copione infatti Alex non doveva cantare nulla inizialmente, poi proprio sul set al regista venne in mente di accompagnare musicalmente la scena dandole una vena maggiormente inquietante.

L’attore iniziò ad improvvisare la prima canzone che gli passò per la testa e così nacque una delle scene più iconiche della storia del cinema: il drugo stupra una donna mentre canticchia con disinvoltura come se fosse un’azione normale della sua quotidianità.

Il capo dei drughi Alex DeLarge (Malcolm McDowell) – Fonte: leitmovie.it

Il regista era solito  avere dei contrasti con gli attori sia perché cambiava continuamente i copioni (come in Shining) sia perché li costringeva ad effettuare gesta particolarmente pericolose.

Durante le sedute della cura Ludovico, Alex era obbligato a guardare scene di film assai violente sotto le note della sua amatissima Nona Sinfonia di Beethoven con gli occhi tenuti dolorosamente aperti da uno strano marchingegno.

L’attore è stato sottoposto realmente a quel trattamento ed il dottore che si vede nel film era un vero e proprio medico incaricato di inumidirgli i bulbi oculari mediante delle gocce, altrimenti sarebbe divenuto cieco (l’interprete comunque si ferì ad un occhio e perse la vista momentaneamente).

Il metodo è discutibile ma il risultato è certo: la sofferenza del personaggio non viene solo rappresentata ma viene anche provata dallo spettatore. Infine il montaggio di Arancia Meccanica, che da un punto di vista tecnico è impeccabile, permette di risaltare la comicità e l’enfasi in alcuni momenti cruciali della pellicola.

Shining (1980)

Alcuni elementi del lavoro di Kubrick in Shining li abbiamo già analizzati qui.

Molto spesso al giorno d’oggi purtroppo la pellicola viene declassata con la semplice motivazione che “non faccia così paura”.

Mettiamo subito in chiaro che non è un film ideato per spaventare, come un qualsiasi horror moderno pieno zeppo di jumpscare disseminati a caso ogni 2 minuti, ma è una pellicola basata sulla pazzia di un uomo che pian piano emerge fuori.

Ci sono certamente elementi paranormali e scene che comunque – tenendo conto dell’epoca in cui uscì la pellicola – hanno traumatizzato il pubblico, ma non è questo il tema centrale.

Jack Torrance (Jack Nicholson) leggermente indispettito – Fonte: lindiependente.it

Il regista con questo film ha creato un’opera d’arte della tensione. Le sequenze mostrate all’interno del film rappresentano perfettamente un’atmosfera carica di ansia e di imminente pericolo che, scena dopo scena, crescono sempre di più fino a culminare con lo sfogo violento del protagonista.

La scelta dei primi piani di un incredibile Jack Nicholson, le musiche ed i campi totali (una tipologia di inquadratura) costituiscono un patrimonio della cinematografia lasciatoci dal regista.

Full Metal Jacket (1987)

Penultima pellicola della breve filmografia di Kubrick.

Il film, basato sulla guerra del Vietnam, si articola in due parti: nella prima assistiamo agli esercizi ed ai metodi adottati dai marines americani per addestrare le truppe; nella seconda, ambientata sul fronte asiatico, viene rappresentata la crudeltà della guerra in sé per sé.

Il celebre sergente Hartman (Ronald Lee Ermey) mentre istruisce le nuove reclute – Fonte: gildavenezia.it

Accanto agli aspetti della vita militare, nel film vengono trattate tematiche psicologiche e viene lasciato ampio spazio a critiche sociali enormemente rilevanti soprattutto per l’epoca in cui venne proiettata la pellicola.

Kubrick tramite il film ha voluto esprimere la propria opinione sulla guerra, comunicandola con forte ironia mediante l’utilizzo del controsenso e proprio questo è uno dei punti di forza della pellicola.

Ad esempio la spilla raffigurante il simbolo della pace indossata dal protagonista Joker (Matthew Modine)  sulla propria uniforme mentre si trova al fronte, e la scelta delle musiche come Surfin Bird, che accompagna una sequenza di scene dopo una battaglia in cui vengono trasportati feriti, o la Marcia di Topolino, che i soldati cantano orgogliosamente alla fine del film.

 

Stanley Kubrick, per quanto possa essere stato particolare nei rapporti interpersonali, è riuscito a lavorare straordinariamente nel cinema basandosi su uno dei principi più rilevanti della civiltà: la libertà individuale.

Quando finiscono le pratiche burocratiche, per dar vita ad un progetto cinematografico bisogna necessariamente lasciare tutto lo spazio al regista senza interferire se non solo per fornire consigli. Solo in questo modo un cineasta può svolgere il suo lavoro e quindi concretamente raccontare una storia dal suo punto di vista.

Kubrick lo ha fatto e si è visto.

Vincenzo Barbera

Walk the line: musica e amore come medicine

“Walk The Line” è un biopic degno di nota. Racconta una storia di lotta contro se stessi e di quanto possa essere importante la musica, andando ad affrontare anche altre tematiche fondamentali per un artista – Voto UVM: 4/5

Oggi 89 anni fa nasceva una delle più celebri star della musica statunitense: Johnny Cash.

Ha conquistato il pubblico americano tramite canzoni che sono entrate a far parte di prestigiose Hall of Fame di generi diversi a testimonianza della sua poliedricità. Nonostante una vita travagliata, è riuscito a imporsi nel panorama musicale divenendo principalmente un’icona della musica country.

Johnny Cash con la sua chitarra- Fonte: arte.sky.it

Il film  Walk The Line ( Quando l’amore brucia l’anima) diretto da James Mangold ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera.

Trama

Johnny (Joaquin Phoenix) è un bambino che vive in una fattoria dell’Arkansas. Un giorno mentre è a pesca, il fratello si ferisce con una sega e muore; di lì in avanti i rapporti tra Johnny ed il padre si incrineranno notevolmente.

Nel 1950 si arruola  nell’aviazione prestando servizio nella Germania dell’Ovest dove comincia a suonare la chitarra per diletto per poi tornare in patria qualche anno dopo dove sposa la sua fidanzata ed inizia a lavorare come venditore porta a porta per vivere. Tuttavia sente che gli manca un qualcosa. Infatti, durante una giornata di lavoro , passa davanti ad uno studio di registrazione e colto dall’ispirazione decide di fondare un gruppo.

Dopo un’audizione Johnny conquista Sam Phillips (Dallas Roberts), produttore musicale e proprietario della Sun Records, il quale gli fa sottoscrivere immediatamente un contratto ed incidere il suo primo disco: Cry! Cry! Cry!

Locandina del film – Fonte: tmdb.it-maku.com

Le canzoni iniziano ad essere tramesse in radio ed il cantante parte per un tour di primaria importanza: infatti alla tournée partecipano grandi artisti emergenti del calibro di Elvis Presley e Jerry Lee Lewis e proprio in questo periodo il nostro protagonista conosce la bellissima cantante June Carter (Reese Whiterspoon) della quale si innamora perdutamente.

Tra alti e bassi, droga e carcere, Johnny non perderà mai il suo amore per la musica (e per June) e nonostante tutte le peripezie diventerà una delle più grandi star americane.

Regia

Il regista James Mangold ha voluto raccontare la storia di Johnny Cash improntandola fortemente sul lato umano.

L’amore è sicuramente uno dei temi principali della pellicola oltre- ovviamente- alla musica. E’ infatti proprio grazie a questo sentimento nei confronti di June che il protagonista trova la forza per reagire a qualsiasi problematica e spingersi oltre raggiungendo altissimi livelli.

Johnny Cash (Joaquin Phoenix) e June Carter (Reese Witherspoon) – Fonte: pinterest.it

Mangold stesso ha dichiarato di essersi emozionato quando durante uno dei suoi ultimi incontri con il vero Johnny Cash gli chiese quale fosse il suo film preferito, ed il cantante rispose:

Frankenstein. Perché è la storia di un uomo composto da parti marce. Una specie di oscurità. E contro la sua stessa natura… continuò a lottare per essere buono.

Forse un po’ severo con se stesso, ma sostanzialmente questo concetto si avvicina a quel che era Johnny. Il cantante, come riportato nel film, per un periodo è stato fortemente dipendente dalla droga che gli ha causato gravi problemi sia nelle relazioni sia a livello legale (di fatti è stato in carcere). Un uomo che sicuramente ha sbagliato, ma definirlo un mostro risulterebbe esagerato.

Comunque, la definizione di Frankenstein in parte esprime perfettamente la sua natura: anche se Johnny Cash non si riteneva una brava persona, ha cercato comunque di fare del bene come quando nel 1968 tenne un concerto alla prigione di Folsom per i suoi detenuti e inoltre prese in giro il direttore del carcere che li maltrattava (il regista ha deciso di chiudere il film proprio con questa scena meravigliosa sulle note di una delle sue canzoni più belle, Cocaine Blues).

Cast

Joaquin Phoenix nei panni di Johnny Cash è- come al solito- monumentale ( della sua interpretazione in Joker abbiamo già parlato qui). Fortemente calato all’interno del personaggio, l’attore, mediante lo sguardo, esprime un costante stato di preoccupazione ed ansia con cui il protagonista convive a causa della sua vita tormentata.

Scena del film in cui Johnny si esibisce per i detenuti – Fonte: themacguffin.it

Le canzoni sono interpretate da Joaquin stesso, così come quelle di June Carter da Reese Whiterspoon. Incredibile la chimica instauratasi tra i due attori, in particolare quando si esibiscono sul palcoscenico: nella realtà ciò era scontato dato che i cantanti si amavano; nel film i due interpreti sono riusciti perfettamente a rappresentare quella stessa armonia.

A livello di critica la pellicola fu un successo enorme, tanto che riuscì ad aggiudicarsi 3 Golden Globes e ben 5 nomination agli Oscar del 2006 (vincendone solo uno con Reese Whiterspoon per la Miglior Attrice Protagonista).

Un film veramente piacevole da guardare che rende onore ad un grande artista e ci comunica la forza reale dell’amore e della perseveranza, perché senza quest’ultime Johnny non avrebbe mai e poi mai sfondato nella musica.

Vincenzo Barbera

 

 

Io & Annie: storia di una relazione imperfetta

Commedia romantica profonda, ma con un tono umoristico – Voto UVM: 5/5                                           

I grandi film, col passare degli anni, non solo continuano ad essere visti ed apprezzati dal pubblico, ma fanno letteralmente la storia del cinema: diventano cult. Questo è il caso di Io & Annie (Annie Hall).

Il film diretto ed interpretato da Woody Allen, è una delle pellicole insieme a Manhattan che gli valsero maggior successo ed è uscito nelle sale nel 1977.

Fonte: pinterest.com- Alvy nel monologo iniziale

Trama

“Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione. Io… io continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e a esaminare la mia vita cercando di capire da dove è partita la crepa, ecco…”

Io & Annie racconta la storia della relazione tra un comico cinico, Alvy Singer, interpretato dallo stesso Woody Allen, e una giovane cantante, Annie Hall, interpretata da Diane Keaton.

Il film strutturalmente non ha una sua unità cronologica: Alvy ripercorre con la mente vari momenti della loro relazione in diversi episodi, alternando flashbacks anche della sua infanzia e del matrimonio con la sua prima moglie, Allison. Ciò che rende questo film speciale e diverso da qualsiasi altra commedia romantica è il modo in cui presenta al pubblico l’intera parabola di una relazione, dalla prima fase dell’innamoramento all’emergere dei primi contrasti e di un diverso modo di vedere le cose, fino alla rottura definitiva.

Durante tutto il film, inoltre, lo spettatore ha un contatto diretto col personaggio: una delle tecniche per cui Allen è maggiormente noto è il dialogo diretto con il pubblico. Alvy stesso presenta durante svariati monologhi il suo punto di vista, alternato sempre ad un sottile umorismo, a tratti velato di cinismo e pessimismo.

Annie Hall e Alvy Singer

Fonte: tumblr.com- Alvy ed Annie che si baciano

Alvy ed Annie hanno delle personalità opposte: Annie è molto esuberante, anche se all’inizio è un po’ insicura, specialmente riguardo al suo talento nel canto.  Proviene da una normale famiglia americana, è molto legata ai genitori e specialmente alla nonna.

Al contrario, Alvy è un personaggio molto cupo sotto vari aspetti: è ebreo e pensa di essere discriminato per questo, va da uno psicologo da quindici anni, non riesce ad avere relazioni stabili con altre donne. Non riesce a distaccarsi da New York, la sua città; è un comico, ma tutte le sue battute sono sempre di stampo umoristico-pessimistico. Durante la sua relazione con Annie tende in parte a soffocarla, facendola diventare un po’ come lui.

I due protagonisti inoltre rispecchiano in parte gli attori: Annie Hall, infatti riprende il vero nome dell’attrice Diane Keaton (Diane Hall), mentre il carattere di Alvy riflette un po’ lo stesso Allen, o comunque molti altri personaggi da lui ideati ed interpretati durante la sua carriera cinematografica come Isaac Davis in Manhattan (1979) o Sid Waterman in Scoop (2006).

Un film da Oscar

Io & Annie viene candidato nel 1978 a ben 5 premi oscar, di cui ne vince 4: miglior film, miglior regia ad Allen, miglior attrice protagonista alla Keaton e miglior sceneggiatura originale. Woody Allen ottenne anche la candidatura per miglior attore protagonista.

Inoltre, per i fan della serie tv How I met your mother, il film preferito di Ted è proprio… Io & Annie!

Fonte: wikipedia.it- Alvy ed Annie seduti nel parco

Per  finire

Credo che Io & Annie non sia solamente l’ennesimo film romantico strappa lacrime, ma che abbia un significato più profondo; in ogni caso, pur affrontando il difficile argomento della relazione di coppia, lo fa con punte di umorismo e nella maniera più leggera possibile.  Questo film non lascia la tristezza nel cuore, anzi: uno strano sorriso sul volto.

Ilaria Denaro

Mr e Mrs Smith: quando l’amore è a primo ciak

 

Action-comedy fine e garbata, ricca di fascino e seduzione. Voto UVM: 5/5

 

Innamorarsi alcune volte sembra una grande sfida, altre volte invece una missione impossibile, altre ancora sembra naturale e spontaneo. Insomma, ogni relazione amorosa ha la propria storia, piccola o grande che sia. C’è chi si innamora tra le viuzze di un paesino, chi su una vecchia panchina, chi di fronte ad un buon calice di vino e chi invece sul set di un film. Quello tra Angelina Jolie e Brad Pitt fu amore a primo ciak. Voi lo sapevate?

 

Fonte: pinterest.it

Due killer uniti in matrimonio

Nel 2005, precisamente il 10 giugno esce al cinema Mr. & Mrs. Smith del regista Doug Liman. Il film è un centrifugato di bellezza esasperata, azione e commedia sentimentale che vede le due star hollywoodiane nei panni di John e Jane Smith. I due sono sposati da circa cinque o sei anni, in realtà nemmeno lo ricordano bene, come non ricordano neppure l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Dentro la prima inquadratura i due coniugi confessano al proprio analista – e a noi spettatori – le loro ostilità. Mr. & Mrs. Smith però nascondono un segreto molto importante che decidono di non rivelare neppure al loro terapeuta: i due sono dei brillanti e astuti killer che lavorano per delle agenzie rivali.

“Abbiamo dei piccoli segreti, ognuno di noi ha un segreto”

Il colpo di scena subentra nel momento in cui, un giorno durante una missione ed entrambi con lo stesso bersaglio, finiscono per identificarsi facendo saltare ogni copertura. Le due agenzie rivali ordinano di eliminare l’altro killer ma i due riscoprono di piacersi proprio durante delle lotte domestiche con armi da fuoco, al fine di distruggere l’avversario.

Tra intervalli ricchi di colpi, esplosioni e inseguimenti in auto, finalmente i due si ritrovano più innamorati di prima, lasciandosi alle spalle la brutta crisi che li aveva colpiti.

Si è creato un gran baratro fra noi due, e diventa sempre più profondo a causa di tutto quello che non ci diciamo. Come si chiama questo?”

L’amore non è bello se non è litigarello, si dice così? In questo caso sarà combattuto fino alla fine e verrà arginata qualsiasi minaccia di crisi, lasciando spazio al desiderio, alla passione e la voglia di viversi ancora.

 

Fonte: blogspot.com

Fuoco e fiamme

Lo sappiamo bene, la passione nasce spesso da una scintilla, ma tra Mr. & Mrs. Smith ne abbiamo vista più di una. Eppure, come si dice in questi casi: tutto è bene quel che finisce bene.

Ma adesso parliamo di incassi, siete pronti? L’incasso globale del film è stato di 478.207.520 dollari. Angelina e Brad per partecipare al film hanno ricevuto un compenso di 20 milioni di dollari a testa. I premi attribuiti sono stati i seguenti: 3 Teen Choice Award per la Miglior attrice per la categoria Azione/Avventura/Thriller (Angelina Jolie), Miglior mentitrice (Angelina Jolie) e Film più rumoroso; l’ASCAP Award per il Miglior risultato al botteghino e un MTV Movie Awards per il Miglior combattimento.

Tra tutti i premi ci piacerebbe aggiungere anche l’incontro tra Angelina e Brad che lascia spazio al reale matrimonio avvenuto il 23 agosto del 2014.

 “La prima volta che ci siamo visti, dimmi che hai pensato.”

“Dimmelo tu.”

“Io ho pensato che eri bella come una mattina di Natale. Non saprei come dirlo diversamente.”

“E perchè me lo dici proprio adesso?”

“Forse alla fine uno ripensa all’inizio.”

 

Fonte: blogspot.com

Centoventi minuti di inarrestabile passione e colpi di scena

Un action-comedy assolutamente brillante e impeccabile, in cui i vari generi si intrecciano e si amalgamano perfettamente al ruolo dei due protagonisti. Belli, ribelli e super giovani! A prima vista il film sembra appartenere alla classica famiglia del genere americano di spionaggio, ma questa prima impressione lascia subito spazio ad altre considerazioni. La pellicola è studiata in maniera fine e garbata, ricca di seduzione e fascino.

Sapevate che Il Signor e la Signora Smith sono già esistiti sullo schermo? Ebbene sì, sotto il profilo di Carol Lombard e Robert Montgomery nel film comico di Hitchcock del 1941. I due prodotti però sono molto diversi e non si tratta di un remake. Ciò che hanno in comune le due pellicole è la storia di fondo, in cui i protagonisti vivono la famosa e triste crisi di matrimonio segnata successivamente da una regolarizzazione.

Annina Monteleone

 

Little Miss Sunshine: viaggio tra uno dei più recenti road movie

 

Little Miss Sunshine: una commedia drammatica senza troppe pretese – Voto UVM: 3/5

 

Quante di noi hanno desiderato da piccole di essere incoronate reginette di bellezza? Così come lo ha sognato la nostra Olive Hoover (Abigail Breslin), protagonista del film Little Miss Sunshine, scelto dall’associazione universitaria Aegee per la maratona del cineforum #methalhealth e di cui noi di Universome vi proponiamo una recensione.

Trama

La piccola Olive Hoover vive ad Albuquerque, città del New Mexico, con la sua famiglia composta dalla madre Sheryl (Toni Collette), il padre Richard (Greg Kinnear), il fratello Dwayne (Paul Dano), il nonno cocainomane Edwin (Alan Arkin) e a cui presto si aggiungerà lo zio Frank (Steve Carell). Quest’ultimo apparirà come un uomo frustrato sia dal punto di vista sentimentale – in seguito ad una relazione con un collega finita male – che dal punto di vista lavorativo: è stato “sbattuto fuori” dall’università in cui svolgeva il ruolo di ricercatore; egli stesso si definirà nel corso del film «lo studioso numero uno di Proust di tutta l’America».

Fonte: Prime Video – la famiglia Hoover

L’elemento centrale della pellicola è la partecipazione della piccola Olive al concorso di bellezza per bambine Little Miss California per il quale la bimba preparerà un numero con l’aiuto dell’eccentrico nonno, ma l’unico mezzo a disposizione per raggiungere l’albergo – in cui si terrà lo show – è un pullmino vintage giallo della Volkswagen e così tutta la famiglia partirà alla volta di Little Miss California.

Ne viene fuori un road movie, senza troppe pretese di esserlo, con tanto di peripezie e di intoppi lungo la via, che più volte tenteranno di far desistere i protagonisti dal continuare il loro viaggio verso la California.

Fonte: Cinematographe.it – gli Hoover durante il viaggio

Caratterizzazione o stereotipizzazione

I protagonisti sono dei personaggi ben caratterizzati se non quasi stereotipati.

Abbiamo l’ossessivo compulsivo Richard Hoover, al limite della sopportazione dello spettatore, che tiene corsi motivazionali per raggiungere il successo ed è anche il motore propulsore delle sane ambizioni della famiglia. Richard divide il mondo tra vincenti e perdenti; a lui sono sconosciute entità quali la fortuna, vista come un alibi per chi “non ce la fa” e il sarcasmo che viene interpretato come un espediente utilizzato dal perdente per demoralizzare il vincente. Poi dalla saggia e realistica moglie Sheryl si passa al cinico ed eccentrico nonno Edwin al quale la piccola Olive è molto legata. Non potevano di certo mancare i “casi umani” all’interno dell’albero genealogico degli Hoover: Dwayne, classico adolescente problematico che odia tutti e che ha fatto il voto del silenzio e infine lo zio Frank da poco uscito da una clinica psichiatrica.

Fonte: The Take – zio Frank e Dwayne

Ma chi è la piccola Olive? Una ragazzina che dall’aspetto esteriore non sembrerebbe avere le sembianze (canoniche e richieste) di una reginetta di bellezza. Porta occhialoni con delle lenti spesse e possiede delle  movenze proprie delle bambine della sua etá, come è giusto che sia, e non di una baby top model; insomma sarà diversa rispetto alle mini Naomi Campbell o Claudia Schiffer che si vedranno nel film.

Fonte: Exibart – la piccola Olive al concorso

Casi umani ma non troppo

Abbiamo parlato di “casi umani” riferendoci ad alcuni di questi personaggi, ma in fondo tutti i protagonisti di Little Miss Sunshine lo sono. In realtà lo siamo un po’ tutti noi con le nostre miserie così come l’intera famiglia Hoover. Nel corso del viaggio e fino alla meta verranno fuori le debolezze di ognuno e salteranno via le corazze di tutti, persino quella del presunto vincente Richard. Non ci sono corsi motivazionali, strategie o schemi mentali che tengano.

La vita, così come il viaggio degli Hoover, è fatta di circostanze e imprevisti. Inutile il dualismo tra vincenti e perdenti. Forse è proprio questo che Little Miss Sunshine vuole insegnarci, nato dall’idea dello sceneggiatore Micheal Arndt di sfatare la logica del perdente.

Ilenia Rocca

Hammamet: quando Favino supera sé stesso

Un film su un politico che non è assolutamente politico. Pregi e difetti per la pellicola sugli ultimi anni di Craxi – Voto UVM: 3/5

Ci sono uomini che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del nostro Paese.

Chiunque ha diritto di dedicarli un libro, un quadro o un film. Fondamentale è però giudicare l’opera in sé e per sé, senza farsi condizionare da ciò che il protagonista ha fatto nel corso della sua vita.

In occasione dell’anniversario della morte di Bettino Craxi, recensiamo il film Hammamet (2020) di Gianni Amelio.

La locandina del film – Fonte: screenweek.it

Trama

La pellicola narra gli ultimi mesi di vita di Craxi. Il segretario del PSI (Partito socialista italiano) in seguito allo scandalo di Mani Pulite si è rifugiato con la famiglia in Tunisia, dove vive all’interno di una lussuosa villa sotto la protezione del dittatore Ben Ali.

L’ex presidente del consiglio conduce una vita normale: si preoccupa di badare al nipotino, riflette sul difficile rapporto che da sempre ha avuto con il figlio e fa trascrivere le sue memorie. Nonostante l’età che avanza ed una forma grave di diabete, continua a seguire con molta attenzione tutto ciò che accade in Italia.

Una notte un ragazzo si introduce furtivamente nella villa, ma viene tempestivamente catturato. Craxi riconosce che costui era Fausto, il figlio di Vincenzo Sartori (uno sei suoi uomini più fidati ai tempi della politica e morto in seguito a tangentopoli). Tra i due si instaura un profondo legame: infatti, trascorrono gran parte delle giornate a fare delle passeggiate per le strade tunisine, durante le quali il ragazzo filma Craxi mentre racconta aneddoti ed esprime i suoi pensieri.

La volontà reale di Fausto è però quella di uccidere Craxi: infatti, compra una pistola che nasconde nel proprio zaino.

Craxi (Pierfrancesco Favino) e Fausto (Luca Filippi) in una scena del film – Fonte: panorama.it

Un giorno Bettino gli rivela di essere sempre stato a conoscenza dell’arma e gli propone un patto: se lo avesse lasciato in vita, lui gli avrebbe comunicato informazioni talmente importanti da poter far venir meno l’assetto politico del Paese. Fausto accetta e dopo averlo ripreso per un’ultima volta sparisce.

In seguito l’ex Presidente riceverà altre due visite: quella di un ex amante e quella di uno dei suoi più grandi rivali politici, mentre il diabete  nel frattempo si è aggravato e la sua salute viene ulteriormente ostacolata dalla comparsa di un tumore ad un rene. Difficilmente operabile in Tunisia, la famiglia decide di tornare in Italia nonostante il forte rischio di essere scoperti e quindi di far arrestare Bettino.

Tuttavia al momento di prende l’aereo Craxi ci ripensa e si fa operare in Africa. Pochi giorni dopo l’operazione viene colto da un infarto che si rivelerà fatale.

Il film si chiude con Anita (la figlia di Craxi) che va a trovare Fausto in una clinica psichiatrica, il quale le consegnerà le registrazioni effettuate in Tunisia.

Regia

Qualsiasi critica socio-politica che si possa avanzare nei confronti di Hammamet, la lasciamo a chi non si occupa di cinema. Il regista ha scelto di raccontare la storia di Craxi da un punto di vista prettamente umano.

Il film si sofferma sugli aspetti della vita quotidiana di un uomo anziano, mostrando tutte le difficoltà causate dall’età che avanza e dal progredire della malattia.

Vengono messe a nudo tutte le paure ed i rimorsi dell’ex Presidente che, per quanto possa essere stato incredibilmente potente, è semplicemente un essere umano.

Pierfrancesco Favino ed il regista Gianni Amelio sul set – Fonte: ilriformista.it

Punto di forza della pellicola sono sicuramente le inquadrature scelte dal regista durante i dialoghi: il continuo alternarsi tra i primi piani rende partecipe lo spettatore alle acute ed articolate discussioni tra gli attori.

Tuttavia il film presenta dei momenti di vuoto puro che rallentano il racconto in maniera del tutto insensata e a tratti il film risulta essere profondamente noioso.

Favino

Ciò che rende Hammamet uno dei film italiani migliori del 2020 è obiettivamente la sontuosa interpretazione di Pierfrancesco Favino.

La voce è il primo elemento a rendere la prova d’attore encomiabile, anche se la prima cosa che effettivamente stupisce è la strabiliante somiglianza tra Favino e Craxi, ma di ciò se ne deve dare atto giustamente ai truccatori.

Pierfrancesco riesce a riprodurre fedelmente ogni singola lettera esattamente come veniva pronunciata dal Presidente, riproponendone anche l’autorità e la dialettica – caratteristiche che contraddistinguevano Craxi nei suoi interventi – in modo impeccabile.

Pierfrancesco Favino e Bettino Craxi – Fonte: faige.it

Da un punto di vista tecnico l’interprete è riuscito inoltre a rappresentare le movenze tipiche di un uomo anziano. Questi due elementi sono di per sé sufficienti a provare la realisticità dell’interpretazione.

Favino però va oltre questo concetto facendo uso dello strumento che più di tutti è capace di distinguere un fuoriclasse da un attore medio. Gli occhi di Pierfrancesco rispecchiano l’anima del personaggio e ci permettono di capire quanto sia stato elevato il suo livello di immedesimazione.

Favino non ci fa vedere un attore che interpreta Craxi, ma semplicemente, Craxi.

 

In conclusione, il film ha ricevuto critiche miste: come abbiamo potuto osservare anche noi, la pellicola presenta infatti pregi e difetti.

L’importante nel cinema, come in qualsiasi altra forma d’arte, è giudicare il prodotto per come è fatto (oggettivamente) e per quello che suscita in noi (soggettivamente). Politicamente? In separata sede.

Vincenzo Barbera

 

 

Ma che razza di isola è? Alla scoperta del nuovo film di Sibilia

Voto UVM 4/5: Una delle migliori commedie degli ultimi tempi. Diverte e fa riflettere senza annoiare

Sbarcato da più di un mese su Netflix, L’incredibile storia dell’isola delle rose ha raccolto parecchie lodi, ma anche diverse critiche. Noi di UniVersoMe non potevamo perdere l’occasione di svelarvi i segreti del suo successo e dirvi cosa ne pensiamo dell’ultimo film di Sidney Sibilia.

Tra realtà e finzione: l’incredibile trama

Bologna, anni ’60. L’ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano), appena laureatosi è un ragazzo inventivo e stravagante che sembra vivere in un mondo a parte e ai limiti della legalità. Proprio perché incapace ad adattarsi, decide di fondare una nazione tutta sua servendosi di un’idea geniale: costruire una piattaforma a 12 km dalla costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. Il suo progetto incontrerà le ire del presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e del ministro degli interni Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio).

L’incredibile storia dell’isola delle Rose: locandina. Fonte: eHabitat.it

Il film di Sibilia prende spunto da una storia vera: quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, micronazione durata meno di un anno (dal maggio ’68 al febbraio ’69), dotata di propria bandiera, valuta e governo, fondata dall’ingegner Rosa.

Tuttavia anziché dare una ricostruzione fedele dei fatti, il regista preferisce ispirarsi al romanzo di Walter Veltroni: L’isola e le rose;  infatti ritrae la piattaforma di Rosa come una piccola Woodstock dell’Adriatico  laddove nella realtà storica l’ingegnere, sebbene ostacolato dallo Stato, era mosso più da fini commerciali che politici e il suo intento non era quello di dar vita a una sorta di esperimento utopico. Chi si aspetta una lezione di storia degna di un docu-film rimarrà perciò deluso. Resta invece piacevolmente colpito chi vuole ridere, ma anche riflettere su un’avventura breve ma ancora oggi suggestiva.

La vera Isola delle Rose in una foto d’epoca. Fonte: living.corriere.it

Il film pone diversi interrogativi allo spettatore: perchè le autorità sono state così poco tolleranti nei confronti di questa impresa? Era forse il periodo storico particolarmente caldo a giustificare la bocciatura di ogni iniziativa che inneggiasse alla libertà? 

In effetti la pellicola lascia lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca e il rimpianto di non aver passato – neanche un giorno – su quella piattaforma che è ignorata da tanti libri di storia. Discoteca balneare o paradiso utopico, non si doveva star poi così male sull’Isola delle Rose. 

Perché ci piace così tanto l’Isola delle Rose?

Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi in cuor suo lo desidera. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, in cui il più piccolo errore di un individuo ricade inevitabilmente su tutti gli altri – in una sorta di catena infinita da fiera dell’est – quale rifugio migliore di un’isola-Stato costruita a misura dei nostri desideri? Tanto più adesso che una malattia contagiosa quale il Covid-19 ci mostra come la società umana sia una grande rete che protegge anche se a volte finisce per soffocare.

L’isola colma di turisti in festa. Fonte: agi.it

Ecco perché simpatizziamo con il protagonista, una sorta di moderno Peter Pan pronto a costruirsi da sé la mitica isola che non c’è. Ancora di più si immedesimano tutti quelli più volte riportati sulla retta via perché troppo eccentrici e sbadati e perciò accusati di “vivere in un mondo tutto loro”. Insomma nel protagonista si ritrovano tutti coloro che sono come strumenti incapaci di andare a tempo col ritmo dell’intera orchestra, a cui non resta che la fuga felice – o peggio – il naufragio.

Perché convince il film di Sibilia?

Resta a galla, a differenza del progetto di Rosa, la commedia scritta e diretta da Sibilia: un mix perfetto di realtà storica romanzata, comicità e riflessione politica solo accennata e quel goccio di nostalgia che non manca mai in un film ambientato nei mitici anni ’60. La colonna sonora accompagna degnamente quel vento di libertà che il film fa respirare: il nostro protagonista ha l’illuminazione di costruire una piattaforma sul ruggente sottofondo di Hey Joe di Jimi Hendrix.

Cast del film. Fonte: viaggicorriere.it

Convince anche il cast: su tutti Elio Germano si rivela ancora una volta perfetto nei panni del diverso, dell’ingenuo visionario; anche qui sarà un giovane favoloso che sa credere alle proprie aspirazioni pur di cambiare il mondo o «almeno di provarci». La sua performance vanta poi un bolognese impeccabile. A questo proposito anche la scelta di enfatizzare i dialetti rende lo script ancora più divertente.

Forse possiamo storcere il naso (ma anche ridere) davanti al siciliano – per alcuni caricaturale – del bravissimo Fabrizio Bentivoglio: in alcune scene più gangster che uomo di stato. Ma in ogni caso le diverse parlate dei protagonisti creano un mosaico ancor più vivace e variegato.

Nella squadra dello stravagante ingegnere, desta meno simpatia l’amico Orlandini (Leonardo Lidi), viziato figlio di papà che ruba dalle casse dell’azienda di famiglia e fa ricadere la colpa sugli operai calabresi; qui saranno complici i pregiudizi dell’epoca. Tuttavia anche dietro questo personaggio moralmente discutibile si intravede il tocco di Sibilia (già evidente nella trilogia Smetto quando voglio) che ritrae con pregi e difetti personalità a tutto tondo, allontanandosi dal riduttivo schema buoni vs cattivi da happy-ending comedy.

Sicuramente più simpatico e sui generis invece Rudy Neumann (Tom Wlaschiha): apolide rigettato dalla Germania, perché disertore durante la Seconda Guerra Mondiale, sarà accolto a braccia aperte sull’Isola . Di personaggi tedeschi abbondano le commedie di tutti i tempi, ma raramente si esce dallo stereotipo del rigido intellettuale o del generale super severo pronto a impartire ordini di nazista memoria.

Rudy Neumann (Tom Wlaschiha) anima le feste dell’Isola. Fonte: avgmagazine.it

Chi si aspetterebbe invece un PR ante-litteram, un animatore che grida con accento germanico «Benvenuti sull’isola delle rose!»? Neumann è proprio questo e perciò incarna alla perfezione lo spirito di una commedia che non pretende di essere un film storico o ideologico, ma rimane comunque un inno a tutti i diversi, ai senza patria, ai fuori posto, a coloro al di là di tutte le convenzioni e aspettative altrui.

  Angelica Rocca