The French Dispatch: la dedica cinematografica al giornalismo

Pellicola vivace, leggera ed originale, in stile Anderson – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema talvolta può divenire l’arma perfetta per portare sul grande schermo, e quindi davanti agli occhi di tutti, anche altre forme d’arte e d’espressione. Questo è proprio il caso di The French Dispatch of Liberty, Kansas Evening Sun, scritto e diretto da Wes Anderson (Grand Budapest hotel).

La pellicola è dedicata al giornale Newyorker ed a molti dei suoi cronisti, ai quali, in alcuni casi, Anderson si è ispirato per plasmare i suoi personaggi: in particolare la figura fulcro del film, il direttore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), è una trasposizione del fondatore del Newyorker, Harold Ross.

Questo film, così originale e tutto in stile pienamente Anderson è stato, insieme a Ultima notte a Soho, il grande escluso di quest’anno, in quanto non candidato in nessuna categoria degli Academy Awards.

It began as a holiday…

Da subito ci viene presentato lo schema del film. Esso comprende: un necrologio, una guida per i viaggi e tre dei migliori articoli tratti dal The French Dispatch. Questa edizione speciale, l’ultima, è fatta in onore del direttore Arthur Howitzer Jr., morto improvvisamente d’infarto. Quest’ultimo, trasferitosi per una vacanza da universitario ad Ennui, in Francia, aprì una propria sezione del giornale del padre dedicata ad arte, cucina, cultura locale e politica, riunendo la sua amata squadra di reporter tra cui Herbsaint Salzerac (Owen Wilson), J.K.L. Beresen (Tilda Swinton) Lucinda Krementz (Frances Mcdormand) e Roebuck Wright (Jeffrey Wright).

Il primo articolo riportato dopo le notizie su Ennui è Il capolavoro di cemento. Appartenente alla sezione “Arte”, narra le vicende del tormentato artista Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), condannato a 50 anni di reclusione in una prigione-manicomio. Qui il mercante d’arte Julien Cadazio (Adrien Brody) scoprirà la sua arte, rendendolo famoso.

Il secondo articolo, Revisioni di un manifesto, presenta tutta una stagione di rivolte studentesche capitanate dai giovani Zeffirelli (Timothée Chalamet) e Juliette (Lyna Khoudri). Zeffirelli entra direttamente in contatto con Krementz (Frances McDormand), la reporter del The French Dispatch, la quale revisionando il suo manifesto, sarà coinvolta, pur cercando di mantenere la neutralità del cronista.

Il terzo ed ultimo articolo, La sala da pranzo del commissario di polizia, descrive la cena del reporter Roebuck Wright (Jeffrey Wright) dal commissario di polizia, preparata da un noto chef, il tenente Nescaffier (Stephen Park). Durante la cena, però, il figlio del commissario viene rapito e l’inviato del giornale si vedrà coinvolto nell’operazione di liberazione del bambino.

Un cast stellato

The French Dispatch è caratterizzato da un vasto cast corale, formato da alcuni degli attori più quotati del momento, tra cui anche svariati premi Oscar o candidati all’Academy, come Frances Mcdormand, Benicio del Toro, Adrien Brody e Saoirse Ronan. In più, è presente il cameo di tre grandi stelle del cinema hollywoodiano: Christoph Waltz, Willem Dafoe e Edward Norton, nel secondo e nel terzo racconto.

Il cast al festival di Cannes. Fonte: laRepubblica.it

Tecniche e peculiarità

Più che la bravura degli attori, più che la trama, in The French Dispatch quello che spicca veramente è proprio l’originalità con cui è stato realizzato. In particolare, vengono utilizzate ed alternate diverse tecniche cinematografiche. Un chiaro esempio si ritrova già nella scelta dei colori: alla pellicola prevalentemente in bianco e nero, si alternano delle scene cruciali, che si tratti di flashbacks o altro, con i classici colori brillanti andersoniani.

Inoltre, è anche molto curiosa la struttura stessa del film. Il tutto si presenta con un filo logico legato dalla singola edizione del giornale. In poche parole, è come se lo spettatore stesse sfogliando il The French Dispatch!

Da notare è anche la scelta del sottofondo musicale. La musica molto spesso influisce su come il film viene percepito in totale dallo spettatore, ed in questo caso bisogna sicuramente applaudire la bravura del compositore due volte Premio Oscar, Alexandre Desplat.

Due scene del film in bianco e nero ed a colori

Una cosa bisogna proprio dirla: Wes Anderson non smentisce mai il suo stile, e porta sul grande schermo una certa vivacità unica nel suo genere. Ma questa volta c’è anche di più: una dedica al Newyorker, e forse un po’ a tutti i giornalisti.

Mi sono dilungata troppo, ma direi che posso seguire il consiglio chiave dello stesso Arthur Howitzer Jr., ovvero…

“Just try to make it sound like you wrote it that way on purpose”

Ilaria Denaro

Coda – I segni del cuore meritava di vincere gli Oscar?

Un film che parla della disabilità, proiettando allo spettatore ciò che provano i sordomuti. Voto UVM: 4/5

La notte degli Oscar si è conclusa qualche giorno fa: una serata magica tra abiti da sogno e “scene epiche”. Tutti erano incollati davanti alla televisione per assistere alle premiazioni, tra chi si è addormentato prima del finale, e chi è rimasto sveglio per vedere uno degli eventi mondani più attesi dell’anno.

L’Oscar per il miglior film e quello per “miglior sceneggiatura non originale” sono stati vinti da CODA – I segni del cuore, diretto dalla regista Sian Heder, arrivato nei nostri cinema ieri, 31 marzo, e disponibile su NOW e Sky Tv.

Un momento storico: è il primo film che trionfa con un cast composto da ben tre sordomuti, tra cui Troy Kotsur, che si è portato a casa la statuetta di “miglior attore non protagonista”, divenendo il primo attore sordomuto a vincere l’ambito premio.

Il cast di “CODA” sul palco degli Oscar. Fonte:StyleCorriere

Di cosa parla?

“Non posso restare con voi per il resto della mia vita!”

Nella cittadina di Gloucester, nel Massachusetts, troviamo la famiglia Rossi, un nucleo familiare abbastanza particolare,  composto da tre persone sordomute: il padre Frank (Troy Kotusur), la madre Jackie (Marlee Matlin) e il fratello maggiore Leo (Daniel Durant), mentre l’unica udente è la figlia Ruby (Emilia Jones) .

Ruby fin da piccola ha sempre aiutato la sua famiglia con la pesca e facendo loro da “uditrice”. Terminato il liceo, Ruby ha già deciso che svolgerà l’attività dei suoi familiari in modo permanente, perché non vuole lasciarli soli, perché sa che dipendono da lei in quanto l’unica udente.

La protagonista però ha una passione: quella del canto. Già a inizio film possiamo ascoltare la sua voce, mentre aiuta suo padre e suo fratello a lavoro. Nessuno dei due può sentirla, sono lì soli e attorno a loro c’è solo silenzio: i rumori delle onde del mare, i versi dei gabbiani non sanno cosa sono, così come la voce di Ruby. La ragazza sogna una carriera canora e perciò entra a far parte del coro della scuola dove incontra il maestro Bernardo (Eugenio Derbez). Quest’ultimo vedrà in Ruby qualcosa di magico, la aiuterà a migliorare nel canto e la spingerà verso questo mondo. Ma davanti alla protagonista si porranno due domande: abbandonare la famiglia? O proseguire verso un futuro diverso, lontano da loro?

Meritava l’Oscar?

A mio parere no. Coda – I segni del cuore ha vinto l’Oscar per un semplice motivo: perché emoziona. Guardando il film però non notiamo una trama completamente originale, ma ci vengono spesso riproposti i tipici stereotipi americani. Come quello della classica ragazza bullizzata da tutti che poi avrà la sua rivincita. La fotografia dai toni sdolcinati fa perdere punti all’opera, divenendo sinonimo di “banalità”: a primo impatto le scene sembrano uscite da qualche telenovela strappalacrime.

Il film ha funzionato per via del cast eccezionale: il lavoro svolto da Troy Kotsur è a dir poco sublime, mi sono commossa e divertita a guardare il suo personaggio, entrando in empatia con lui.

Ha funzionato perché la regista ha portato una storia di una disabilità, che ancora non comprendiamo del tutto perché spesso ci dimentichiamo che le persone che la vivono si sentono diverse dagli altri. Il paradosso in questo film è che sono proprio Frank, Jackie e Leo ad ascoltare e osservare tutti, mentre loro sono isolati.

C’è una scena in cui le musiche, i suoni e le voci scompaiono, e lo spettatore quasi si chiede se ci sia qualche problema con le casse o se il volume si sia abbassato da solo, ma non è così! La regista infatti abbassa i suoni di proposito, per far sentire la paura che può provocare il silenzio, mentre intorno a te tutti sorridono e parlano.

Da sinistra: Leo, Jackie e Frank mentre guardano Ruby cantare al concerto del coro della scuola. Fonte: Eagle Pictures

Nonostante alcuni cliché, il film mi ha fatto ridere e versare qualche lacrima. «Ogni famiglia ha il suo linguaggio» e il mio applauso va con la scrittura e nel linguaggio dei segni a questa famiglia.

Alessia Orsa

Il Miglior Film è recitato in lingua dei segni, trionfa la diversità. Lo stupore di una notte magica

E anche questo viaggio giunge a termine. Questa notte si è tenuta la celebrazione dei 94esimi Academy Awards, di nuovo presso il Dolby Theatre di Hollywood, di nuovo col suo pubblico ricco di celebrità, i suoi presentatori rinomati e un grande ritorno: il red carpet! E che Oscar sono stati. Noi di UniVersoMe, che abbiamo seguito i film “papabili” per tutto questo tempo, non potevamo che raccontarvi di questa serata magica e pazzesca, che ne ha viste di cotte e di crude.

 I “Big Five” che hanno conquistato la statuetta

Se dovessimo descrivere l’evento di stanotte con una parola, sarebbe forse stupore. Ed infatti, grande gioia e stupore ha destato il vincitore dell’attesissimo miglior film di quest’anno, premio che va a CODA – I segni del cuore, dalla regia di Sian Heder, e che racconta la storia dei Figli di Adulti Non Udenti dal punto di vista di una giovane ragazza udente. Un film che celebra la diversità e che ha la particolarità di essere raccontato nella lingua dei segni. Anche quest’anno, quindi, gli Academy si sono distinti per l’inclusività.

Per la miglior regia, the Oscar goes to… Jane Campion, con Il potere del cane (tra l’altro, candidato anche come miglior film!). Si tratta della terza vittoria di una donna alla regia nella storia degli Oscar, preceduta da Chloé Zhao lo scorso anno e da Kathryn Bigelow nel 2010. Un film che ha visto un’incredibile interpretazione della coppia Dunst-Cumberbatch (quest’ultimo candidato anche come miglior attore).

Benedict Cumberbatch in una scena de “Il potere del cane”. Fonte: Lucky Red, Netflix

Per le categorie miglior attore miglior attrice vediamo trionfare (rispettivamente) Will Smith (con King Richard) e Jessica Chastain (con Gli occhi di Tammy Faye). Due incredibili interpretazioni degne di nota; una scelta che l’Academy avrà compiuto in modo sofferto, visto l’incredibile livello di tutte le nomination di quest’anno, come quella di Javier Bardem (A proposito dei Ricardo), di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) o di Kristen Stewart (Spencer) e Penélope Cruz (Madres Paralelas). Tutte interpretazioni – a nostro avviso – degne di rimanere nella storia a prescindere dalla vittoria.

A conquistarsi i premi per miglior attore non protagonista miglior attrice non protagonista sono (rispettivamente) gli “emergentissimi” Troy Kotsur (CODA – I segni del cuore) e Ariana DeBose (West Side Story).

Il piccolo Jude Hill in una scena di “Belfast”. Fonte: TKBC, Universal Pictures

La miglior sceneggiatura originale spetta a Belfast di Kenneth Branagh, film di cui abbiamo avuto il piacere di parlarvi e che rappresenta un inno all’Irlanda, anche durante i suoi tempi più duri (come quelli del conflitto).

Non si ferma certo qui la lista dei grandi vincitori! Spicca la vittoria di Billie Eilish per la miglior canzone originale con No Time To Die, scritta assieme al fratello Finneas O’Connell per l’omonimo venticinquesimo film della serie di James Bond. E i nostri pronostici si sono – in parte – avverati con la magia di Encanto, che si conquista il premio al miglior film d’animazione.

A chi tutto e a chi niente

Ma una delle vittorie epocali è sicuramente quella di Dune, che porta a casa ben sei statuette su dieci (migliore fotografia, colonna sonora, sonoro, montaggio, scenografia ed effetti speciali).

Timothée Chalamet e Zendaya in una scena di “Dune”. Fonte: Warner Bros.

Che ci aspettassimo un tale trionfo per il film di Denis Villeneuve era certo, ma in cuor nostro speravamo di portarci a casa – almeno – il riconoscimento come miglior film straniero. Niente da fare: l’Oscar è andato al meritatissimo Drive My Car, diretto da Ryusuke Hamaguchi, che parla di un attore e regista che dovrà fare i conti con la scomparsa prematura della moglie drammaturga.

Rimasto a mani vuote quindi l’italiano Paolo Sorrentino, che tuttavia col suo film È stata la mano di Dio ci ha regalato un bellissimo spaccato della sua esistenza, in cui vita e arte si fondono in quell’esigenza ineluttabile chiamata cinema. E noi sappiamo già che quel suo verso messo in bocca ad Antonio Capuano, quel suo «non ti disunire», rappresenterà solo l’inizio di una grande storia d’amore per il regista nostro connazionale.

Toni Servillo e Filippo Scotti in una scena di “È stata la mano di Dio”. Fonte: Netflix

Una serata “insolita”

Sarà stato il ritorno alla “normalità”, saranno i tempi di guerra che percuotono l’Europa e minacciano una Terza Guerra Mondiale, sarà… Ma la serata di ieri ha senza dubbio avuto dei risvolti “strani”.

Basti pensare all’impensabile – ma realmente accaduto – ceffone tirato da Will Smith al presentatore Chris Rock per via di un’infelice battuta su una condizione medica che affligge la moglie di Smith, Jada Pinkett, seguito poi dalle parole dell’attore premiato: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua f*****a bocca». Una scenetta su cui il pubblico s’interroga: vera collera o piece messa su per fare audience? In ogni caso Rock ha affermato che non sporgerà denuncia, per cui Smith potrà godersi al meglio la propria vittoria – lui che, come ha affermato, quel ruolo di Richard Williams, feroce difensore della famiglia, l’ha fatto suo fino al punto da esserne sopraffatto.

Infine, il riferimento inevitabile al conflitto in Ucraina nelle parole di Mila Kunis, attrice ucraina naturalizzata americana, che è servito a riportare repentinamente il pubblico alla tragicità di queste ultime settimane.

Paolo Sorrentino e il suo cast indossano il lustrino azzurro per l’Ucraina. A sinistra l’attrice Mila Kunis.

Ora l’evento è finito e – probabilmente – le star si godono un meritato ristoro. A noi spetta il calcolo dei pronostici avverati contro quelli andati in fumo: quanti ne avete azzeccati?

Ma per adesso chiudiamo questo capitolo, in attesa di rivederci al nostro appuntamento fisso: quello sulla poltrona di un cinema, con in mano dei popcorn!

Valeria Bonaccorso

 

Spencer: la storia di Lady D. da un altro punto di vista

Spencer racconta di una figura unica nella storia in maniera coinvolgente, con un’interpretazione da Oscar di Kirsten Stewart, voto 5/5

 

Principessa Diana, Lady D, Spencer: conosciuta e ben nota da tutte e tutti, è stata la componente della famiglia reale inglese che è vissuta maggiormente sotto i riflettori del mondo, emergendo da subito come figura ribelle ed anticonformista rispetto al protocollo della corona.

Spencer, scritto da Steven Knight e diretto da Pablo Larraìn, è il nuovo biopic che va a ripercorrere quello che è stato il periodo più buio della vita della principessa: le vacanze di Natale del 1991, trascorse con la famiglia reale a Sandrigham. E dopo le quali si avrà la rottura definitiva e la separazione dal principe Carlo. Il film, presentato in anteprima al festival del cinema di Venezia, è stato distribuito nelle sale statunitensi già il 5 Novembre dello scorso anno.

Un focus speciale su Diana

Primo piano della principessa Diana. Fonte: mymovies.it

Sulla stessa linea di altri film biografici del regista, come Jackie sulla figura della first lady Jacqueline Kennedy, e Neruda sul noto poeta, in Spencer si mantiene una ferma e meticolosa focalizzazione sulla protagonista. Tutti gli stati d’animo di Diana vengono riflessi nelle inquadrature e nel background musicale, sempre molto cupo e teso.

Ma ciò che rende questa pellicola così autentica è l’impressionante interpretazione di Kirsten Stewart nei panni di Diana, la quale le è fruttata anche la nomination agli Oscar 2022 come miglior attrice protagonista. Definirei questa sua performance inaspettata, in quanto i precedenti ruoli dell’attrice, come ad esempio quello di Bella Swan in Twilight, si sono sempre rivelati poco veritieri ed a tratti irrilevanti. Invece in Spencer, l’attrice è riuscita ad impersonificare pienamente la principessa ribelle, con tutte le sue preoccupazioni e la sua voglia di lottare contro quella stessa istituzione che stava pian piano uccidendo il suo spirito libero.

Carlo: marito e padre incurante

“Charles: But, you know, you have to be able to make your body do things you hate.
Diana: That you hate?
Charles: That you hate.
Diana: That you hate?
Charles: Yes. For the good of the country.
Diana: Of the country?
Charles: Yes, the people. Because they don’t want us to be people. That’s how it is. I’m sorry, I thought you knew.”

Il principe Carlo, interpretato dall’inglese Jack Farthing, è una figura pressoché assente per la prima parte del film. Pur rendendosi conto del grave stato di sofferenza della moglie, non fa nulla, rimarcando così il grave stato di crisi del loro rapporto. Egli spicca veramente nel film solamente nella scena di questo dialogo, in cui diventa un vero e proprio antagonista per Diana. Rappresenta il velo di ipocrisia di cui la famiglia reale effettivamente si ricopre, “for the good of the country”. Finzione che invece Diana non riesce ad accettare, cercando di rivendicare sé stessa.

William e Harry: l’unica evasione

Diana insieme ai principi Harry e William. Fonte: orgoglionerd.it

Nei momenti più bui, in cui la vita nella famiglia reale sembra insopportabile, Diana tende a rifugiarsi con i figli in un mondo più semplice, distaccandosi dal presente. Un esempio è la scena in cui la principessa, la notte della vigilia di Natale, dopo aver cercato di entrare nella sua vecchia casa, sveglia i due bambini per portargli dei regali (da aprire il giorno di Natale, non la vigilia come è tradizione della corona), e per mettersi a giocare con loro. In questa, come in molte altre occasioni, possiamo notare il forte attaccamento di Lady D. nei confronti dei propri figli e, allo stesso tempo, di come i bambini si rendano conto della sofferenza della madre, in particolar modo William, interpretato da Jack Nielen, che cerca in qualche modo di aiutarla e confortarla.

Il grande critico reale

Le vicende narrate sono indubbiamente molto delicate e possono in qualche modo essere mal viste da chi ne è direttamente protagonista. Quando si è trattato di portare sul grande schermo vicende della famiglia reale, è spesso stata la regina Elisabetta ad esternare le proprie critiche. Ma per Spencer, un altro membro della corna ha presentato il proprio scetticismo: stiamo parlando del principe Harry. Quest’ultimo ha affermato di non voler neanche presenziare alla cerimonia degli Oscar 2022, per evitare di imbattersi proprio nell’attrice Kirsten Stewart. Spencer ritrae, in maniera esplicita, un momento molto difficile della madre, quindi le critiche di Harry possono, a mio parere, nascere da un sentimento di salvaguardia di quella figura che per il mondo è stato un personaggio pubblico, ma per lui più semplicemente l’affetto più caro.

A sinistra l’attrice Kirsten Stewart, a destra il principe Harry e la duchessa Meghan. Fonte: elle.com

Spencer, insieme agli altri capolavori candidati quest’anno agli Academy awards, è sicuramente da non perdere. Per via di vari problemi collegati alla pandemia, il film, programmato per gennaio, uscirà nelle sale italiane il 24 Marzo. Quindi miei cari cinefili, giovedì tutti al cinema!

Ilaria Denaro

Disney, Pixar, Sony o indie: quale sarà il miglior film d’animazione 2022?

Quest’anno la lotta per la statuetta di miglior film d’animazione si preannuncia ostica, con contendenti equipaggiati di un ottimo arsenale. Dal lato Disney abbiamo Encanto e Raya e l’ultimo drago, che continuano la tradizione recente dei classici con forti eroine in copertina, e Luca, il nuovo film co-prodotto con Pixar, dai tratti nostalgici.

Sony presenta invece I Mitchell contro le macchine continuando sulla strada di “Into the spiderverse”. Entra poi da outsider il documentario Flee, progetto di nicchia venuto alla ribalta.

L’incanto dei Madrigal

Il nuovo musical Disney, Encanto, si presenta come un’avventura vivace e piena di colori, con personaggi carismatici. Si avvicina molto all’immaginario dei Paesi dell’America Latina, ricalcando i paesaggi e la cultura di quella parte di mondo. Tutto si basa sul dono fatto alla famiglia dei protagonisti: ognuno dei Madrigal ottiene un potere magico grazie al quale ha la possibilità di aiutare la famiglia e l’intero villaggio sorto intorno alla loro “Casìta”.

Un concept semplice ma che funziona. Purtroppo il film risente, a parer nostro, di una parte musical che si estrania dalla narrazione. Soffre inoltre di un finale poco coraggioso, con un risvolto che va quasi ad annullare lo sviluppo dell’intero film. Riesce comunque a divertire ed emozionare fino alla fine, lasciando addosso una piacevole sensazione di positività.

La famiglia Madrigal. Fonte:  Walt Disney Studios

La ricerca delle quattro gemme

Raya è invece un’avventura ambientata in un mondo orientaleggiante che deve tanto a Dune e Star Wars. È infatti una classica avventura fantasy, in cui seguiamo un’eroina nella sua ricerca di quattro artefatti magici. Le terre esplorate ed ogni popolo presentano una forte identità, invogliando il pubblico a seguire il percorso della trama.

Ciò aiuta il film a reggersi, tra alti, rappresentati dalle sequenze più seriose che rendono più realistico ed adulto il mondo ed i suoi personaggi, e bassi che potevano essere tranquillamente evitati. Soprattutto un finale alla ”tarallucci e vino” che avremmo preferito non vedere, in un serioso mondo post apocalittico con grande enfasi sulla politica e sui popoli. Rimane comunque un ottimo film che avrebbe potuto essere grande.

Le due protagoniste nemiche-amiche. Fonte: insidethemagic.net

I mostri marini di Portorosso

Passando sul versante Pixar, Luca è un film che tocca corde molto nostalgiche e personali. Ambientato in Liguria durante il boom economico dell’Italia, mostra tutto quello che risulta iconico di quel periodo, ricordando molto da vicino anche le pellicole di quegli anni. La salsedine sulla pelle sembra quasi di sentirla e tra la case dalle mura crepate nei vicoli stretti acciottolati, si respira la stessa sensazione di un’indimenticabile estate da turista. Il mare è reso in maniera eccellente e – non a caso – è stato scelto come elemento centrale della storia.

Il film quindi è – e rimane -una vera gioia per gli occhi e per il cuore, anche se di fatto ci troviamo di fronte ad una storia trita e ritrita, di genitori apprensivi e della crescita personale di un protagonista timido che scopre il mondo preclusogli fino a quel momento.

I tre bambini protagonisti. Fonte: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures

Real life versus web

La produzione Sony, invece, risulta essere molto diversa. Ne I Mitchell contro le macchine, la commistione di animazione 2d e 3d è il vero elemento di forza. Traspira da ogni fotogramma una grande creatività grazie alle nuove possibilità realizzative. La famiglia di protagonisti risalta per la sua eccentricità (evidenziata dalle giganti onomatopee a schermo e dalla dinamicità dell’animazione) e per il suo essere ”freak”. Ma la loro fisicità e il loro carattere risultano estremamente umani ed empatici ad un occhio più adulto.

L’intera trama è un pretesto per far avvicinare il padre e la figlia maggiore. Questa premessa riesce, nella sua semplicità, a creare una storia a cui il pubblico di qualunque età può legarsi. Questo anche grazie al buon ritmo e alle buone sequenze d’azione, assieme ad un finale rocambolesco, in cui – grazie a Dio! – buoni e cattivi non si abbracciano.

L’unico difetto del film è l’estremizzazione di alcuni motivi narrativi, che coinvolgono tutto il pianeta e avrebbero invece funzionato di più  se confinati agli USA. Ultima nota positiva a margine è la frecciatina a certe aziende, a cui al giorno d’oggi abbiamo dato troppo potere.

La ”stravaganza dei Mitchell”. Fonte: Sony

Vivere in fuga

Per finire parliamo di Flee. Nato come progetto estremamente low budget, è riuscito ad ottenere una candidatura a ben tre premi: miglior film d’animazione, miglior film internazionale e miglior documentario.

Lo strazio e l’angoscia si percepiscono, riuscendo a far sentire al pubblico, una vicinanza intima al protagonista e alla sua famiglia, anche grazie all’uso di un’animazione grezza, incredibilmente riuscita. La pellicola si presenta come una traduzione su carta di un documentario filmato dal vivo, inframezzato dai ricordi narrati dal protagonista, in cui si racconta la fuga dall’Afghnistan successiva alla guerra civile degli anni ’80. Seguiamo la famiglia nella sua fuga verso la Russia e poi verso l’Europa, vivendo i drammi dell’illegalità e del trovarsi senza aiuti, con la costante speranza di un futuro migliore per sé e per i propri cari.

La pellicola, raccontando una storia cruda e reale, ha buone probabilità di rimanere nella mente di coloro che la guarderanno, a maggior ragione in un momento storico come questo. 

Il peschereccio dei trafficanti umani. Fonte: Sun Creature Studios

Pronostico?

La scelta dell’Accademy quest’anno potrebbe essere scontata o coraggiosa: se da un lato sarebbe ovvio premiare Encanto, dall’alrtro speriamo nella vittoria de I Mitchell, perché ci auguriamo che la classica animazione 3d occidentale possa evolvere rispetto alla staticità di quella Disney o Pixar.

Ci sentiamo di escludere dal podio gli altri tre, ma saremmo felicemente sorpresi di veder trionfare Flee, magari anche in altre categorie.

 

Matteo Mangano

Room di Lenny Abrahamson: fuori dalla “caverna”

In una leggenda molto famosa di Platone, viene raccontata la storia di alcuni uomini prigionieri dentro una caverna, con gambe e collo incatenati. Quella condizione li porterà a vivere per ore, giorni, anni rinchiusi tra quelle mura senza riuscire mai a scoprire il mondo, a vedere la luce.

Ma cosa potrebbe succedere se anche solo uno di quegli uomini riuscisse ad evadere? Forse inizierebbe a scoprire di cosa siano fatte le foglie, che colori abbiano i fiori o cosa significherebbe avere un amico …

Nella Stanza

Tratto da una storia vera

Diretto da Lenny Abrahamson, Room è un film non molto recente, che risale al 2015. La pellicola è l’adattamento cinematografico del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio del 2010, scritto da Emma Donoghue. Non è un caso che il titolo del romanzo sia una serie di parole che faranno da cornice ad alcune scene importanti del film.

Il romanzo – come il film – non è frutto di fantasie o storie immaginate, ma è tratto da una pagina di cronaca nera che prende il nome di caso Fritzl. Questo caso nasconde una storia sconvolgente, proprio come Room, caratterizzata da violenze e maltrattamenti ad opera di una mente molto perversa e malata.

La storia di Room ruota appunto attorno alla “stanza” in cui vivono Joy e Jack, una mamma con il suo bambino. Questo piccolo spazio diventa per loro l’intero mondo. Come se non esistesse nient’altro.

Jack (Jacob Tremblay) ha cinque anni ed è il frutto di uno stupro. I suoi capelli sono molto lunghi ed è un bambino molto dolce. Non conosce il mondo, ha sempre vissuto in quella stanza. Secondo il piccolo, oltre quelle quattro mura, l’armadio, la porta e qualche altro oggetto, non esiste nient’altro. Ed ogni mattina si appresta – da buon ometto – a dare il buongiorno all’intera stanza

“Buongiorno pianta, buongiorno armadio, buongiorno lucernario”

Una bella scena che mostra il rispetto e la gratitudine che Jack prova nei confronti di qualsiasi entità presente. Joy (Brie Larson), invece, conosce bene il mondo. È la mamma del bimbo, che ama follemente. Da sette anni è stata rapita da un uomo, Old Nick (Sean Bridgers), che tiene prigionieri lei e il figlio in una piccolissima stanza nel giardino.

Spinta da questa situazione insostenibile, da forti emozioni e dal desiderio di tenere al sicuro il proprio bambino, Joy tenterà di trovare una soluzione per entrambi e scappare da lì.

“Joy: -Ti piacerà.
Jack: – Cosa?
Joy: – Il mondo.”

Qualcosa andrà storto o riusciranno a fuggire dalla stanza per sempre?

Gli anticorpi che servono per la libertà.

Il film fu una vera e propria sorpresa per tutti ed è stato vincitore del Premio del Pubblico a Toronto. Room racconta di spazi interiori e delle profonde ragioni intime che legano i due protagonisti nella piccola stanza e contribuiscono alla loro co-costruzione sempre continua nel corso della sceneggiatura.

“Jack ora ascoltami: questa è la nostra occasione.”

I due protagonisti di Room guardano il lucernario

Quando la stanza si spopola e la soluzione risulta efficace, si pensa subito di poter scalare ogni vetta come se non ci fossero ferite nascoste, date dai sette anni di reclusione. Una volta assaporata la libertà, però, il peso delle catene si farà sempre più forte lasciando un senso di stordimento e depressione caratteristico di chi vive in una situazione del genere. Le ferite subite negli anni inizieranno a sanguinare in un colpo solo e la situazione sembrerà degenerare, come se fosse una guida spericolata in stato di ebbrezza in cui si perde il controllo.

Jack: – Siamo su un altro pianeta?
Joy: – E’ lo stesso, ma in un posto diverso.”

Per i due protagonisti sarà come rinascere una seconda volta, ma vivere per la prima volta il mondo reale e l’affetto di chi li aspettava da anni. Jack ne rimarrà sin da subito affascinato e finalmente può godere della sua libertà, trovare nuovi amici e giocare con veri giochi.

“Sono nel mondo da 37 ore e ho visto finestre, tantissime macchine, uccelli e nonno e nonna.”

Libertà

In due tempi

Room si aggiudica un posto di tutto rilievo all’interno del panorama cinematografico. Ascrivibile al filone del cinema post-traumatico e drammatico, ha tutte le carte in regola per rivelarsi un ottimo film strappalacrime, ma anche molto educativo. Sensibile alle tematiche più delicate, la pellicola si divide in due fasi. Una prima fase in cui troviamo la presentazione della storia e del problema e una seconda in cui scopriremo la doppia prospettiva di Joy e Jack.

La meraviglia negli occhi di Jack segnerà la fine di questa pellicola impeccabile con una sceneggiatura da dieci e lode.

Annina Monteleone

Don’t Look Up: un film che ci prende in giro (e a buon diritto)

Un film che critica la nostra società in maniera brillante. Adam McKay non smette di stupire – Voto UVM: 4/5

 

Le potenzialità di un film alle volte non incontrano limiti. È incredibile come la stessa pellicola possa essere guardata e giudicata con occhio diametralmente opposto in base alla forma mentis di persone appartenenti ad orientamenti politici o culturali diversi.

Tra chi “a sinistra” l’ha elogiato quale capolavoro sulla crisi climatica e chi invece, tra i repubblicani, no ne ha digerito i riferimenti alla politica di Trump, Don’t Look  Up, si è rivelato un film che ha letteralmente spaccato in due l’opinione pubblica, soprattutto quella americana. Proprio per questo noi di UniVersoMe, non potevamo rinunciare ad analizzarlo.

Trama

Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), una specializzanda di astrofisica, scopre un’enorme cometa, la cui traiettoria impatterà molto presto con la Terra causando l’estinzione di ogni forma di vita. La dottoressa. assieme al professor Randall Mindy, (Leonardo Di Caprio) sarà convocata immediatamente nello studio ovale del Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep).

Da qui in poi ha inizio il teatro dell’assurdo: le istituzioni ed i media non si preoccuperanno minimamente dell’imminente catastrofe, anzi non faranno altro che sminuire la vicenda e trattarla come se fosse una qualunque questione all’ordine del giorno.

Cast

Il cast della pellicola è di primissima qualità.

Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence danno vita ad un duo che funziona perfettamente. I loro personaggi sono gli unici a rendersi conto della terribile minaccia che incombe sulla Terra. Gli attori, calati interamente nei rispettivi ruoli, riescono perfettamente ad incarnare due scienziati impauriti che cercano con ogni mezzo di informare l’intera razza umana anche mettendo a nudo tutte le sue debolezze. Nonostante tutto, continueranno imperterriti nel proprio intento.

Il professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoressa Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) in una scena del film

Allo stesso tempo, confusi e impacciati, i due personaggi riusciranno a conquistarsi l’empatia dello spettatore che per tutta la durata del film dovrà convivere con lo stato di nervosismo e di ansia provato dai protagonisti.

Meryl Streep interpreta il Presidente degli USA mettendo a segno – come sempre – un’interpretazione magistrale. Dà vita ad una creatura che si ciba di consensi, populista oltre ogni misura, insomma una vera e propria macchina politica. Si può quasi definire una rivalsa personale per l’attrice nei confronti di un noto presidente che l’aveva definita “sopravvalutata”.

Da segnalare anche le ottime interpretazioni di Jonah Hill nei panni di Jason Orlean (figlio della presidentessa) e del premio Oscar Mark Rylance in quelli di Peter Isherwell (una sorta di Steve Jobs o Elon Musk).

Stile Mckay

Il regista Adam Mckay, in passato, non si è fatto problemi ad affrontare con i suoi film tematiche delicate. Con La grande scommessa (2015) ha ripercorso le origini della crisi finanziaria del 2008, mentre con Vice – L’uomo nell’ombra (2018) ha raccontato la vita di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush, uno degli individui più loschi della storia americana.

Rappresentare ed affrontare problematiche odierne quindi non lo intimorisce per nulla.

Il presidente degli USA Janie Orlean (Meryl Streep) in una scena del film

Come già fatto in passato, il regista è riuscito a identificare quale sia la causa di fenomeni negativi che interessano il mondo intero: l’operato umano.

I politici, i programmi Tv ed i cittadini stessi sono gli artefici di tutto ciò che accade in Don’t Look Up.

Ripudiamo la scienza per ascoltare  – e ammirare come pecorelle – chi sproloquia per soddisfare esclusivamente un interesse personale.

Una delle scene più emblematiche, a questo proposito, è quella in cui i due scienziati sono invitati in uno studio televisivo. Tanto per cominciare, il loro intervento viene messo in scaletta dopo l’apparizione di una famosa cantante (interpretata da Ariana Grande) che dà vita ad uno spettacolo super trash con il proprio ex compagno, spettacolo che tuttavia raccoglierà il picco massimo di spettatori della trasmissione. Solo dopo viene dato spazio alla questione della cometa, problematica affrontata con molta leggerezza, scherzandoci su e ridicolizzando la povera Kate Dibiasky. Quest’ultima, dopo aver provato a spiegare i pericoli cui la Terra sarebbe andata incontro, sclera divenendo lo zimbello del mondo di Internet.

Una storia raccontata in perfetto stile Mckay, unico nel suo genere: l’autore mira diretto al problema e lo mostra per quello che è senza usufruire di metafore o riferimenti esterni e raccontandone le conseguenze con un ritmo incalzante.

La locandina del film

 

Un film che va visto per ciò che è: un film. Non un attacco a una specifica frangia politica o una satira esagerata sui complottisti.

E’ solo una pellicola che ci apre gli occhi su cosa sia oggi la nostra società e lo fa in maniera brillante. Ci prende in giro ed è normale e giusto che sia così. Guardatelo, godetevi lo spettacolo e distogliete l’attenzione dalle guerre mediatiche condotte per accalappiare consensi inutili.

Vincenzo Barbera

 

Matrix Resurrections: un sequel che divide il pubblico

Film che promette bene, ma si perde col passare dei minuti. Da “Matrix” ci si aspettava di più – Voto UVM: 2/5

 

Dopo circa 18 anni dalla conclusione della trilogia, Matrix ritorna sul grande schermo con un sequel/reboot atteso dai migliaia di fan della saga.

Matrix Resurrections, questo è il nome della pellicola disponibile nelle sale cinematografiche dal 1° gennaio. Il film vede protagonisti nuovamente i personaggi di Neo e Trinity, sempre interpretati da Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Presenti anche altri personaggi centrali della trilogia, come Morpheus e l’ agente Smith, in questo caso però impersonati da attori differenti (rispettivamente Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff).

La regia è stata affidata stavolta alla sola Lana Wachowski, che ha curato anche la sceneggiatura.

Neo e Trinity

Molti dubbi aleggiavano sul successo e sulla validità di un sequel del genere: le vicende si erano ormai concluse in Matrix Revolutions, un seguito sembrava abbastanza forzato. In sintesi, Matrix Resurrections sembrava il classico tentativo di fare incassi sfruttando un brand di successo. Tuttavia l’uscita dei trailer aveva riacceso l’entusiasmo e la curiosità tra i fan e non solo.

Prime impressioni: quei difetti che balzano all’occhio

La trama di base non è male: Neo si ritrova ancora intrappolato in Matrix facendo i conti con il suo passato che riemerge. Diversi sono i cambiamenti che avvengono all’interno di questo mondo (il che è più che legittimo). Il problema è lo sviluppo: il film infatti va a perdersi col passare dei minuti risultando non molto interessante.

Alcuni personaggi risultano spenti, altri si vedono poco e finiscono per avere ruoli secondari, altri ancora risultano delle macchiette che definirei “fastidiose”.

Il finale poi mi sembra troppo affrettato – nonostante il film arrivi quasi alle 2 ore e 20 – con molte situazioni che non vengono spiegate in maniera adeguata. Abbiamo pur sempre a che fare con della fantascienza, ma qui le forzature sembrano essere troppe e alcuni avvenimenti risultano incoerenti con i film precedenti, classico difetto dei sequel e motivo per cui difficilmente riescono bene.

Morpheus in una scena del film

In più la storia sembra priva di spunti filosofici interessanti: troviamo solamente argomenti già affrontati e quest’aspetto la depotenzia molto. Vengono riprese le tematiche della scelta e del libero arbitrio, ma il discorso si era già esaurito nei capitoli precedenti: questa appare solo una ripetizione. Perciò complessivamente ho trovato il film piuttosto vuoto: da Matrix si pretende qualcosa in più.

Metacinema e altre note di merito

Il film si pone, però, come una critica spietata verso la situazione cinematografica attuale: da una parte ci sono gli spettatori, affezionati a determinati prodotti, e dall’altra l’esigenza delle case di produzione di adattarsi a queste richieste per riuscire a vendere. Ciò che traspare è un intento da parte della regista di prendere in giro questo sistema, come possiamo notare nella prima parte della pellicola.

Lana Wachowski sembrerebbe girare e scrivere questo sequel quasi di controvoglia, costretta dalle esigenze di mercato della Warner. Tuttavia, quello che ne viene fuori sono alcuni siparietti metacinematografici di alto livello, che ironizzano sul film stesso.

Sembrerebbe esserci stata una presa di coscienza da parte della regista che, consapevole di aver già tirato fuori il meglio dal brand, decide comunque di realizzare questo quarto capitolo, adottando di proposito certe soluzioni infelici, ma offrendo all’industria ciò che vuole.

Forse il cinema, come ogni forma d’arte contemporanea – per usare un termine proprio del film – si trova davvero intrappolato in un loop, in cui si ritorna sempre a proporre il classico “usato sicuro”, qualcosa di già visto (non a caso uno dei temi affrontati in questo Matrix è quello del déjà-vu).

Fonte: Zimbio.com – Carrie Anne Moss, Lana Wachowski e Keanu Reeves alla première del film

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la regia è stata curata magistralmente, la CGI ben utilizzata e le scene d’azione non dispiacciono, anche se a volte confusionarie e comunque al di sotto di quelle viste nei film precedenti.

Presenti anche molte citazioni e riferimenti alla trilogia: puro fan-service verso gli appassionati che però non guasta, anzi è ben realizzato e rientra tra le note più positive.

Un Matrix diverso?

È molto difficile valutare questa pellicola: se si dovesse considerare una parodia voluta contro il sistema dello sfruttamento estenuante dei brand cinematografici, allora il giudizio sarebbe ottimo. Se si dovesse considerare, invece, esclusivamente come sequel della trilogia allora lo reputerei insufficiente.

Matrix Resurrections può convincere come film a sé stante, ma, posto in confronto con i capitoli precedenti della saga, rivela la sua vacuità.

In sostanza è un Matrix diverso, lontano dai canoni e dalle atmosfere dei primi film. Ma forse questo cambiamento è stato voluto e ci si dovrebbe focalizzare non tanto sulla trama, ma sul messaggio che la regista vuole dare.

È vero che si può trovare sempre qualcosa da raccontare: le storie potenzialmente non finiscono mai, ma ad un certo punto diventano ridondanti, rischiando di cadere nella mediocrità.

 

Sebastiano Morabito

Martin Scorsese: il maestro dei maestri

Ogni forma d’arte, disciplina o sport presenta una o più figure di spicco che ormai nell’immaginario collettivo costituiscono dei veri e propri simboli.

Basti pensare a Michelangelo, Albert Einstein, Maradona: quando ci viene in mente uno di questi personaggi, ci si immedesima totalmente e con amore nel loro mondo grazie alle scoperte, ai capolavori e alle emozioni che ci hanno donato.

Tutto ciò accade anche quando viene pronunciato il nome di Martin Scorsese per quanto riguarda il cinema. Proprio per questo noi di UniVersoMe, in occasione del suo 79esimo compleanno, vogliamo rendergli omaggio andando ad analizzare tre dei suoi più grandi film.

Martin Scorsese – Fonte: cheatsheet.com

1) Taxi Driver (1976)

E’ la pellicola che segna l’ascesa del regista e di Robert De Niro. Come è noto, i due si conoscevano fin dai tempi dell’adolescenza essendo cresciuti per le strade di Little Italy a New York. Precedentemente avevano già lavorato insieme, ma è con Taxi Driver che entrambi sono riusciti ad esprimersi al massimo delle proprie potenzialità, grazie soprattutto alla fiducia reciproca. Potrebbe apparire come un concetto banale, quasi una frase fatta, ma la fiducia è in realtà il motivo principale in base al quale questo film è divenuto una pietra miliare della settima arte.

Facciamo degli esempi: l’iconica scena in cui il protagonista Travis (Robert De Niro) parla allo specchio, è stata improvvisata integralmente dall’attore stesso e ciò fu possibile in quanto Martin gli disse di recitare liberamente senza alcuna direttiva. Venne fuori la migliore interpretazione attoriale di De Niro dal 1985 a oggi.

Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di Taxi Driver – Fonte: galerieprints.com

Nella scena in cui il tassista porta in macchina l’uomo gelosissimo della moglie, l’attore che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo all’ultimo momento non riuscì a prendere parte alle riprese. Scorsese decise quindi di interpretarlo in prima persona basandosi solo ed esclusivamente su alcuni consigli di De Niro.

La fiducia che sta alla base di questo rapporto professionale ovviamente non è l’unico elemento distintivo di Taxi Driver: le innovative tecniche di ripresa introdotte dal regista, la celeberrima interpretazione di De Niro e l’impeccabile sceneggiatura la rendono una delle pellicole più belle della storia del cinema.

L’elemento clou di tutto il film si racchiude poi semplicemente nello sguardo finale del protagonista. (allarme spoiler!)

Dopo tutte le vicissitudini, i risvolti di trama e le lotti interiori di Travis, nella scena finale il tassista lancia una gelida occhiata che viene riflessa dallo specchietto retrovisore dell’auto.

Con quell’espressione De Niro non ci fa capire più nulla: non è chiaro infatti se Travis sia guarito o se dentro di sé nasconda ancora tutta quella violenza e che quindi sarà pronto nuovamente a compiere una carneficina (esattamente come in Shutter Island qualche anno più tardi).

2) Quei bravi ragazzi (1990)

Siamo davanti ad uno dei più grandi capolavori dei gangster-movies. Scorsese ha dato vita ad un’opera con la quale rappresenta gli aspetti più violenti della criminalità come se fossero momenti di vita quotidiana di un comune cittadino medio. Durante i vari crimini, infatti, è possibile notare come i protagonisti parlino del più e del meno, scherzino tra loro, cenino insieme alla propria madre mentre magari hanno un cadavere nascosto nel bagagliaio.

Vi sono diverse scene del film in cui il regista, con una serie magistrale di inquadrature e delle musiche ad hoc, riesce ad incantare lo spettatore facendolo immergere totalmente in ciò che sta accadendo nella pellicola (per esempio quando vengono presentati i bravi ragazzi).

Joe Pesci, Ray Liotta e Robert De Niro in una scena del film – Fonte: Warner Bros.

Scorsese esalta in maniera esponenziale anche i dettagli, un po’ alla Sergio Leone. Memorabile è a questo proposito la scena del taglio dell’aglio in carcere, che ormai è divenuta un tratto peculiare del film.

Il cast infine trasuda qualità da ogni poro grazie alle interpretazioni di Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci, quest’ultimo premiato con l’Oscar nel 1991 come migliore attore non protagonista.

3) The Wolf of Wall Street (2013)

Una delle pellicole hollywoodiane più spinte ed amate di sempre. La lussuria ed il capitalismo sono gli elementi portanti della trama.

Il regista tuttavia non si lascia intimorire dai temi che dovrà affrontare e parlerà per 3 ore di fila esclusivamente di droghe, sesso e soldi senza mai deviare il tiro, ma anzi decidendo di rincarare la dose.

Con un ritmo frenetico ed una serie di inquadrature alla Scorsese, è impossibile annoiarsi durante la visione.

Leonardo Di Caprio nei panni di Jordan Belfort – Fonte: 01 Distribution

L’interpretazione di Leonardo Di Caprio nei panni di Jordan Belfort è impeccabile: immedesimatosi completamente nel personaggio, l’attore dà vita in maniera elegante ad un uomo ossessionato dai soldi e dalle droghe, ma con un senso dell’umorismo molto forte che lo rende profondamente carismatico.  Insomma, un uomo che, anche se sostanzialmente truffatore, riesce a conquistarsi la simpatia del pubblico.

 

Fonte: nonsolofilm.it

Martin Scorsese è l’incarnazione del Cinema.

Non esistono aggettivi in grado di rendergli giustizia per definire quello che è riuscito a creare nel corso della sua carriera. Possiamo solamente dire: «Grazie Martin, a nome di tutti!»

Vincenzo Barbera

 

 

Ultima notte a Soho: quando il sogno diventa incubo

Thriller coinvolgente e denso di suspense con grande attenzione a musiche e ad effetti speciali – Voto UVM: 5/5

 

Vi è mai capitato di desiderare intensamente qualcosa per poi rimanere delusi quando si avvera, di rendervi conto che non era effettivamente ciò che volevate? Molto spesso può succedere che noi stessi arriviamo ad ingannarci, a mistificare i nostri desideri a tal punto che non possono in alcun modo coincidere con la realtà.

Questo è un po’ il tema centrale di Ultima notte a Soho. Uscito nelle sale italiane il 4 Novembre, il thriller psicologico (a tratti horror) di Edgar Wright è stato presentato anche alla mostra del cinema di Venezia 2021.

Protagoniste  in questa pellicola sono Anya Taylor-Joy ( già nota per il  suo ruolo nella serie La regina degli scacchi) nei panni di Sandy, e Thomasin McKenzie ( la ragazzina ebrea di Jojo Rabbit) che interpreta Ellie. Ultima notte a Soho è stato inoltre l’ultimo film in cui hanno recitato Diane Rigg e Margaret Nolan, entrambe defunte nel 2020.

Tutto parte da un sogno

Sandy e Jack al loro primo incontro

Ellie Turner, giovane amante della moda e degli anni ’60,vive con la nonna in Cornovaglia (la madre si è suicidata quando lei era piccola), ma si trasferisce a Londra per studiare moda. Qui affitta una camera dall’anziana signora Collins, e dalla prima notte viene trasportata indietro nel tempo, nella Londra degli anni ’60. Qui è come se si identificasse con una giovane aspirante cantante, Sandy, di cui seguirà le vicende notte per notte.

Sandy, annebbiata dal desiderio di diventare una star, si fa ingannare dall’affascinante Jack, interpretato da Matt Smith (noto per il ruolo del Principe Filippo nella serie The crown).  Il sogno di Ellie di vivere gli anni ’60 si tramuta presto in un incubo: ogni notte è costretta a vivere con Sandy gli abusi di cui è vittima e a vedere tutti gli uomini con cui la giovane cantante è obbligata ad avere rapporti.

Ellie e Sandy: l’una il riflesso dell’altra

Sandy ed Ellie, riflessa nello specchio

Anche se Sandy non può vedere Ellie, tra le due si crea un legame particolare: è come se Ellie si immedesimasse completamente in lei, nel suo dolore.  Emblematica è a mio parere una scena in cui Ellie rompe lo specchio che per tutto il film la separa dalla realtà degli anni ’60 e da Sandy di cui è quasi il riflesso per  raggiungere quest’ultima e salvarla.

Inoltre per avvicinarsi ancora di più a lei, ne emula i vestiti, i capelli, ne trae ispirazione per gli abiti che crea nel suo corso di moda. Questo però solo in un primo momento: quando la vita di Sandy diventerà un susseguirsi di abusi, Ellie cercherà di distaccarsi, di rigettarla per quanto possibile.

Musica ed effetti speciali non troppo speciali

Ultima notte a Soho crea una totale atmosfera di suspense, che a mio parere è dovuta specialmente alla scelta della canzone Downtown: molto spesso nei thriller o negli horror, la musica soft, magari anche un po’ straniante, può creare più angoscia degli effetti speciali in sé (pensate all’innocente canzoncina per bambini in Profondo Rosso di Dario Argento). Downtown di Petula Clark è proprio il brano scelto da Sandy per un’audizione organizzata da Jack in un nightclub di Soho.

Non sono da meno gli effetti speciali, molto semplici: non assistiamo mai a scene splatter o comunque particolarmente violente. Originale a mio avviso è l’utilizzo dello specchio come linea che divide Ellie da Sandy durante i sogni: solamente quando lo romperà, le due realtà andranno come a fondersi nella vita di Ellie.

Ellie che rompe lo specchio per salvare Sandy

Il trauma dell’abuso

A creare molta suspense sono gli uomini sfigurati che compaiono lungo tutta la durata del film (anche qui effetti speciali molto semplici, ma sicuramente ben fatti e ben collocati).

Gli uomini che abusano di Sandy sono resi mostruosi, disumanizzati: è lei stessa che, per distaccarsi il più possibile dalla terribile realtà, cerca di ignorarli e di seppellire i suoi traumi.

Forse, pensandoci, questo film diverrà ancora più forte visto dagli occhi di una donna, che magari si può meglio immedesimare in Sandy e vedere in quelle figure non solo dei semplici mostri, ma lo spettro di un abuso.

Un thriller in piena regola

Ultima notte a Soho è una pellicola avvincente, che con le sue tecniche di sceneggiatura, i suoi effetti e le sue musiche coinvolge completamente il pubblico nella trama. Uno spettatore più attento potrà anche vedere ciò che si nasconde nel profondo dietro a questa storia: il sogno che nel realizzarsi si tramuta in incubo, sia per Ellie che per Sandy.

A questo punto non vi resta altro da fare che comprare un biglietto e godervelo al cinema!

Ilaria Denaro