Dante: un road movie diretto da Pupi Avati

Favola, umanità e redenzione. Il tutto condito dallo stile classico e raffinato del cinema italiano – Voto UVM: 5/5

 

Il nome di Pupi Avati riporta alla mente dei cinefili più navigati i titoli di “Regalo di Natale” (1986) e di “La casa delle finestre che ridono” (1976) che tra le innumerevoli splendide opere del regista (la bellezza di 53 titoli nella sua carriera) spiccarono nel cinema italiano il primo per lo stile narrativo di storie di attualità e dramma, il secondo per il personale gusto orrorifico.

Ma… quale direzione avrà voluto intraprendere Avati per raccontare la vita di una figura tanto imponente come quella del poeta Dante Alighieri? Partiamo dalla trama.

Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Il viaggio di Boccaccio

Alla sceneggiatura troviamo lo stesso Avati, il quale adotta una formula alquanto interessante e semplice: la storia segue il viaggio di Giovanni Boccaccio (interpretato da Sergio Castellitto) verso Ravenna, dove morì l’esiliato Dante Alighieri (il giovane Dante è interpretato da Alessandro Sperduti, mentre quello anziano da Giulio Pizzirani). Dopo ogni tappa o ricordo di Boccaccio giungeranno flashback sulla vita del Sommo Poeta grazie ai quali avremo modo di conoscere le sue sventure, gli incubi e i sogni ad occhi aperti.

L’incarico di Boccaccio è quello di consegnare 10 fiorini alla figlia di Dante, Beatrice (Valeria d’Obici), per risarcire simbolicamente la famiglia Alighieri per l’esilio al quale il poeta fu costretto – come la sua biografia ci insegna.

Inoltre, lo stesso racconto è stato pubblicato nel libro “L‘alta fantasia – Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” scritto dal regista stesso.

Beatrice (Valeria d’Obici) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Alla scoperta del “Prescelto”

Tra una tappa e l’altra, Boccaccio mostra costantemente un’immensa devozione per il Maestro che avrebbe sempre voluto incontrare di persona. Durante il suo viaggio viene a scoprire vari dettagli sulla sua vita. Grazie gli incontri che farà, verrà a conoscenza della sofferenza che subì Alighieri a causa dell’esilio e della sua ossessione per la sua opera più grande, quella che gli avrebbe permesso di riscattarsi, ottenere il titolo di poeta laureato e tornare alla sua amata Firenze.

Per non scadere in una semplice biografia celebrativa, Avati ha deciso di raccontare di un Dante Alighieri umano, quindi con i suoi peccati, le sue vergogne.  Ad esempio, dopo la vittoria nella battaglia di Campaldino, lo ritroviamo a saccheggiare i corpi dei soldati e poi a concedersi le grazie delle donne dei caduti, nonostante sia sposato con Gemma Donati (quella giovane è interpretata da Ludovica Pedetta, mentre quella anziana da Erika Blanc). Vedremo anche il rapporto di amicizia con Guido Cavalcanti (Romano Reggiani) che affiancherà il poeta fino alla sua scelta di ottenere il ruolo di priore.

L’autore della pellicola ha voluto anche trovare dei collegamenti tra il passato – la linea temporale di Dante – e il presente di Boccaccio. In particolare, una bambola posseduta dall’amata di Alighieri, Beatrice (Carlotta Gamba), arriva, tramite una mercante, nelle mani di Boccaccio, intenzionato a regalarlo alla figlia più piccola.

Dante Alighieri (Alessandro Sperduti) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Tra sogni e realtà

Durante la visione del film, ho trovato interessante la fotografia e la composizione delle inquadrature che caratterizzano i due filoni temporali e i sogni del Sommo Poeta.

Nella maggior parte delle scene i soggetti sono posizionati al centro. I colori sono slavati e tendenti al giallo quando ci troviamo nel tempo passato, proprio come se stessimo leggendo da una pergamena; mentre al tempo di Boccaccio i colori sono poco più naturali e l’ambiente brilla sotto la luce del sole come se ci trovassimo in una favola.

L’unica eccezione a questo “centralismo” delle inquadrature è costituita dall’unica figura di potere in tutta l’opera di Avati: il papa Bonifacio VIII (Leopoldo Mastilloni). Le posizioni laterali costringono l’occhio a spostarsi ai lati. Infatti, secondo le regole compositive, questa scelta indica tipicamente potenza, la stessa potenza con cui si scontrerà il Nostro Poeta.

Infine, vorrei menzionare una scena. Avati è un esperto di cinema horror (vi consiglio fortemente la visione della già citata Casa delle finestre che ridono) ed è riuscito a imprimere l’angoscia tipica del suo cinema in un incubo ad occhi aperti di Dante che immagina a modo suo la morte di Beatrice. Sorvolo sui dettagli così da invogliare il lettore alla visione di questo interessante prodotto italiano.

In conclusione

Raccontare la vita di uno dei più importanti poeti al mondo non è di certo un’impresa facile. Eppure, abbiamo alla direzione un pezzo da novanta del cinema italiano. Ciò che ha fatto Pupi Avati è stato quello di rendere quanto più fruibili i punti cardine della vita di Dante Alighieri a un pubblico che potrebbe disconoscerli. Consiglierei la visione anche a chi non ricorda bene (o non ha ancora studiato) la vita del poeta, sicuramente dopo avrà dubbi e lacune che lo porteranno ad approfondire la sua vita (cosa buona e giusta!).

Per di più, a fare da condimento, ritroviamo un impatto visivo davvero forte e allo stesso tempo raffinato che sicuramente apprezzeranno coloro che il cinema lo amano, anche senza conoscere (a loro discapito) la vita di uno degli uomini che hanno contribuito alla nascita della lingua italiana.

 

Salvatore Donato

Dragon Ball Super – Super Hero è un ritorno al passato

Il film ci lascia un sentimento di freschezza e una speranza di rinascita e redenzione. Dragon Ball è finalmente tornato. Voto UVM: 4/5

 

Dragon Ball Super: Super Hero, arrivato nelle sale italiane il 29 settembre, è un film riuscito. La sensazione che accompagna lo spettatore una volta fuori dalla sala è di aver visto una pellicola che riesce a tenersi in piedi perfettamente. Non mancano i difetti – di cui parleremo – ma i personaggi, la narrazione e lo stile lavorano assieme creando un’ottima sinergia.

Dragon Ball: un ritorno alle origini

L’ultimo film si era concluso con i protagonisti, Goku e Vegeta, che avevano lasciato la Terra per andare su un altro pianeta. E lì sono rimasti, non avendo nessun ruolo all’interno della nuova storia. I veri protagonisti di Dragon Ball Super: Super Hero sono, invece, Piccolo e Gohan. Abbiamo apprezzato particolarmente questo cambio radicale che dà modo a tutti i personaggi di esprimersi. La prima parte è infatti un vero e proprio ”slice of life” in cui vediamo tutti i vari primari e comprimari svolgere la loro normale vita. Gohan torna ad essere uno studioso, Crilin è diventato un poliziotto e Piccolo viene costretto a diventare praticamente lo zietto di Pan, la figlia di Gohan. La dinamica tra questi due ci introduce al film: la piccola è, infatti, il cardine che muove tutte le vicende, spostando il centro della narrazione verso una sfera di eventi più piccola.

Niente grandi minacce per l’universo ma un gradito ritorno dagli albori di Dragon Ball: il Fiocco Rosso. Tornano gli androidi si, ma torna anche il primissimo Dragon Ball, quello spensierato, giocoso e sognante. Gli avversari risultano ridicoli e la loro minaccia piccola, ma tutto ciò aiuta a creare una atmosfera leggera che porta freschezza a tutta la trama ed è una direzione che ci auguriamo venga ancora percorsa.

Una tecnica da perfezionare

Se quindi la leggerezza delle vicende tiene alto l’interesse, in alcuni frangenti, la tecnica del film non è sempre allo stesso livello. La pellicola utilizza una tecnica sperimentale: la CGI adattata allo stile anime e, sia chiaro, sappiamo che in molte produzioni risulta abbozzata e spesso scadente. Ma questo film riesce comunque a rimanere sopra la media: le coreografie degli scontri sono ottime ed il design di quasi tutti i personaggi viene trasposto bene, anche se tutto ciò non esclude comunque evidenti alti e bassi. Non siamo rimasti eccessivamente scottati ma ci auguriamo che se questa è la nuova direzione dell’animazione nipponica la tecnica venga migliorata e perfezionata ancora.

Serve un motivo per diventare più forte?

Finora però non abbiamo parlato di uno degli elementi, forse, più importanti del film. Questa è una pellicola d’azione e l’azione viene portata avanti anche dalle trasformazioni. Come sono allora questi power up?  Diciamolo subito: vengono fuori da un cilindro. Sono deus ex machina chiarissimi, come d’altronde sono sempre stati. Tutto il film ma in particolare questo aspetto non viene preso sul serio neanche per un attimo: sembra quasi che Dragon Ball sia diventato consapevole di se stesso. Non c’è serietà su queste trasformazioni e ciò è un bene.  L’unica pecca sono i design che non brillano: le trasformazioni dell’opera originale vengono ricordate per la loro entrata in scena, per il build up che veniva fatto ed anche per il loro lato puramente visivo. Ci sentiamo di penalizzare un minimo il film sotto questo aspetto, ma la riteniamo un pecca minima che non guasta l’economia generale.

Piccolo in una scena del film. Scritto da Akira Toriyama, diretto da Tetsuro Kodama e prodotto da Toei Animation. Fonte: aiptcomics.com

Tornate al cinema!

Quello che ci è rimasto della pellicola è un sentimento di freschezza e una speranza di rinascita e redenzione. Dragon Ball sembrava ormai destinato a ripetere in eterno le stesse dinamiche ma questo film dimostra il contrario.

In conclusione, quello che ci sentiamo di dire è questo: se siete fan di Dragon Ball non potete perdervi questo film. E se volete una pellicola di animazione spensierata e piena d’azione correte anche voi al cinema. Dragon Ball è finalmente tornato.

 

Matteo Mangano

 

Blonde: tra Norma Jeane e Marilyn Monroe

Un film che mette a nudo tutte le fragilità di Marilyn Monroe. Voto UVM: 5/5

 

Ricordo quando da bambina vidi per la prima volta una foto in bianco e nero in cui era ritratta Marilyn Monroe, rimanendo affascinata da quella donna, così bella ed elegante. Il mio pensiero fu: “non vedo l’ora di crescere, di vestirmi e di truccarmi come lei”. Ora sono una giovane donna ma cerco ancora in qualche modo di imitare quel mito tanto amato, non tanto per ricopiarne la bellezza quanto l’interiorità, ancora oggi nascosta ai nostri occhi.

In molti l’hanno definita come “la bionda stupida”, etichettandola con le famose misure 90-60-90. Ma Marilyn, anzi Norma Jeane, era una persona sola, alla costante ricerca dell’approvazione altrui. Voleva sentirsi desiderata e protetta, per questo scelse la carriera di attrice, quel lavoro in cui si è costantemente amati. Non confondete questo suo desiderio con l’egocentrismo, quest’ultimo porta l’individuo a vedere davanti solo se stesso. Vedrete, invece, in Norma Jeane una persona che per la proprie insicurezze è andata a rifugiarsi in Marilyn. Il film però ci fa capire come Norma odiasse quelle attenzioni, le detestava, perché tutti la vedevano solo e unicamente come un oggetto sessuale.

“Oh Daddy, quella cosa sullo schermo non sono io”

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn Monroe) in una scena del Film. Distribuzione: Netflix. Fonte: Consequence

Blonde (2022)

Blonde è un film del 2022, scritto e  diretto dal regista australiano Andrew Dominik. La pellicola, tratta dal romanzo della scrittrice Statunitense Joyce Carol Oates, ritrae la vita di Marilyn Monroe, la diva per eccellenza, interpretata dalla talentuosa Ana De Armas. Durante la visione però non vedremo la “donna più bella del mondo” ma Norma Jeane, colei che si rifugiò in Marilyn.

L’autrice del libro ha riscritto Marilyn tra realtà e finzione, mettendo a nudo le emozioni della diva e in particolare la sua disperazione. Joyce è rimasta affascinata dal Blonde, queste le sue parole:

Ho visto il primo montaggio dell’adattamento di Andrew Dominik ed è sorprendente, geniale, molto inquietante, e cosa forse ancora più sorprendente, è un’interpretazione completamente “femminista”…non credo che un altro regista abbia mai ottenuto qualcosa del genere”.

La scrittrice ha proprio ragione, Blonde è stato un film non facile da mettere in scena. Il regista ci ha messo ben 11 anni, tra copioni, attori e set. Tutto doveva essere perfetto per reincarnare la “bionda”.

Tra i colori e le ombre di Marilyn e Norma

Il film ha due realtà, quella dei colori e del bianco e nero. Dominik gioca con le luci e le ombre per rappresentare egregiamente il dualismo tra Marilyn e Norma Jeane. Da una lato abbiamo quella finzione creata da Hollywood e dall’altro lato abbiamo invece la disperata realtà che l’attrice viveva. Non è comunque per nulla semplice, quando il film cambia colori, distinguere la realtà dalla finzione. Il regista osa e amalgama il tutto, creando quel dualismo che pian piano va esso stesso ad annullarsi.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: actitudefilm

 

Una vita segnata dalle violenze e da quel lavoro che l’ha resa un’icona, – ottenuto con una vile molestia sessuale – facendola ricordare come una semplice “Bambolina Bionda”, perché ritenuta troppo stupida per ruoli più seri. Nella pellicola vediamo una scena in cui Norma dice di aver letto Dostoevskij e la risposta che si sente dare è: “ah perché tu leggi Dostoevskij?”.

Marilyn e l’amore

“Voglio studiare recitazione, ma recitazione vera. Ma soprattutto, io voglio sistemarmi, come ogni ragazza, e avere una famiglia”

Abbiamo sempre immaginato Marilyn Monroe come una donna forte e indipendente, in fondo lei stessa è cresciuta senza genitori, si è fatta strada da sola. Nel suo viso vedevamo uno sguardo dolce e sensuale, col suo sorriso riusciva a mascherare quella malinconia che l’ha strappata alla vita. Marilyn era una giovane donna, bisognosa d’affetto, che ricercava in quelle svariate storie d’amore un sostegno, quello che non ebbe durante la sua infanzia e adolescenza. Sopportando persino la violenza domestica, accettando delle volte solo l’amore carnale, per sentirsi desiderata e amata anche per un secondo. E di ciò lei era consapevole ma la sua fragilità la costringeva a compiere scelte non giuste verso se stessa.

Nel film vengono presentati i grandi amori di Norma/Marilyn, come Arthur Miller (Adrien Brody), Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), e il Presidente John F. Kennedy. Facendoci notare come Norma cercasse di aggrapparsi ad ognuno di loro.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) e Adrien Boy (Arthur Miller) in una scena del film. Fonte: cinema.everyeye.it

 

Chi era Norma Jeane?

Se non fosse Marilyn, chi sarebbe?

Norma Jeane nasce il 1 Giugno del lontano 1926, figlia di una madre mentalmente instabile e di un padre di cui non seppe mai il nome. Norma passò la sua infanzia e adolescenza in varie famiglie, dato che la madre fu dichiarata come “malata di mente”, e quindi incapace di crescere una figlia. Tutto ciò finì per scombussolare Norma. Ve la ricordate la voce nei film di Marilyn? Quella che sembrava un sussurro mischiato col sospiro? Norma Jeane era in realtà costretta ad utilizzare quell’intonazione, difatti, soffriva di balbuzie e il logopedista le aveva consigliato di parlare in quel modo. La vita di Norma fu costellata di abusi e violenze. Norma si rifugiò in Marilyn, si creò un personaggio da tutti amato e desiderato, con lei ottenne quell’amore che non ebbe mai. Marilyn era quella amata, non Norma Jeane.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: news9live

 

Blonde rappresenta la sofferenza e la fragilità di ogni essere umano. Chiunque dovrebbe vedere quest’opera cinematografica e non solo per la magnifica interpretazione di ogni singolo attore. Blonde è un lungometraggio che entra dentro l’animo di ogni spettatore, una piccola perla che mostra la parte più nascosta e fragile di Norma Jeane/Marilyn Monroe, e non “la donna più bella del mondo”. Ci mostra il suo fascino e tutto il suo dolore, proprio quello che  l’industria cinematografica, tra strass e perline, ha voluto sempre tenere nascosto.

Alessia Orsa

“Il signore delle formiche”: una storia che ha segnato la collettività

Un film profondo che riflette il dramma politico e sociale dell’epoca – Voto UVM: 5/5

 

Ci sono storie che, nolenti o dolenti, segnano il carattere di una società. Nel film Il signore delle formiche il regista Gianni Amelio ci fornisce la rappresentazione del caso realmente accaduto di Aldo Braibanti, giornalista, drammaturgo e poeta accusato di plagio nel 1968, un anno chiaramente segnato da continui scontri nelle maggiori piazze d’Italia ad opera dei movimenti politici estremisti e dalle rivendicazioni dei movimenti studenteschi. L’accusa in realtà, è solo uno specchio per le allodole. Il vero motivo del processo riguardava l’omosessualità di Braibanti.

Il film, che è stato presentato in anteprima alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, assume una forte vena critica nel raccontare come si poneva il Paese di fronte al tema, cogliendone tutto lo spirito contraddittorio dell’epoca.

Sinossi

La prima parte della narrazione si svolge nelle campagne emiliane nel 1959, tra le mura del torrione Farnese di Castell’Arquato, dove il drammaturgo crea uno spazio aggregativo per i giovani, che funge anche e soprattutto da laboratorio artistico. Egli, inoltre, è uno studioso di formiche, tanto da ottenere la fama di esperto mirmecologo.

In questo contesto avviene l’incontro con Ettore (interpretato da Leonardo Maltese), un giovane ragazzo che inizia a interessarsi di libri grazie all’influenza dello scrittore. Attraverso digressioni filosofiche sull’esistenza e poesie scritte appositamente per Ettore, tra i due nasce un’alchimia che non passerà inosservata,

Sarà proprio questa la causa scatenante del processo per plagio, portata avanti dalla madre del giovane.

Luigi Lo Cascio. Fonte: Rai Cinema

L’accusa é quella di aver sottomesso alla sua volontà, sia in senso fisico che psicologico, il suo allievo e successivamente compagno. A stabilirlo l’articolo 603 del codice penale che punisce “chiunque avesse sottoposto una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. In realtà si tratta solo di un escamotage per celare quella che è un’accusa di omosessualità.

A denunciare Aldo è proprio la famiglia di Ettore che viene portato in un ospedale psichiatrico con lo scopo di sottoporlo a devastanti elettroshock, la “cura” dell’epoca per “guarire” dall’influsso del “diabolico”. Questo particolare viene marcato dalle dichiarazioni della madre durante il processo.

 

Elio Germano. Fonte: Rai Cinema

Spostando la narrazione sul piano giuridico-sociale, il regista ci fornisce un quadro abbastanza chiaro dell’ipocrisia culturale dell’epoca, dovuta soprattutto all’influenza della Democrazia Cristiana.

Solo un uomo e una donna reagiscono all’indifferenza generale e decidono di aiutare Aldo. Uno è il giornalista Ennio Scribani (interpretato da Elio Germano) de L’Unità, che non sarà avulso da continue prese di mira da parte del direttore della testata che intende distogliere l’attenzione dal caso (anche qui, il regista ci ricorda dell’ipocrisia del maggiore partito di Sinistra dell’epoca).

E l’altra è Graziella (interpretata da Sara Serraiocco), giovane attivista politica che manifesta per rivendicare un cambiamento culturale. La particolarità del suo atteggiamento ricorda – per certi aspetti – le mosse del Partito Radicale Italiano i cui principali esponenti furono Emma Bonino e Marco Pannella.

Da premiare, a questo proposito, l’omaggio alla Bonino, realizzato inserendo un suo fermo immagine che scorre brevemente durante il discorso di Graziella all’esterno del tribunale. In merito a ciò, il regista ha dichiarato:

“Ho saputo da Emma Bonino che nel ’68 non faceva assolutamente parte del Partito Radicale. Lei mi ha chiesto:  «Perché vuole me quando potrebbe prendere un sosia giovane di Pannella?»  Perché vorrei raccontare della lotta che hanno fatto i radicali per la storia di Braibanti. Questo partito ha fatto cancellare nel 1981 il reato di plagio. Volevo rendere omaggio al Partito Radicale, mi sembrava più degno far vedere una Emma Bonino come è oggi piuttosto che un sosia di Pannella. “

 

Emma Bonino. Fonte: Rai Cinema

La tragica ipocrisia moderna

“Dietro una facciata permissiva, i pregiudizi esistono e resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni ‘”irregolare’” Non abbiamo sconfitto certi demoni che erano e tutt’ora sono all’interno della società perbenista.”

Con queste parole, Gianni Amelio restituisce allo spettatore il quadro di un’epoca contaminata dalle storture di un pensiero retrogrado che, purtroppo, si è protratto negli anni. Forse oggi potremmo dire che non è più come prima, eppure il film ci invita a non distogliere l’attenzione né la preoccupazione, visti i frequenti casi di omofobia nel nostro Paese.

Dalla fotografia impeccabile di Luan Amelio Ujkaj  all’interpretazione magistrale ed empatica del cast – in particolare Lo Cascio che mostra un Braibanti con la schiena dritta dinanzi le accuse, consapevole del fatto che per certe persone vige il dovere indispensabile di rispettare gli ordini – passando per la costruzione della sceneggiatura e l’ambientazione, Il signore delle formiche ci mostra, un passo alla volta, l’amore verso l’amore, separando l’attrazione sentimentale da quella intellettuale, stimolando la curiosità verso la società di una volta e quella attuale.

Un racconto che funge da canale di istruzione e de-costruzione del paradosso culturale, denunciando il bigottismo e ogni forma di violenza.

 

Federico Ferrara

Nato il 3 luglio. 5 film per conoscere “meglio” Tom Cruise

Dalla consacrazione in Top Gun fino ai vari Mission Impossibile, Tom Cruise si è sempre distinto agli occhi del grande pubblico prevalentemente in film d’azione. Viso fine ma deciso, corpo muscoloso e ben piantato sui suoi 170 cm (e pensare che per alcuni sono pochi!), l’attore possiede proprio il phisique du role per intepretare personaggi ad “alta dose di testosterone”. Tanto più adesso, che è tornato brillantemente nei panni dell’aviatore Maverick nel fortunato sequel del cult dell’86 (quando si dice: “il vino buono…”).

Ci perdonino i fan degli action movies, ma oggi che compie 60 anni, abbiamo scelto pellicole più “introspettive” per scoprire una star spesso sottovalutata del cinema d’autore. Ecco a voi 5 film per conoscere meglio Tom Cruise!

1) Vanilla Sky di Cameron Crowe (2001)

Remake ingiustamente stroncato dalla critica del più apprezzato Apri gli occhi di Alejandro Amenábar, Vanilla Sky è un film tutt’altro che banale, dalla trama leggermente ingarbugliata che mixa thrilling, fantascienza, mistero, ma anche sogno e romanticismo. Dire di più sarebbe spoilerare. Vi basta sapere che Tom Cruise – oltre che produttore della pellicola – interpreta con straordinaria dolcezza David Aames, giovane facoltoso “impegnato” in una relazione prettamente fisica con la bella Julianna Gianni (Cameron Diaz), finché una sera a una festa non incontra Sofia (una “fortunata” Penelope Cruz che ai tempi stava realmente con Cruise!) di cui si innamora seriamente. Fin qui insomma una storia “normale”.

“Ci incontreremo in un’altra vita, quando saremo entrambi gatti” . Fonte: Paramount Pictures

Un incidente di percorso determinerà però un cambio di rotta e il film assumerà a poco a poco tinte inquietanti e intriganti allo stesso tempo.

2) Magnolia di Paul Thomas Anderson (2000)

Oscar sfiorato per il nostro per l’interpretazione del guru del sesso Frank Mackey in questo dramma corale del regista di Boogie Nights. Se il montaggio lega in un valzer senza sosta le storie di diversi personaggi alle prese con vari drammi della loro esistenza – tanto che lo spettatore non ha il tempo di soffermarsi veramente su nessuno di loro – c’è tuttavia una nota che stride, si distingue e richiama l’attenzione. Ed è proprio il personaggio di Cruise che con pose aggressive e sguardo da “duro” trasmette tutta l’antipatia di un misogino indurito dalla vita che insegna ai suoi adepti come rimorchiare e dominare “belle bionde”.

Ma anche questa maschera, posta alle strette di fronte al proprio passato, a poco a poco si sgretolerà fino ad arrivare a suscitare compassione in una scena che è forse la più convincente prova d’attore del nostro. Non vi sveliamo altro!

3) Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick (1999)

Attorno a questo capolavoro tratto dal romanzo Doppio Sogno di Arthur Schnitzler, circolano parecchie leggende metropolitane. Una di queste vedrebbe il film colpevole di aver scatenato la crisi nella coppia Cruise-Kidman, qui Bill e Alice Harford, marito e moglie borghesi che in una notte di confidenze osano scoperchiare il vaso di Pandora delle infedeltà e dei segreti coniugali.

“Sa qual è il vero fascino del matrimonio? È che rende l’inganno una necessità per le due parti” . Fonte: Warner Bros.

Se così fosse, se realmente il film di Kubrick fu la fatidica goccia che fece traboccare il vaso già incrinato di uno dei matrimoni più celebri di Hollywood, forse il merito fu proprio dei due attori, talmente talentuosi da darsi in corpo ed anima alla loro performance. Quando si dice: “la vita imita l’arte…”.

4) Rain Man di Barry Levinson (1988)

Più di semplice spalla del mostro sacro Dustin Hoffman che qui vinse una meritatissima statuetta agli Oscar, Cruise veste alla perfezione i panni di Charlie Babbit, giovane uomo affarista chiuso in sé stesso, cinico e ambiguo nel suo essere eccessivamente riservato persino con la fidanzata Susanna (Valeria Golino).

L’abbraccio fraterno tra Cruise e Hoffman. Fonte: United Artists

La morte del padre al quale lo legava un rapporto difficile riporterà a galla segreti familiari – tra cui l’esistenza di un fratello autistico interpretato da Hoffman appunto- e sarà l’inizio di un vero e proprio viaggio di redenzione per il protagonista. Un viaggio tuttavia lineare, privo di note sdolcinate o conversioni fulminee, in quella che rimane una delle pellicole più commoventi girate attorno al tema dell’autismo.

5) Nato il 4 luglio di Oliver Stone (1989)

Dulcis in fundo, la parabola del perfetto cittadino statunitense che si arruola nei Marines appena compiuta la maggiore età, convinto di divenire un eroe per amor di patria per poi convertirsi in convinto antimilitarista dopo la tragica esperienza vissuta in prima persona del conflitto in Vietnam, pagina storica che di eroico non aveva nulla (come tutte le guerre del resto).

Ma perché proprio Cruise in questo ruolo? Forse perché lui, nato il 3 luglio, un giorno prima dell’Indipendenza americana (non crediamo alle coincidenze!), incarna perfettamente già nell’aspetto il mito qui dissacrato dello spirito made in Usa.

Perché Tom Cruise, nel suo cursus honorum sul grande schermo, ha forse rappresentato tutte queste cose: il vitalismo anni ‘80 e la voglia di riscatto dei giovani americani capaci di costruirsi da zero (vedi una commedia minore quale Cocktail), ma anche le ombre, le contraddizioni di una società che corre, le fragilità di coloro che si lascia indietro e la presa di coscienza di un sistema che va cambiato (è il caso di Jerry Maguire)

Perciò non potevamo che chiudere con questa pellicola emblematica per auguragli buon compleanno!

Angelica Rocca

Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Da un estremo all’altro della follia. Cosa sta succedendo nel MCU?

Dopo ormai 14 anni di MCU, c’era bisogno di una nuova corrente creativa che portasse un po’ di innovazione nel genere supereroistico.

Figli di questa nuovo “filone” sono senza dubbio Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia e la serie basata sul personaggio di Moon Knight.

Filo comune tra i due prodotti è il diverso modo di raccontare e sviluppare l’elemento della follia.

Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia

La pellicola diretta da Sam Raimi è indubbiamente il film più particolare mai prodotto e apparso all’interno di una cinematografia Marvel finora sempre fedele ai propri schemi.

Descrivere questo prodotto è tutt’altro che semplice, in quanto la trama risulta essere molto lineare e quasi elemento di secondo piano nell’insieme del film.

Il film riparte esattamente dalla fine di Spider-Man No Way Home, continuando a narrare anche gli eventi accaduti in Wanda/Vision.

                                                                                                                                     

Viene introdotto il personaggio di America Chavez (Xochitl Gomez), fulcro degli avvenimenti narrati in quanto ha il potere di aprire portali che conducono in altri universi. Ed è per merito/a causa di questo potere che si ritroverà nell’universo 616 (lo stesso numero utilizzato all’interno dei fumetti per descrivere l’universo principale) dove incontrerà Doctor Strange (Benedict Cumberbatch).

Il regista però è poco interessato agli eventi che deve narrare: lo è molto di più a ciò che deve far vedere allo spettatore e a come lo vuole far vedere.

Attraverso un ritmo incessante, Raimi riesce a realizzare sequenze che raccontano il suo cinema da tutti i punti di vista: quel gore alle volte così diretto da spiazzare lo spettatore, altre camuffato ma impattante al tempo stesso; transizioni così maestose ma anche folli e straordinariamente creative, e citazioni che galvanizzano come non mai i fan delle opere a fumetti (e non solo).

La nuova pellicola sullo stregone supremo risulta avere una trama un po’ soffocata dal ritmo frenetico datogli dal regista, che aggiunge pochi tasselli all’enorme puzzle narrativo del MCU. Ma dato l’estro e l’autorialità di Raimi che confeziona un prodotto eccellente, per una volta ( e ci auguriamo molte altre) va bene così.

Moon Knight

L’ultimo prodotto seriale confezionato in casa Marvel era uno di quelli più attesi dal pubblico, data l’enorme potenzialità del personaggio.

Steven Grant (Oscar Isaac) è un timido ed impacciato addetto ai souvenir nel British Museum, la cui vita verrà presto sconvolta quando il mercenario Marc Spector e la divinità egizia della luna Konshu irromperanno nella sua quotidianità cambiandola per sempre.

Per analizzare la serie possiamo concentrarci su due aspetti: trama e protagonista.

Parlando della prima, all’interno del MCU si sta cercando di dare una scossa agli ormai più che decennali schemi narrativi o di infrangere alcuni dogmi.

Moon Knight riesce parzialmente in ciò, in quanto all’epoca della sua presentazione fu descritta come la serie più dark e violenta vista finora sulla piattaforma Disney. Le aspettative sono state soddisfatte per quanto riguarda la violenza, ma in tutto ciò ancora una volta è la narrazione a risentirne.

 

                                                                                                                    

Si ha una premessa narrativa interessante nei primi due episodi, che però va pian piano scemando nel corso della serie per chiudere con un finale davvero molto debole e che non lascia nulla allo spettatore – che sia qualche emozione o la curiosità di sapere l’evoluzione futura del personaggio.

Ben altro discorso va fatto per la prova attoriale di Oscar Isaac, il quale riesce con una naturalezza disarmante ad interpretare le varie personalità del personaggio protagonista della serie. Una performance che lo eleva a migliore attore protagonista di un prodotto seriale Marvel. La follia connaturata in Moon Knight e nella sua controparte Steven Grant/Marc Spector riesce a trovare la sua massima espressione proprio grazie alla sua interpretazione.

Insomma, Moon Knight si rivela un’enorme occasione sprecata dal punto di vista narrativo ma che è riuscita a cristallizzare l’ormai affermato talento di Oscar Isaac.

La follia è l’elemento centrale attorno a cui ruotano queste due nuove produzioni. Da un lato abbiamo quella visiva esaltata da Raimi, dall’altro quella mentale perfettamente interpretata da Oscar Isaac. Entrambi riescono egregiamente nel trattare con due modi diversi – ma entrambi validi -un tema tanto difficile.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Giuseppe Catanzaro

 

Dallas Buyers Club: quando l’amicizia vince sui pregiudizi

Un film che spiega il dramma dell’Aids tra autenticità e amicizia– Voto UVM: 5/5

 

Gli anni ’80 li conosciamo grazie a film come Flashdance, Stand By Me, Karate Kid e tanti altri che ci hanno fatto sognare e desiderare di vivere in quell’epoca fatta di capigliature voluminose, palette fluo, e sale giochi che si riempivano di bambini e ragazzi dopo il suono della campanella.

I mitici anni ’80, però, avevano un’altra faccia: quella dei pregiudizi e delle “malelingue”. Per il mondo si diffondeva per la prima volta la malattia dell’Aids, e con essa false credenze alimentate dall’ignoranza, tra chi pensava che fosse un virus che potevano contrarre solo gli  omosessuali e chi aveva paura di stringere anche solo la mano di un sieropositivo.

Dallas Buyers Club è un film uscito nel 2013 diretto da Jean-Marc Vallée, che vede come attori protagonisti i due premi Oscar Matthew McConaughey  e Jared Leto, che, grazie alle loro interpretazioni in questa pellicola, si sono portati a casa rispettivamente l’ambita statuetta di “miglior attore protagonista” e  quella di “miglior attore non protagonista”.

Qui i due attori racconteranno la vera storia del cowboy Ron Woodroof, malato di AIDS, costretto a curarsi da solo per via dei costi esorbitanti dei farmaci.

Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

L’amicizia che sfida i pregiudizi

Tra il 1985 e il 1986, nel sud del Texas si svolge la vicenda di un cowboy di nome Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che conduce una vita allo sbaraglio tra droga, alcool e sesso non protetto. Infatti per via della sua incoscienza, (o della mancanza di conoscenza), contrae il virus dell’HIV e successivamente si ammala d’AIDS. Durante quegli anni, i malati di AIDS erano considerati dei veri e propri appestati, anche per la scarsità di informazioni che giravano attorno a questo nuovo virus. La sanità negli Stati Uniti – come sappiamo – è accessibile solo per coloro che hanno una buona assicurazione, perciò il cowboy deciderà di contrabbandare farmaci non approvati in Texas, per curarsi da solo, ma anche per aiutare le persone con la sua stessa malattia. Dopo poco tempo aprirà  il “Dallas Buyers Club” , sfidando l’opposizione della Food and Drug Administration.

“Avvocato, voglio un’ordinanza restrittiva contro il Governo e la FDA.”

Ron, all’inizio pensa che la diagnosi sia sbagliata: essendo omofobo, crede che l’AIDS sia una malattia che contagi solo i gay. Col passare del tempo, però, i suoi sintomi peggiorano: Ron finalmente accetterà  la sua malattia, ma perderà il proprio lavoro e tutti i suoi amici, giacché quest’ultimi pensano che sia gay.

Durante una delle proprie visite in ospedale, Ron conoscerà Rayon (Jared Leto), una transgender tossicodipendente e sieropositiva.

A sinistra Rayon ( Jared Leto) a destra Ron ( Matthew McConaughey) in una scena del film. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Rayon è un uomo, che ha sempre desiderato nascere in un corpo femminile, ma a causa della sua vita difficile non ha mai potuto cambiare il proprio sesso e così si sente imprigionato dentro un corpo che non riconosce.

Rayon: Signore, quando ci incontreremo voglio essere molto bella. Fosse l’ultima cosa che faccio. Sarò un bellissimo angelo.”

Nonostante all’inizio tra i due non corra buon sangue, per via dell’omofobia che condiziona il protagonista, da lì in poi nascerà un’amicizia senza confini, pura e vera. Col tempo Ron vedrà in Rayon l’unica vera amica che abbia mai avuto, la sola che gli è rimasta vicina mentre tutti gli avevano voltato le spalle. Assieme affronteranno l’atroce sofferenza dell’Aids, abbattendo i pregiudizi e aiutando le persone malate e abbandonate dal proprio Paese.

La forza dei legami umani

Matthew McConaughey e Jared Leto al momento sono tra gli attori più bravi in circolazione e, grazie al loro talento, riescono a dare dignità ai propri  personaggi, rendendoli unici, storici. Come hanno fatto con Ron e Rayon, due soggetti non facili da interpretare. Come fanno due attori a colpire così profondamente nell’anima rendendo il telespettatore partecipe del dolore dei due protagonisti?

Ci mostrano le sofferenze e la crudeltà dietro cui si nasconde l’ignoranza con un realismo che parla di dolori e di gioie, che trasmette il messaggio che, per quanto possa essere difficile una situazione, se hai qualcuno accanto a te sembrerà meno dolorosa. Questa è la meravigliosa forza intrinseca degli sforzi  umani, che si riaccende quando meno te l’aspetti, restituendo valore a ciò in cui non credevi più.

L’abbraccio fraterno tra Rayon e Ron. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Alessia Orsa

I segreti di Silente: un altro flop?

Con un intreccio che fa acqua da tutte le parti, il terzo capitolo di “Animali Fantastici” non soddisfa le aspettative dei fan – Voto UVM: 2/5

I segreti di Silente arriva nei cinema dopo il poco convincente secondo capitolo della saga Animali Fantastici e dove trovarli, che ha fatto arrivare molti scettici in sala. È riuscito quindi a farci uscire soddisfatti?

La riposta è più no che si, purtroppo. Molti elementi risultano essere frutto di una gestione confusionaria, con personaggi ed intere sequenze poco rilevanti per lo sviluppo della trama. Risaltano invece la doti attoriali dei due veri protagonisti del film, Jude Law e Mads Mikkelsen, vere gemme della pellicola. Ma andiamo più nello specifico.

Il film parla ancora dello scontro “fratricida” tra Silente (Jude Law) e Grindelwald (Madds Mikkelsen). La loro lotta si sposta ora in campo politico: il mago oscuro sta infatti cercando di scalare le gerarchie del potere per scatenare la sua guerra contro i babbani. A Silente sta quindi il compito di fermarlo, con l’aiuto del suo gruppo.

Cosa non ci ha convinto de I segreti di Silente

I pregi in questo film non mancano: anche gli animali, dopo essere scomparsi nel secondo capitolo, tornano con un ruolo predominante in questo. Un grande aiuto è stato dato alla Rowling nella scrittura: dopo il secondo film era chiaro a chiunque infatti che la scrittrice non fosse la più adatta a scrivere sceneggiature, avendo esperienza solo coi romanzi. Il film infatti ha un ottimo ritmo e riesce a coinvolgere lo spettatore.

Sebbene quindi ci siano note positive ne I segreti di Silente, non riusciamo a promuoverlo del tutto, per degli errori molto evidenti che nascono dalla cattiva gestione della saga in toto: anche questo film infatti non è nient’altro che un riempitivo e la sensazione generale che si ha è che sia servito di fatto solo ad aggiustare ciò che di critico vi era stato nel secondo capitolo.

Molti personaggi diventano estremamente secondari se non veri e propri figuranti che, se eliminati, non avrebbero avuto effetto sullo sviluppo dell’intreccio. La stessa cosa succede a molte sequenze per cui ci siamo ritrovati a sperare che finissero il prima possibile affinché la trama andasse avanti.

Jude Law in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Anche i motivi stessi per cui la trama va avanti sono costruiti su un castello di carte. Badate bene, l’intera saga di Harry Potter non ha mai brillato nella scrittura delle sue parti strettamente politiche, ma in questo film si raggiungono assurdità quasi ridicole.

Secondo la tradizione, l’elezione del Capo Supremo del mondo magico avviene in questo modo: il candidato prescelto sarà quello davanti cui si inchinerà il qilin, sorta di creatura magica capace di discernere i puri di cuore.  Ma chi di voi alla fine darebbe il potere ad un puro di cuore? E come si fa a trovare sempre quel puro di cuore, nel corso della storia del mondo magico, tra i candidati delle varie fazioni? La lungimiranza non è di casa neanche nella politica del nostro mondo – sia chiaro – ma almeno dalle nostre parti, sembra che tutto si “riesca a tenere in piedi”.

Parlando poi anche delle azioni dei buoni, il piano messo in atto per combattere un nemico che conosce in anticipo le mosse (Grindelwald ha il potere di prevedere il futuro) è si dichiaratamente un “non piano”, ma ciò arriva a discapito della comprensione generale. Lo spettatore che si ritrova sballottato da una parte all’altra e a “dover dare tutto per buono”. Ingaggiare un “non mago” per combattere un mago oscuro ha senso? Beh, se il capo dice di sì, allora va bene!

Cosa salviamo de I segreti di Silente

Insomma l’impalcatura del film non riesce a reggersi del tutto sulle sue gambe, ma è capace invece di farti interessare al legame tra Silente e Grindelwald. I due attori hanno una chimica incredibile, riescono benissimo a trasmettere il legame tra i due personaggi, soprattutto all’inizio e sul finale in cui interagiscono e comunicano tra loro e allo spettatore solo con gesti e sguardi.

Jude Law e Madd Mikkelsen nei panni di Silente e Grindelwald. Fonte: Warner Bros.

Dopo due capitoli che risultano riempitivi ed un primo che serviva solo a tastare le acque, possiamo quindi aspettarci un miglioramento nei prossimi film, sperando che gli sceneggiatori colgano gli errori dei precedenti.

Rimane comunque un peccato che il primo pensiero dopo la visione di un film sia: speriamo che il prossimo, adesso, sia migliore.

Matteo Mangano