Tao Film Fest 69: Cattiva coscienza

“Cattiva coscienza”: emozionante ma non convincente. – Voto UVM: 3/5

 

La sesta serata del Taormina Film Fest 69 ha assistito all’anteprima mondiale del film Cattiva Coscienza (seguito precedentemente da Billie’s Magic World) diretto da Davide Minnella con la partecipazione di Francesco Scianna (protagonista di Baaria), Filippo Scicchitano (famoso per Bianca come il latte Rossa come il sangue) e Caterina Guzzanti (sorella minore di Sabina e Corrado Guzzanti).

Un film che può sembrare a primo impatto la classica rappresentazione di una storia d’amore, si rivela in realtà una piacevole sorpresa.

L’ago nel pagliaio, l’ago della bilancia

La pellicola si propone di raccontare quello che è l’incontro e lo scontro tra coscienze; cattive per via del contrasto tra razionalità e sentimento.
Filippo (Filippo Scicchitano) è un avvocato e lavora per il suocero, e che a breve dovrà sposarsi dopo una relazione lunga 7 anni. All’apparenza la sua vita sembra perfetta, lui incarna l’uomo ideale, pieno di valori ma in verità sembra che questo suo modo di essere lo renda infelice, facendolo sentire in trappola nella monotonia della vita di tutti i giorni.

Filippo Scicchitano. © Gabriele Galletta

Questo suo atteggiamento a dire il vero è frutto del lavoro di Otto (Francesco Scianna), voce della sua coscienza; quest’ultimo appartiene ad un mondo parallelo, il Mondo Altro. Qua hanno sede tutte le altre coscienze umane e proprio Otto e considerato un esempio per tutte le altre, per via dello stile di vita del suo protetto.
Un giorno per una svista di Otto, Filippo perde il controllo e si lascia dominare dal sentimento rischiando di mandare a monte il suo matrimonio. Sarà cura della coscienza sistemare le cose, ma capirà ben presto che l’equilibrio tra bene e male è difficile da bilanciare soprattutto quando si mette di mezzo l’amore.

Francesco Scianna. © Federico Ferrara

Stefano Sardo riesce a non far cadere nella banalità la sceneggiatura, nonostante la trama non richieda una certa complessità; utilizza magistralmente Eriberto (Alessandro Benvenuti), personaggio secondario, tuttavia importante, per sbloccare la trama in un momento complicato. Il montaggio di Sarah McTeigue appare interessante in un primo momento, poi diventa sconnesso, in particolar modo in una scena che ha luogo in discoteca. Le musiche di Michele Braga invece sono banali ma alla fine regalano qualche emozione inaspettata.

L’importanza del coraggio

Tra i vari insegnamenti da cogliere, c’è n’è uno forse più evidente, ovvero quello del coraggio; saper scegliere cosa è giusto per noi stessi e per gli altri, non reprimere le proprie passioni e in particolar modo con un dialogo che avviene verso la fine, la Coscienza Suprema (Drusilla Foer) sottolinea l’importanza del coraggio, quindi la forza d’animo che ci permette di essere umani. Finale che lascia però con l’amaro in bocca perché perde di credibilità per via del discorso precedente; sarebbe stato meglio un epilogo forse più aspro, in modo da rafforzare ciò che si presta di raccontare il film. Prendere in considerazione l’alternativa che sembra quella più triste per il pubblico non vuol dire che una storia non riesca bene nel suo intento.

In conclusione, Cattiva Coscienza è un film che ha sì delle pecche, ma nel complesso è molto riflessivo, probabilmente anche grazie alla bravura e alla naturalezza di Francesco Scianna che riesce a tenere in piedi l’intera pellicola:

“Al mondo non c’è coraggio e non c’è paura, ci sono solo coscienza e incoscienza. La coscienza è paura, l’incoscienza è coraggio.” – Alberto Moravia

 

Asia Origlia
Gabriele Galletta

Tao Film Fest 69: Billie’s Magic World

 

Billie’s Magic World: un film mediocre e dimenticabile. Voto UVM 2/5

 

La sesta serata del Taormina Film Festival 69 ha visto la proiezione di due film. Tra questi, vi era Billie’s Magic World, film in animazione diretto dal regista italiano Francesco Cinquemani (autore anche di La Rosa Velenosa e Andròn: The Black Labyrinth). Nel cast figurano i fratelli Alec e William Baldwin (per la prima volta insieme!), Valeria Marini, Elva Trill e altri. Il film, completamente diverso dal genere iniziale del regista, si concentra sulla visione fanciullesca di Billie (Mia McGovern Zaini), la protagonista, che si ritrova in un mondo magico e deve fronteggiare un manipolo di cattivi che vuole conquistare il mondo.

Billie’s Magic World: la trama

La protagonista si separa dal padre (Samuel Kay) improvvisamente poiché, viene rapita da Gregory (William Baldwin) e Florence (Elva Trill), che la portano nel castello di Lord Domino (Alec Baldwin) per imprigionarla nelle segrete. Il piano di Lord Domino è quello di conquistare il mondo, inondandolo di malumore e brutti pensieri. Billie, imprigionata in questo castello, dovrà trovare il modo per fuggire: le verrà in aiuto il suo pupazzo JP, il quale prenderà vita grazie a un trucco di magia adoperato dalla stessa bambina.

Tecnica mista…ma dove?

Billie’s Magic World presenta una serie di problemi. Il primo di cui vogliamo parlare è la tecnica d’animazione: informandoci su questo film, e parlandone con il regista, abbiamo saputo che questo è un film di animazione, girato in tecnica mista. Per intenderci, è una tecnica tramite la quale i personaggi, cioè gli attori in carne ed ossa, interagiscono con personaggi animati. Effettivamente una scena c’è, ma dura pochissimo e ci si scorda del fatto che Billie abbia interagito, nel mondo reale, con un personaggio animato. Infatti, questa è l’unica applicazione della tecnica mista in tutta la pellicola, e dura 10 secondi.

Successivamente, l’animazione continua tramite un semplice escamotage: i personaggi muovono le dita per aria, appare uno schermo e tutti quanti si siedono a guardare un episodio di un cartone animato. Ora, noi crediamo che questa scelta non sia stata soddisfacente, perché non restituisce la giusta empatia tra lo spettatore e ciò che vede sullo schermo. Questa impostazione, interrompe completamente il ritmo della narrazione (forse anche troppe volte).

Il montaggio, la regia e l’animazione

Il film presenta delle tecniche di montaggio abbastanza elementari e scarne, prive di guizzi creativi. Il regista ha detto che realizza pellicole per il pubblico americano. Ci chiediamo a questo punto cosa ne pensano davvero, perché non vi sono elementi tipici del montaggio americano (che sia classico o moderno). Nonostante sia un prodotto destinato a una fascia di pubblico giovanissimo, non significa che debba essere mediocre nel montaggio. Anzi, se c’è più creatività viene notato anche da chi non è esperto.

Francesco Cinquemani. ©Federico Ferrara

La regia, però, per quanto elementare ci è sembrata funzionale alla trama. Nessun guizzo particolare, ma la camera inquadrava sempre tutto ciò che serviva vedere.

Per quanto riguarda l’effettiva tecnica di animazione, utilizzata nei “corti” animati presenti a forza nel girato, crediamo che non abbia centrato il punto. Secondo noi, i personaggi erano animati in maniera troppo frenetica (per non dire isterica) ed erano completamente apatici, elemento che in un film per bambini non bisogna mai fare. Questo ha generato una grande confusione in noi, nel comprendere cosa stessero facendo effettivamente i personaggi. Se dovessimo riassumere in breve, diremmo che è un’animazione poco curata che trasmette molto poco,  soprattutto i più piccoli che sono proprio i diretti interessati.

La recitazione tra alti e bassi

La presenza dei fratelli Baldwin è dominante, anche se il regista ha voluto dare più spazio a William rispetto ad Alec. Quest’ultimo è certamente poco presente, ma è dovuto al suo ruolo di antagonista: la struttura narrativa di questo tipo di storia prevede che il cattivo, sia presente solo in scene chiave in cui ci sia anche la protagonista. Tuttavia, si sarebbe potuto optare per una presenza maggiore di Alec, scritturando attorno alla sua figura un personaggio minimamente fuori dagli schemi, per dargli maggior rilievo.

William Baldwin. ©Federico Ferrara

William supera abbondantemente la prova insieme a Elva, fornendo un’immagine concreta dei loro personaggi. Mia Zaini interpreta molto bene il ruolo di protagonista, e per noi è stata una grande rivelazione.
Altri, lasciano invece molto a desiderare: Orthensia (Valeria Marini) più che un personaggio di supporto, è piuttosto una comparsa messa lì per riempire il minutaggio. Sia lei, che il capo di lavoro del padre (fa più comparse ed è giusto così poiché è un personaggio secondario), non hanno un appeal convincente. Sembrano sconnessi da tutto il resto, sia del cast che della trama.

Valeria Marini. ©Federico Ferrara

Billie’s Magic World, ne vale la pena?

Billie’s Magic World, alla fine, è inconsistente. Le mascotte animate sembrano essere una serie di secondarie apparizioni, inserite soltanto a posteriori. 
La trama è troppo semplice, e manca completamente di una catarsi. Il cattivo non viene sconfitto, e di conseguenza i buoni non sembrano vincere sul male. Gli attori recitano bene (anche se non tutti), ma senza spiccare notevolmente.

Crediamo che si sarebbe potuto fare di meglio, ma le cose stanno così.

 

Federico Ferrara
Matteo Mangano

“Il sol dell’avvenire” di Moretti: rivoluzione che sa di testamento

Tra omaggi continui al cinema e una satira dolcemente incisiva, Moretti si supera ancora! Voto UVM – 5/5

 

Se pensate che solo dal titolo questo film sia per un determinato pubblico, vi invito a cambiare idea. Se pensate anche che Nanni Moretti sia divenuto un anziano regista trombone che non sa più cosa inventarsi, vi sbagliate ancora.

Il sol dell’avvenire, – in concorso al 76esimo Festival di Cannes – è forse il film più completo della carriera del celebre regista poiché, ponendo al centro della trama le vicende del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, sviscera quelli che sono i pensieri di un uomo che deve fare i conti con sé stesso. Questo elemento in particolare, lo si evince dalla scelta di far dialogare i personaggi con egli, un fatto che nei film precedenti non accadeva quasi mai. Inoltre, Moretti lancia una critica spietata anche al mondo delle piattaforme di streaming, in particolare Netflix.

Però c’è del rosso e del giallo, il titolo rimanda a una canzone — a sua volta ripresa da una composizione russa — che parla di libertà; insomma, si può sapere a che punto vuole arrivare? Vuole forse confondere lo spettatore? Scopriamolo!

Sinossi

Moretti
Nanni Moretti e Margherita Buy durante una scena del film (fonte: ilfattoquotidiano.it)

“Io faccio un film una volta ogni cinque anni. Cosa ti costa vedere Lola una volta ogni cinque anni? E poi non va bene che faccio un film una volta ogni cinque anni qui bisogna stringere, accelerare.” Cit -Giovanni

Il film vede come protagonista Giovanni, un regista che decide di fare un film sulla posizione del Partito Comunista Italiano durante la rivoluzione ungherese, manifestatasi nel 1956. Come è noto, l’intervento armato sovietico pose il PCI in una posizione scomoda: il film, dunque, segue il conflitto tra il personaggio di Ennio (Silvio Orlando), segretario di un circolo romano del PCI e redattore dell’Unità, e la moglie Vera (Barbora Bobulova).

La moglie sposa subito la causa ungherese mentre il marito aspetta che sia il partito a prendere posizione. Al di fuori delle riprese, la moglie Paola (Margherita Buy, figura immancabile nei film di Moretti) che è anche la produttrice del film, si rende conto di non stare più bene con lui e si rivolge all’aiuto di uno psicoanalista. Tra questo e la relazione della figlia Emma (Valentina Romani, alias Naditza in Mare Fuori) con un ricco magnate polacco (Jerzy Stuhr), sembra che il regista vada in crisi.

La strategia del “film nel film”chiaro omaggio a Fellini — si rivela il pretesto per riflettere sulle proprie fragilità, le famose occasioni perdute e vari sentimenti con cui, inevitabilmente, tocca fare i conti durante la nostra esistenza.

La critica a Netflix

Una delle scene più esilaranti e incisive è il dialogo con i produttori di Netflix, giunto dopo che l’amico Pierre (Mathieu Amalric) è stato arrestato per truffa. Questi non vogliono produrre il film perché non rispetta certi parametri, come per esempio l’assenza di un turning point e momenti what a fuck. Semmai questa esclamazione dovremmo dirla noi povero pubblico insieme al regista, costretto a fare i conti con un’industria cinematografica che persegue esclusivamente i propri interessi per invogliare al consumo, senza interessarsi alla portata culturale e sociale di un prodotto cinematografico.

Il vortice interiore di Giovanni/Moretti

Il motivo per il quale si sostiene che questo film sia una sorta di testamento, risiede nel modo di voler raccontare una vicenda che, fondamentalmente, è solo un espediente. Le sequenze più incisive sono quelle in cui emerge l’interiorità inquieta del personaggio che oscilla tra ironia e riflessione sulla realtà e su sé stessi, elemento onnipresente nella filmografia di Moretti. Il dialogo tra i due giovani ragazzi al cinema che forse è la personificazione del primo incontro con Paola, e il regista che da adulto suggerisce le battute al giovane se stesso; le canzoni di Noemi e Luigi Tenco, Aretha Franklin e Franco Battiato in parallelo a frammenti rappresentanti le contraddizioni dell’essere adulti, il rimpianto di non aver vissuto una vita senza complicazioni. Passato e presente, dunque, si intrecciano nella mente di Giovanni/Moretti, invitando lo spettatore in sala a ridere insieme a lui come se ci fosse bisogno di semplicità. Non è male in fondo, probabilmente non serve essere pesanti con se stessi.

 

Un film che invita alla semplicità

Moretti
Frame del film “Il sol dell’avvenire”

La storia non si scrive con i sé, e chi l’ha detto? Cit. Giovanni

Con delicatezza, Moretti ci invita a ricordare che la storia, comprese le conseguenti sconfitte, non deve essere un peso insormontabile. Anzi, attraverso il dono dell’immaginazione possiamo liberarci! La scena più bella è proprio, forse, quella in cui a tavola i nuovi produttori coreani, la moglie, gli attori e il resto dei commensali si dedicano a immaginare il film in segno di gioia collettiva. La grande Storia non doveva per forza andare com’è andata.

Lo scopo dell’arte è quello di farci pensare a come le cose potrebbero andare diversamente, e nel caso del film di Moretti qualsiasi circostanza viene messa in discussione. E se il PCI avesse realizzato l’utopia di Marx ed Engels, la sinistra attuale risulterebbe ancora frammentata? Può darsi, meglio lasciare libera l’immaginazione.

Federico Ferrara

Air – La Storia Del Grande Salto: Affleck e Damon fanno canestro

Il massimo dei voti sta soprattutto nell’aver centrato in pieno l’obiettivo, facendo canestro in tutti i sensi. – Voto UVM: 5/5

 

Air – La Storia Del Grande Salto è un film del 2023 scritto da Alex Convery e diretto da Ben Affleck (noto per ruoli in Pearl Harbor, Will Hunting – Genio Ribelle e per aver diretto Argo e La Legge Della Notte).

Il cast comprende: Matt Damon (Will Hunting – Genio Ribelle, The Last Duel, ecc.), lo stesso Ben Affleck, Jason Bateman (Come Ammazzare Il Capo E Vivere Felici, State Of Play, ecc.), Marlon Wayans (Scary Movie, Ghost Movie, ecc.), Chris Messina (Vicky Christina Barcelona, Un Amore Di Testimone, ecc.), Chris Tucker (Jackie Brown di Quentin Tarantino, Rush Hour, ecc.), e Viola Davis (Suicide Squad, Barriere, ecc).

Trama

Il film narra la storia della nascita del rapporto tra Michael Jordan, all’inizio della sua carriera di giocatore di basket, e la Nike. Da questo rapporto, è nata la famosa linea di calzature sportive, col nome di Air Jordan. Questo fatto risale al 1984.

Il manager Sonny Vaccaro (Matt Damon), esperto di basket, è alla continua ricerca di giovani talenti a cui proporre un contratto di sponsorizzazione. A quei tempi, la Nike non se la passava benissimo e la sua quota di mercato era inferiore, rispetto alla Converse ed alla Adidas.

Invece di investire su un giocatore già affermato, Sonny decide di usare l’intero budget messo a disposizione dalla Nike per chiudere un contratto di collaborazione con un semisconosciuto: Michael Jordan, un giovane con un’enorme talento naturale del basket. E’disposto a tutto per raggiungere il suo obiettivo, persino andare contro le “regole” e questo lo porterà anche a cercare di rompere la resistenza del suo CEO Phil Knight (Ben Affleck), del manager di Jordan e poi quelle della madre dello stesso Jordan Deloris (Viola Davis).

E’ la storia di Michael Jordan?

Non esattamente. L’ex-campione dei Chicago Bulls ha un ruolo fondamentale in questa storia, anzi è la colonna portante. Ma nonostante la storia ruoti intorno a lui, in realtà non è lui il protagonista. Il film non è un biopic di Michael Jordan, ma su un fatto importante della sua vita, dove ebbe inizio la sua straordinaria carriera e l’intento sta nel mostrare come si è arrivato a questo, rendendo l’ex-campione un contorno molto importante.

Air – La Storia Del Grande Salto ha quella capacità di rendere importante Jordan, senza mostrare mai realmente Jordan. L’idea di non mostrarlo ha funzionato e così ci si concentra sul movente della storia. In pratica, basta sentire il nome di Michael Jordan ed è sufficiente per convincere a dare una possibilità al film. E’ lo stesso fenomeno che si è manifestato e si manifesta tutt’ora con le Air Jordan, ed ora è successo anche con il film.

E’ un film solo per gli appassionati di Basket?

Si rivolge ad un pubblico molto vasto, in realtà. E’ un film che può essere visto non solo dai “baskettari” e dell’ex-campione del NBA, ma anche da chi cerca una bella carica motivazionale.

Questo rapporto di collaborazione nato tra Jordan e la Nike non ha solo segnato la storia della pallacanestro, ma anche le strategie imprenditoriali. Dimostra di come la determinazione, la fame e la voglia di mettersi in gioco, rischiando tutto, può portare ad un risultato straordinario e storico. Invece di puntare su un giocatore già affermato, Sonny Vaccaro ha voluto credere su un giovane talento ancora non molto conosciuto e ci ha visto lungo. Andare contro la massa e ragionando diversamente da essa, porta anche a questo.

Quindi, anche solo per cercare una spinta nella propria vita e per trovare la carica giusta, Air è il film giusto. E questo si abbina anche il lavoro svolto da chi ne ha preso parte, a partire dal regista!

Ben Affleck è un buon regista?

Ormai non si può dubitare di ciò, ma Ben Affleck sa come fare il regista. La sua carriera è stata di alti e bassi ed ha avuto pure una storia personale un po’ triste, tanto da portarlo alla depressione ed all’alcool. Ma dopo un periodo buio, è uscito dal tunnel e la sua ripresa è dimostrata sia dal punto di vista personale che in quello professionale.

Ha dato il massimo in ruoli come quelli di Pearl Harbor, The Accountant, The Last Duel, Tornare A Vincere, Argo e per come ha potuto, anche come Batman (Batman V Superman:Dawn Of Justice e Zack Snyder’s Justice League). Ma ha dimostrato di avere anche delle incredibile capacità come sceneggiatore (Will Hunting: Genio Ribelle) e soprattutto, come regista (Argo e La Legge Della Notte).

Tornando dopo anni dietro la cabina di regia, stavolta si è superato con Air. E’ uno di quei registi che vuole puntare più sulla qualità e sulla semplicità, rispetto a qualche altro che rende la pellicola un “sequestro di persona” (vedete Tar), che va a discapito di alcuni dettagli poco curati.

Air è una storia così semplice, lineare, poco ambiziosa e, con una durata al di sotto delle due ore, è capace di dare moltissimo allo spettatore, senza impegnarsi più di tanto. E in questo modo il film ha raggiunto l’obiettivo in una maniera pazzesca, accompagnato da un ottimo montaggio, che ha mostrato alcuni momenti iconici di Jordan e degli anni ’80, e da una buona colonna sonora!

jordan
Frame del film. Casa di produzione: Amazon Studios, Mandalay Pictures, Skydance Media. Distribuzione in italiano: Warner Bros.

Il cast

Oltre che di una buona regia, il film può vantare anche di un cast corale. Affleck non ricopre solo le vesti di regista, ma anche un ruolo marginale nei panni di Phil Knight, il CEO della Nike. Seppur con un po’ di istrionismo, Affleck se l’è cavata, ed un punto va a favore anche alla recitazione di Jason Bateman.

Ma i migliori sono stati Matt Damon e Viola Davis. Damon si è calato perfettamente in Sonny Vaccaro essendo molto convincente (soprattutto nel discorso motivazionale per convincere i genitori di Jordan), mentre Davis è stata la migliore scelta che potessero fare per il ruolo della madre di Jordan (suggerita dal vero Michael Jordan).

 

Giorgio Maria Aloi

Top Gun: Maverick è un film vecchio

Gli sceneggiatori di Top Gun: Maverick pensavano che fossimo ancora negli anni ’80, infatti quasi ogni cosa fa a botte col nostro secolo. Bocciato, anche se le scene d’azione fanno il loro dovere. Voto UVM: 2/5

 

Top Gun: Maverick, prodotto dall’attore protagonista Tom Cruise e diretto da Joseph Kosinski (Tron Legacy, Oblivion, Spiderhead), è riuscito ad ottenere alcune candidature all’Oscar nella sua 95° Edizione: Miglior Film, Miglior Sceneggiatura non originale, Migliori Effetti Speciali e Miglior Sonoro. Ma saranno davvero meritate queste candidature?

Faccio un po’ come mi va!

La narrazione parte ripescando il protagonista del precedente film. Pete “Maverick” Mitchell (Tom Cruise), adesso Capitano di vascello della Marina degli USA, grazie alla sua esperienza ha assunto il ruolo di tester di nuovi mezzi aerei. Al momento di mettere alla prova un mezzo a grandi altezze e velocità ipersoniche, arriva il contrammiraglio Chester “Hammer” Cain (Ed Harris) con l’intenzione di smantellare l’equipè di ricerca che ha sostenuto Maverick e indirizzare le ricerche sui droni da guerra. Per evitare questo, Maverick ha l’occasione di agire contro le decisioni dall’alto e prova un lancio ad alta velocità con il velivolo “DarkStar”. Durante il volo il capitano provoca un danno al mezzo a causa della mania di superare i suoi limiti. Dopo questa sua ennesima subordinazione, il controammiraglio vorrebbe congedarlo ma è costretto a mandarlo alla Top Gun sotto richiesta del comandate della Flotta del Pacifico.

Nepotismo: l’America sa cos’è

Nonostante si tratti dell’incipit del film, già da qui si notano i primi scricchiolii della sceneggiatura. Infatti, il nostro protagonista ha dimostrato di non essere cresciuto durante la sua carriera trentennale da pilota. Sembra che il suo caratteraccio non gli abbia permesso di progredire nel mondo della Marina. Dall’altra parte però non è stato congedato dal suo ruolo, poiché il suo ex rivale e amico, Tom “Iceman” Kazansky (interpretato da un provato Val Kilmer), ha raggiunto la posizione di comandante della Flotta. Solo grazie ad Iceman a coprirgli le le spalle, il protagonista non è stato costretto a cambiare i suoi atteggiamenti. Nemmeno i suoi tormenti sono però cambiati, nonostante gli anni trascorsi.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

I fantasmi che non vanno via

Nonostante il trauma di Maverick fosse già stato abbondantemente affrontato nel primo Top Gun, anche in questa storia viene di nuovo ripreso il senso di colpa del pilota nei confronti del grande amico e collega Nick “Goose” Bradshaw, morto in seguito ad una manovra pericolosa eseguita istintivamente dal nostro protagonista durante un volo in coppia. A rinnovare il suo trauma è l’incontro con il figlio di Goose, Bradley “Rooster” Bradshaw (Miles Teller), il quale lo detesta per avergli fatto ritardare di 4 anni l’iscrizione all’accademia della Marina. È qui che il minutaggio della pellicola viene inutilmente allungato presentando scene della morte di Goose, i bei ricordi di quando era ancora vivo e le inquadrature che si perdono continuamente su fotografie di Maverick che ritraggono il suo passato.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

Top Gun: Boomer edition

È proprio il passato che rovina il tutto, o meglio, il film non ha altro da offrire se non il passato. A parte qualche spunto su quanto sia importante l’istinto di un pilota, che non può competere in molti casi con la freddezza calcolatrice di una Intelligenza Artificiale, non c’è assolutamente nulla di nuovo. La storia è una copia carbone della narrazione del primo film e non c’è alcuna evoluzione nei personaggi. Per giunta la trama non ci prova nemmeno, poiché in più occasioni si ritrova a far partire sotto trame che conclude in maniera molto superficiale.

Love story: perchè?

Tra i vari filoni della trama vi è anche l’immancabile love story tra il protagonista e una qualsiasi donna pescata dal nulla che si sostituisce all’amata che avevamo conosciuto nel prequel. Penny (Jennifer Connelly) è una barista che lavora in un locale vicino alla scuola Top Gun. Dalle conversazioni che ha col nostro capitano di vascello scopriamo che hanno già avuto una storia amorosa finita male. Qui il regista coglie l’occasione per rimuginare sul passato di Maverick e “devolvere” anche quest’aspetto della narrazione. Come finisce questa parte della trama non possiamo anticiparvelo, ma credo sia alquanto scontato!

Largo ai giovani, ma non troppo

Ci sono tante cose che abbiamo tollerato con difficoltà: l’attacco allo Stato avversario identificato dalla NATO chiamato “Stato canaglia”, la solita retorica americana che ci viene cantata da 50 anni a questa parte, le scene riprese pare pare dal primo capitolo. Fra queste, però, c’è un aspetto che le supera tutte: l’uso delle figure giovanili come unico espediente della trama. Chiarisco questo punto: Maverick viene chiamato alla Top Gun per addestrare i 16 migliori piloti della scuola per una missione impossibile da portare a termine. Ciò che fa la narrazione non è altro che creare tensione attorno a questa missione, ma di fatti i già “migliori piloti” non hanno nulla da imparare, perché appunto sono i migliori; al massimo possono limitarsi a fare un ripasso di retorica americana.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

In conclusione

Anziché soffermarsi sui tanto amato anni ’80, sarebbe stato interessante un approfondimento sulla preparazione psicologica dei giovani piloti in missioni così tanto importanti, creare spunti di riflessione di questi nei confronti di una guerra fantasma, creare storie concludenti per i personaggi del passato e, magari, lasciare aperto “il sipario” per le generazioni future. Possiamo dire che Top Gun: Maverick si mostra un’opera tipicamente Hollywoodiana che mette in mostra i muscoli dei suoi attori e dei migliori effetti speciali, ma in sostanza non è altro che un prodotto commerciale che mira alla nostalgia del suo pubblico, discostandosi di poco dai tanto odiati cinecomic!

 

Salvatore Donato

Aftersun: l’impronta indelebile dei ricordi

Un tenero e commovente dramma padre-figlia, che rimanda al tema doloroso della caducità degli attimi e del peso emotivo dei ricordi. Voto UVM: 5/5

 

Quella della fotografia è un’arte che ha il potere di immortalare degli istanti speciali della nostra vita e di fissarli nel tempo, per riuscire a testimoniare ciò che siamo stati e le esperienze importanti che abbiamo vissuto. Ripensare a momenti passati osservandone le foto, significa quindi poterne rivivere emozioni, colori e profumi, ed essere in grado di raccontarli anche a chi non li ha sperimentati in modo diretto.

E’ questo il concetto da cui parte la realizzazione di Aftersun, il recente film d’esordio della regista e sceneggiatrice scozzese Charlotte Wells, disponibile in Italia dal 5 gennaio sulla piattaforma di streaming Mubi e in alcuni cinema selezionati.

Ritrovata una sua vecchia foto scattata da bambina, durante una vacanza estiva con il padre, l’autrice ne trae ispirazione per dar vita al suo primo lungometraggio, presentato alla 75ª edizione del Festival di Cannes, e vincitore del Premio della Giuria French Touch.

La trama

Fatta eccezione per alcuni flashforward, la storia è ambientata in Turchia, in un’estate di fine anni ’90. La piccola ma perspicace Sophie (interpretata da un’esordiente Francesca Corio) parte da Edimburgo per trascorrere due settimane in compagnia del giovane padre separato Calum (interpretato da Paul Mescal, volto già noto per il ruolo nella celebre miniserie Normal People) in un piccolo resort turco di bassa qualità. Sin dai primi minuti della pellicola è evidente che il loro è un rapporto di complicità: i due prendono il sole, si tuffano in piscina e si divertono a giocare insieme a biliardo. Da un lato vi è un’undicenne dall’indole curiosa e vivace, sempre alla ricerca dell’approvazione del padre. Dall’altro un ragazzo appena trentunenne, dal temperamento molto più pacato e riservato, ma che cerca comunque a modo suo di adempiere all’importante e complicato ruolo di genitore.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Ma la struttura narrativa del film fa si che i personaggi si svelino lentamente da soli, e a poco a poco, senza forzare il ritmo, diventa sempre più chiaro il fatto che dietro il personaggio di Calum, in realtà, si celi un animo inquieto e malinconico, in preda a dei tormenti interiori dai quali prova a fuggire in silenzio, cercando rifugio nel rapporto con la figlia, con la quale sembra però non riuscire ad esprimere appieno le proprie emozioni.

La significativa raccolta di memorie

Le vicende dei giorni in Turchia sono documentate da Sophie attraverso una Handycam DV Sony, una videocamera digitale alla quale la bambina mostra sempre i suoi occhi sorridenti, mentre Calum viene spesso ripreso da una certa distanza, attraverso un vetro, sfuggente, o di spalle (come per simboleggiare la sua incapacità di essere decifrato).

L’intero film quindi sovrappone di continuo due piani narrativi: i filmini della vacanza e le scene vere e proprie, che rappresentano la ricostruzione di Sophie di quei momenti con suo padre. I nastri su cui registra l’intero soggiorno, le serviranno infatti da adulta, per poter rievocare tutte le sensazioni provate in quel periodo particolarmente sereno della sua infanzia, che purtroppo non tornerà mai più. Ma soprattutto, per quanto doloroso possa essere scavare tra i ricordi, questi la aiuteranno a trovare in essi molto più di quanto potesse cogliere in precedenza, e a comprendere meglio i motivi dietro i misteriosi comportamenti del padre.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Un film dalla forte carica emotiva

Aftersun è un ritratto autentico e potente del rapporto tra genitori e figli, reso possibile grazie alla giovane rivelazione Francesca Corio e la strepitosa interpretazione di Paul Mescal, nei panni di una figura purtroppo mai abbastanza rappresentata: quella di un padre premuroso, ma al tempo stesso fragile ed insicuro, continuamente in lotta con sè stesso.

Tra le sequenze più toccanti ed emblematiche del film, una delle scene finali, in cui i due protagonisti, padre e figlia, si consumano in un tenero abbraccio danzando sulle note di Under Pressure dei Queen e David Bowie, canzone che rispecchia alla perfezione le battaglie “invisibili” affrontate da Calum, e l’ultimo ricordo di Sophie di quella parte della sua vita ormai passata.

This is our last danceThis is ourselves
Under pressure

Attraverso la tenera ma straziante storia del rapporto tra un padre e sua figlia, Aftersun è quindi un film che dimostra pienamente quanto la memoria possa rappresentare per noi un forte alleato, dal potere curativo, ed al contempo un terribile nemico, brutalmente doloroso. Vi sono infatti, nella vita di ognuno di noi, momenti che vorremmo non finissero mai. E quando purtroppo questi svaniscono, spesso ciò che rimane è soltanto la triste consapevolezza che non verranno mai più vissuti.

 

Giulia Giaimo

 

The Pale Blue Eye – I delitti di West Point

Un film thriller che non convince mai del tutto, configurandosi ormai ai piatti standard Netflix – Voto UVM: 3/5

 

Anno nuovo uscite nuove! Il catalogo Netflix si arricchisce di una nuova pellicola uscita nelle sale americane e disponibile in streaming dal 6 gennaio di quest’anno.

Stiamo parlando della tanto attesa pellicola The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, diretta da Scott Cooper e adattamento dell’omonimo romanzo del 2003 scritto da Louis Bayard. Un cast stellare e un co-protagonista davvero gigantesco, ma basterà tutto questo a rendere questo film eccezionale? Scopriamolo insieme!

The Plot

Il film ha come protagonista il detective August Landor (interpretato dallo straordinario Christian Bale), un uomo dal carattere schivo e misterioso, ma dalle grandi abilità che lo portano ad essere scelto dagli alti ranghi dell’accademia militare di West Point, nel 1830, per risolvere uno strano delitto. Spinto dal suo talento e da metodi al di fuori dall’ordinario, si muove alla ricerca della verità, scontrandosi però con la scarsa collaborazione della stessa accademia.

In suo aiuto arriva un giovane quanto brillante cadetto Edgar Allan Poe (Harry Melling) che si rivela un preziosissimo compagno di indagini, dimostrando lo stesso tormento interiore e uno spiccato amore per gli enigmi quasi al suo pari.

Gli omicidi continuano e s’intrecciano, il mistero va via via infittendosi, portando lo spettatore ad arrovellarsi il cervello per indovinare il colpevole e soprattutto, cosa spinga l’omicida a commettere tali delitti. Il duo comincia quindi un’intricata caccia all’assassino, portandoli ad affrontare insieme i propri drammi personali e la perenne sensazione di essere costantemente emarginati da tutto e tutti.

                             

(Trailer italiano di The Pale Blue Eye – I Delitti di West Point)

Edgar Allan Poe può bastare a salvare tutto?

Il film si presenta con l’intenzione di essere un giallo intellettuale (a tratti ci riesce pure) dai toni noir, con ambientazioni gotiche e dai tratti più psicologici che visivi.

Il primo, alla base di tutto, è un grande e grosso, oserei dire gigantesco problema.

Ovviamente, il problema, è lo stesso Edgar Allan Poe (ormai infilato ovunque a caso, basti vedere la recente serie Mercoledì): la presenza del leggendario scrittore, porta a scemare ogni tensione sul suo destino, sgonfiando, e di non di poco, il potenziale lato thriller della vicenda che, come ogni film degno di questo genere, dovrebbe portare lo spettatore a viverlo tra stati di tensione, angoscia e paranoia. L’effetto finale della presenza del personaggio di Poe riduce la pellicola a mero giochino intellettuale, all’interpretazione degli indizi attraverso lunghi e barbosissimi dialoghi tra lui e Landor.

Il secondo problema è presentato dall’intreccio narrativo scialbo e meccanico (molto lontano dai film d’eccellenza come La vera storia di Jack Lo Squartatore – From Hell del 2001 diretto dai fratelli Hughes), che non concede nemmeno il tempo per approfondire emotivamente altri personaggi oltre i due protagonisti che, anche loro, restano come appena sommersi nelle profondità della psiche.

August Landor (Christian Bale e Edgar Allan Poe (Harry Melling) in una scena del film. Distribuzione: Netflix

Tra regista atipico e cast stellare

Il film vede il ritorno di una coppia scoppiettante Scott Cooper e Christian Bale, che già avevano lavorato insieme con il western Hostiles e il thriller Il Fuoco della vendetta.

Cooper è uno dei registi più atipici del panorama moderno, da sempre interessato a parlarci della lotta dell’individuo contro sé stesso, in una produzione dominata dalla sensazione di isolamento, del tutto scevra da ogni ottimismo ma soprattutto una visione della società come dittatura della ferocia e della prepotenza.

Christian Bale si dimostra uno degli attori più versatili, passando nella sua lunga carriera da personaggi dalla personalità e dalla psiche turbata (come in American Psyco e L’uomo senza sonno) a diventare l’eroe di cui Gotham ha bisogno (la trilogia di Batman di C. Nolan). Anche in questo film nulla da dire, con Bale si va sul sicuro.

Vera rivelazione è Harry Melling (il cugino Dudley di Harry Potter per capirci) che dà il volto a Edgar Allan Poe e lo fa bene, incarnando gli albori dell’inquietudine che saranno il motore della produzione di Poe.

Il resto del cast è ricchissimo e soprattutto affollato, con gente del calibro di Gillian AndersonCharlotte Gainsbourg o Toby Jones che devono sgomitare per farsi notare.

Spettacolare è la fotografia di Masanobu Takayanagi, ben curata dal punto di vista estetico attraverso una rievocazione storica di un certo spessore, ma anche elegante e forte, che tende a valorizzare l’intima regia di Cooper.

Conclusioni

Più che di un thriller vero e proprio, The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, si presenta come un divertissement quasi letterario, che a tratti funziona e a tratti no. Stupefacente la fotografia, l’interpretazione magistrale degli attori, nonostante questo, il  film possiede tutti i difetti di un film fatto per le piattaforme.

Lodevole l’idea di voler omaggiare uno dei più grandi scrittori della storia come Edgar Allan Poe, ma allo stesso tempo bisogna fare i conti con la grandezza dell’omaggiato in questione e non ridurlo all’ennesimo “investigatore del mistero” come ultimamente piace a Netflix.

 

Gaetano Aspa

The Fabelmans: il film testamento della vita di Steven Spielberg

Un film che pone in risalto la maturità artistica e umana del grande cineasta. – Voto UVM: 5/5

 

Parlare di Steven Spielberg non sembra quasi mai un’operazione semplice, specialmente se pensiamo al vissuto e alla carriera del regista. Eppure, dopo aver realizzato una serie di successi strepitosi, — per citarne alcuni Lo Squalo, E.T. l’extra terrestre, Jurassic Park, Schindler’s List (premi Oscar alla miglior regia e miglior film 1994) e molti altri, tra cui la saga su Indiana Jones, — il grande cineasta ritorna con The Fabelmans, un film capolavoro che parrebbe essere una sorta di testamento artistico oltre che introspettivo. Per la prima volta Spielberg decide di mettersi a nudo, raccontando la storia della sua vita dal punto di vista familiare.

Trama

Spielberg
Sammy Fabelman in una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

La pellicola inizia con la visione al cinema del film di John Ford, Il più grande spettacolo del mondo (1952, il primo che il regista abbia mai visto in vita sua) assieme ai suoi genitori (Paul Dano nei panni del padre Burt e Michelle Williams nei panni di Mitzi). Lo sguardo del bambino, inoltre, sembra ricordare quello del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.

I film sono sogni che non dimenticherai mai.

Dopo la visione, Sammy resta folgorato dalla potenza evocatrice delle immagini e la madre, rimasta estasiata da ciò, decide di fargli usare la macchina da presa del padre. Naturalmente Sammy inizia ad usarla sempre insieme alle sue sorelle, finché divenuto grande non ne ottiene una tutta per sé (Bolex H8, doppia 8mm) con cui gira dei cortometraggi prettamente western insieme ai suoi amici. Un aspetto molto importante è la rappresentazione di come Sammy pulisce e taglia le pellicole per ottenere degli effetti speciali, quasi a voler ricordare che la tecnica è un dettaglio da non sottovalutare mai per la riuscita di un film.

Il film prosegue mettendo in evidenza anche il rapporto complicato con il padre, il quale inizialmente non vuole che Sammy faccia di questa passione un lavoro. Probabilmente, questo pensiero è dovuto al clima altalenante dell’epoca (fine anni ’50, inizio anni ’60), in cui la domanda di lavoro non soddisfaceva a pieno le esigenze di determinati nuclei familiari. Sammy comunque non si abbatte e prosegue per la sua strada, nonostante la morte della madre che provocherà un forte scossone all’interno della famiglia (una scena importante è nella seconda parte del film, rappresentata servendosi di un climax discendente). Per non parlare delle discriminazioni razziali (il protagonista così come lo stesso regista, è di origini ebraiche) che Sammy subirà a scuola, una volta approdato in Arizona.

Tra autorialità e filosofia del cinema

Spielberg
Una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

L’arte ti darà corone nella testa e aria nel cielo, ma ti strapperà il cuore.

Il percorso di crescita del protagonista ci porta a vedere due lati della stessa medaglia, ovvero la concezione del cinema come mezzo in grado di canalizzare i propri sogni, ma anche la potenza di un medium in grado di manipolare la realtà a proprio piacimento. L’attenzione incredibile di Spielberg verso gli strumenti del suo futuro mestiere, come citato in precedenza, è una toccante dichiarazione d’amore verso il grande schermo, quasi commovente per la sua limpidezza e sincerità. In ogni scena traspare la forza dirompente della passione del Maestro; quella che gli ha permesso in oltre cinquant’anni di carriera di creare pellicole di grande spessore, assurte a veri e propri culti. La natura della storia, inoltre, permette a chiunque di relazionarvisi senza scadere nella banalità poiché, grazie allo sviluppo perfetto dei caratteri dei personaggi, possiamo ritrovare il significato della vita intesa come una sfida continua, con l’invito a non arrendersi mai.

Questo aspetto, infatti, è messo a fuoco negli ultimi minuti della pellicola, rappresentanti una forte lezione per i giovani autori: quello che conta, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, come suggerisce John Ford (interpretato da David Lynch, davvero!):

Quando l’orizzonte si trova in basso è interessante, quando si trova in cima è interessante, quando si trova in mezzo è una merda noiosa.

Questo sta a significare che solo l’occhio dell’artista, di chi sa guardare davvero oltre, è in grado di donare quell’aura di unicità al film. Qui risiede il segreto dell’arte cinematografica e Spielberg, non poteva spiegarcelo meglio di così.

 

Federico Ferrara

Avatar: The Way of Water, a repeat of the first movie?

 

Spectacular rehash of the first instalment of the Avatar saga – Vote UVM: 3/5

“Avatar: The Way of Water” is the long-awaited sequel to the 2009 blockbuster hit “Avatar” by James Cameron. While it is just as spectacular as the first movie, if not, even more, its plot is a rehash of the first film and lacks character development.

From “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

Same plot, different characters

I was quite sad to realise that the main plot of the movie was a rehash of the first film, which can be condensed into “(most) Humans bad, Na’vi good”.

The movie opens with a summary of what happened to Pandora more than a decade after the humans were repelled from the planet. We see that Jake is the leader of the Omaticaya, and he has created a family with Neytiri. They are raising two sons, and two daughters, one of which was adopted, and a human child, Spider, who was left by the humans on Pandora since he could not be transported back to earth via cryostasis, due to his young age. He is the son of Colonel Miles Quaritch.
The humans have once again invaded Pandora, and an avatar with Colonel Quaritch’s memories has been sent to hunt down and kill Jake Sully.

So we see the military once again hunting down Jake Sully, but also his family, and when Quaritch manages to capture Spider, Jake decides that to protect the Omaticaya they have to leave their village and head east to the Metkayina reef people clan, who choose to shelter them.
The daughter of the clan leader of the Metkayina, Tsireya, is now given instructions to teach the Sully family, and here we see the family learning, just like Jake did in the first movie.

Kiri nei regni dell'acqua; fonte: 20th Century Studios, Walt Disney studios
From film “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

 

Kiri, an interesting character and a missed opportunity
One of the most interesting characters in the film is Kiri, Jake and Neytiri’s daughter who is biologically Doctor Grace Augustine’s daughter, and was weirdly born after the doctor’s “cerebral” death, from her inert avatar. There is quite a bit of mystery surrounding her, she has a particularly profound relationship with Eywa, the deity of Pandora that connects every living being but also connects the Na’vi to their ancestors.
There are a few scenes in the movie that focus on her, showing us her deep spirituality and her longing to find out more about her biological parents. Her character could have been made the centre of the movie, this way we could have found out more about the world of Pandora, Eywa and the Na’vi. Instead, we only got a few scenes of her inexplicably using some weird powers that no one else seems to have.

From “Avatar: The Way of Water” . Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

The Metkayina

The Metkayina are deeply inspired by the Polynesian culture, in particular by the Māori.
We see this in the case of the clan chief Tonowari, with his face being tattooed in a way that looks like a tā moko (the tattoo traditionally practised by the Māori). We also see it when the clan rallies up to fight and the people perform a sort of pūkana, a facial expression that the Maori use to symbolize ferocity and passion during the performance of the haka, a ceremonial performance art.

It is fascinating to notice how different they are from the Omaticaya, the forest Na’vi, in their anatomy, having a body made to swim, in their language, having a sign language for underwater, and in general the slight variations in all of their customs.

Spectacular but not entertaining

Sadly the attention and care that was given to the overall design and background were not given to the plot and characters’ development, the characters don’t grow throughout the movie, even after their life has completely changed.
In general, the movie had spectacular cinematography, decent acting and amazing special effects, but it should have been condensed into a shorter runtime, as the story does not justify the film’s length.

Elena Succi

Del Toro dona la vita a Pinocchio

Un film eccezionale che rinarra Collodi attraverso la psiche di Del Toro – Voto UVM: 4/5

 

Del Toro ci regala un altro grande pezzo di cinematografia col suo Pinocchio. Non si tratta di una semplice trasposizione del classico di Collodi, bensì – come vedremo – di un totale rifacimento della storia.

Il regista dei recenti Nightmare Alley e de La forma dell’acqua ci regala un racconto molto più crudo di quello a cui ormai siamo abituati, anche per via delle libertà che la Disney si prese decenni fa nel suo film. Ed in questo è un film di Del Toro in tutto e per tutto: per sua stessa ammissione, infatti, la pellicola non si è limitata ad un semplice riadattamento ma a narrare una storia profondamente diversa che risonasse con l’intimo del regista.

                                                                                                 

Burattini che prendono vita

Ciò che più di ogni altra cosa in questo film traspare è la crudezza. Ogni personaggio riesce ad esprimere una varietà di emozioni enorme, soprattutto per un film in stop-motion.

Uno degli aspetti più interessanti da analizzare è proprio questo: riuscire a trasmettere la stessa mimica di un attore tramite un “burattino” da manovrare fotogramma per fotogramma è un’impresa quasi impossibile, e questo film riesce ad essere uno degli esempi migliori sotto quest’aspetto.

Pinocchio sullo sfondo di un paesino sulle montagne liguri. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

La pellicola è stata girata con in mente l’imprecisione: sia quella dei movimenti umani sia quella di un’animazione “fatta a mano”. Ogni personaggio ha qualche imperfezione che lo caratterizza, ma che soprattutto riesce a spiccare sullo schermo. Gli occhi sono forse la parte che risalta di più in questa animazione ed è qui che il legame col live action si sente maggiormente. Il regista ha trasposto la sua esperienza con gli attori in questo nuovo lavoro, portando ad un nuovo estremo le possibilità della stop-motion.

Geppetto. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Anche la regia risulta ben studiata e chiarissima nell’esposizione. Il film trasuda da ogni frame il famoso stile di Del Toro, cupo ma colorato. Se consideriamo la tecnica utilizzata, il numero e la varietà di inquadrature risultano ancora più strabiliante. La camera inquadra benissimo ogni personaggio e i set sono costruiti ad hoc per permettere ciò, con un realismo ed una cura maniacale.

Il nuovo Pinocchio

La trama è forse l’elemento più controverso del film. Ricorda molto le altre produzioni di Del Toro con una grande enfasi sull’onirico nella prima parte e un ritorno al reale verso metà della pellicola. È una cifra stilistica che torna anche qui, arricchendo la storia di Collodi di un sottotesto storico e politico. Ciò si ricollega in maniera perfetta alla metafora narrativa generale della trama: il legame tra la vita e la morte ed il nostro vivere nella coscienza di entrambe.
In questo modifica anche parecchio la storia originale – come già detto – ma il tutto risulta una narrazione interessante. La nascita di Pinocchio deve tutto al mostro di Frankestein: Geppetto è un falegname poverissimo caduto nell’alcol e interi personaggi vengono eliminati ( Fata Turchina, Mangiafuoco), altri vengono aggiunti. Il tutto risulta all’inizio straniante, ma ci si abitua presto a vedere sotto una nuova luce questa storia, che Del Toro è riuscito a fare sua in tutto e per tutto, modernizzando anche aspetti del romanzo che oggi avrebbero stonato con la nostra coscienza moderna.

Volpe, il nuovo proprietario del circo, a destra il Mangiafuoco “scartato”. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Le uniche recriminazioni che facciamo alla pellicola sono da imputare alla parte finale. Alcune scelte sembrano derivate da una fretta produttiva che elimina per parte del film alcuni dei personaggi più interessanti, mentre altri su cui riponevamo aspettative vengono lasciati in secondo piano.

Tutte le dinamiche delle scene finali non ci sono sembrate convincenti assieme all’utilizzo di una computer grafica scadente.

Conclusioni

Detto questo, il film risulta essere forse la cosa più lontana in tutto e per tutto dal romanzo originale, ma che in esso affonda le radici del suo spirito. Uno spirito che traspare anche dai vicoli dei vecchi paesini italiani, dalla loro povertà e dai loro modi di fare.

È una storia che parla di morte e del saper vivere assieme e che lo fa con un tatto che solo Del Toro sa trasmettere.

 

Matteo Mangano