Air – La Storia Del Grande Salto: Affleck e Damon fanno canestro

Il massimo dei voti sta soprattutto nell’aver centrato in pieno l’obiettivo, facendo canestro in tutti i sensi. – Voto UVM: 5/5

 

Air – La Storia Del Grande Salto è un film del 2023 scritto da Alex Convery e diretto da Ben Affleck (noto per ruoli in Pearl Harbor, Will Hunting – Genio Ribelle e per aver diretto Argo e La Legge Della Notte).

Il cast comprende: Matt Damon (Will Hunting – Genio Ribelle, The Last Duel, ecc.), lo stesso Ben Affleck, Jason Bateman (Come Ammazzare Il Capo E Vivere Felici, State Of Play, ecc.), Marlon Wayans (Scary Movie, Ghost Movie, ecc.), Chris Messina (Vicky Christina Barcelona, Un Amore Di Testimone, ecc.), Chris Tucker (Jackie Brown di Quentin Tarantino, Rush Hour, ecc.), e Viola Davis (Suicide Squad, Barriere, ecc).

Trama

Il film narra la storia della nascita del rapporto tra Michael Jordan, all’inizio della sua carriera di giocatore di basket, e la Nike. Da questo rapporto, è nata la famosa linea di calzature sportive, col nome di Air Jordan. Questo fatto risale al 1984.

Il manager Sonny Vaccaro (Matt Damon), esperto di basket, è alla continua ricerca di giovani talenti a cui proporre un contratto di sponsorizzazione. A quei tempi, la Nike non se la passava benissimo e la sua quota di mercato era inferiore, rispetto alla Converse ed alla Adidas.

Invece di investire su un giocatore già affermato, Sonny decide di usare l’intero budget messo a disposizione dalla Nike per chiudere un contratto di collaborazione con un semisconosciuto: Michael Jordan, un giovane con un’enorme talento naturale del basket. E’disposto a tutto per raggiungere il suo obiettivo, persino andare contro le “regole” e questo lo porterà anche a cercare di rompere la resistenza del suo CEO Phil Knight (Ben Affleck), del manager di Jordan e poi quelle della madre dello stesso Jordan Deloris (Viola Davis).

E’ la storia di Michael Jordan?

Non esattamente. L’ex-campione dei Chicago Bulls ha un ruolo fondamentale in questa storia, anzi è la colonna portante. Ma nonostante la storia ruoti intorno a lui, in realtà non è lui il protagonista. Il film non è un biopic di Michael Jordan, ma su un fatto importante della sua vita, dove ebbe inizio la sua straordinaria carriera e l’intento sta nel mostrare come si è arrivato a questo, rendendo l’ex-campione un contorno molto importante.

Air – La Storia Del Grande Salto ha quella capacità di rendere importante Jordan, senza mostrare mai realmente Jordan. L’idea di non mostrarlo ha funzionato e così ci si concentra sul movente della storia. In pratica, basta sentire il nome di Michael Jordan ed è sufficiente per convincere a dare una possibilità al film. E’ lo stesso fenomeno che si è manifestato e si manifesta tutt’ora con le Air Jordan, ed ora è successo anche con il film.

E’ un film solo per gli appassionati di Basket?

Si rivolge ad un pubblico molto vasto, in realtà. E’ un film che può essere visto non solo dai “baskettari” e dell’ex-campione del NBA, ma anche da chi cerca una bella carica motivazionale.

Questo rapporto di collaborazione nato tra Jordan e la Nike non ha solo segnato la storia della pallacanestro, ma anche le strategie imprenditoriali. Dimostra di come la determinazione, la fame e la voglia di mettersi in gioco, rischiando tutto, può portare ad un risultato straordinario e storico. Invece di puntare su un giocatore già affermato, Sonny Vaccaro ha voluto credere su un giovane talento ancora non molto conosciuto e ci ha visto lungo. Andare contro la massa e ragionando diversamente da essa, porta anche a questo.

Quindi, anche solo per cercare una spinta nella propria vita e per trovare la carica giusta, Air è il film giusto. E questo si abbina anche il lavoro svolto da chi ne ha preso parte, a partire dal regista!

Ben Affleck è un buon regista?

Ormai non si può dubitare di ciò, ma Ben Affleck sa come fare il regista. La sua carriera è stata di alti e bassi ed ha avuto pure una storia personale un po’ triste, tanto da portarlo alla depressione ed all’alcool. Ma dopo un periodo buio, è uscito dal tunnel e la sua ripresa è dimostrata sia dal punto di vista personale che in quello professionale.

Ha dato il massimo in ruoli come quelli di Pearl Harbor, The Accountant, The Last Duel, Tornare A Vincere, Argo e per come ha potuto, anche come Batman (Batman V Superman:Dawn Of Justice e Zack Snyder’s Justice League). Ma ha dimostrato di avere anche delle incredibile capacità come sceneggiatore (Will Hunting: Genio Ribelle) e soprattutto, come regista (Argo e La Legge Della Notte).

Tornando dopo anni dietro la cabina di regia, stavolta si è superato con Air. E’ uno di quei registi che vuole puntare più sulla qualità e sulla semplicità, rispetto a qualche altro che rende la pellicola un “sequestro di persona” (vedete Tar), che va a discapito di alcuni dettagli poco curati.

Air è una storia così semplice, lineare, poco ambiziosa e, con una durata al di sotto delle due ore, è capace di dare moltissimo allo spettatore, senza impegnarsi più di tanto. E in questo modo il film ha raggiunto l’obiettivo in una maniera pazzesca, accompagnato da un ottimo montaggio, che ha mostrato alcuni momenti iconici di Jordan e degli anni ’80, e da una buona colonna sonora!

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Frame del film. Casa di produzione: Amazon Studios, Mandalay Pictures, Skydance Media. Distribuzione in italiano: Warner Bros.

Il cast

Oltre che di una buona regia, il film può vantare anche di un cast corale. Affleck non ricopre solo le vesti di regista, ma anche un ruolo marginale nei panni di Phil Knight, il CEO della Nike. Seppur con un po’ di istrionismo, Affleck se l’è cavata, ed un punto va a favore anche alla recitazione di Jason Bateman.

Ma i migliori sono stati Matt Damon e Viola Davis. Damon si è calato perfettamente in Sonny Vaccaro essendo molto convincente (soprattutto nel discorso motivazionale per convincere i genitori di Jordan), mentre Davis è stata la migliore scelta che potessero fare per il ruolo della madre di Jordan (suggerita dal vero Michael Jordan).

 

Giorgio Maria Aloi

Top Gun: Maverick è un film vecchio

Gli sceneggiatori di Top Gun: Maverick pensavano che fossimo ancora negli anni ’80, infatti quasi ogni cosa fa a botte col nostro secolo. Bocciato, anche se le scene d’azione fanno il loro dovere. Voto UVM: 2/5

 

Top Gun: Maverick, prodotto dall’attore protagonista Tom Cruise e diretto da Joseph Kosinski (Tron Legacy, Oblivion, Spiderhead), è riuscito ad ottenere alcune candidature all’Oscar nella sua 95° Edizione: Miglior Film, Miglior Sceneggiatura non originale, Migliori Effetti Speciali e Miglior Sonoro. Ma saranno davvero meritate queste candidature?

Faccio un po’ come mi va!

La narrazione parte ripescando il protagonista del precedente film. Pete “Maverick” Mitchell (Tom Cruise), adesso Capitano di vascello della Marina degli USA, grazie alla sua esperienza ha assunto il ruolo di tester di nuovi mezzi aerei. Al momento di mettere alla prova un mezzo a grandi altezze e velocità ipersoniche, arriva il contrammiraglio Chester “Hammer” Cain (Ed Harris) con l’intenzione di smantellare l’equipè di ricerca che ha sostenuto Maverick e indirizzare le ricerche sui droni da guerra. Per evitare questo, Maverick ha l’occasione di agire contro le decisioni dall’alto e prova un lancio ad alta velocità con il velivolo “DarkStar”. Durante il volo il capitano provoca un danno al mezzo a causa della mania di superare i suoi limiti. Dopo questa sua ennesima subordinazione, il controammiraglio vorrebbe congedarlo ma è costretto a mandarlo alla Top Gun sotto richiesta del comandate della Flotta del Pacifico.

Nepotismo: l’America sa cos’è

Nonostante si tratti dell’incipit del film, già da qui si notano i primi scricchiolii della sceneggiatura. Infatti, il nostro protagonista ha dimostrato di non essere cresciuto durante la sua carriera trentennale da pilota. Sembra che il suo caratteraccio non gli abbia permesso di progredire nel mondo della Marina. Dall’altra parte però non è stato congedato dal suo ruolo, poiché il suo ex rivale e amico, Tom “Iceman” Kazansky (interpretato da un provato Val Kilmer), ha raggiunto la posizione di comandante della Flotta. Solo grazie ad Iceman a coprirgli le le spalle, il protagonista non è stato costretto a cambiare i suoi atteggiamenti. Nemmeno i suoi tormenti sono però cambiati, nonostante gli anni trascorsi.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

I fantasmi che non vanno via

Nonostante il trauma di Maverick fosse già stato abbondantemente affrontato nel primo Top Gun, anche in questa storia viene di nuovo ripreso il senso di colpa del pilota nei confronti del grande amico e collega Nick “Goose” Bradshaw, morto in seguito ad una manovra pericolosa eseguita istintivamente dal nostro protagonista durante un volo in coppia. A rinnovare il suo trauma è l’incontro con il figlio di Goose, Bradley “Rooster” Bradshaw (Miles Teller), il quale lo detesta per avergli fatto ritardare di 4 anni l’iscrizione all’accademia della Marina. È qui che il minutaggio della pellicola viene inutilmente allungato presentando scene della morte di Goose, i bei ricordi di quando era ancora vivo e le inquadrature che si perdono continuamente su fotografie di Maverick che ritraggono il suo passato.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

Top Gun: Boomer edition

È proprio il passato che rovina il tutto, o meglio, il film non ha altro da offrire se non il passato. A parte qualche spunto su quanto sia importante l’istinto di un pilota, che non può competere in molti casi con la freddezza calcolatrice di una Intelligenza Artificiale, non c’è assolutamente nulla di nuovo. La storia è una copia carbone della narrazione del primo film e non c’è alcuna evoluzione nei personaggi. Per giunta la trama non ci prova nemmeno, poiché in più occasioni si ritrova a far partire sotto trame che conclude in maniera molto superficiale.

Love story: perchè?

Tra i vari filoni della trama vi è anche l’immancabile love story tra il protagonista e una qualsiasi donna pescata dal nulla che si sostituisce all’amata che avevamo conosciuto nel prequel. Penny (Jennifer Connelly) è una barista che lavora in un locale vicino alla scuola Top Gun. Dalle conversazioni che ha col nostro capitano di vascello scopriamo che hanno già avuto una storia amorosa finita male. Qui il regista coglie l’occasione per rimuginare sul passato di Maverick e “devolvere” anche quest’aspetto della narrazione. Come finisce questa parte della trama non possiamo anticiparvelo, ma credo sia alquanto scontato!

Largo ai giovani, ma non troppo

Ci sono tante cose che abbiamo tollerato con difficoltà: l’attacco allo Stato avversario identificato dalla NATO chiamato “Stato canaglia”, la solita retorica americana che ci viene cantata da 50 anni a questa parte, le scene riprese pare pare dal primo capitolo. Fra queste, però, c’è un aspetto che le supera tutte: l’uso delle figure giovanili come unico espediente della trama. Chiarisco questo punto: Maverick viene chiamato alla Top Gun per addestrare i 16 migliori piloti della scuola per una missione impossibile da portare a termine. Ciò che fa la narrazione non è altro che creare tensione attorno a questa missione, ma di fatti i già “migliori piloti” non hanno nulla da imparare, perché appunto sono i migliori; al massimo possono limitarsi a fare un ripasso di retorica americana.

Top Gun: Maverick
Frame del trailer Top Gun: Maverick. Casa di produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, Jerry Bruckheimer Films, TC Productions.

In conclusione

Anziché soffermarsi sui tanto amato anni ’80, sarebbe stato interessante un approfondimento sulla preparazione psicologica dei giovani piloti in missioni così tanto importanti, creare spunti di riflessione di questi nei confronti di una guerra fantasma, creare storie concludenti per i personaggi del passato e, magari, lasciare aperto “il sipario” per le generazioni future. Possiamo dire che Top Gun: Maverick si mostra un’opera tipicamente Hollywoodiana che mette in mostra i muscoli dei suoi attori e dei migliori effetti speciali, ma in sostanza non è altro che un prodotto commerciale che mira alla nostalgia del suo pubblico, discostandosi di poco dai tanto odiati cinecomic!

 

Salvatore Donato

Aftersun: l’impronta indelebile dei ricordi

Un tenero e commovente dramma padre-figlia, che rimanda al tema doloroso della caducità degli attimi e del peso emotivo dei ricordi. Voto UVM: 5/5

 

Quella della fotografia è un’arte che ha il potere di immortalare degli istanti speciali della nostra vita e di fissarli nel tempo, per riuscire a testimoniare ciò che siamo stati e le esperienze importanti che abbiamo vissuto. Ripensare a momenti passati osservandone le foto, significa quindi poterne rivivere emozioni, colori e profumi, ed essere in grado di raccontarli anche a chi non li ha sperimentati in modo diretto.

E’ questo il concetto da cui parte la realizzazione di Aftersun, il recente film d’esordio della regista e sceneggiatrice scozzese Charlotte Wells, disponibile in Italia dal 5 gennaio sulla piattaforma di streaming Mubi e in alcuni cinema selezionati.

Ritrovata una sua vecchia foto scattata da bambina, durante una vacanza estiva con il padre, l’autrice ne trae ispirazione per dar vita al suo primo lungometraggio, presentato alla 75ª edizione del Festival di Cannes, e vincitore del Premio della Giuria French Touch.

La trama

Fatta eccezione per alcuni flashforward, la storia è ambientata in Turchia, in un’estate di fine anni ’90. La piccola ma perspicace Sophie (interpretata da un’esordiente Francesca Corio) parte da Edimburgo per trascorrere due settimane in compagnia del giovane padre separato Calum (interpretato da Paul Mescal, volto già noto per il ruolo nella celebre miniserie Normal People) in un piccolo resort turco di bassa qualità. Sin dai primi minuti della pellicola è evidente che il loro è un rapporto di complicità: i due prendono il sole, si tuffano in piscina e si divertono a giocare insieme a biliardo. Da un lato vi è un’undicenne dall’indole curiosa e vivace, sempre alla ricerca dell’approvazione del padre. Dall’altro un ragazzo appena trentunenne, dal temperamento molto più pacato e riservato, ma che cerca comunque a modo suo di adempiere all’importante e complicato ruolo di genitore.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Ma la struttura narrativa del film fa si che i personaggi si svelino lentamente da soli, e a poco a poco, senza forzare il ritmo, diventa sempre più chiaro il fatto che dietro il personaggio di Calum, in realtà, si celi un animo inquieto e malinconico, in preda a dei tormenti interiori dai quali prova a fuggire in silenzio, cercando rifugio nel rapporto con la figlia, con la quale sembra però non riuscire ad esprimere appieno le proprie emozioni.

La significativa raccolta di memorie

Le vicende dei giorni in Turchia sono documentate da Sophie attraverso una Handycam DV Sony, una videocamera digitale alla quale la bambina mostra sempre i suoi occhi sorridenti, mentre Calum viene spesso ripreso da una certa distanza, attraverso un vetro, sfuggente, o di spalle (come per simboleggiare la sua incapacità di essere decifrato).

L’intero film quindi sovrappone di continuo due piani narrativi: i filmini della vacanza e le scene vere e proprie, che rappresentano la ricostruzione di Sophie di quei momenti con suo padre. I nastri su cui registra l’intero soggiorno, le serviranno infatti da adulta, per poter rievocare tutte le sensazioni provate in quel periodo particolarmente sereno della sua infanzia, che purtroppo non tornerà mai più. Ma soprattutto, per quanto doloroso possa essere scavare tra i ricordi, questi la aiuteranno a trovare in essi molto più di quanto potesse cogliere in precedenza, e a comprendere meglio i motivi dietro i misteriosi comportamenti del padre.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Un film dalla forte carica emotiva

Aftersun è un ritratto autentico e potente del rapporto tra genitori e figli, reso possibile grazie alla giovane rivelazione Francesca Corio e la strepitosa interpretazione di Paul Mescal, nei panni di una figura purtroppo mai abbastanza rappresentata: quella di un padre premuroso, ma al tempo stesso fragile ed insicuro, continuamente in lotta con sè stesso.

Tra le sequenze più toccanti ed emblematiche del film, una delle scene finali, in cui i due protagonisti, padre e figlia, si consumano in un tenero abbraccio danzando sulle note di Under Pressure dei Queen e David Bowie, canzone che rispecchia alla perfezione le battaglie “invisibili” affrontate da Calum, e l’ultimo ricordo di Sophie di quella parte della sua vita ormai passata.

This is our last danceThis is ourselves
Under pressure

Attraverso la tenera ma straziante storia del rapporto tra un padre e sua figlia, Aftersun è quindi un film che dimostra pienamente quanto la memoria possa rappresentare per noi un forte alleato, dal potere curativo, ed al contempo un terribile nemico, brutalmente doloroso. Vi sono infatti, nella vita di ognuno di noi, momenti che vorremmo non finissero mai. E quando purtroppo questi svaniscono, spesso ciò che rimane è soltanto la triste consapevolezza che non verranno mai più vissuti.

 

Giulia Giaimo

 

The Pale Blue Eye – I delitti di West Point

Un film thriller che non convince mai del tutto, configurandosi ormai ai piatti standard Netflix – Voto UVM: 3/5

 

Anno nuovo uscite nuove! Il catalogo Netflix si arricchisce di una nuova pellicola uscita nelle sale americane e disponibile in streaming dal 6 gennaio di quest’anno.

Stiamo parlando della tanto attesa pellicola The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, diretta da Scott Cooper e adattamento dell’omonimo romanzo del 2003 scritto da Louis Bayard. Un cast stellare e un co-protagonista davvero gigantesco, ma basterà tutto questo a rendere questo film eccezionale? Scopriamolo insieme!

The Plot

Il film ha come protagonista il detective August Landor (interpretato dallo straordinario Christian Bale), un uomo dal carattere schivo e misterioso, ma dalle grandi abilità che lo portano ad essere scelto dagli alti ranghi dell’accademia militare di West Point, nel 1830, per risolvere uno strano delitto. Spinto dal suo talento e da metodi al di fuori dall’ordinario, si muove alla ricerca della verità, scontrandosi però con la scarsa collaborazione della stessa accademia.

In suo aiuto arriva un giovane quanto brillante cadetto Edgar Allan Poe (Harry Melling) che si rivela un preziosissimo compagno di indagini, dimostrando lo stesso tormento interiore e uno spiccato amore per gli enigmi quasi al suo pari.

Gli omicidi continuano e s’intrecciano, il mistero va via via infittendosi, portando lo spettatore ad arrovellarsi il cervello per indovinare il colpevole e soprattutto, cosa spinga l’omicida a commettere tali delitti. Il duo comincia quindi un’intricata caccia all’assassino, portandoli ad affrontare insieme i propri drammi personali e la perenne sensazione di essere costantemente emarginati da tutto e tutti.

                             

(Trailer italiano di The Pale Blue Eye – I Delitti di West Point)

Edgar Allan Poe può bastare a salvare tutto?

Il film si presenta con l’intenzione di essere un giallo intellettuale (a tratti ci riesce pure) dai toni noir, con ambientazioni gotiche e dai tratti più psicologici che visivi.

Il primo, alla base di tutto, è un grande e grosso, oserei dire gigantesco problema.

Ovviamente, il problema, è lo stesso Edgar Allan Poe (ormai infilato ovunque a caso, basti vedere la recente serie Mercoledì): la presenza del leggendario scrittore, porta a scemare ogni tensione sul suo destino, sgonfiando, e di non di poco, il potenziale lato thriller della vicenda che, come ogni film degno di questo genere, dovrebbe portare lo spettatore a viverlo tra stati di tensione, angoscia e paranoia. L’effetto finale della presenza del personaggio di Poe riduce la pellicola a mero giochino intellettuale, all’interpretazione degli indizi attraverso lunghi e barbosissimi dialoghi tra lui e Landor.

Il secondo problema è presentato dall’intreccio narrativo scialbo e meccanico (molto lontano dai film d’eccellenza come La vera storia di Jack Lo Squartatore – From Hell del 2001 diretto dai fratelli Hughes), che non concede nemmeno il tempo per approfondire emotivamente altri personaggi oltre i due protagonisti che, anche loro, restano come appena sommersi nelle profondità della psiche.

August Landor (Christian Bale e Edgar Allan Poe (Harry Melling) in una scena del film. Distribuzione: Netflix

Tra regista atipico e cast stellare

Il film vede il ritorno di una coppia scoppiettante Scott Cooper e Christian Bale, che già avevano lavorato insieme con il western Hostiles e il thriller Il Fuoco della vendetta.

Cooper è uno dei registi più atipici del panorama moderno, da sempre interessato a parlarci della lotta dell’individuo contro sé stesso, in una produzione dominata dalla sensazione di isolamento, del tutto scevra da ogni ottimismo ma soprattutto una visione della società come dittatura della ferocia e della prepotenza.

Christian Bale si dimostra uno degli attori più versatili, passando nella sua lunga carriera da personaggi dalla personalità e dalla psiche turbata (come in American Psyco e L’uomo senza sonno) a diventare l’eroe di cui Gotham ha bisogno (la trilogia di Batman di C. Nolan). Anche in questo film nulla da dire, con Bale si va sul sicuro.

Vera rivelazione è Harry Melling (il cugino Dudley di Harry Potter per capirci) che dà il volto a Edgar Allan Poe e lo fa bene, incarnando gli albori dell’inquietudine che saranno il motore della produzione di Poe.

Il resto del cast è ricchissimo e soprattutto affollato, con gente del calibro di Gillian AndersonCharlotte Gainsbourg o Toby Jones che devono sgomitare per farsi notare.

Spettacolare è la fotografia di Masanobu Takayanagi, ben curata dal punto di vista estetico attraverso una rievocazione storica di un certo spessore, ma anche elegante e forte, che tende a valorizzare l’intima regia di Cooper.

Conclusioni

Più che di un thriller vero e proprio, The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, si presenta come un divertissement quasi letterario, che a tratti funziona e a tratti no. Stupefacente la fotografia, l’interpretazione magistrale degli attori, nonostante questo, il  film possiede tutti i difetti di un film fatto per le piattaforme.

Lodevole l’idea di voler omaggiare uno dei più grandi scrittori della storia come Edgar Allan Poe, ma allo stesso tempo bisogna fare i conti con la grandezza dell’omaggiato in questione e non ridurlo all’ennesimo “investigatore del mistero” come ultimamente piace a Netflix.

 

Gaetano Aspa

The Fabelmans: il film testamento della vita di Steven Spielberg

Un film che pone in risalto la maturità artistica e umana del grande cineasta. – Voto UVM: 5/5

 

Parlare di Steven Spielberg non sembra quasi mai un’operazione semplice, specialmente se pensiamo al vissuto e alla carriera del regista. Eppure, dopo aver realizzato una serie di successi strepitosi, — per citarne alcuni Lo Squalo, E.T. l’extra terrestre, Jurassic Park, Schindler’s List (premi Oscar alla miglior regia e miglior film 1994) e molti altri, tra cui la saga su Indiana Jones, — il grande cineasta ritorna con The Fabelmans, un film capolavoro che parrebbe essere una sorta di testamento artistico oltre che introspettivo. Per la prima volta Spielberg decide di mettersi a nudo, raccontando la storia della sua vita dal punto di vista familiare.

Trama

Spielberg
Sammy Fabelman in una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

La pellicola inizia con la visione al cinema del film di John Ford, Il più grande spettacolo del mondo (1952, il primo che il regista abbia mai visto in vita sua) assieme ai suoi genitori (Paul Dano nei panni del padre Burt e Michelle Williams nei panni di Mitzi). Lo sguardo del bambino, inoltre, sembra ricordare quello del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.

I film sono sogni che non dimenticherai mai.

Dopo la visione, Sammy resta folgorato dalla potenza evocatrice delle immagini e la madre, rimasta estasiata da ciò, decide di fargli usare la macchina da presa del padre. Naturalmente Sammy inizia ad usarla sempre insieme alle sue sorelle, finché divenuto grande non ne ottiene una tutta per sé (Bolex H8, doppia 8mm) con cui gira dei cortometraggi prettamente western insieme ai suoi amici. Un aspetto molto importante è la rappresentazione di come Sammy pulisce e taglia le pellicole per ottenere degli effetti speciali, quasi a voler ricordare che la tecnica è un dettaglio da non sottovalutare mai per la riuscita di un film.

Il film prosegue mettendo in evidenza anche il rapporto complicato con il padre, il quale inizialmente non vuole che Sammy faccia di questa passione un lavoro. Probabilmente, questo pensiero è dovuto al clima altalenante dell’epoca (fine anni ’50, inizio anni ’60), in cui la domanda di lavoro non soddisfaceva a pieno le esigenze di determinati nuclei familiari. Sammy comunque non si abbatte e prosegue per la sua strada, nonostante la morte della madre che provocherà un forte scossone all’interno della famiglia (una scena importante è nella seconda parte del film, rappresentata servendosi di un climax discendente). Per non parlare delle discriminazioni razziali (il protagonista così come lo stesso regista, è di origini ebraiche) che Sammy subirà a scuola, una volta approdato in Arizona.

Tra autorialità e filosofia del cinema

Spielberg
Una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

L’arte ti darà corone nella testa e aria nel cielo, ma ti strapperà il cuore.

Il percorso di crescita del protagonista ci porta a vedere due lati della stessa medaglia, ovvero la concezione del cinema come mezzo in grado di canalizzare i propri sogni, ma anche la potenza di un medium in grado di manipolare la realtà a proprio piacimento. L’attenzione incredibile di Spielberg verso gli strumenti del suo futuro mestiere, come citato in precedenza, è una toccante dichiarazione d’amore verso il grande schermo, quasi commovente per la sua limpidezza e sincerità. In ogni scena traspare la forza dirompente della passione del Maestro; quella che gli ha permesso in oltre cinquant’anni di carriera di creare pellicole di grande spessore, assurte a veri e propri culti. La natura della storia, inoltre, permette a chiunque di relazionarvisi senza scadere nella banalità poiché, grazie allo sviluppo perfetto dei caratteri dei personaggi, possiamo ritrovare il significato della vita intesa come una sfida continua, con l’invito a non arrendersi mai.

Questo aspetto, infatti, è messo a fuoco negli ultimi minuti della pellicola, rappresentanti una forte lezione per i giovani autori: quello che conta, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, come suggerisce John Ford (interpretato da David Lynch, davvero!):

Quando l’orizzonte si trova in basso è interessante, quando si trova in cima è interessante, quando si trova in mezzo è una merda noiosa.

Questo sta a significare che solo l’occhio dell’artista, di chi sa guardare davvero oltre, è in grado di donare quell’aura di unicità al film. Qui risiede il segreto dell’arte cinematografica e Spielberg, non poteva spiegarcelo meglio di così.

 

Federico Ferrara

Avatar: The Way of Water, a repeat of the first movie?

 

Spectacular rehash of the first instalment of the Avatar saga – Vote UVM: 3/5

“Avatar: The Way of Water” is the long-awaited sequel to the 2009 blockbuster hit “Avatar” by James Cameron. While it is just as spectacular as the first movie, if not, even more, its plot is a rehash of the first film and lacks character development.

From “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

Same plot, different characters

I was quite sad to realise that the main plot of the movie was a rehash of the first film, which can be condensed into “(most) Humans bad, Na’vi good”.

The movie opens with a summary of what happened to Pandora more than a decade after the humans were repelled from the planet. We see that Jake is the leader of the Omaticaya, and he has created a family with Neytiri. They are raising two sons, and two daughters, one of which was adopted, and a human child, Spider, who was left by the humans on Pandora since he could not be transported back to earth via cryostasis, due to his young age. He is the son of Colonel Miles Quaritch.
The humans have once again invaded Pandora, and an avatar with Colonel Quaritch’s memories has been sent to hunt down and kill Jake Sully.

So we see the military once again hunting down Jake Sully, but also his family, and when Quaritch manages to capture Spider, Jake decides that to protect the Omaticaya they have to leave their village and head east to the Metkayina reef people clan, who choose to shelter them.
The daughter of the clan leader of the Metkayina, Tsireya, is now given instructions to teach the Sully family, and here we see the family learning, just like Jake did in the first movie.

Kiri nei regni dell'acqua; fonte: 20th Century Studios, Walt Disney studios
From film “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

 

Kiri, an interesting character and a missed opportunity
One of the most interesting characters in the film is Kiri, Jake and Neytiri’s daughter who is biologically Doctor Grace Augustine’s daughter, and was weirdly born after the doctor’s “cerebral” death, from her inert avatar. There is quite a bit of mystery surrounding her, she has a particularly profound relationship with Eywa, the deity of Pandora that connects every living being but also connects the Na’vi to their ancestors.
There are a few scenes in the movie that focus on her, showing us her deep spirituality and her longing to find out more about her biological parents. Her character could have been made the centre of the movie, this way we could have found out more about the world of Pandora, Eywa and the Na’vi. Instead, we only got a few scenes of her inexplicably using some weird powers that no one else seems to have.

From “Avatar: The Way of Water” . Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

The Metkayina

The Metkayina are deeply inspired by the Polynesian culture, in particular by the Māori.
We see this in the case of the clan chief Tonowari, with his face being tattooed in a way that looks like a tā moko (the tattoo traditionally practised by the Māori). We also see it when the clan rallies up to fight and the people perform a sort of pūkana, a facial expression that the Maori use to symbolize ferocity and passion during the performance of the haka, a ceremonial performance art.

It is fascinating to notice how different they are from the Omaticaya, the forest Na’vi, in their anatomy, having a body made to swim, in their language, having a sign language for underwater, and in general the slight variations in all of their customs.

Spectacular but not entertaining

Sadly the attention and care that was given to the overall design and background were not given to the plot and characters’ development, the characters don’t grow throughout the movie, even after their life has completely changed.
In general, the movie had spectacular cinematography, decent acting and amazing special effects, but it should have been condensed into a shorter runtime, as the story does not justify the film’s length.

Elena Succi

Del Toro dona la vita a Pinocchio

Un film eccezionale che rinarra Collodi attraverso la psiche di Del Toro – Voto UVM: 4/5

 

Del Toro ci regala un altro grande pezzo di cinematografia col suo Pinocchio. Non si tratta di una semplice trasposizione del classico di Collodi, bensì – come vedremo – di un totale rifacimento della storia.

Il regista dei recenti Nightmare Alley e de La forma dell’acqua ci regala un racconto molto più crudo di quello a cui ormai siamo abituati, anche per via delle libertà che la Disney si prese decenni fa nel suo film. Ed in questo è un film di Del Toro in tutto e per tutto: per sua stessa ammissione, infatti, la pellicola non si è limitata ad un semplice riadattamento ma a narrare una storia profondamente diversa che risonasse con l’intimo del regista.

                                                                                                 

Burattini che prendono vita

Ciò che più di ogni altra cosa in questo film traspare è la crudezza. Ogni personaggio riesce ad esprimere una varietà di emozioni enorme, soprattutto per un film in stop-motion.

Uno degli aspetti più interessanti da analizzare è proprio questo: riuscire a trasmettere la stessa mimica di un attore tramite un “burattino” da manovrare fotogramma per fotogramma è un’impresa quasi impossibile, e questo film riesce ad essere uno degli esempi migliori sotto quest’aspetto.

Pinocchio sullo sfondo di un paesino sulle montagne liguri. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

La pellicola è stata girata con in mente l’imprecisione: sia quella dei movimenti umani sia quella di un’animazione “fatta a mano”. Ogni personaggio ha qualche imperfezione che lo caratterizza, ma che soprattutto riesce a spiccare sullo schermo. Gli occhi sono forse la parte che risalta di più in questa animazione ed è qui che il legame col live action si sente maggiormente. Il regista ha trasposto la sua esperienza con gli attori in questo nuovo lavoro, portando ad un nuovo estremo le possibilità della stop-motion.

Geppetto. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Anche la regia risulta ben studiata e chiarissima nell’esposizione. Il film trasuda da ogni frame il famoso stile di Del Toro, cupo ma colorato. Se consideriamo la tecnica utilizzata, il numero e la varietà di inquadrature risultano ancora più strabiliante. La camera inquadra benissimo ogni personaggio e i set sono costruiti ad hoc per permettere ciò, con un realismo ed una cura maniacale.

Il nuovo Pinocchio

La trama è forse l’elemento più controverso del film. Ricorda molto le altre produzioni di Del Toro con una grande enfasi sull’onirico nella prima parte e un ritorno al reale verso metà della pellicola. È una cifra stilistica che torna anche qui, arricchendo la storia di Collodi di un sottotesto storico e politico. Ciò si ricollega in maniera perfetta alla metafora narrativa generale della trama: il legame tra la vita e la morte ed il nostro vivere nella coscienza di entrambe.
In questo modifica anche parecchio la storia originale – come già detto – ma il tutto risulta una narrazione interessante. La nascita di Pinocchio deve tutto al mostro di Frankestein: Geppetto è un falegname poverissimo caduto nell’alcol e interi personaggi vengono eliminati ( Fata Turchina, Mangiafuoco), altri vengono aggiunti. Il tutto risulta all’inizio straniante, ma ci si abitua presto a vedere sotto una nuova luce questa storia, che Del Toro è riuscito a fare sua in tutto e per tutto, modernizzando anche aspetti del romanzo che oggi avrebbero stonato con la nostra coscienza moderna.

Volpe, il nuovo proprietario del circo, a destra il Mangiafuoco “scartato”. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Le uniche recriminazioni che facciamo alla pellicola sono da imputare alla parte finale. Alcune scelte sembrano derivate da una fretta produttiva che elimina per parte del film alcuni dei personaggi più interessanti, mentre altri su cui riponevamo aspettative vengono lasciati in secondo piano.

Tutte le dinamiche delle scene finali non ci sono sembrate convincenti assieme all’utilizzo di una computer grafica scadente.

Conclusioni

Detto questo, il film risulta essere forse la cosa più lontana in tutto e per tutto dal romanzo originale, ma che in esso affonda le radici del suo spirito. Uno spirito che traspare anche dai vicoli dei vecchi paesini italiani, dalla loro povertà e dai loro modi di fare.

È una storia che parla di morte e del saper vivere assieme e che lo fa con un tatto che solo Del Toro sa trasmettere.

 

Matteo Mangano

Esterno Notte: la morte che cambiò l’Italia

Nell’era in cui non tolleriamo gli spoiler, la serie tv di Bellocchio tiene incollato lo spettatore davanti ad una storia di cui tutti conosciamo il triste finale. Un capolavoro senza eguali – Voto UVM: 5/5

 

Era la mattina del 9 Maggio del 1978 a Roma. Le macchine sfrecciavano per le vie della Città Eterna, i bambini e i ragazzi correvano a scuola sfidando il tempo per non arrivare in ritardo, nei bar si sentiva il profumo del caffè e dei cornetti caldi, una giornata come le altre. In una delle innumerevoli vie della città, era parcheggiata una Renault 4 rossa targata Roma N57686. Nel cofano di quella macchina c’era il corpo dell’onorevole Aldo Moro. La sua salma fu estratta dagli artificieri: era ripiegato e irrigidito, presentava i tipici segni della morte. Fu trovato con un abito scuro, lo stesso del rapimento, ma macchiato di sangue. Da quel momento in poi la monotonia di Roma fu spezzata: scoppiò il caos.

Non tutti conoscono bene questa storia. La serie Esterno Notte, firmata dal regista Marco Bellocchio, ha riacceso l’attenzione su un caso che dovrebbe essere studiato sui libri di scuola, una pagina della nostra storia che non dev’essere dimenticata.

Esterno Notte (2022)

Marco Bellocchio riporta Aldo Moro in tv, in modo prepotente, ci fa vedere quella politica nascosta e marcia che ha lasciato un uomo alla deriva, ci porta indietro nel tempo, nel 1978, l’anno che rivoluzionò l’Italia: il delitto Moro, i tre Papi, l’economia in ripresa, la graduale ascesa dell’Europa. Un decennio noto come gli “anni di piombo”: lotte popolari, e terrorismo. Tutti combattevano per un ideale, chi con la disobbedienza civile e chi con le armi. Anche lui, Aldo Moro, voleva porre un cambiamento, ma fu uno di quelli che per le sue idee e azioni fu strappato alla vita.

La serie si apre su uno scenario di disordini provocati dagli estremisti, che portano distruzione nelle strade romane, si incamminano infuriati sotto la sede centrale di Democrazia Cristiana. All’interno c’è Aldo Moro. Ma i nemici dell’onorevole non sono solo fuori, ma anche all’interno dell’edificio.

Fonte: the vision
 Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

La regia di Bellocchio è spettacolare nel mettere in mostra questo scenario apocalittico. Le scene rispecchiano alla perfezione i sentimenti e la sensazioni che tutti provarono per il delitto di Moro. Guardando le immagini ci chiediamo come sia potuto succedere tutto ciò.

Tre appuntamenti per tre serate: la prima parte è narrata dal punto di vista dei membri della DC, la seconda dalle brigate rosse, e la terza dalla famiglia di Aldo Moro. Una trinità: tutti messi di fronte al dramma personale e collettivo.

Una delle immagini più potenti e tristi dell’intero film, è quella di Moro che impersona Gesù. Abbandonato, lasciato solo con la croce, mentre i suoi colleghi della Democrazia Cristiana lo osservano soddisfatti e nei loro sguardi prende forma un sorriso nascosto. Nessuno fa niente per aiutarlo, rimangono inermi.

fonte: primo piano
Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Esterno Notte è una serie che fa male perché proviamo tenerezza -verso Aldo Moro – e rabbia: ci sentiamo privati di nuovo di un uomo che avrebbe potuto cambiare l’Italia. Bellocchio, regista tra gli altri de Il traditore, è riuscito un’altra volta a mettere a nudo i nostri sentimenti e l’Italia del ’78.

Un Aldo Moro inedito

Un cast spettacolare, che ha reso il lungometraggio memorabile. Gli attori sono già noti al pubblico. Abbiamo Toni Servillo nel ruolo di Paolo VI: il suo è un lavoro sublime.  Margherita Buy, interpreta Eleonora Moro, la moglie del martire, uno splendido e magnifico Fausto Russo Alessi nei panni di Francesco Cossiga, Daniela Marra in quelli di Adriana Faranda, l’ex brigatista italiana, e Davide Mancini nel ruolo di Mario Moretti, un ex brigatista. Last but not least, Aldo Moro interpretato da un Fabrizio Gifuni, che è riuscito a farci provare dolore verso un uomo abbandonato.

Fabrizio Gifuni (Aldo Moro) in una scena del film. Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Quello di Gifuni è un Moro inedito, lontano dalla flemma tipicamente democristiana, un po’ incazzato con un sistema che lo lascia solo e lo condanna ingiustamente a morte. Tuttavia ci sbagliamo se pensiamo che questa è una serie su Moro: è una serie invece in cui si sente la sua assenza, un’assenza che pesa su un’ Italia che – a parte pochissime eccezioni – non ha conosciuto più nella propria classe politica uomini della stessa statura morale.

Verità storica o libera interpretazione?

Dalle accuse della figlia Maria Fida alle proteste di qualche parlamentare, tante sono state le critiche suscitate dalla serie, che presenterebbe effettivamente in più punti inesattezze storiche. Se Esterno Notte suscita così tante polemiche per la sua rielaborazione un po’ troppo “libera” di un fatto realmente accaduto, è perché va a stuzzicare una ferita ancora aperta nella coscienza collettiva degli italiani. Ma possiamo pretendere verità storica dal cinema o da una serie tv? Spesso l’arte, soprattutto quella con la A maiuscola- e di Arte  con la A maiuscola si tratta in questo caso – “piega” la realtà ai suoi fini espressivi. Non confondiamo Esterno Notte con un documentario, è piuttosto un’opera cinematografica. Lo stesso regista ci avverte:

«Per chi volesse una verità storica, non sono io la persona adatta»

Bellocchio ha torto. In Esterno Notte tuttavia la storia c’è e parla ancora a un presente che chiede giustizia di fronte a un mistero, di fronte a quel corpo di Moro nel cofano della Renault rossa, l’agnello immolato sull’altare dell’ideologia e della ragion di Stato.

Fonte: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma, Lucky Red

Perché verità storica non è solo un’istantanea che ricalca in maniera esatta il mero fatto, ma anche interpretazione del passato alla luce di ciò che viene dopo, nell’ottica delle conseguenze di un evento tragico che ha cambiato per sempre le sorti della politica italiana.

Allora ben venga la condanna di una classe politica inetta che ha fatto del suo Presidente di partito un martire, perché così è avvenuto nella retorica successiva a quei giorni terribili. Ben venga il ritratto di un Governo che si è reso complice anche solo col silenzio inerte di un atto terroristico perché, come diceva Pasolini, «il peccato non è fare il male, ma non fare il bene».

Il tassello mancante nella storia di Aldo Moro

Troppo indulgente con i terroristi o con altre forze implicate nel rapimento? No. Quella di Bellocchio è un’interpretazione: in quanto tale ritaglia solo un pezzo di una realtà complessa quale quella del caso Moro. Qui il focus si sposta soprattutto sui compagni di partito, ma la serie va letta come completamento di quel Buongiorno, notte del 2003 che si svolgeva invece nello spazio asfittico dei terroristi che guardavano il proprio ostaggio dallo spioncino.

“Buongiorno, notte”(2003), regia di Marco Bellocchio. Qui la storia è raccontata dal punto di vista dei terroristi, dipinti da Bellocchio in maniera tutt’altro che indulgente

Se nel film del 2003, il terrore negli occhi di Chiara ( Maya Sansa), la terrorista “pentita”, la coscienza risvegliata delle BR, era un grido sublime sulle note dei Pink Floyd, qui il sublime non c’è.

Tutta la vicenda assume invece i contorni del grottesco (soprattutto in personaggi come Cossiga), dell’assurdo, del kafkiano. Il presidente della DC è effettivamente processato e condannato dalle BR per una colpa incomprensibile. Davanti a questo teatro dell’insensato si rivolta lo stesso Moro nella sua bellissima confessione col sacerdote accorso per somministragli i sacramenti poco prima della fine.

Ma asfittica come il film è anche l’atmosfera della serie, non negli spazi ma nei tempi: lo spettatore è posto sempre davanti allo stesso angosciante spettacolo, ma ripreso da prospettive diverse. La tragedia di Via Fani è vista ora dagli occhi dello stesso Moro, ora del Ministro degli Interni, ora del Papa e via dicendo. Qualcuno disse che l’inferno dev’essere un posto in cui ogni cosa incessabilmente si ripete: la stessa sensazione di impotenza “infernale” ci pervade quando guardiamo Esterno Notte.

Le diverse prospettive convergono nel punto di fuga dell’ultimo episodio, La fine, in cui avviene il tragico epilogo che tutti conosciamo. Ma manca ancora un tassello, un’altra voce narrante. Davanti al corpo di Moro che suscita pietas viene chiamato in causa un altro punto di vista: quello di ognuno di noi.

 

Alessia Orsa

Angelica Rocca

 

Black Panther: Wakanda Forever, più di un nuovo inizio

Tanta carne al fuoco difficile da gestire. Forse meno contenuti avrebbero fatto bene per la riuscita finale – Voto UVM: 3/5

 

La scelta della produzione di continuare la saga di Black Panther senza l’interprete del re T’Challa, Chadwick Boseman, ha destato molta curiosità e qualche perplessità fra il pubblico. Apparso già in Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame, l’attore conquistò i cuori di molti fans. Ricordiamo che la prima pellicola sulla Pantera Nera accolse molte critiche positive, tanto da accaparrarsi ben tre Oscar nel 2019 e molti altri riconoscimenti importanti. Ci siamo trovati, quindi, al primo sequel sul supereroe wakandiano senza l’eroe stesso. Come si sarà giocato le sue carte il regista e sceneggiatore Ryan Coogler per non perdere la fiducia dei suoi fan?

Black Panther
Frame dal trailer “Black Panther: Wakanda Forever”. Fonte: Marvel Entertainment.

Black Panther: e prima venne il lutto…

Le prime scene sono di quanto più feroce: la scomparsa improvvisa di T’Challa scuote le vite della sorella Shuri (Letitia Wright) e della madre Ramonda (Angela Bassett) che incapaci si trovano ad assistere alla sua dipartita. Durante la celebrazione, in tutto il suo sfarzo, gli abiti bianchi sostituiscono quelli neri a cui siamo abituati e i balli si contrappongano ai canti misericordiosi tipici della religione cristiana.

Alla fine della cerimonia la scena ci catapulta a 9 mesi più tardi, dove le superstiti reali del popolo wakandiano si ritrovano a fronteggiare il mondo intero. Nel precedente film il re T’Challa aveva dichiarato che la città di Wakanda avrebbe aperto le sue porte a tutto il popolo terrestre, andando contro gli ideali conservatori dei suoi antenati e in particolar modo di suo padre T’Chaca. Mettendo così le risorse del suo popolo sotto il mirino delle super potenze mondiali.

Black Panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Girl power reale in Black Panther

L’eredità di T’Challa passa ai superstiti della famiglia reale, ovvero le donne, che hanno sempre affiancato in vita l’eroe caduto. Shuri e la regina Ramonda dovranno fare i conti con le potenze mondiali che faranno di tutto per ottenere il preziosissimo vibranio. Una risorsa talmente ricercata da far emergere dai mari un’antica civiltà che per proteggere il suo stato di quiete minaccerà i protettori di Wakanda. Una giovane scienziata, Riri Williams (Dominique Thorne), sarà il deterrente fra queste due civiltà fuori dal mondo conosciuto e si rivelerà essere un personaggio molto simile ad un genio, miliardario, playboy e filantropo che conosciamo bene. La nuova nazione, il popolo di Talokan, e il suo leader verranno descritti fin dalle loro origini con molta minuzia. Forse anche troppa. Come troppe sono state le parole spese per spiegare il motivo per cui i Talokiani vivono nei fondali marini.

Black Panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Come la vendetta muove tutto

Nel film vedremo come le idee tra Shuri e Ramonda siano diametralmente opposte. Da una parte la ragazza, che crede nell’evoluzione e nell’innovazione tecnologica, mentre dall’altra la regina Ramonda, molto più conservatrice. E proprio in mezzo a queste due linee di pensiero si inserisce Namor (Tenoch Huerta), il leader dei Talokiani, un reazionario personaggio pragmatico mosso dalla sola unica vendetta nei confronti dei paesi della superficie. Talmente astuto tenta di indurre alla vendetta anche Shuri utilizzando come tramite le avversità storiche e politiche, come nel ricordarci del colonialismo occidentale dei secoli scorsi. Non a caso l’incipit della pellicola vede coinvolte la Francia e gli U.S.A. per questioni di potere.

Lunga vita al re, ma non alla durata del film

Premesso che fare un film senza il suo protagonista non sarebbe stato facile, questo nuovo tassello dell’MCU si incastra prepotentemente in un grande puzzle che non trova più i suoi stessi confini. Commemorare la scomparsa dell’interprete di T’Challa, favorendo l’entrata in scena dei nuovi protagonisti ci è sembrata una buona mossa da parte degli autori. Eppure, la seconda metà della visione perde il grosso del suo climax iniziale, recuperato solamente nell’unica scena post credit.

Se molti spiegoni e alcune ridondanze fossero state fatte fuori dal minutaggio, una durata ridotta sarebbe stata più che gradita. Oseremmo dire che alcuni aspetti sulla civiltà di Talokan sarebbero stati un ottimo materiale per un film stand alone con un suo carattere e un suo scopo. In definitiva, potremmo dire che Black Panther: Wakanda Forever restituisce un’ottima commemorazione, una bella storia di rinascita e anche alcuni sprazzi di critica politica, se solo la carne al fuoco non fosse stata così tanta.

 

Salvatore Donato

Del Toro’s Cabinet of curiosities: un’occasione sprecata

“Cabinet of curiosities” raccoglie parecchi talenti mal gestiti dalla produzione. Il prodotto finale risulta essere alquanto scadente. Voto UVM: 1/5

 

La serie antologica di Del Toro uscita su Netflix il 25 Ottobre offre allo spettatore un Horror, che cerca di svecchiare storie classiche, tra le quali si trovano molti adattamenti da famosi racconti di fantascienza. Non riesce però a nostro avviso a soddisfare nemmeno parzialmente le aspettative, create nel pubblico dal nome di Del Toro già regista di ”Il labirinto del fauno”, ”La forma dell’acqua” e del recente ”Nightmare Alley” (da noi già recensito).

Si tratta a nostro avviso di un prodotto molto raffazzonato, vittima, come molte altre produzioni, della sindrome di Netflix: produrre produrre produrre a scapito della rifinitura… ma andiamo nel dettaglio!

Tentacoli e membra

Il contenuto chiave della serie è quello horrorifico: creature tentacolari, demoniache e bestiali, alcune riuscite meglio di altre, altre che invece ci hanno sorpreso solo per la loro povera messa in scena.

L’effettistica è sicuramente il tratto distintivo della produzione e sebbene l’impegno nel portare sullo schermo qualcosa che sorprenda lo spettatore ci sia stato, il risultato finale è alla meglio banale se non a tratti ridicolo: mettere i pantaloni di carne ai mostri o usare dei pupazzoni inermi non ci è sembrata una buona mossa insomma.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Ci sentiamo di dire che nonostante i creatori dell’effettistica avessero buone idee, forse queste non si sono davvero realizzate. Crediamo che parte di ciò sia dovuto alla cattiva gestione del budget da parte della produzione. È evidente (e lo continueremo a dire!) che la produzione di questa serie sia mal gestita e non mostri coesione tra sceneggiatura, regia, prove attoriali e grandi nomi presenti nel cast.

Sceneggiatori intelligenti che non si applicano: dov’è del Toro?

Trattandosi di un’antologia, le storie sono collegate tra loro dalla tematica “horror”, ma anche dall’insensatezza della trama e del comportamento della maggior parte dei personaggi. Plot twist casuali e situazioni al limite (se non oltre) del ridicolo ci hanno fatto – quasi – perdere la voglia di continuare la visione.

A volte si scade nel più becero politically correct, giustificando le azioni di protagonisti squilibrati, instabili e dannosi verso il prossimo. Spesso i protagonisti stessi ci vengono presentati come soggetti dalla mente instabile, ma il fatto che ogni personaggio riesca ad avere le stesse visioni di bestie e demoni, non rende davvero l’aspetto ansiogeno tipico dell’horror.

Insomma non riesce nemmeno a mirare minimamente gli obiettivi per i quali Del Toro ha assunto questo incarico e per il quale era diventato famoso. La sua presenza infatti non è pervenuta!

Performance caotiche e attori sbandati

Le performance attoriali e la regia vengono, anche queste come detto, minate da una produzione sconclusionata: le idee non sono state ben delineate dai vari registi e questo ha comportato delle prove attoriali caricaturali e “fumettistiche”. Smorfie e monoespressività si ripresentano in tutti gli episodi in maniera omogenea.  Sembra che tutto sia ricaduto addosso ad attori e registi dall’alto, tramite direttive che hanno imposto, grossolanamente, storie che, nonostante le idee, ripropongono una visione vuota e ritrita del genere.

Molte inquadrature rimangono ad un livello amatoriale e spesso molte scene presentano incongruenze grafiche molto pesanti che distolgono l’attenzione e suscitano ilarità – dove si dovrebbe invece provare inquietudine.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Raccogliamo i pezzi

Concludiamo allora dicendo che: la qualità complessiva è mediocre e spesso scende anche al di sotto della stessa mediocrità.

Non ci sentiamo di dare che pochi elogi a questa antologia e tra questi elenchiamo il design dei mostri e l’incipit di ogni puntata che mostra un’ispirazione assente nello sviluppo della storia. Di episodi dignitosi ce ne sono davvero pochi e anche quelli rimangono impressi per pochi dettagli scenici. Il salvabile non giustifica la visione e non ci sentiamo di consigliarla al pubblico verso cui è stata indirizzata. Quel pubblico era stato infatti chiamato alla visione per due motivi: da un lato il nome di Del Toro, non pervenuto all’interno degli episodi, e dall’altro quello di Lovecraft.

Usare il suo nome per farsi campagna pubblicitaria ingannevole mettendo solo i titoli dei suoi racconti senza adattare una virgola dei suoi testi non ci è sembrata una tattica onesta. Anzi proprio per le attese che questo nome ci suggeriva, siamo stati molto più annoiati e delusi dalla visione.

Salvatore Donato, Matteo Mangano