Drive-Away Dolls: le tante facce dell’America

Drive-Away Dolls è poco impegnativo, ma al tempo stesso intrattenente. Voto UVM: 4/5

Drive-Away Dolls è un film del 2024 diretto da Ethan Coen, che insieme al fratello Joel, ha vinto a suo tempo ben 4 Oscar. Nel cast spiccano i nomi di attrici emergenti nei ruoli principali, come Margaret Qualley, già presente in lungometraggi più rinomati come Povere creature! e C’era una volta a… Hollywood, Geraldine Viswanathan e Beanie Feldstein, ma anche quelli di personalità più famose al pubblico come Pedro Pascal, Matt Damon e Miley Cyrus, che con i loro personaggi compongono la cornice della trama e legano i pezzi di questa tra loro. La pellicola presenta una comicità surreale e a tratti pungente, dove si trattano non solo temi romantici e erotici, ma anche di spessore sociale.

Fonte: ew.com

Drive-Away Dolls: la trama

L’ambientazione dove si apre il film è la Philadelphia del 1999, dove la comunità queer in America è più in ascesa.

Nella primissima scena vediamo dei loschi individui uccidere un goffo personaggio (Pedro Pascal) e derubarlo di una valigetta, senza che ci vengano forniti ulteriori dettagli. Subito dopo viene presentata una delle due protagoniste: Jamie (Margaret Qualley) è una ragazza dallo spiccato accento texano che ama divertirsi e passare la notte con altre ragazze. Proprio per questo Sukie (Beanie Feldstein), la sua ragazza, la scarica e la caccia dal suo appartamento.

Jamie si ritrova così senza una fissa dimora, ospite dell’altra protagonista Marian (Geraldine Viswanathan), un’altra ragazza omosessuale che però è molto introversa e non ha una relazione da anni. Marian è in procinto di partire per Tallahassee, in Florida, per incontrare la zia e Jamie decide di accompagnarla. Per arrivarci, le due decidono di noleggiare un’auto, incominciando così un viaggio verso il profondo sud degli Stati Uniti, dove la mentalità è molto più conservatrice e tradizionalista.

Contemporaneamente tre criminali, che si dirigono per pura coincidenza a Tallahassee, vanno a ritirare una macchina, la stessa che si trova in mano alle protagoniste, ma che in realtà era destinata ai tre.

Jamie, sempre in cerca di avventure e di posti da visitare lungo la costa orientale, prende il viaggio come una gita, allungando il tragitto che doveva in realtà durare un giorno. Lungo le varie fermate, le due imparano pian piano a conoscersi sempre meglio, con Marian che fa fatica a uscire dal suo guscio. I tre scagnozzi hanno intanto iniziato a cercare la macchina, irrompendo a casa di Sukie che rivela loro l’identità di chi c’è alla guida. La macchina infatti nasconde al suo interno la valigetta della prima scena e un altro carico non ben specificato.

Le esperienze di Ethan Coen e le particolarità nel montaggio

Il regista viene da una carriera costruita fianco a fianco con il fratello Joel, con il quale ha vinto un Oscar nel 1998 per Fargo alla miglior sceneggiatura originale e altre tre statuette nel 2008 per Non è un paese per vecchi all’esordio per miglior film, oltre che per miglior regia e miglior sceneggiatura non originale. La stretta collaborazione che ha caratterizzato i loro film non è però presente in Drive-Away Dolls, dove Ethan Coen collabora con la moglie Tricia Cooke realizzando un film che non rappresenta l’apice della sua carriera, ma che sicuramente ha degli aspetti positivi.

Ethan Coen e la moglie Tricia Cooke al loro primo film insieme. Fonte: ciakmagazine.it

Lungo la pellicola appaiono flashback relativi al passato di Marian, mostrando il suo primo approccio all’omosessualità. Trip allucinogeni ripresi da Il Grande Lebowski spezzano il racconto colpendo lo spettatore, ma riescono ad ottenere un senso solamente verso la fine del film, risultando così un po’ sconnessi. Solamente una storia completa darà senso a queste scene, che sono anch’esse flashback.

L’unicità oltre gli stereotipi

La rappresentazione delle minoranze all’interno dell’opera è sicuramente un aspetto da menzionare, in quanto non sono più rappresentate da personaggi caratterizzati appositamente per quello e che cercano continuamente di emanciparsi, ma sono giustamente rappresentate come una semplice normalità che aiuta tantissimo lo spettatore ad entrarci in empatia.

La moltitudine di esperienze omosessuali che le protagoniste vivono e le varie sfaccettature della complessa e variegata società americana fanno capire come ognuno sia unico nel suo genere e ciò rende il film intrigante fino all’ultima scena, dove Jamie e Marian, dopo aver affrontato delle esperienze uniche che le hanno inevitabilmente legate, hanno capito di sentirsi a proprio agio l’una con l’altra e si dirigono insieme alla zia di Marian, abbiente donna di colore, in Massachusetts, dove il matrimonio tra donne è consentito.

Il film funziona oltre che per la sua velocità anche grazie alla presenza scenica di Margaret Qualley che riesce a rendere Jamie protagonista in ogni situazione. La Universal Pictures, per la distribuzione nei cinema, ha tristemente deciso di portare il film in Italia senza il doppiaggio nella lingua, ma aggiungendo solamente i sottotitoli. Questo però non lo rende un film non alla portata di tutti, anzi è perfetto per farsi quattro risate con gli amici senza momenti di noia totale.

Giuseppe Micari

Santocielo, che miracolo!

 

Ficarra e Picone tornano con Santocielo al cinema ancora una volta con la loro innegabile e bizzarra comicità -Voto UVM: 3/5

 

Salvatore Ficarra e Valentino Picone sono un duo comico, tra i più amati d’Italia, emerso nel 1993. La loro forza comica affonda le radici, non in campo televisivo, quanto più all’interno di pub e cabaret siciliani attraverso una formazione teatrale da autodidatti.

La loro fama è accresciuta con la partecipazione a programmi televisivi quali Zelig Circus e, in tempi più recenti, Striscia la notizia. Il loro primo film, Nati stanchi, uscì nelle sale nel 2001. Da allora, mostrarono, e tutt’oggi mostrano, una grande versatilità in vari ambiti artistici. Seguirono: La matassa, L’ora legale, il 7 e l’8 ed anche serie tv come Incastrati. Ora ritornano sul grande schermo con Santocielo!

 

Santocielo
 Valentino Picone in una scena del film. Fonte: siciliafan.it

Santocielo che inversione!

Dopo l’ultimo successo de La stranezza, Ficarra e Picone proseguono con l’uscita nelle sale cinematografiche, il 14 dicembre, del nuovo film intitolato Santocielo, dalla stravagante comicità, distribuito da Medusa Film e con la regia di Francesco Amato. Si tratta di una commedia natalizia adattata in accezione moderna dove tutto ruota intorno ad una questione riportata dagli angeli: l’egoismo e le azioni belliche da parte degli uomini. Per venire a capo ad una soluzione, gli angeli decidono di indurre una assemblea e proporre un sondaggio tra diluvio universale vs la nascita di un nuovo Messia. Con la vittoria della nuova venuta al mondo, verrà meno la portata decisionale di Dio, interpretato da Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo (Odio l’estate), evento mai accaduto prima.

Qui, per la prima volta, vedremo come figura principale Aristide (Valentino Picone) che si offrirà come volontario a questa missione per poter passare ad un livello più alto del semplice smistatore di preghiere dei fedeli. Il suo obiettivo, infatti, era arrivare al coro nel regno dei cieli.

Dio donerà ad Aristide una serie di poteri, in particolar modo, consacrerà la sua mano per poter ingravidare una donna e, in seguito la celebre frase: “vado ingravido e torno”, verrà catapultato nell’abisso terrestre. In questo luogo, ambientato a Catania e a lui sconosciuto, verrà a profilarsi un equivoco divino, dato dai vizi della società, che lo porterà a mettere incinto un uomo, Nicola Balistreri (Salvo Ficarra). Quest’ultimo è un maschilista sofferente per il divorzio dalla moglie che lo porta a scontrarsi con il rigidismo cattolico presente all’interno della scuola in cui ricopre la carica da vicepreside.

Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Santocielo: il potere della fede

Aristide cominciò a tener d’occhio gli sbalzi umorali di Nicola, dati dalla gravidanza, e nel frattempo si occupò di seguire un corso corale che pian piano lo porterà a legarsi ad una suora, Luisa, (Maria Chiara Giannetta). Ammaliata così tanto dalla fede emanata da Aristide, lo bacerà, mettendo in discussione inizialmente il suo percorso spirituale. Al tempo stesso, la notizia di uomo incinto cominciò a girare, costringendo Nicola e Aristide a rintanarsi in casa finché Suor Luisa non li aiutò a scappare nella ridente località di Montalbano Elicona dove risiedevano i suoi genitori. Qui trovarono un umile paese, indisposto a livello ospedaliero, ma pronto ad accoglierli e aiutarli. Al momento del parto però Nicola deciderà di non rinchiudersi nella vergogna e dare alla luce il nascituro in un ospedale pubblico.

Ma il nuovo Messia è una femmina

Ebbene, non ci saremmo mai aspettati che il nuovo Messia fosse in realtà una femmina. Aristide finalmente può, anche se a malincuore, tornare “lassù” al regno dei cieli e tutto improvvisamente prende forma nel momento in cui confessa alla suora la verità. Capisce, dunque, che il bacio con Aristide non era una perdita di spiritualità ma solo una maggiore attrazione ad essa. In sostanza, anche in questo caso assistiamo ad un rovesciamento dei canoni tradizionali in campo religioso: l’entrata di una donna Messia!

Santocielo
Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Uso dell’ironia dissacrante per rompere le barriere mentali

Santocielo si profila sicuramente come una commedia incentrata sul paradosso e lo stravagante, dal retrogusto amaro, ma che cerca fondamentalmente di abbattere i pregiudizi in primis sulla cristianità, senza fare la morale a nessuno. Al giorno d’oggi, la fede cristiana viene vista come una dottrina dominata da regole imprescindibili quando in realtà, come espliciterà Suor Luisa, la fede è uno strumento per sentirci meno soli dove non è importante se lassù qualcuno ci ascolta o meno. Parole che risuonano come incoraggiamento al senso di unione e comunità e di accettazione verso moderne regole. In conclusione, Santocielo inaugura un sentimento di una nuova speranza, soprattutto in questo tempo soggetto all’omologazione.

Stefy Saffioti

C’è ancora domani: il manifesto di un’emancipazione in bianco e nero

Paola Cortellesi torna in scena da regista con C’è ancora domani, esaltando ancora una volta la sua dote ironica – Voto UVM: 5/5

 

Paola Cortellesi è nata a Roma il 24 novembre 1973. Ha frequentato la Facoltà di Lettere ma la sua più grande passione è sempre stata la recitazione; pertanto, a diciannove anni inizia la sua carriera da artista.

Nel 1997 arriva il debutto in TV con il programma Macao. Seguiranno altre apparizioni televisive, come La posta del cuore (1998) e Teatro 18 (2000).

Il successo però arriva nel 2000, esordisce al cinema come protagonista femminile di Chiedimi se sono felice, con Aldo, Giovanni e Giacomo (odio l’estate), con cui collaborerà ancora in Tu la conosci Claudia? (2004). Nel 2004 la vedremo scendere la scalinata del Teatro dell’Ariston come presentatrice del Festival di Sanremo e ad aggiudicarsi il Premio Flaviano per il Teatro e la TV.

Come nasce l’idea di C’è ancora domani

C’è ancora domani è il film presentato in anteprima da Paola Cortellesi alla Festa del cinema di Roma 2023 vincendo tre riconoscimenti. Per la prima volta esordisce da regista e attrice al tempo stesso, la ritroviamo dunque come protagonista col nome di Delia.

L’idea nasce dai vecchi racconti di familiari delle sue nonne, bisnonne e zie, in particolare quella che è stata la loro giovinezza in un contesto storico in cui ancora son presenti le macerie del conflitto ma anche il forte desiderio di ricostruzione. Ambientato, dunque, nella Roma del dopoguerra, il film si presenta in bianco e in nero, scelta che richiama la sua infanzia, contrassegnata dal Neorealismo italiano, e data dall’immaginazione della stessa Cortellesi di questi reconditi ricordi.

C'è ancora domani
Fonte: foto di Romana Maggiora Vergano @Screenweek

 

C’è ancora domani: un racconto di un’Italia che non è passata

Il film si apre con una potente scena che ci fa già intravedere la tematica che verrà a sviscerarsi nel corso del film: la violenza domestica. Si parla di dramedy, ci si dota dell’ironia come antidoto alla brutalità dell’uomo, scelta dettata da un senso di profondità e di leggerezza.

Delia è una donna semplice, cresciuta nel culto di moglie dedita alla cura della casa e alla crescita dei figli ma soprattutto schiava e succube delle frustrazioni del marito, Ivano. Possiamo, fin dai primi secondi, notare che è una donna che inizia la sua giornata con uno schiaffo perché si è alzata troppo tardi, con sottofondo musicale: “Aprite le finestre“, evidenziando lo scorrimento della vita come nulla fosse.

La violenza da parte del marito Ivano (Valerio Mastandrea), padrone di questo regime patriarcale, viene ad essere giustificata dalla stessa Delia con la frase “sta nervoso, ha fatto due guerre”, simbolo di una manipolazione maschile che viene ad essere incitata anche dal suocero Sor Ottorino (Giorgio Colangeli). Si tratta di un uomo anziano che dà consigli al figlio su come addomesticare una donna che ha il “vizio” di parlare troppo.

Viene posto l’accento anche sulla figura della figlia, Marcella (Romana Maggiora Vergano), anch’essa vittima dell’obbedienza maschile e ad avere come unico obiettivo quello di accasarsi con un uomo ricco (e non alla sua volontà di studiare) per far sì che sia tutta la famiglia a beneficiarne. Ma sarà proprio lei a far acquistare la dignità di Donna alla madre.

Parliamo di una realtà ancora attuale, l’indifferenza e l’assenza di denuncia da parte dei vicini della porta accanto ma anche la solidarietà della condivisione del silenzio.

Delia: la presa di coraggio, la scelta del proprio benessere

A modificare questo insano stile di vita sarà l’arrivo inaspettato di una lettera a Delia, di cui non si conosce inizialmente il contenuto, ma presumiamo sia da parte del suo primo amore Nino che intende portarla via con sé al Nord. Se in un primo momento appare dubbiosa per la salvaguardia della figlia, successivamente decide di lasciare la famiglia e scegliere sé stessa. Prepara le sue cose in una borsa nascosta dal marito. Ma proprio quella mattina il suocero decide di morire. Delia si ritrova impossibilitata però non si arrende e col motto “c’è ancora domani” lascia un biglietto con dei soldi risparmiati alla figlia e va via.

Qualcosa però va storto, Ivano trova la lettera che è caduta dalla tasca di Delia e corre per raggiungerla. Nel frattempo, anche la figlia che ha compreso tutto, corre al soccorso della madre.

Fonte: instagram @rbcasting

2 giugno 1946: la libertà di poter cambiare un contesto (ancora) maschilista

Pensavamo fosse la lettera di Nino a cambiare il corso degli eventi, in realtà si trattava della scheda elettorale. Marcella riuscirà a raggiungerla e a porgerle il documento per poter votare. Infatti, il 2 giugno 1946 le donne hanno il diritto di scegliere tra Repubblica e Monarchia, manifesto di una emancipazione che ha acquistato finalmente un colore.

C’è ancora domani” porta a compimento una rivoluzione che venne a realizzarsi a bocca chiusa, così come cantava Daniele Silvestri nel 2013. Non ci resta che prender coscienza delle criticità (dis)umane e correggerle. Applaudire a questo capolavoro è un atto più che dovuto.

Stefy Saffioti

Killers Of The Flower Moon: Scorsese, DiCaprio e De Niro esplorano gli anni Venti

Killers of the flower moon è un film non perfetto e con una durata scoraggiante, ma che si merita una visione al cinema. – Voto UVM: 4/5

Killers Of The Flower Moon è un film del 2023 co-scritto e diretto da Martin Scorsese. Nel cast sono presenti Leonardo DiCaprio (Don’t look up), Robert DeNiro, Lily Gladstone, Jesse Plemons e Brendan Fraser (The whale). Il film è tratto dal romanzo “Gli Assassini Della Terra Rossa” scritto da David Grann e narra fatti realmente accaduti.

Killers of the flower moon: trama

Oklahoma, Anni 20. Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) ha combattuto in guerra e torna nella nativa Fairfax in cerca di fortuna. Suo zio William Hale (Robert DeNiro) gli ha promesso un lavoro all’interno della Nazione Indiana degli Osage, un popolo divenuto improvvisamente ricco grazie all’apparizione del petrolio in grosse quantità, nel loro territorio. Su consiglio dello zio, Ernest sposa Molly (Lily Gladstone), una donna nativo-americana. Inizialmente, lo fa per appropriarsi delle sue ricchezze ma poi col tempo, se ne innamora perdutamente.

Nella Nazione Indiana, gli Osage si stanno ammalando e successivamente, morendo uno dopo l’altro. Quelle morti sono strategiche e stanno avvenendo anche nella famiglia di Molly, mentre la cittadina di Fairfax è piena di disperati pronti a commettere omicidi, furti e rapine, sapendo che la legge è dalla loro parte e non a favore dei “pellerossa”.

Killers of the flower moon
Lily Galdstone e Leonardo Di Caprio in una scena del film. Fonte: wikipedia.org

Scorsese non si è smentito neanche stavolta?

O lo si ami o lo si odi, c’è poco da dire: Martin Scorsese sa fare il regista e nonostante l’età e il continuo attaccamento alle vecchie tradizioni, riesce ancora a stupire il pubblico.

Scorsese è quel regista appartenente alla vecchia guardia e ci tiene ancora a certe cose, come fare un film in cui si punti soprattutto sulla qualità e non sul guadagno. A differenza di quei registi che hanno come unico obiettivo il prodotto realizzato per scopi commerciale, lui è uno di quelli autoriali che non abbraccia la modernità e che considera cinema solo un genere particolare di film. Considerazioni piuttosto discutibili, perché in realtà qualunque genere di film (da quello autoriale ai blockbuster, dalla commedia all’animazione) fa parte della Settima Arte. Però allo stesso tempo, il suo pensiero contorto esprime anche il suo amore per il cinema e lo trasmette in tutti i film che fa.

Ha una lunga carriera alle spalle e basti pensare a film come Taxi Driver, Toro Scatenato, Shutter Island, The Wolf Of Wall Street, The Irishman e molti altri. Ora è ritornato con “Killers Of The Flower Moon” ed anche stavolta, ha mantenuto i suoi principi e il suo modus operandi.

 

Nolan/Scorsese: film per il pubblico o per i cinefili?

Non si nega che il film sia monumentale e si può considerare un film di Scorsese al 100%, ma lungi dal considerarlo perfetto. Ha delle similitudini con Oppenheimer di Christopher Nolan. Entrambi raccontano una storia che apparentemente può risultare poco interessante, ma ciò che incuriosisce è il modo in cui la raccontano. Hanno molti punti in comune, come l’eccessiva durata che può scoraggiare, la presenza di un cast corale e un comparto tecnico ben strutturato. Ma c’è una differenza: Nolan, nonostante l’attaccamento a certi principi, sa cosa vuole il pubblico e riesce ad adeguarsi ad esso pur mantenendoli; Scorsese, invece, punta esclusivamente sulla qualità e i suoi film attirano solo un certo tipo di pubblico, ovvero i cinefili o i fan degli attori che coinvolge (ad esempio, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro).

Lily Gladstone, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena del film. Fonte: nytimes.com

Top o flop dell’anno?

E’ un film che merita senza ombra di dubbio, una possibilità. L’eccessiva durata di tre ore e mezza può scoraggiare, ma in realtà non è quello il problema. Il difetto riscontrato sta proprio nella scarsa gestione del minutaggio prolungato ed alcuni momenti specifici della narrazione. Mentre si prosegue nella visione, si può notare che la visione del regista su tale vicenda mostrata sia piuttosto evidente, ma c’è un mancato approfondimento su certi elementi narrativi che non sarebbe dispiaciuto avere e per di più, la storia prosegue con un ritmo piuttosto galoppante che si percepisce in qualche scena.

Nonostante questi piccoli difetti riscontrati, questo non significa che il film non sia bello. Anzi, forse lo si può addirittura considerare tra i migliori di quest’anno. E’ un film che parla di odio e questo lo rende paradossale, perché nonostante questo film parli di odio è capace allo stesso tempo di fare ricordare perché si ama il cinema. Ma durante la visione, non si può non provare disgusto di fronte a questi eventi storici ed alla crudeltà umana in quel periodo. Scorsese ha voluto esporre la sua visione su ciò che viene fatta agli Osage ed è una critica feroce a quella vicenda.

 

Il comparto tecnico

Il comparto tecnico è ben strutturato: la regia di Scorsese è spettacolare. Le inquadrature sono a macchina da presa fissa e sono costruite geometricamente in modo sofisticato, rivelando poco a poco ciò che sta succedendo. Ciononostante, qualche volta si passa da una scena all’altra senza un curato approfondimento di alcuni dettagli narrativi. Tutto questo, accompagnato da una fotografia coloratissima e dall’incredibile presenza del cast corale.

killers of the flower moon
Leonardo Di Caprio e Lily Gladstone in una scena del film. Fonte: Vox.com

Killers of the flower moon: il cast

Quello che spicca più di tutti è Leonardo DiCaprio. Ormai sono lontani gli anni in cui veniva considerato solo un sex symbol ed ora il fanciullo di Titanic ha dato prova in tantissime occasioni di essere un attore completo e camaleontico, capace di adattarsi a qualsiasi ruolo. Killers Of The Flower Moon è la sesta collaborazione di Scorsese e di DiCaprio: il personaggio di Ernest Burkhart rispecchia totalmente la maturità dell’attore nel campo della recitazione.

Un altro attore che non è da meno qui è Robert DeNiro (altro storico collaboratore di Scorsese):  nonostante le liti e le tensioni con DiCaprio sul set, nel film si nota un ottima sinergia tra le due performance. Anche se loro due sono  le  più note stelle del cast, non significa che tutti gli altri siano da meno, come ad esempio, Lily Gladstone e Jesse Plemons. Un altro attore bravo, seppur abbia un ruolo ridotto, è Brendan Fraser.

Giorgio Maria Aloi

The Palace: che fine ha fatto il genio registico di Polański?

The Palace è satirico, ma tremendamente troppo. Voto UVM: 2/5

 

Presentato in anteprima alla 80° edizione della Mostra del cinema di Venezia, The Palace segna il ritorno (nonostante la veneranda età del regista, 90 anni) sul grande schermo di Roman Polański , a quattro anni di distanza da L’ufficiale e la spia.

Quando si legge il nome del celebre regista polacco, vengono in mente due cose: le vicende giudiziarie che ha dovuto affrontare (è noto per essere stato accusato di molestie sessuali), e alcune pellicole che hanno riscosso un grande successo (per citarne alcune: Il pianista, Oliver Twist e Carnage).

Quest’ultima fatica, invece, non ha ricevuto un’accoglienza granché positiva, giudicata come una commedia stucchevole e priva di morale.

The Palace: trama

Ambientato il 31 dicembre1999, al Palace Hotel di Gstaad, in Svizzera, il film segue le vicende di un eccentrico gruppo di personaggi durante il giorno che porterà, al rintocco della mezzanotte, all’inizio di un nuovo millennio. La narrazione trova il suo centro nel soggiorno del lussuoso hotel, dove la clientela arriva per passare appunto un ultimo dell’anno indimenticabile. Tra la paura del millennium bug tanto paventato dai media e le assurde e pedanti richieste, Hansueli (Oliver Masucci), il manager dell’hotel, cerca di rimediare costantemente ad una serie di inconvenienti, con la speranza che tutti gli ospiti della struttura possano passare la miglior serata della loro vita.

Per sfruttare la carica satirica della pellicola, il regista ha scelto un cast che, ad eccezione di Mickey Rourke (un po’ in affanno), non è molto noto nel cinema. Tuttavia, spicca il nome di Luca Barbareschi (in veste anche di produttore) nei panni di un ex attore molto goffo e rincretinito dalla convinzione di essere ancora ricordato per le sue performance attoriali, e altri nomi come Fanny Ardant e John Cleese.

The palace
Parte del cast

Estetica del ridiculousness

La quasi totalità dei protagonisti fa dell’eccesso e del ridicolo la loro ragion d’essere. Tra qualche volto di plastica e rimandi continui al consumismo sfrenato, il regista lancia una forte invettiva contro quel tipo di modello dominante di una cultura capitalistica che ha fatto dell’ossessione per la giovinezza, per il fisico e dell’apparenza omologata ai canoni glamour e sovversivi, l’ideologia dominante di una classe sociale considerata altolocata. Tuttavia, i personaggi vengono messi costantemente in ridicolo, forse forzando un po’ troppo la mano.

Una satira che non convince

The palace
Scena tratta dal film

Bisogna ammetterlo: fare satira al giorno d’oggi non è un’operazione semplice. Non semplicemente per via del ridondante politically correct, ma anche e soprattutto per la sua costruzione filmica. In questo film (e duole dirlo), l’umorismo anziché lasciare spazi di riflessione produce un vuoto dal quale sembra impossibile uscirne.

L’albergo trabocca di gente ricca elitaria, rappresentata in maniera eccessiva. Giocando con il grottesco, le situazioni risultano esasperate poiché vengono messi a tutti i vizi insensati, le paure inguaribili e le richieste quasi “odiose”.

Tutto mette in mostra la miseria borghese, ma a guardar bene, emerge una visione troppo morbida, a tratti davvero vetusta ed antiquata di un gruppo sociale “semplicemente” stupido che alla fine non fa poi tanto male a nessuno.

Ciò che manca a The Palace è probabilmente quella mordacità ben calibrata e soprattutto moralistica che da sempre caratterizza la black comedy. Nonostante qualche risata l’abbia strappata, non sembra che traspaia (neanche nelle scene vuote) una morale che lasci il segno, una possibilità di riflettere.

 

Federico Ferrara

Experience Zola: la vita è autentica o soltanto un gioco delle parti?

La sirenetta
Un film a cui ci si deve affidare per essere trasportati nel flusso tra reale e immaginario! Voto UVM – 4/5

È tutto francese il nuovo film di Gianluca Matarrese, Experience Zola. Presentato alle Giornate degli Autori 2023, il film sta girando in una tourneè per tutta Italia. E si dà il caso che sia proprio Messina una delle cinque città in cui, oltre alla possibilità di vedere il film, si è avuto anche il piacere di ospitare Anne Barbot, co-autrice e attrice protagonista del film, lo scorso 27 settembre presso la Multisala Iris.

Experience Zola: il cinema parla di teatro

È doveroso fare un accenno al background della protagonista e del regista, provenienti direttamente dal mondo teatraleExperience Zola è la storia di Anne, da poco divorziata dal marito, che incontra Ben, un attore senza alcun ruolo (Benoît Dallongeville). È questo l’incipit di una storia che apparentemente potrebbe definirsi una classica storia d’amore, ma non è solo questo. Dopo il tentativo vano di Ben di conquistare la donna,  Anne stessa finisce per affidargli il ruolo di Coupeau nel suo L’assomoir di Zola, rivestendo lei  il ruolo  di Gervaise, l’amata di Coupeau. Dopo questa scelta il labile confine tra realtà e finzione si sfuma sempre di più e la storia d’amore tra i due arriva a un apice massimo di splendore per poi collassare su se stessa.

Experience Zola
I due protagonisti del film: Anne Barbot e Benoît Dallongeville. Fonte: Bellota Films e Stemal Entertainment

“Nel mio caso la menzogna è parte della verità”

Il film non dichiara mai apertamente quali siano le scene in cui si è di fronte alla finzione scenica e quelle in cui invece si rappresenta la vita quotidiana, lasciando così che sia lo spettatore stesso a perdersi tra i livelli della storia. Si distinguono fino a quattro piani: la narrazione dello spettacolo e dei personaggi di Zola, la loro storia come attori e compagni di lavoro, la loro nascente storia d’amore e un quarto e ultimo livello che diventa metacinematografico. Sono numerosi i momenti in cui la protagonista sfonda la quarta parete, rivelando così la presenza di un filtro – l’occhio del regista – attraverso cui vediamo la storia.

Dove finisce la realtà e inizia la finzione?

A generare confusione e a far funzionare il salto tra i piani sono le numerose volte in cui, soprattutto durante le scene particolarmente tese, uno dei due attori esclama dal nulla “Stop!”. È a questo punto che lo spettatore inizia a dubitare di tutto, passando la durata del film a interrogarsi sulla veridicità delle scene che si susseguono.

La ricerca spasmodica dell’autenticità è però inutile perché il “labile confine” tra finzione e realtà porta i due protagonisti a far coincidere i piani e a fare aderire in maniera quasi assurda la loro realtà alla storia dell’ AssomoirSi innesta un meccanismo tutto teatrale per cui durante i giorni intensi di prove prima dello spettacolo l’unico argomento di conversazione diventa la messa in scena e si arriva a dubitare della propria stessa identità. Si precipita in un vortice in cui non si sa più se sia Anne a influenzare Gervaise o Gervaise a influenzare Anne.

La quarta parete cade giù, cadono le maschere

Verso la fine della pellicola il meccanismo con cui il film è stato girato viene rivelato. A parlare è direttamente il regista, Gianluca Matarrese, che fa un breve cameo e di cui si sente la voce tramite dei messaggi vocali. È il momento in cui la storia tra Anne e Ben è arrivata al capolinea; in quel momento lo spettatore si accorge che davvero il regista si è reso conto della storia d’amore tra i due solo dopo la confessione dell’attrice. La particolarità di Experience Zola, infatti, sta nel fatto che sia frutto di un vero e proprio workshop, in cui nessuno all’inizio del progetto sapeva come sarebbe finito il film. L’idea era soltanto di filmare il processo di preparazione del nuovo spettacolo di Anne, L’assomoir.

Experience Zola
Gianluca Matarrese, il regista di Experience Zola, in una delle scene del film. Fonte: Bellota Films e Stemal Entertainment

Si scopre che la prima parte del film, quella in cui i due protagonisti si conoscono e si innamorano, che dovrebbe essere la rappresentazione dell’autentica realtà, è stata girata quando i due non si amavano più e quindi è più finta dello stesso spettacolo.

Se da questa analisi il film è parso una montagna russa, è perché seppur la narrazione in se non si sviluppi con dei veri e propri colpi di scena, il film risulta tutt’altro che lineare. Di tutto questo cosa resta? Per rispondere alla domanda del titolo, resta soltanto la consapevolezza che a volte la realtà possa essere più artefatta della finzione

Giulia Cavallaro

Tao Film Fest 69: I Peggiori Giorni

 

I Peggiori Giorni
I peggiori giorni: il perfetto sequel con un cast eccezionale! – Voto UVM: 5/5

 

La settima serata del Taormina Film Festival 69 ha visto la proiezione del film I Peggiori Giorni (sequel de I Migliori Giorni), diretto da Edoardo Leo e Massimiliano Bruno.

La serata è stata molto importante per entrambi, in particolare per Leo poiché, la sera precedente, ha ricevuto il premio Tao Art per “il suo talento e la sua abilità come regista” come detto dalla presentatrice. Sul palco, è salito la metà del cast: citiamo infatti Fabrizio Bentivoglio, Rocco Papaleo, Anna Foglietti, Anna Ferzetti, Marco Bonini e Sara Baccarini.

Il film è di tipo corale e propone 4 episodi, anche se, a detta di Rocco Papaleo, l’idea è più una rivisitazione del genere. Ciascuno di essi, ha un blocco narrativo e un ambientazione diversa tra loro, ma il tema dominante è la rappresentazione di momenti difficili, trattati con un velo di ironia per non lasciare lo spettatore con troppo rammarico. La cosa più interessante del progetto è proprio l’intenzione di cambiare il tono della commedia, la quale sembra inserire un po’ di poesia intorno alla disperazione.

Risate dolceamare

Il primo episodio è incentrato sostanzialmente sul rapporto padre-figli. Infatti, i protagonisti, che sono per l’appunto tre fratelli (Edoardo Leo, Massimiliano Bruno e Anna Foglietta), si ritrovano, proprio il giorno di Natale, a dover discutere su chi debba donare un rene al proprio padre (Renato Carpentieri). Tra i vari temi che vengono a galla durante la vicenda, emerge quello dello smarrimento per l’incapacità di comprendere quale sia la decisione giusta da prendere, soprattutto se ciò riguarda i nostri cari.

Il secondo episodio è una chiara dimostrazione dello scarso sistema che circonda anche chi sembra essere sul gradino più alto della scala sociale. Stefano (Fabrizio Bentivoglio) è un imprenditore sull’orlo della bancarotta, e per questo decide di compiere l’estremo gesto, durante la giornata della festa dei lavoratori. D’un tratto, arriva Antonio (Giuseppe Battiston), con addosso una maschera di Che Guevara con l’intento di tagliarli un orecchio se non avesse ottenuto la liquidazione dovuta ad un precedente licenziamento. Il tema del lavoro, di per sé abbastanza delicato, trova in questo episodio un’applicazione fortemente evocativa poiché, confrontandosi e rinfacciandosi varie questioni, si rendono conto di non essere del tutto diversi.

Fabrizio Bentivoglio. ©Federico Ferrara 

I Peggiori giorni: i temi

Il terzo episodio, ambientato a ferragosto, è una chiara denuncia al cyberbullismo, il complicato rapporto tra genitore e figlio e la superficialità nell’affrontare determinati problemi. Due famiglie (una interpretata da Neri Marcorè e Anna Ferzetti, l’altra da Ricky Memphis e Claudia Pandolfi), si scontrano per via di un gesto spiacevole. I figli della seconda coppia, hanno divulgato via internet delle foto umilianti della figlia dell’altra coppia. Questo ha suscitato una forte rabbia, culminata negli schiaffi del padre nei confronti dei figli. La particolarità di questo episodio sono gli scambi di battute, che pongono sullo stesso piano sia la serietà, che l’ironia dei discorsi. Molto interessante la scelta di citare Alcesti, una delle tragedie di Euripide.

Il quarto e ultimo episodio è ambientato ad Halloween. Il protagonista (Rocco Papaleo), ogni anno in questo giorno soffre la scomparsa della moglie, riguardando i momenti belli del passato tramite dei video. La figlia (Sara Baccarini) fa di tutto per rinvigorirlo, cercando di fargli capire che per quanto possa essere difficile, si deve trovare la forza di andare avanti. Il finale è molto significativo, in quanto prevale l’idea che non sono i soldi a rendere bella una persona, bensì la sua forza d’animo.

Rocco Papaleo e Sara Baccarini. ©Federico Ferrara

Siamo davvero così cinici?

Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo. ©Federico Ferrara

Ciò che lega i quattro episodi è sicuramente una critica alla società di oggi, e al tempo stesso anche ai comportamenti sbagliati su cui, spesso e volentieri, dimentichiamo di soffermarci. La scelta di realizzare l’intero film in sequenza si è rivelata vincente perché, in questo modo, lo spettatore può immedesimarsi con il punto di vista di più personaggi.

In un’intervista, Edoardo Leo ha dichiarato:

L’idea di base era quella di raccontare gli italiani attraverso le feste comandate, i giorni che ognuno di noi, volente o nolente, è costretto a vivere.

Secondo noi ci sono riusciti benissimo! Rimane, però, una frase in una scena che ci ha colpito particolarmente sia per il significato, sia per il momento in cui è stata detta:

Aspetto che un meteorite colpisca il pianeta e stermini l’umanità!

A voi le considerazioni.

Asia Origlia
Federico Ferrara
Gabriele Galletta
Matteo Mangano

Tao Film Fest 69: Cattiva coscienza

“Cattiva coscienza”: emozionante ma non convincente. – Voto UVM: 3/5

 

La sesta serata del Taormina Film Fest 69 ha assistito all’anteprima mondiale del film Cattiva Coscienza (seguito precedentemente da Billie’s Magic World) diretto da Davide Minnella con la partecipazione di Francesco Scianna (protagonista di Baaria), Filippo Scicchitano (famoso per Bianca come il latte Rossa come il sangue) e Caterina Guzzanti (sorella minore di Sabina e Corrado Guzzanti).

Un film che può sembrare a primo impatto la classica rappresentazione di una storia d’amore, si rivela in realtà una piacevole sorpresa.

L’ago nel pagliaio, l’ago della bilancia

La pellicola si propone di raccontare quello che è l’incontro e lo scontro tra coscienze; cattive per via del contrasto tra razionalità e sentimento.
Filippo (Filippo Scicchitano) è un avvocato e lavora per il suocero, e che a breve dovrà sposarsi dopo una relazione lunga 7 anni. All’apparenza la sua vita sembra perfetta, lui incarna l’uomo ideale, pieno di valori ma in verità sembra che questo suo modo di essere lo renda infelice, facendolo sentire in trappola nella monotonia della vita di tutti i giorni.

Filippo Scicchitano. © Gabriele Galletta

Questo suo atteggiamento a dire il vero è frutto del lavoro di Otto (Francesco Scianna), voce della sua coscienza; quest’ultimo appartiene ad un mondo parallelo, il Mondo Altro. Qua hanno sede tutte le altre coscienze umane e proprio Otto e considerato un esempio per tutte le altre, per via dello stile di vita del suo protetto.
Un giorno per una svista di Otto, Filippo perde il controllo e si lascia dominare dal sentimento rischiando di mandare a monte il suo matrimonio. Sarà cura della coscienza sistemare le cose, ma capirà ben presto che l’equilibrio tra bene e male è difficile da bilanciare soprattutto quando si mette di mezzo l’amore.

Francesco Scianna. © Federico Ferrara

Stefano Sardo riesce a non far cadere nella banalità la sceneggiatura, nonostante la trama non richieda una certa complessità; utilizza magistralmente Eriberto (Alessandro Benvenuti), personaggio secondario, tuttavia importante, per sbloccare la trama in un momento complicato. Il montaggio di Sarah McTeigue appare interessante in un primo momento, poi diventa sconnesso, in particolar modo in una scena che ha luogo in discoteca. Le musiche di Michele Braga invece sono banali ma alla fine regalano qualche emozione inaspettata.

L’importanza del coraggio

Tra i vari insegnamenti da cogliere, c’è n’è uno forse più evidente, ovvero quello del coraggio; saper scegliere cosa è giusto per noi stessi e per gli altri, non reprimere le proprie passioni e in particolar modo con un dialogo che avviene verso la fine, la Coscienza Suprema (Drusilla Foer) sottolinea l’importanza del coraggio, quindi la forza d’animo che ci permette di essere umani. Finale che lascia però con l’amaro in bocca perché perde di credibilità per via del discorso precedente; sarebbe stato meglio un epilogo forse più aspro, in modo da rafforzare ciò che si presta di raccontare il film. Prendere in considerazione l’alternativa che sembra quella più triste per il pubblico non vuol dire che una storia non riesca bene nel suo intento.

In conclusione, Cattiva Coscienza è un film che ha sì delle pecche, ma nel complesso è molto riflessivo, probabilmente anche grazie alla bravura e alla naturalezza di Francesco Scianna che riesce a tenere in piedi l’intera pellicola:

“Al mondo non c’è coraggio e non c’è paura, ci sono solo coscienza e incoscienza. La coscienza è paura, l’incoscienza è coraggio.” – Alberto Moravia

 

Asia Origlia
Gabriele Galletta

Tao Film Fest 69: Billie’s Magic World

 

Billie’s Magic World: un film mediocre e dimenticabile. Voto UVM 2/5

 

La sesta serata del Taormina Film Festival 69 ha visto la proiezione di due film. Tra questi, vi era Billie’s Magic World, film in animazione diretto dal regista italiano Francesco Cinquemani (autore anche di La Rosa Velenosa e Andròn: The Black Labyrinth). Nel cast figurano i fratelli Alec e William Baldwin (per la prima volta insieme!), Valeria Marini, Elva Trill e altri. Il film, completamente diverso dal genere iniziale del regista, si concentra sulla visione fanciullesca di Billie (Mia McGovern Zaini), la protagonista, che si ritrova in un mondo magico e deve fronteggiare un manipolo di cattivi che vuole conquistare il mondo.

Billie’s Magic World: la trama

La protagonista si separa dal padre (Samuel Kay) improvvisamente poiché, viene rapita da Gregory (William Baldwin) e Florence (Elva Trill), che la portano nel castello di Lord Domino (Alec Baldwin) per imprigionarla nelle segrete. Il piano di Lord Domino è quello di conquistare il mondo, inondandolo di malumore e brutti pensieri. Billie, imprigionata in questo castello, dovrà trovare il modo per fuggire: le verrà in aiuto il suo pupazzo JP, il quale prenderà vita grazie a un trucco di magia adoperato dalla stessa bambina.

Tecnica mista…ma dove?

Billie’s Magic World presenta una serie di problemi. Il primo di cui vogliamo parlare è la tecnica d’animazione: informandoci su questo film, e parlandone con il regista, abbiamo saputo che questo è un film di animazione, girato in tecnica mista. Per intenderci, è una tecnica tramite la quale i personaggi, cioè gli attori in carne ed ossa, interagiscono con personaggi animati. Effettivamente una scena c’è, ma dura pochissimo e ci si scorda del fatto che Billie abbia interagito, nel mondo reale, con un personaggio animato. Infatti, questa è l’unica applicazione della tecnica mista in tutta la pellicola, e dura 10 secondi.

Successivamente, l’animazione continua tramite un semplice escamotage: i personaggi muovono le dita per aria, appare uno schermo e tutti quanti si siedono a guardare un episodio di un cartone animato. Ora, noi crediamo che questa scelta non sia stata soddisfacente, perché non restituisce la giusta empatia tra lo spettatore e ciò che vede sullo schermo. Questa impostazione, interrompe completamente il ritmo della narrazione (forse anche troppe volte).

Il montaggio, la regia e l’animazione

Il film presenta delle tecniche di montaggio abbastanza elementari e scarne, prive di guizzi creativi. Il regista ha detto che realizza pellicole per il pubblico americano. Ci chiediamo a questo punto cosa ne pensano davvero, perché non vi sono elementi tipici del montaggio americano (che sia classico o moderno). Nonostante sia un prodotto destinato a una fascia di pubblico giovanissimo, non significa che debba essere mediocre nel montaggio. Anzi, se c’è più creatività viene notato anche da chi non è esperto.

Francesco Cinquemani. ©Federico Ferrara

La regia, però, per quanto elementare ci è sembrata funzionale alla trama. Nessun guizzo particolare, ma la camera inquadrava sempre tutto ciò che serviva vedere.

Per quanto riguarda l’effettiva tecnica di animazione, utilizzata nei “corti” animati presenti a forza nel girato, crediamo che non abbia centrato il punto. Secondo noi, i personaggi erano animati in maniera troppo frenetica (per non dire isterica) ed erano completamente apatici, elemento che in un film per bambini non bisogna mai fare. Questo ha generato una grande confusione in noi, nel comprendere cosa stessero facendo effettivamente i personaggi. Se dovessimo riassumere in breve, diremmo che è un’animazione poco curata che trasmette molto poco,  soprattutto i più piccoli che sono proprio i diretti interessati.

La recitazione tra alti e bassi

La presenza dei fratelli Baldwin è dominante, anche se il regista ha voluto dare più spazio a William rispetto ad Alec. Quest’ultimo è certamente poco presente, ma è dovuto al suo ruolo di antagonista: la struttura narrativa di questo tipo di storia prevede che il cattivo, sia presente solo in scene chiave in cui ci sia anche la protagonista. Tuttavia, si sarebbe potuto optare per una presenza maggiore di Alec, scritturando attorno alla sua figura un personaggio minimamente fuori dagli schemi, per dargli maggior rilievo.

William Baldwin. ©Federico Ferrara

William supera abbondantemente la prova insieme a Elva, fornendo un’immagine concreta dei loro personaggi. Mia Zaini interpreta molto bene il ruolo di protagonista, e per noi è stata una grande rivelazione.
Altri, lasciano invece molto a desiderare: Orthensia (Valeria Marini) più che un personaggio di supporto, è piuttosto una comparsa messa lì per riempire il minutaggio. Sia lei, che il capo di lavoro del padre (fa più comparse ed è giusto così poiché è un personaggio secondario), non hanno un appeal convincente. Sembrano sconnessi da tutto il resto, sia del cast che della trama.

Valeria Marini. ©Federico Ferrara

Billie’s Magic World, ne vale la pena?

Billie’s Magic World, alla fine, è inconsistente. Le mascotte animate sembrano essere una serie di secondarie apparizioni, inserite soltanto a posteriori. 
La trama è troppo semplice, e manca completamente di una catarsi. Il cattivo non viene sconfitto, e di conseguenza i buoni non sembrano vincere sul male. Gli attori recitano bene (anche se non tutti), ma senza spiccare notevolmente.

Crediamo che si sarebbe potuto fare di meglio, ma le cose stanno così.

 

Federico Ferrara
Matteo Mangano

“Il sol dell’avvenire” di Moretti: rivoluzione che sa di testamento

Tra omaggi continui al cinema e una satira dolcemente incisiva, Moretti si supera ancora! Voto UVM – 5/5

 

Se pensate che solo dal titolo questo film sia per un determinato pubblico, vi invito a cambiare idea. Se pensate anche che Nanni Moretti sia divenuto un anziano regista trombone che non sa più cosa inventarsi, vi sbagliate ancora.

Il sol dell’avvenire, – in concorso al 76esimo Festival di Cannes – è forse il film più completo della carriera del celebre regista poiché, ponendo al centro della trama le vicende del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, sviscera quelli che sono i pensieri di un uomo che deve fare i conti con sé stesso. Questo elemento in particolare, lo si evince dalla scelta di far dialogare i personaggi con egli, un fatto che nei film precedenti non accadeva quasi mai. Inoltre, Moretti lancia una critica spietata anche al mondo delle piattaforme di streaming, in particolare Netflix.

Però c’è del rosso e del giallo, il titolo rimanda a una canzone — a sua volta ripresa da una composizione russa — che parla di libertà; insomma, si può sapere a che punto vuole arrivare? Vuole forse confondere lo spettatore? Scopriamolo!

Sinossi

Moretti
Nanni Moretti e Margherita Buy durante una scena del film (fonte: ilfattoquotidiano.it)

“Io faccio un film una volta ogni cinque anni. Cosa ti costa vedere Lola una volta ogni cinque anni? E poi non va bene che faccio un film una volta ogni cinque anni qui bisogna stringere, accelerare.” Cit -Giovanni

Il film vede come protagonista Giovanni, un regista che decide di fare un film sulla posizione del Partito Comunista Italiano durante la rivoluzione ungherese, manifestatasi nel 1956. Come è noto, l’intervento armato sovietico pose il PCI in una posizione scomoda: il film, dunque, segue il conflitto tra il personaggio di Ennio (Silvio Orlando), segretario di un circolo romano del PCI e redattore dell’Unità, e la moglie Vera (Barbora Bobulova).

La moglie sposa subito la causa ungherese mentre il marito aspetta che sia il partito a prendere posizione. Al di fuori delle riprese, la moglie Paola (Margherita Buy, figura immancabile nei film di Moretti) che è anche la produttrice del film, si rende conto di non stare più bene con lui e si rivolge all’aiuto di uno psicoanalista. Tra questo e la relazione della figlia Emma (Valentina Romani, alias Naditza in Mare Fuori) con un ricco magnate polacco (Jerzy Stuhr), sembra che il regista vada in crisi.

La strategia del “film nel film”chiaro omaggio a Fellini — si rivela il pretesto per riflettere sulle proprie fragilità, le famose occasioni perdute e vari sentimenti con cui, inevitabilmente, tocca fare i conti durante la nostra esistenza.

La critica a Netflix

Una delle scene più esilaranti e incisive è il dialogo con i produttori di Netflix, giunto dopo che l’amico Pierre (Mathieu Amalric) è stato arrestato per truffa. Questi non vogliono produrre il film perché non rispetta certi parametri, come per esempio l’assenza di un turning point e momenti what a fuck. Semmai questa esclamazione dovremmo dirla noi povero pubblico insieme al regista, costretto a fare i conti con un’industria cinematografica che persegue esclusivamente i propri interessi per invogliare al consumo, senza interessarsi alla portata culturale e sociale di un prodotto cinematografico.

Il vortice interiore di Giovanni/Moretti

Il motivo per il quale si sostiene che questo film sia una sorta di testamento, risiede nel modo di voler raccontare una vicenda che, fondamentalmente, è solo un espediente. Le sequenze più incisive sono quelle in cui emerge l’interiorità inquieta del personaggio che oscilla tra ironia e riflessione sulla realtà e su sé stessi, elemento onnipresente nella filmografia di Moretti. Il dialogo tra i due giovani ragazzi al cinema che forse è la personificazione del primo incontro con Paola, e il regista che da adulto suggerisce le battute al giovane se stesso; le canzoni di Noemi e Luigi Tenco, Aretha Franklin e Franco Battiato in parallelo a frammenti rappresentanti le contraddizioni dell’essere adulti, il rimpianto di non aver vissuto una vita senza complicazioni. Passato e presente, dunque, si intrecciano nella mente di Giovanni/Moretti, invitando lo spettatore in sala a ridere insieme a lui come se ci fosse bisogno di semplicità. Non è male in fondo, probabilmente non serve essere pesanti con se stessi.

 

Un film che invita alla semplicità

Moretti
Frame del film “Il sol dell’avvenire”

La storia non si scrive con i sé, e chi l’ha detto? Cit. Giovanni

Con delicatezza, Moretti ci invita a ricordare che la storia, comprese le conseguenti sconfitte, non deve essere un peso insormontabile. Anzi, attraverso il dono dell’immaginazione possiamo liberarci! La scena più bella è proprio, forse, quella in cui a tavola i nuovi produttori coreani, la moglie, gli attori e il resto dei commensali si dedicano a immaginare il film in segno di gioia collettiva. La grande Storia non doveva per forza andare com’è andata.

Lo scopo dell’arte è quello di farci pensare a come le cose potrebbero andare diversamente, e nel caso del film di Moretti qualsiasi circostanza viene messa in discussione. E se il PCI avesse realizzato l’utopia di Marx ed Engels, la sinistra attuale risulterebbe ancora frammentata? Può darsi, meglio lasciare libera l’immaginazione.

Federico Ferrara