Legends of tomorrow. Una scommessa vinta !

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Siete amanti delle serie sui supereroi ma avete già esaurito tutte le stagioni di Arrow e The Flash? Ecco, Legends of tomorrow è proprio quello che fa per voi.

Questa serie, i cui protagonisti sono tratti da eroi secondari e villains delle due serie sopracitate, è partita come una sfida, in quanto, essendo ben otto i protagonisti, si rischiava di fare molta confusione e di non riuscire a ottenere l’interesse del pubblico. Eppure, sebbene con alti e bassi, questo mito è stato sfatato tanto che la serie sarà riconfermata per una seconda stagione.

Ma andiamo un po’ a conoscere chi sono questi eroi, anzi queste “leggende”. Sara Lance/White Canary, l’emblema  dell’anti-eroina, combattuta tra la sua sete di sangue ed il desiderio di aiutare il prossimo; Ray Palmer/Atom, geniale scienziato desideroso di avere un nome in questo mondo; Kendra Suanders&Carter Hall/Hawkgirl&Hawkman, due antichi amanti con un leggero problema con la reincarnazione (starete a vedere!); Martin Stein e Jefferson Jackson, i due componenti di Firestorm spesso in conflitto per la loro differenza d’età e infine, a mio avviso i più adorabili; Leonard Start&Mick Rory/Capitan Cold&Heat Wave due astuti criminali che scopriranno il loro lato eroico. Questo gruppo eterogeneo di supereroi è stato reclutato da Rip Hunter, signore del tempo, per viaggiare attraverso varie epoche e impedire al tiranno Vandal Savage di radere al suolo l’intera umanità .

Legends of Tomorrow, piace proprio perché sdogana il classico concetto di eroe, protagonista assoluto ed invincibile , dando spazio anche al lato comico e al lato umano di questi otto personaggi, di cui seguirete i dubbi, le paure, lo spirito di sacrificio e la conseguente crescita nel corso della stagione. È un serie consigliata a un pubblico medio, che vuole vedere scene d’azione ben realizzate ma che non disdegna nemmeno la parte sentimentale.
E voi quale leggenda sceglierete?

Edvige Attivissimo

Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi

Essere un samurai: una storia fra onore e dovere

 

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Tasogare Seibei (The Twilight Samurai), è un film del 2002 diretto da Yoji Yamada.

Seibei Iguchi (Hiroyuki Sanada) è un samurai al quale la vita ha proposto una grande sfida. La morte della moglie per tubercolosi lo lascia inerme e da solo a dover badare alla sua famiglia, composta da due figlie e la madre anziana con evidenti segni di demenza senile.

Il film si apre sul letto di morte della moglie del nostro samurai, accompagnata da una narratrice esterna che ne descrive la vicenda e la situazione circostante, senza alcuna presentazione di norma. Viene introdotto Seibei e la sua routine, che si basa sull’alternanza fra lo studio propedeutico per la sua “professione” di samurai e la sua attività domestica, accudendo le figlie, la madre e lavorando i campi, trovandosi spesso costretto a dover rifiutare inviti dei suoi amici per poter adempiere ai suoi compiti. Questa situazione lo porterà a trascurare sé stesso a tal punto da vestirsi di una tunica vecchia e sgualcita e perfino a non curare la propria igiene, con grande disappunto dei suoi colleghi il quale lo porterà ad avere problemi sul posto di lavoro.

La situazione sembra sfuggirgli di mano quando, in suo soccorso, arriva la giovane e bella Tomoe Linuma (Rie Miyazawa), sua amica d’infanzia, che si propone come aiuto in casa con le faccende domestiche e inizia a intrapendere anche un rapporto, quasi materno, con le figlie. Seibei scopre, dal fratello di Tomoe, che la ragazza è sposata ma è riuscita ad ottenere il divorzio poiché il marito alcolizzato non aveva riguardi nei suoi confronti e spesso la maltrattava. Sarà proprio l’incontro di Saibei con il marito di Tomoe, anch’egli samurai, a cambiare le sorti della sua vita.

Candidato agli Oscar 2002 come Miglior Film Straniero, “Tasogare Seibei” è un film costituito da pregi e da difetti. Benché agli occidentali non sia usuale essere a contatto con film dall’estremo oriente, quest’ultimo riesce, almeno nell’ambito della regia, a compiere un buon lavoro. E’ sicuramente diverso da ciò che ci si possa aspettare, con miseri combattimenti fra samurai (sostanzialmente due), che più sul lato fisico, si concentrano sul lato psicologico e le diverse difficoltà che un uomo solo, indipendentemente che sia un samurai o meno, deve affrontare.

Tuttavia in diversi momenti la pellicola si presenta piuttosto lenta, portando lo spettatore a pensare se determinate scene o alcuni momenti fossero davvero necessari. Nel complesso, il film si presenta bene, non eccessivamente emozionante, ma neppure eccessivamente sottotono. E’ molto utile per comprendere una dimensione lontana dalla nostra che, nonostante nell’era moderna sia stata molto avvicinata al mondo occidentale, è comunque difficile percepire, riconoscendo limiti e analogie di due culture necessariamente diverse.
                           Giuseppe Maimone

Nuovo Cinema Italiano, la rinascita è in corso

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Mi è capitato, ultimamente, di portare la mia attenzione di assiduo cinefilo ad un fenomeno che dagli  addetti ai lavori è stato ribattezzato come “Il rinascimento del cinema italiano”. Questo fiorente periodo del mercato cinematografico del nostro paese è da collocare soprattutto negli ultimi anni dove le uscite in sala sono state sicuramente variegate e di alto livello. Personalmente mi ritengo fortunato (e anche un po’ bravo dai) nell’essere riuscito a visionare nell’ultimo anno, al cinema, alcune delle pellicole più interessanti che mi hanno fatto ricredere sul livello del cinema italiano e su quello che ancora mi può offrire. Ci tengo quindi a fare una riflessione e il punto della situazione sulle condizioni del cinema nostrano, anche alla luce dei recenti David di Donatello cercando, magari, di consigliarvi la visione dei film più meritevoli. Partiamo.

Il mio ricordo va a, più o meno, un anno fa. Era il 14 maggio del 2015, il giorno del mio compleanno. Decisi di andare al cinema, da solo. Il film che in quel periodo ha attirato la mia attenzione è stato “Il racconto dei racconti”, pellicola diretta da Matteo Garrone. Arrivato al piccolo cinema della mia città, mi resi conto che la sala era completamente vuota. Non c’era nessuno. Subito pensai che tutto questo fosse molto triste, anche se guardare un film al cinema con la sala tutta per me è stata un esperienza straordinaria. Le mie attese per il film erano molto alte: un film italiano fantasy. Bastava questo per far salire l’hype per il film (anche perché ero reduce da una maratona de “Il trono di spade” che un tantino ti fa appassionare al genere). Devo dire che le attese sono state pienamente rispettate. Mi sono trovato davanti un’esperienza cinematografica straordinaria: le storie, i luoghi, i paesaggi e i personaggi erano tutti sconvolgenti. La prima cosa che ho pensato è stata: “Davvero un bel film, e non un bel film per essere un film italiano, ma proprio un bel film.”

Il punto sulla mia, appena nata, riflessione sull’argomento si era incentrato su come Garrone fosse riuscito in questo intento. Ne ho visti di bei film fantasy stranieri, ma questo era diverso. Non faceva il verso ai film americani, ma allo stesso tempo mi dava le stesse emozioni di una grande produzione d’oltreoceano. Garrone era riuscito a prendere un genere come il fantasy e farlo diventare italiano. Non mi trovavo di fronte ad una brutta copia de “Il Signore degli Anelli”, ma di fronte ad una storia italiana (il film infatti è tratto dalle fiabe dell’autore italiano del ‘600 Giambattista Basile) che usava un linguaggio nuovo, il linguaggio italiano. E finalmente ho trovato il punto della mia riflessione. L’Italia è riuscita ha prendere un genere come il fantasy (con tutti i rischi che questo può comportare) e lo ha reso italiano. L’Italia fa i generi cinematografici e li fa bene.

Da quel momento mi è capitato di vedere altri film di genere al cinema. Ricordo con piacere il noir politico di Sollima in “Suburra”. Ricordo con tantissimo piacere un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” di uno straordinario Gabriele Mainetti che è riuscito a rendere italiano un genere come il Cinecomic, con una produzione di neanche 2 milioni di euro, a testimonianza che quando si ha un’ idea solida i soldi passano in secondo piano. Ricordo con altrettanto piacere il recente film di Matteo Rovere “Veloce come il vento” che mi ha fatto saltare sulla poltroncina del cinema dall’emozione con un film d’azione/sportivo. Tutti questi film hanno reso generi che a noi sembravano sconosciuti e addirittura inarrivabili come generi “italiani DOP”.

Oltre a questi film di genere ci tengo a consigliare altri film usciti nell’ultimo anno dall’Italia. Se siete fan di Maccio Capatonda apprezzerete tantissimo la sua “fantozziana” commedia “Italiano Medio” che fa una sprezzante critica al nostro paese in pieno stile Maccio. Se amate i film estremamente drammatici di Muccino non perdetevi “Padri e Figlie” con uno straordinario Russel Crowe. Personalmente ho amato anche l’ultimo film del maestro Paolo Sorrentino “Youth – La giovinezza”, un romantico e surreale modo di guardare la terza età. Da guardare anche l’ultimo film del compianto Claudio Caligari “Non essere cattivo” con due giovani attori italiani lanciatissimi in questo momento come Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E per finire vorrei consigliare anche “Perfetti sconosciuti”, il film di Paolo Genovese (vincitore quest’anno del David di Donatello come miglior film), non vi troverete davanti la solita commedia italiana. La lista potrebbe essere più lunga ma mi fermo qui.

Insomma direi che di carne al fuoco ce ne è parecchia. Film nuovi, freschi e che attirano il pubblico in sala. Il cinema italiano si prepara ad un nuovo fiorente periodo, grazie anche a chi ha messo le basi in questi ultimi anni. È infatti grazie ai registi e agli autori che negli ultimi anni hanno avuto il coraggio di sperimentare e di azzardare che oggi possiamo guardare al futuro speranzosi. Naturalmente continueremo a vedere nelle sale italiane i cinepanettoni e le commediole-svuotacervello ma la speranza è che il pubblico, piano piano, decida di cambiare sala in favore di film come quelli sopracitati. Il cambiamento è iniziato, sta a noi riempire i cinema italiani e favorire il Made in Italy. Quello di qualità. Quello che ci fa saltare sulle poltroncine. Quello che riesce ad emozionarci e sorprenderci. Quello del Nuovo Cinema Italiano.

Nicola Ripepi

 

Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico

Recensione “Un Bacio” di Ivan Cotroneo

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Siamo in un piccola cittadina del Nord, precisamente ad Udine, lo sfondo è una scuola che sembra una fabbrica. Arriva un uragano di colori sgargianti : Lorenzo.
 
Lorenzo è un ragazzo rimasto orfano che viene adottato da una coppia piena di buone intenzioni e, a differenza del contesto, accetta la diversità. Lorenzo è estroverso, simpatico, sicuro di sé e della sua omosessualità. Il mondo ostile che lo circonda non intacca la sua fantasia e solarità.
 
Fa amicizia con Blu, una ragazza che tutti odiano e definiscono una facile e con Antonio, un ragazzo taciturno e giocatore di basket che quotidianamente fa i conti con la morte del fratello. I tre emarginati grazie all’amicizia vivranno esperienze uniche, se non entrassero poi in gioco i meccanismi dell’attrazione e della paura del giudizio altrui.
 
Ivan Cotroneo oltre a essere il regista è anche lo sceneggiatore (il film è infatti tratto dal suo omonimo racconto uscito nel 2010) e ha dato nuovamente prova della sua bravura (v. "La kryptonite nella borsa") narrando chiaramente, e anche con l'ironia di alcuni passaggi, le vicende di omofobia e bullismo che spesso accadono nelle scuole e nei sentimenti degli adolescenti.
 
I protagonisti sono tutti e tre ragazzi alla prima esperienza cinematografica e hanno dato prova di avere la stoffa per continuare egregiamente in questo settore.
La colonna sonora è composta volutamente da soli brani musicali, di cui uno appositamente prodotto per questa opera : To the wonders degli STAGS. Poi abbiamo Hurts di Mika, con il quale i ragazzi hanno girato proprio il video della canzone.
E’ un film sulle prime volte, sulla adolescenza, sui problemi che tutti abbiamo affrontato o che ci hanno semplicemente sfiorato.
Sulla accettazione di se stessi prima dell’altro perché spesso ciò che più difficile è guardare dentro di sé ed accettarsi, anzi, per dirla con una strofa della canzone che Lorenzo cita spesso “Don’t hide yourself in regret/ Just love yourself and you’re set/ I’m on the right track baby/ I was born this way” (Born this way – Lady Gaga).

Mi piace definire questi tre personaggi come i tre moschettieri dell’amicizia, come ripete Blu nel film: “l’amicizia ti salva” ; infatti non ci sarà mai nessuno che potrà capirti e coinvolgerti come un vero amico. Come l’amicizia, questo film si infiltra nel nostro cuore e ci soddisfa pienamente.
 

Arianna De Arcangelis

Recensione del libro “Noi siamo Infinito” (Ragazzo da Parete)

Vi è mai capitato di incontrare uno sconosciuto, magari sul treno o alla fermata dell’autobus, e di raccontargli cose che magari non raccontereste nemmeno al vostro migliore amico? Non è più facile parlare con qualcuno che sapete non rincontrerete più?
Charlie, protagonista di Noi Siamo Infinito, affida pensieri e racconti di vita quotidiana, attraverso un serie di lettere, a qualcuno di cui aveva sentito “parlare bene”.
 
Ragazzo da Parete (The perks of being a wallflower, titolo originale), divenuto Noi Siamo Infinito dopo il successo del film, è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky e pubblicato nel 1999, che narra, in prima persona, le vicende di Charlie (pseudonimo usato nelle lettere dal protagonista  per non farsi riconoscere) che si affaccia allo spaventoso mondo liceale, ambientato tra il 1991 e 1992.
 
Il titolo “Ragazzo da Parete” (wallflower) si rifà allo stesso Charlie, quel ragazzo che ad una festa non si scatena in pista, ma sta appoggiato ad una parete, scrutando il mondo. Vedremo attraverso i suoi occhi, ascolteremo attraverso le sue orecchie, proveremo i sentimenti  che lui prova nel susseguirsi delle lettere, perchè Charlie non è un tipo che parla, ma che guarda, ascolta e pensa, tanto.
Il linguaggio è semplice, la lettura è scorrevole. Inizieremo a leggere la lettera del 25 Agosto 1991 (la prima), e senza rendercene conto, tra colpi di scena, pianti e risate, ci ritroveremo a quella del 25 Agosto 1992 (l’ultima).
 
Verranno affrontati temi delicati (sesso, droga, omosessualità, suicidio), ma quasi non ce ne accorgeremo, perchè Ragazzo da Parete è scritto con l’ingenuità e l’intelligenza di quel ragazzo sedicenne che sa pensare e capire.
 
Marta Picciotto

Recensione “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enza Negroni

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Sono passati appena vent’anni dall’uscita nelle sale di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. La vicenda riprende la storia realmente accaduta dell’abbandono del noto gruppo musicale Red Hot Chili Peppers da parte del chitarrista John Frusciante, con una revisione tutta italiana.

La pellicola si apre su quattro ragazzi che, durante la notte, si intrufolano in una proprietà privata per poter fare un bagno notturno in una piscina. Fra una chiacchierata e l’altra, i quattro si interrogano sulla particolare esperienza che un loro amico, Alex, ha recentemente subito e sul suo relativo cambiamento caratteriale, guardando la sua storia a ritroso per poter analizzare meglio la vicenda. Così facciamo la conoscenza di Alex (Stefano Accorsi) un ragazzo al penultimo anno di liceo appassionato di musica e bassista di un gruppo musicale fondato con i suoi amici. Tornando a casa, subito dopo aver intrattenuto una brevissima conversazione con i suoi genitori (intenti a guardare Nightmare), riceve una telefonata da una certa Adelaide (Violante Placido) chiamata Aidi, al quale propone di vedersi subito dopo per passare un po’ di tempo insieme. Fra varie prove con la band e i molti incontri con Aidi, Alex sembra essere felice. Forte di ciò, il nostro protagonista decide di dare un “senso” al suo rapporto con la ragazza, mettendo in chiaro ciò che prova per lei. Aidi, benché provi un forte sentimento per Alex, decide di chiedere al ragazzo di poter restare solo dei semplici amici con un forte legame, affermando che finora non ne aveva mai avuto uno così forte e preferiva capire che cosa stesse provando. In realtà, Aidi cercherà solo di prendere tempo poiché vi è la possibilità che si trasferisca in America per un po’ di tempo e il rischio di cancellare ciò che è successo con Alex e di farlo soffrire. Questa decisione non viene presa bene dal giovane che interrompe perfino il rapporto di amicizia con Adelaide fino al punto di non salutarsi più quando si incontrano. Tutto ciò lo porterà a fare la conoscenza di Martino (Alessandro Zamattio) che, a detta degli amici di Alex, non avrebbe mai voluto come amico in circostanze normali.

Il film, datato 4 aprile 1996, è interamente ambientato a Bologna (lo si vede e, soprattutto, lo si sente) cercando di concentrarsi sul periodo tardo-adolescenziale di Alex. Il tentativo è quello di voler rappresentare una generazione giovane con i tipici “problemi” di questa età, ma purtroppo non riesce a farlo senza cadere nei classici stereotipi. Tuttavia è da evidenziare la leggerezza dei temi trattati, nonostante alcuni di essi siano abbastanza importanti, senza cadere sul classico “oscuro e duro” al quale, ultimamente, siamo molto abituati a vedere in film di questo genere. In generale il film risulta piacevole, anche se alcune scene o addirittura intere parti potevano essere evitate o modificate. La recitazione non eccelle, ma vi è da considerare che ai tempi furono scelti attori quasi sconosciuti e provenienti dalla stessa Bologna. Sicuramente è un film che si avvicina maggiormente alla generazione precedente che a quella attuale, ma non è difficile trovarne un riscontro in alcune parti. Il lavoro primario che la pellicola svolge è sicuramente l’introspezione psicologica dei personaggi, molto spesso sovrastando la storia e ponendola in secondo piano, ma ciò non è necessariamente un male.

Il film avrà anche spento la sua ventesima candelina, ma anche se marginalmente, indubbiamente ha ancora il suo ruolo e il suo perché in una cinematografia italiana e in una evoluzione generazionale che è ancora in corso.
                                                                                                                                                           
Giuseppe Maimone
 
 

Suffragette

Londra, inizi del ‘900 storia dell’emancipazione femminile

Il film “Suffragette” è ambientato a Londra all’inizio del ‘900 , Carey Mulligan interpreta Maud Watts ventiquattrenne che da quando aveva sette anni lavora in una lavanderia il cui capo, uomo viscido ed arrogante, abusa quotidianamente delle lavoratrici più giovani.

Maud entra , tramite una collega, in contatto col movimento delle “suffragette”.

Inizialmente intimidita da questo mondo di uomini , dopo aver assistito ad un discorso pubblico di Emmeline Pankhurst , diverrà una militante decisa a rivendicare i propri diritti e a riscattarsi dalle violenze subite in primis sul luogo di lavoro.

Sarah Gravon e Abi Morgan raccontano la storia, fino ad ora taciuta, della battaglia delle donne inglesi che oltre a chiedere ad alta voce il suffragio universale, combatterono per la parità salariale e per l’uguaglianza di genere.

E’ un film che racconta le vicende che quotidianamente le donne dovevano sopportare, le violenze della polizia, i continui arresti, il disagio e la disparità di trattamento sul luogo di lavoro, che dopo anni di reazioni non violente virano verso la disobbedienza civile.

Donne che sacrificarono la loro vita per assicurare un futuro migliore alle generazioni, chi come Emily Davison , che potremmo definire una martire nella lotta delle suffragette, perde la propria vita affinché i media parlino della questione.

Carey Mulligan con quel suo viso da ragazza pulita all’inizio recita in sottrazione, nonostante le inquadrature che puntano il focus su i suoi occhi e bocca, incarna le tribolazioni e la crescita del suo personaggio : prendendo coscienza della situazione attorno a sé fino a diventare sicura e sprezzante.

L’accompagnano Helena Boham Carter , che abbandonati i panni di Bellatrix Lestrange e della Fata Madrina in Cenerentola, veste quelli della farmacista Edith Ellyn (la quale si ispira liberamente alla donna realmente esistita di Edith Garrud , maestra di jujutsu , insegnava l’autodifesa alle suffragette) donna determinata e senza paura e Annie Marie Duff , molto convincente, nel personaggio di una compagna lavandaia.

Ciliegina sulla torta l’apparizione di 3 minuti di Meryl Streep nei panni di Emmeline Pankhurst.

Belle le riprese e le inquadrature, anche in movimento che danno più intensità.

Abi Morgan ha scritto dei vigorosi ritratti femminili, come aveva giù fatto con la Thatcher di “The Iron Lady” e con il Michael Fassbender in “Shame”, esplorando con finezza l’animo umano.

Sarah Gavron ha messo in scena la Storia , senza riuscire ad essere incisiva come avrebbe potuto essere un film del genere. Fortunatamente c’è un cast d’eccezione.

Il film si conclude con l’elenco delle date in cui le donne hanno potuto votare nei vari stati, notiamo che l’Arabia Saudita nel 2015 ha semplicemente promesso il voto alle donne.

Spesso godendo dei diritti ed essendo in una posizione privilegiata pensiamo che le cose vadano abbastanza bene per noi donne, invece questa volta usciamo dalla sala con la coscienza che la strada è ancora lunga , ma con la stessa forza e determinatezza delle nostre “madri-sorelle” , la percorreremo.

Con le parole di Pankhurst/Streep : “Non sottovalutate mai il potere che noi donne abbiamo di essere artefici del nostro destino. Noi non vogliamo violare la legge, vogliamo fare la legge.”

Arianna De Arcangelis

Il piccolo principe, una storia senza età

È uscito nelle sale italiane lo scorso 1 Gennaio il film di animazione tratto dall’omonimo romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, “Il Piccolo Principe”.
Quando ci troviamo di fronte alla trasposizione cinematografica di un libro, di conseguenza, ci troviamo di fronte ad un ampio dibattito. Ad esaltare l’animo degli spettatori è la presunta fedeltà o meno del film in relazione all’opera prima, il libro. Figuriamoci per un opera così inflazionata e conosciuta a tutti come può essere “il Piccolo Principe”. E questo film ce l’ha fatta?
La pellicola era stata presentata lo scorso festival di Cannes fuori concorso, con un buon responso da parte della critica. Alla regia troviamo Mark Osborne, conosciuto soprattutto per aver diretto per la Dreamworks il primo capitolo di Kung Fu Panda. Il film è realizzato in tecnica mista: stop motion e computer grafica. La parte in stop motion è quella che si rifà alla storia di Saint-Exupéry, quindi al libro; mentre la parte realizzata in CGI è relativa alla storia di contorno, quella moderna. Infatti il film è realizzato in maniera tale da contestualizzare una storia così fantastica e semplice con la frenesia e le difficoltà della vita moderna.
Ci troviamo, pertanto, di fronte alla storia di una bambina, Prodigy. Figlia di una madre scrupolosa che non vuole lasciare niente al caso per il suo futuro ma che allo stesso tempo non trova mai il tempo per lei sommersa dai mille impegni di lavoro, e di un padre che vive lontano e che nella pellicola è appena nominato. Insomma il classico stereotipo moderno della famiglia alla deriva. La storia di Prodigy prende una svolta quando incontra l’aviatore, che le fa conoscere il piccolo principe. Lei inizialmente respinge questa fantastica storia in quanto crede di essere una bambina troppo matura per certe storielle, in seguito però sarà sempre più affascinata dal piccolo principe e instaurerà una bella amicizia con l’aviatore. Così alla storia di Prodigy si unisce quella del piccolo principe che chiunque abbia letto il libro conosce bene.
Nel momento stesso in cui la bambina scopre la storia del piccolo principe, lo spettatore (soprattutto lo spettatore adulto) riesce ad immedesimarsi nell’approccio a metà tra l’incredulo e l’affascinato che appartiene alla bambina. Questa storia, così semplice e pura, non convince Prodigy all’inizio e viene vista allo stesso modo dallo spettatore. Una semplice storiella raccontata ai bambini che non ha niente a che fare con la vita reale. E in quel momento noi siamo veramente come Prodigy. Ci sentiamo maturi e distaccati da questa storia ma in realtà siamo dei bambini che si ricordano cosa voglia dire essere bambini. “Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano)”.
Quindi per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, la risposta è sì. Sì perché questa pellicola non tenta solamente di rappresentare sul grande schermo una semplice storia, fa molto di più. Ci fa vedere quello che questa semplice storia ha rappresentato per generazioni e generazioni. Il film diventa così non una mera trasposizione della storia ma uno specchio di fronte al quale è seduto il nostro alter ego che per la prima volta ha letto il libro. Non importa se questo alter ego sia un bambino con di fronte un libro di narrativa delle medie o un adulto che soltanto recentemente ha scoperto quest’opera. Il risultato è sempre lo stesso: “Il Piccolo Principe” ci mette nella condizione di approcciarci ad esso con la purezza e la semplicità di un bambino.

Nicola Ripepi