Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali

Un altro “fantastico” lavoro del visionario Tim Burton.

Adattamento cinematografico del romanzo di Ransom Riggs,
“La casa per bambini speciali di Miss Peregrine”, il film spopola nelle sale italiane a dicembre, riscuotendo un grande successo di pubblico. Meno clementi invece alcuni pareri della critica che arrivano a definire il film come commerciale.

Alla morte del nonno, il giovane Jacob Portman (Asa Buttmissperegrinesmallerfild) si reca nel Galles alla ricerca della residenza di Miss Peregrine (Eva Green), un orfanatrofio, di cui il nonno gli aveva a lungo parlato. Qui vengono ospitati ragazzi dai particolari poteri: c’è chi è invisibile, chi ha le stesse proprietà dell’aria, chi si ritrova una forza sovrumana.

Durante la permanenza Jacob scopre che dietro la storia dell’istituto si nascondono inquietanti misteri e che le storie che gli erano state raccontate non erano solo fantasie.

Come ogni film burtoniano che si rispetti, anche questo sorprende per il suo essere “spettacolare”. L’atmosfera è tanto macabra ed inquietante quanto mozzafiato, la suspence sempre presente e alcuni deliziosi momenti di “terrore” non deludono per nulla le aspettative dello spettatore. I ragazzi sono rappresentati fisicamente in maniera perfetta e lo stesso può esser detto dei mostri, belli ed inquietanti.

Ciò che delude un pò è l’andamento della seconda parte del film, che risulta essere un insieme poco curato di effetti speciali che sfiora quasi il grottesco e rischia alle volte di annoiare il pubblico.

Qualche pecca la presenta purtroppo anche la sceneggiatura, ciò può essere giustificato ricordando che Burton non ne prende parte, limitandosi al suo ruolo di regista.

Nulla di negativo può esser detto sulla recitazione di Eva Green, convincente ed impeccabile; altrettanto lo è quella di Asa Butterfield che particolarmente si addice al ruolo di ragazzo solitario affidatogli da Burton.

Lo stesso Tim Burton è presente, anche se poco visibile, in una scena del film, un piccolo particolare che i suoi fans noteranno ed apprezzeranno!

Il film nel complesso è assolutamente da vedere; gli amanti del genere e del regista sapranno ben apprezzare la “strana” pellicola.

Benedetta Sisinni

Oggi in sala: ”Genius”, storia di uno scrittore nascente

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“Ho scritto cose strappate a forza dalle mie viscere e tu dici che non c’è spazio?”

Nella New York di fine anni venti, Max Perkins (Colin Firth), editor della Scribner’s Son, dopo aver portato alla luce scrittori del calibro di Fitzgerald ed Hemingway, ha il suo primo incontro con Thomas Wolfe (Jude Law); il ragazzo, con la passione per la scrittura ed un carattere eccessivo, è autore di un enorme manoscritto dal titolo “O Lost”, continuamente rifiutato da qualunque casa editrice. Sarà proprio Max, l’unico a leggere ed apprezzare l’opera e l’autore stesso, a cui sarà legato non solo dalla collaborazione lavorativa ma soprattutto da un profondo rapporto d’amicizia.

Il film di Michael Grandag racconta la storia vera della nascita letteraria di Wolfe ed è basato sulla biografia “Max Perkins. Editor of Genius”.

Punto focale della pellicola non è tanto la figura dello scrittore, bensì il rapporto quasi morboso che si crea tra quest’ultimo e l’editor; Thomas vedrà in Max una guida, un padre, un amico e Max sarà a sua volta attratto da quel “ragazzetto” dal carattere acceso e così differente dal suo, il tutto porterà alla creazione di un legame destinato a durare nel tempo.

Dal punto di vista tecnico il film è realizzato perfettamente. Ottime la regia, la sceneggiatura e la fotografia. Magistrale l’interpretazione di Colin Firth nei panni dell’editor, professionale e umano al tempo stesso; così come quella di Jude Law che interpreta perfettamente lo scrittore dal carattere tormentato. Meno presente ma altrettanto brava Nicole Kidman, che interpreta la compagna dello scrittore, innamorata ma messa in secondo piano rispetto al lavoro dell’uomo che ama e al suo rapporto con l’editor.

Il film merita di esser visto, anche se nel complesso non riesce ad emozionare particolarmente il pubblico, in quanto presenta una narrazione quasi sempre piatta e non sono presenti particolari colpi di scena .

 

Benedetta Sisinni

Suicide Squad, dai fumetti al film: l’affascinante mondo dei cattivi

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Il 6 dicembre 2016, esce il Dvd del film ‘’Suicide Squad’’, opera cinematografica che ha riempito le sale quest’estate.

Con un cast stellare e diversi record al botteghino, Suicide Squad, è una pellicola basata sui cattivi dei fumetti firmati DC Comics. Per la prima volta nella storia del mondo sono proprio i cattivi quelli che salveranno la terra: dopo la morte di SuperMan e la sparizione di BatMan, non c’è nessun altro a cui il governo americano può rivolgersi.

Ai cattivi, però, non viene dato niente in cambio: nessun premio, nessuna gloria, nemmeno la libertà. Loro sono stati crudeli, quindi o obbediscono o verranno uccisi. A tutti loro, infatti, viene impiantato un cip sotto pelle: se provano a ribellarsi, boom, saltano in aria.

Ci mancava, penserete voi: dopotutto stiamo parlando delle menti più contorte e folli che ci hanno sempre spaventati, fin da bambini. Infatti, la Suicide Squad (Squadra Suicida) è formata da: l’ex-psichiatra Harley Quinn (Margot Robbie), il cecchino mercenario Deadshot (Will Smith), l’ex-gangster pirocinetico El Diablo (Jay Hernandez), il ladro Capitan Boomerang (Jay Courtney), il mostruoso cannibale Killer Croc ( Adewale Akinnuoye-Agbaje) e il mercenario Slipknot (Adam Beach).

A loro si uniscono anche la dottoressa June Moone, un’archeologa posseduta da un’antica entità malvagia nota come Incantatrice (Cara Delevigne) e Katana ( Karen Fukuhara), mercenaria in possesso di una spada mistica.

C’è anche il Joker (Jared Leto) che, da dietro le quinte, segue la squadra: il suo unico obiettivo? Liberare Harley Quinn e riprendersela con sé (figuratevi a lui quanto può fregare di salvare gli esseri umani).

È interessante vedere come, fin dai primi minuti del film, si resta affascinati e si scatena un innamoramento nei confronti di questi pluriomicidi: chi l’ha mai detto, dopotutto, che non provano alcun sentimento? Con il susseguirsi della storia scopriamo proprio questo: tutti loro hanno amato qualcuno più di loro stessi e tutti loro, inevitabilmente, lo hanno perso.

Ma per chi è appassionato di fumetti, cosa è cambiato? Ovviamente questi personaggi, a prescindere dall’aspetto che mai poteva essere assolutamente uguale a quello dei disegni, sono stati umanizzati, sono (forse) meno folli del fumetto.

Obiettivamente alcuni cambiamenti sono obbligati: una pellicola non potrà mai essere fedele ad anni e anni di fumetti. Il fulcro di ogni personaggio rimane indenne, dalle loro perversioni, alle manie, all’istinto quasi suicida e la sintesi delle loro storie individuali è assolutamente fedele.

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Due personaggi in particolare sono stati, da alcuni, criticati: la coppia (che scoppia?) Joker- Quinn. Nei fumetti, infatti, Harley Quinn è una donna completamente sottomessa, che ama le violenze imposte dal Joker, che quasi si diverte a provocarlo pur di farsi fare del male.

Il Joker, d’altro canto, non sembra innamorato, nei fumetti, anzi: la presenza di Harley, il più delle volte, lo infastidisce; mentre, nel film, anche lui ha un’attrazione per lei.

Il confronto, ovviamente, è molto soggettivo: possono sembrare, per alcuni, una coppia di amanti con una grande indipendenza; per altri, invece, l’ossessione del Joker è esattamente quella dei fumetti: lui va a riprendersela perché è l’unico che può comandarla.

Harley Quinn, d’altro canto, è sottomessa in tutte le parti del film a lui: si rincorrono flash back dove si vede come lei, più e più volte, è pronta anche a morire per lui.

A prescindere dalle puntigliose critiche, dalle disquisizioni su dove e come il film poteva essere migliore, se Suicide Squad ha sbancato un motivo c’è, ed è il motivo per cui noi vi consigliamo di vederlo: in sintesi? È una figata.

Elena Anna Andronico

 

 

Animali Fantastici e dove trovarli: JK Rowling è ufficialmente tornata!

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Nana nanana nanaaa naaaa na nanana nanaaaa….

Se siete dei potterhead (come me) l’avete canticchiata ad alta voce e con l’intonazione giusta. Sì, amici miei, è la colonna sonora dell’infanzia della maggior parte di noi: Harry Potter.

Al mondo esistono due categorie di persone: chi lo ama fino alla malattia mentale e chi invece non lo sopporta propria. Io, penso si sia capito, faccio parte della prima.

Dopo 5 anni, un libro sceneggiatura di un’opera teatrale (che ha lasciato un po’ d’amaro in bocca), e tante repliche (su Italia 1 il sabato sera) dei film sui nostri maghi preferiti, finalmente, il 17 novembre, è uscito il nuovo film firmato Jk Rowling: Animali Fantastici e dove trovarli.

Come ogni film sul mondo magico di Harry Potter, sono andata a vederlo di domenica pomeriggio insieme a mia mamma e a mia cugina (potterhead come me). Ero un po’ in ansia, avevo paura fosse una grande delusione: dopotutto, spesso, le opere che vengono fatte dopo l’originale lasciano sempre l’amaro e la delusione del ‘’ non è come era una volta’’.

E invece, ragazzi e ragazze, possiamo ufficialmente esclamare ad alta voce: Jk Rowling è tornata!

Animali Fantastici e dove trovarli, è un film basato sulla storia dell’autore di uno dei libri utilizzati dagli studenti di Hogwarts. Insomma, è come se facessero il film sulla vita del mio professore di anatomia (Anastasi, ndr).

Al contrario degli altri film, tutti tratti dai rispettivi romanzi, questo era totalmente inedito: si può trovare, in libreria, il libro vero e proprio sugli animali fantastici, il libro, insomma, che hanno usato i nostri maghetti mentre andavano a scuola.

Come il mio libro di anatomia. È la, ho studiato su quello, l’ho sottolineato e martoriato ma non conosco la vita del suo autore.

Quindi, era assolutamente un salto nel buio. Nessuno sapeva come sarebbe andata. Ed è andata bene.

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Newt Scamander, futuro autore di un inutile libro di scuola, è un mago espulso dalla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts (contro il volere di Albus Silente che ha, come sempre, un debole per gli sfigatelli) che va in giro a raccogliere creature magiche.

Le infila tutte nella valigetta, prontamente camuffata con un incantesimo estensore (ma voi che ne dovete sapere, stupidi babbani). Finisce a New York, dove sa di poter trovare un esemplare raro.

Siamo in una New York durante gli anni del proibizionismo, dove c’è ancora la caccia alle streghe. Per questo, tutti i maghi e le streghe viventi, devono nascondersi, vivere nel segreto.

Ovviamente, come è solito nelle trame della Rowling, appena arriva il protagonista, per un errore banale, succede un putiferio. A Newt, infatti, scappa il suo snaso (che assomiglia ad un ornitorinco) e succede un manicomio.

Non voglio svelarvi troppo della trama. Vi dico solo che sentirete, anzi, per il piacere delle vostre orecchie, risentirete tanti termini conosciuti: auror, babbani (che in america chiamano ‘’nomag’’), Silente, Grindelwald, magono, incantesimi e bacchette.

Girato da David Yates, regista di parecchi film su Harry Potter, è un film con effetti speciali e ambientazioni sorprendenti. Tutto è, come sempre, perfetto, fino ai più piccoli particolari.

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E poi, il cast. Un cast stellare. Ci sono nomi come Colin Farrell, Dan Fogler, Allison Sudol, Katherine Waterstone. E, ancora, Johnny Depp che ha una scena lunga, si e no, 45 secondi ma, ehi, è magnifico come sempre. Ed è proprio la sua scena finale, di assoluta sospensione, che conferma quello che già si sapeva: ci saranno altri 4 film. Ed io onestamente non vedo l’ora.

Ma parliamo dell’attore protagonista: Eddie Redmayne. Ok, sarà che io l’ho visto per la prima volta nel 2006 in ‘’Symbiosis’’ e ne sono rimasta folgorata… Ma non si può. Non si può, gente. Questo tizio ha una mimica faciale, un linguaggio del corpo, un modo di porsi che è qualcosa di straordinario.

Ogni pellicola che interpreta sembra scritta su di lui. Che sia alla corte di Elisabetta, o l’agente di Marilyn Monroe, o un membro della CIA durante la seconda guerra mondiale; che sia uno studente rivoluzionario, o un grande scienziato a cui viene la SLA, o un transgender che combatte con sé stesso negli anni ’20… È sempre, sempre, meraviglioso (e poi, che gli volete dire, è un bono da paura).

Potterheads, simpatizzanti e anche chi Harry Potter lo odia (dicasi babbani): io vi dico SI. Andate a vedere questo film e non rimarrete delusi.

Il mondo di Harry è tornato nel modo più furbo: attraverso il primo dei 5 prequel che ci aspettano. Perché il sequel è pericoloso, scontato, può annoiare. Il prequel no.

E Jk lo sa, lo ha sempre saputo. Ci ha mezzi delusi con ‘’Harry Potter e il bambino maledetto’’ (che a me, per onor del vero, è piaciuto), ci ha fatto perdere ogni speranza, per poi ritornare così: attraverso il primo dei 5 film che, finalmente, ci sveleranno tutte quelle storie, tutti quei dettagli, di cui ci è stato dato solo un assaggio nella saga del maghetto.

Anche a chi non è mai piaciuto lo consiglio: perché no, magari con questo film potrebbe venirvi una curiosità tale da cambiare completamente il vostro punto di vista.

Dopotutto, in questo mondo, non si sa mai quello che può succedere.

Nana nanana nanaaa naaaa na nanana nanaaaa….

Elena Anna Andronico

 

“A tutte le unità: triplo nove. Agente a terra” – Recensione Codice 999 (Triple 9) di John Hillcoat

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Poliziotti, criminali, sparatorie e sangue, misti ad un’ atmosfera quasi “noir”, solo le caratteristiche fondamentali per formare un prodotto quale “Triple 9” (“Codice 999” in Italia) rappresenta. Diretto da John Hillcoat, la pellicola – dopo brevi dialoghi – ci immerge subito nell’azione, senza alcuna premessa o un tentativo di conoscenza dei personaggi presenti sullo schermo. Cinque uomini, che attraverso conversazioni fra gli stessi capiremo essere: Russell Welch (Norman Reedus),  Michael Atwood (Chiwetel Ejiofor), Marcus Belmont (Anthony Mackie), Gabe Welch (Aaron Paul) e Franco Rodriguez (Clifton Collins Jr.), rapinano una banca con un unico obiettivo, ovvero ottenere il contenuto di una determinata cassa di sicurezza in meno di tre minuti, così da poter sfuggire senza troppi problemi dalla polizia.

Procedendo secondo un accurato piano, in maniera assolutamente efficiente, riescono a portare a termine il loro compito ma non senza i classici intoppi di norma. Veniamo così a scoprire che i nostri protagonisti sono, per la maggior parte, poliziotti corrotti divisi fra chi è ancora in servizio e chi invece ha abbandonato la propria vocazione già da tempo , incaricati di compiere il lavoro su comando di una rilevante frazione della mafia russa che opera in terra americana. Benché il loro accordo stabilisse questa sola operazione, i russi sembrano non essere ancora contenti, chiedendo alla squadra nuovamente la loro “collaborazione” che trova il dissenso di tutti. Ma la posta in gioco è troppo alta…

Triple 9, uscito nelle sale a febbraio 2016 (aprile in Italia), vanta un cast importante con stelle del calibro di Aaron Paul (Breaking Bad), Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo), Norman Reedus (The Walking Dead), Anthony Mackie (Captain America), Woody Harrelson (True Detective), Kate Winslet (Titanic), Gal Gadot (Wonder Woman) e tanti altri. Tuttavia, nonostante la presenza di notevoli attori che sicuramente non mancano al loro talento recitativo , l’opera di Hillcoat convince poco. Con buone premesse, ricade nei classici stereotipi dei poliziotti corrotti e delle società consumate dalla criminalità interna ed esterna, con mancanza di veri e propri colpi di scena.

Interessante, invece, è l’impegno messo nel creare del realismo coinvolgendo reali agenti della SWAT, poliziotti e paramedici americani per alcune scene di azione di rilievo. Nel complesso il film non è definibile come un fallimento nella maniera più assoluta, ma manca quello scatto in più per renderlo migliore.

                                                                                                                                                             Giuseppe Maimone

In Guerra per Amore, un film di PIF

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A tre anni da “La mafia uccide solo d’estate”, di cui riprende protagonisti principali e tema, Pif torna dietro la cinepresa con il suo secondo film che lo vede nuovamente anche protagonista.

Seconda guerra mondiale come sfondo. Arturo Giammarresi (Pif) di origini siciliane ma trapiantato in America, è pronto a tutto pur di ottenere la mano della sua amata Flora (Miriam Leone), già promessa sposa di un altro uomo, anche ad arruolarsi con gli Americani e ad approdare di nuovo nella sua terra d’origine.

L’impresa amorosa è il filo conduttore che lega le due realtà presenti nel film: lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la presa del potere mafioso nella medesima.

La pellicola racconta con amara ironia una realtà ancora attuale; Pif si mostra all’altezza di affrontare nuovamente tale realtà e tali tematiche conducendo un film con una buona regia, lineare, senza eccessi particolari e senza errori.

Poco presente la linea comica che contraddistingueva invece l’opera precedente, anche se in alcuni punti fa il suo ritorno, come nell’esilarante lotta tra Duce e Madonnina. Buona la recitazione anche se è il protagonista stesso a presentare alle volte piccole sbavature. Ciò che stupisce è la fotografia e l’ottima ricostruzione delle ambientazioni.

Nel complesso è un film che seppur leggero fa riflettere su temi oltremodo importanti e sempre presenti nel nostro paese. Ne è assolutamente consigliata la visione!

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                                                                                                                              Benedetta Sisinni

Moonlight: un film da non perdere

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Negli ultimi anni l’industria cinematografica e televisiva ha avuto come tema ricorrente la questione di genere e la comunità LGBT. Pochi film però sono stati così delicatamente incisivi e toccanti come “Moonlight”, film di apertura dei festival di Telluride e Roma di quest’anno, è stato proiettato anche al NYFF, al TIFF e al BFI di Londra.

Seconda opera di Berry Jenkins racconta la vita di un ragazzino di colore nei bassifondi di Miami e l’accettazione della sua sessualità.

Strutturato in tre capitoli, per tre fasce di età, denominati col nome con cui Chiron si fa chiamare o viene chiamato. Da piccolo Chiron attira l’attenzione di uno spacciatore (interpretato da Mahershala Ali il cui nome non vi dirà nulla ma che avete visto in molti film e tv series fra cui House of cards nei panni di Remy Danton, l’avvocato che diventa capo dello staff di Underwood) che , insieme alla moglie (la cantante Janelle Monae) lo accoglie in casa, e sopperisce alla figura paterna.

I bulli che lo perseguitano fin da piccolo lo faranno diventare un’ altra persona da adulto. O forse sarà una semplice corazza. Chiron è una persona taciturna, quasi muto, sensibilissimo e timido. Il mare dietro quello sguardo profondissimo. La spiaggia e il mare: i luoghi in cui è libero di essere se stesso.

E’ un film necessario per l’America dopo la strage di Orlando e per gli spettatori di tutto il mondo, perché racconta la battaglia interiore ed esteriore di un ragazzo di colore , sessualità e bullismo. Delicato e prorompente, non scade mai nel cliché. Jenkins ha una visione unica e mai vista fino ad ora , permette agli spettatori di riflettere sulle ferite visibili ed invisibili dell’altro, argomento che probabilmente non aveva mai sfiorato la loro mente.

Insomma è un’opera da non perdere.

Arianna De Arcangelis

Cinefilia per idioti: i Film Romantici

 

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Tutti lo abbiamo fatto almeno una volta. E non mi riferisco al mettersi le dita nel naso in pubblico o al parlare male di qualcuno. Mi riferisco al fantasticare sulle le vite degli altri, quelle vite che cinicamente critichiamo ogni giorno al bar o su post svergognati ma che in, realtà, sogniamo da sempre. Tutti, insomma, subiamo il fascino delle tipiche storie d’amore a lieto fine. C’è chi si ostina a dare ancora la colpa ai cartoni Disney; io dico che è insito in un ognuno di noi quel sentimento di speranza che ci fa scegliere quel film, quella sera, “perché oggi m’annoio” per finire con un sorriso ebete o nel peggiore delle ipotesi, con una montagna di fazzoletti pieni di muco. Credo sia giunta l’ora però di essere onesti con noi stessi, che anche i film romantici a cui siamo più affezionati presentano dei cliché che si ripetono in loop, quasi come la melodia di un carillon rotto.

Le nostre protagoniste ( perché si ammettiamolo sono quasi sempre delle donne con evidenti problemi psicologici e relazionali) sono ovviamente inconsapevolmente bellissime, o semplicemente hanno bisogno di togliere solo un paio di occhiali da vista e sciogliere i capelli in rallenty, per non passare inosservata il giorno dopo a scuola/lavoro. Avete notato che difficilmente questo tipo di film sono ambientati all’università? forse perché, qui, sarebbe difficile immaginare un lieto fine anche nella fantasia? Come nelle favole, la protagonista ha quello che possiamo definire “un aiutante”, o meglio ancora, un’amica/o fuori dal comune ( solitamente cinico e con gusti d’abbigliamento discutibili).

Come ogni essere umano più o meno intelligente anche questo personaggio sarà costretto a rivalutare le proprie lucenti prospettive di “mangiatrice di uomini” o “piacione” per quelle che sono delle regole non scritte ma, sempre valide, che muovono il sole e l’altre stelle, potrà innamorarsi solo e soltanto dell’amico/a dell’anima gemella del/la protagonista. ATTENZIONE: esistono casi in cui le nostre care commedie romantiche riescono a stupirci con trame alternativamente scontate. Come quando il vero amore della protagonista le è sempre stato “davanti agli occhi” ma doveva attirare l’attenzione di mezza scuola per rendersene conto. Inutile fingere, sapete benissimo di chi sto parlando: del suo migliore amico.

Esemplare che suscita tenerezza fin da subito nello spettatore, perchè, chi non vorrebbe qualcuno che ci ami in modo segretamente incondizionato?Per tutto il film non faremo che dare della stupida alla protagonista, Perché ” che scema come fa a non accorgersi che è lui quello giusto!” ma ei quello che critichiamo negli altri è quello che non sopportiamo in noi stessi. Ciononostante l’obiettivo ultimo di ogni ragazza non sarà quello di realizzarsi come donna ( professionalmente o spiritualmente) ma quello di essere notata dal più bello, anche involontariamente, perché essere sfigata o racchia nei film non ti salverà dal trovare il vero amore.

Ed è dopo questa affermazione che mi preme chiedervi, siete ancora sicuri di voler vivere in film? Non rispondetevi subito però, ancora non ho finito. Se la protagonista o il protagonista sta con qualcuno all’inizio del film, il regista, la cui mission è quella di fare innamorare i due, crea catastrofi e spargimenti di sangue affinché possano stare insieme. Vietato lasciarsi come delle persone normali ( ma chi è che si lascia in modo normale?) Lui o lei prima dovranno soffrire, come quando sei costretto a trattenere la pipì per ore, perché tu la fai solo nel tuo bagno o perché altrimenti ti sentono, affinché poi la cose vadano come dovevano andare. PS: La scelta del regista di far vedere o intendere al protagonista che il proprio partner li tradisca è un optional.

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Prima degli intrighi e dei tradimenti ( sopracitato) i protagonisti devono trovarsi, e questo genere ci pone due alternative sempreverdi: Dall’odio nasce l’amore o amore a prima (s)vista. La teoria “l’odio non è altro che l’altra faccia dell’amore” diviene terreno fertile per questo genere di film. Prima di arrivare ad un lieto fine smielato, per non rendere tutto estremamente scontato ( e quindi renderlo oltremodo scontato), i due protagonisti proveranno davvero poca simpatia l’uno per l’altro, punzecchiatosi per tutto il film, una sera in riva al mare apriranno il loro cuore l’un l’altro e si innamoreranno. Certo, potrebbe accedere anche a bordo piscina, davanti casa, su un prato sotto le stelle, il punto è che succede. Ed anche se questo aspetto potrebbe sembrare possibile nella realtà, nessun ragazzo pagherà la banda e canterà ” i love you baby” scendendo le scale davanti tutta la scuola ( vedi 10 cose che odio di te).

Ma avete presente quando ad un concerto voltate la testa e in mezzo a tutte quelle persone lui è li, li che vi guarda ed entrambi provate qualcosa? NELLA REALTA’ NON ACCADRA’ MAI, o se dovesse accadere io vi consiglio sempre di girarvi per vedere se c’è qualcuno di più interessante di voi alle vostre spalle, perché magari quello sguardo languido non è per voi( cioè quasi sempre). Ma nei film accade spesso e volentieri che l’amore nasca da subito, con un solo sguardo. ( Questo perché l’aspetto fisico non è tutto nella vita, bambine). Ovviamente non diranno mai che dopo tre giorni dalla fine del film i protagonisti si lasciano. Perché sognare è bello. E noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Più del metabolismo lento e della cellulite, una maledizione che colpisce tutte le ragazze è quella convinzione innata di poter cambiare le cose, le persone

Dentro ognuna di noi nasce, cresce e corre una piccola anima da crocerossina che ci impedisce di vedere le cose per come stanno. Non capite? E’ lapalissiano,colpa dei film che ci fanno credere che solo con il nostro amore incondizionato e la nostra dedizione potremmo cambiare lo stronzetto di turno. ( come se tutti i cattivi ragazzi fossero come Dylan e tutte le ragazze come Branda di Beverly Hills 90210). Ragazze, fingere di non essere gelose o ignorare il fatto che sia andato a letto con molte ragazze prima di voi non è la soluzione. Ne realmente possibile, a meno che non siate malate terminali ( vedi i passi dell’amore) e quindi non avete tempo da perdere in queste elucubrazioni mentali. (Perciò siate ingegnose: usate le malattie a vostro vantaggio. Anche un raffreddore.)

Dopo essersi incontrati, amati e lasciati tutto si conclude con un colpo di scena del tutto scontato: lasciare qualcuno all’altare per chi sia ama davvero (per prendere una decisione seria aspetti fino all’attimo prima di sposarti, “perché non si sa mai”), scoprire che è uscito con voi solo per una scommessa, ma alla fine, vi ama davvero ( questa cosa, lui, mica poteva dirla prima. La deve scoprire lei origliando discorsi fatti con altri), scoprire che in realtà amavate quel ragazzo sfigato che vi è sempre stato vicino, e non il belloccio su cui volevate fare colpo per tutto il film. Una mia spassionata considerazione? Questi film non ci insegnano nulla, se non di continuare a fantasticare e perciò vivere infelici. Smettete di vederli.

 

Elisia Lo Schiavo

The Beatles: il documentario ufficiale che esplora l’epoca dei tour e l’influenza sull’immaginario pop

È pronta l’edizione in DVD del documentario di Ron Howardil capello rosso Richie Cunningham di Happy Days – dopo l’uscita nelle sale nell’ultima settimana di settembre.

The Beatles – Eight days a week. The touring years è un lavoro accurato che arriva al termine di una ricerca condotta sulle riprese audiovideo dei concerti dal vivo, incluso il materiale inedito in mano ai fan, e arricchita dalle interviste ad alcuni testimoni illustri, tra cui Elvis Costello e l’attrice Whoopi Goldberg, e dai tanti filmati d’archivio ricavati dalle conferenze stampa e dai backstage di tutto il mondo, attratto dalla forza gravitazionale della beatlesmania.

Gli anni raccontati anche attraverso le registrazioni originali degli speaker delle radio, e dalle voci straziate dall’emozione dei teenager braccati dietro i cancelli dei concerti dal cordone della polizia, sono quelli della stagione dei live compresa tra il ’62 e il ’66: un’epoca straordinariamente limitata rapportata agli esiti imponenti sul costume, e ai riverberi che, negli anni a venire, hanno attinto a un serbatoio in grado di contenere molte espressioni della musica futura.16artsbeat-beatles-blog480

La storia della scalata nelle classifiche, e quella che esplora l’universo a sé della memoria collettiva nutrito dalle canzoni composte da John al piano, e Paul, mancino, davanti a lui come in uno specchio, nel lasso temporale incredibilmente breve – da fare girare la testa – che hanno impiegato a metterle su carta, è nota. E così i concerti che ne hanno segnato le tappe; dal Cavern a Liverpool, all’epopea degli esordi di Amburgo passando per Milano nel giugno ’65 e finendo sul tetto degli studi della Apple a Londra. Il docufilm si avvale però di una patente di ufficialità perché vede insieme a Howard (regista tra gli altri di A Beautiful Mind, di Apollo 13 e del recente Inferno) la collaborazione dei due beatle superstiti e degli eredi di Lennon e George Harrison.

La scelta di restringere il campo narrativo a una visuale esclusiva, che risente dell’enorme quantità di materiale esistente prodotta in quegli anni, non comporta l’esclusione di altri aspetti che girano intorno alla fenomenologia della band; l’impressione semmai è che il film tralasci, proprio a dispetto della trasversale quantità di questioni e suggestioni che ha saputo mettere a fuoco, alcuni elementi che non andavano cacciati nell’angolo; uno per tutti la presenza di Pete Best alla batteria prima di Ringo, del quale non si vede nemmeno un fotogramma. Complessivamente il campo di indagine più che essere rivolto all’aspetto evolutivo squisitamente musicale, mette al centro l’importanza di una forza aggregativa mai esistita prima di allora; quella scaturita dalle file di un movimento giovanile che (in epoca pre social!) riusciva a catturare e concentrare ovunque masse appassionate, quasi impossessate da un’entità superiore, disposte a tutto. “Ho sempre provato compassione per Elvis. Lui era solo, noi almeno siamo in quattro” ha confessato dopo un concerto George travolto dalla stretta dei fan; sconcerto e stanchezza generali a cui Help (una delle canzoni preferite da Lennon, come lui stesso ha affermato, proprio perché vera) ha fornito simbolico approdo.betales

Il docufilm ha saputo mettere insieme una grande quantità di materiale proveniente da fonti diverse con sistematicità espositiva venendo incontro a una sfida enorme; su Facebook nel 2014 la pagina fan dei Beatles aveva avviato la ricerca di qualsiasi ripresa audiovisiva inedita conservata dal pubblico dei concerti degli anni ’60: la risposta è stata così ampia che si è dovuto creare un centralino telefonico in grado di gestire la quantità di documentazione che arrivava. Se tuttavia la mole di immagini inedite, così come di interviste (famosa quella in cui John Lennon paragonò i Beatles a Gesù, scatenando le ire oltranziste dei cattolici statunitensi), per un fan sfegatato che si muove da anni nel sottobosco dei bootleg e dvd regala in realtà poche novità di rilievo, Eight days a Week ha il merito di avere alle spalle un lavoro qualificato di restauro realizzato dai tecnici del suono sfruttando alcuni espedienti innovativi. Accanto al percorso cronologico lineare, anche se con qualche elemento grafico a fare da elemento di disturbo, in mezzo allo straordinario fenomeno di isteria collettiva, c’è anche una storia di amicizia, fratellanza e di sfacciataggine e libertà espressiva a cui i giovani hanno sempre guardato con emulazione. Tra i momenti più emozionanti il coro allo Anfield Road dei tifosi del Liverpool sul testo di She loves you. Non manca poi l’impegno, quando, durante gli anni della segregazione razziale, a Jacksonville, i fab four si rifiutarono di suonare se non fosse consentito ai neri di sedere nel pubblico insieme ai bianchi.

I 30 minuti finali allo Shea Stadium di New York sono senza dubbio la parte più coinvolgente: si viene catapultati instantaneamente dentro un’epoca che nei suoi effetti dura ancora ai nostri giorni. Impossibile non cantare insieme ai ragazzi accerchiati dai musi lunghi dei genitori e dai soccorritori che reggevano chi sveniva tra gli spalti. Non si era mai vista una quantità simile di persone a un evento musicale. Era la prima volta che uno stadio veniva utilizzato per un concerto. Lì sul palco dotato di casse poco più potenti dell’impianto stereo nelle nostre case, non si sentiva niente, e loro suonavano soltanto seguendo il movimento dei bacini e dei piedi. Era il ’65, pochi anni dopo che tutto era cominciato. C’erano 55.000 persone nel pubblico, altrettante erano rimaste fuori ad aspettare. Qualche mese dopo a San Francisco, al Candlestick Park, si chiudeva la stagione dei live per la stanchezza e i retaggi di una vita folle passata in tour, costellata dagli incontri con i reali e con i giornalisti, ancora prima che Sgt. Pepper venisse dato alle stampe.

Eulalia Cambria

Cafè Society: leggerezza e ironia amara nel nuovo film di Woody Allen

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Se l’autunno che avanza diffonde sulle nostre vite una ventata malinconica in grado di allontanare i ricordi briosi e dolci dell’estate, l’avvio della nuova annata di cinema offre un efficace antidoto capace di risollevarci, o almeno di incanalare nel giusto cantuccio le emozioni che erano rimaste a lungo assopite sotto l’ombrellone. Il ritorno di Woody Allen, regolare come quello delle stagioni, rischiara i sentimenti con tocco soave, riconducendoli al proprio ordine naturale. Appaiono vivaci i riferimenti consueti del cineasta in un’opera che racconta l’amore non senza sganciarsi dagli aspetti beffardi dell’esistenza. E che ancora attraversa con nostalgia le lancette del tempo.

 

Siamo nei colorati anni ’30 dello star system di Hollywood. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un giovane ebreo di New York figlio di un orefice per nulla attratto dalla prospettiva desolante e noiosa che la permanenza in città e il lavoro del padre paiono offrirgli. Con l’ambizione di inserirsi nell’industria del cinema si rivolge allo zio Phil (Steve Carell) manager di attori famosi, presenza attiva alle feste eleganti a bordo piscina. Il rapporto coi divi e la società frivola di Los Angeles si impadroniscono della sua nuova vita e sarà così, alla fine, l’incontro con la disinvolta e magnetica Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil, a stravolgere ogni suo progetto. Il triangolo amoroso che coinvolge i tre protagonisti scaverà con intensità il dubbio della scelta dell’amata. La delusione al ritorno nella città natale farà crescere Bobby senza inibizioni e lo spingerà a fondare un locale notturno frequentato da alcune teste coronate d’Europa, da signori mondani e altolocati della società dell’epoca, nonché da esponenti della malavita italo-americana.

 

In Cafè Society, frutto delle 80 candeline spente dal regista lo scorso dicembre, i temi dei film di Woody Allen ricorrono senza esclusione di colpi: l’umorismo corale dei personaggi brulicanti e caratterizzati di Radio Days, il fascino fiabesco verso altre epoche, i due poli in antitesi di New York e Los Angeles alla maniera di Annie Hall, il sempre eterno ritorno alle proprie origini newyorkesi e quel senso di attesa e di oscuro presagio rappresentato dal futuro che incombe. Non sono nuovi gli argomenti cari al regista, affrontati senza dubbio con ben diverso spessore e profondità che in altre storiche pellicole precedenti. Eppure l’apparente giocosità e mancanza di pesantezza di questa nuova brillante amara commedia romantica lascia posto a espedienti tecnici e a una rinnovata cura del dettaglio, specialmente visivo, realmente sorprendenti.

cafesocietIl peso di Vittorio Storaro alla fotografia (premio oscar per Apocalypse Now) si palesa su una storia semplice, priva di novità clamorose, nel solco di una rappresentazione tipica e prevedibile, ma accompagnata da immagini e sensazioni che lasciano il segno. A catturare lo schermo è l’eccezionale bellezza di Kristen Stewart, vera nuova musa di Woody. Ma è anche l’ironia, cifra del suo cinema, che non subisce increspature, incrinature, segni del tempo. L’esito finale è quello di un regista che dopo ben 47 film mantiene ancora in piedi la sua freschezza. Cafè Society è un film imperfetto, così come lo sono talvolta le opere che arrivano a sedimentarsi nel nostro immaginario per arricchirlo e costruirci intorno altre storie. E questo proprio perché, come uno dei personaggi afferma in una scena, la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo. Il film scorre veloce e a tratti con passaggi frettolosi, ma non perde di vista la sua efficace unità espressiva fortemente inquieta e drammatica dietro la patina di leggerezza.

 

Messo da parte il tono sarcastico delle origini, la verve comica cerebrale e nevrotica dei primi film, Cafè Society è un’opera della piena maturità, formalmente riuscita, in buona misura riassuntiva e emblematica (immancabile la colonna sonora jazz nei titoli di coda e la magia che l’avvolge). Un film che vale la pena andare a vedere nelle sale, e che, alla fine della proiezione, accantonate le incertezze e le riserve sulla sceneggiatura, rimane come puro esempio di cinema.

Eulalia Cambria