A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone

La Bella e La Bestia: incanto Disney per ogni età.

Era il 1991 quando nelle sale, uscì quello che è stato il 30° film d’animazione della Disney: La Bella e La Bestia.

Questo cartone ha raggiunto il primo grande traguardo del mondo Disney: è stato il primo film d’animazione in assoluto ad essere candidato agli Oscar con ben 5 nomination e, infine, ne vinse due per la Miglior Colonna Sonora e la Miglior Canzone.

La storia della Bella e la Bestia la conosciamo (quasi) tutti. Parla di questa giovane e bellissima ragazza, figlia di un inventore, che abita in un isolato paesino di campagna nel quale si trova stretta. Siamo nel pieno del ‘700 francese e questa splendida ragazza, amante della letteratura, è, per ovvie ragioni, reputata strana, diversa.

Parallelamente, in un castello non molto lontano dal villaggio della ragazza, un giovane principe è stato trasformato in Bestia da una fata, che lo ha fatto per insegnargli che non bisogna mai giudicare le persone dalle apparenze. Infatti, la stessa fata, si era presentata alle porte del castello del giovane arrogante, sotto le sembianze di una vecchina e porse lui una rosa in cambio di una notte di riparo.

Il principe la respinse e lei si rivelò. La rosa era una rosa incantata e solo il vero amore poteva spezzare l’incantesimo. Se nessuno si fosse innamorato della Bestia prima della caduta dell’ultimo petalo della rosa incantata, allora il principe sarebbe rimasto una Bestia per sempre.

Il resto lo conosciamo bene: il padre di Belle si perde nei boschi e cerca riparo nel castello della Bestia, dove viene imprigionato dalla stessa. Belle riesce a raggiungerlo e dona sé stessa in cambio della liberazione del padre.

Da quel momento, tra alti e bassi, inizia questa strana convivenza tra la Bella e la Bestia e, piano piano, tra loro due sboccia l’amore. Un amore che, con una delle morali più dolci e profonde di tutta la Disney, va oltre le sembianze esterne in quanto all’amore basta il cuore e non l’aspetto esterno.

Ed è questo quello che troviamo in questo periodo nelle sale cinematografiche: la fedelissima trasposizione della trama animata in film.

Il film della Bella e la Bestia non lascia delusi perché nulla, a parte qualche parola qua e là nelle canzoni (che, comunque, costituiscono una colonna sonora assolutamente vincente), è diverso dal cartone animato. La magia è rimasta intatta e, grandi e piccini, vengono trascinati da essa in questa favola che così bene conosciamo.

Ci sono, però, delle canzoni e delle scene inedite: queste non spezzano o stravolgono la trama, anzi, ci rendono partecipi di alcuni piccoli particolari che ci fanno affezionare ancora di più a questa storia, che la rendono più umana, più reale. Queste scene inedite (che non vogliamo spoilerare) possono insegnare come tutte le nostre vite sono delle fiabe perché anche nelle fiabe c’è la realtà del dolore e delle sofferenze in cui tutti noi, durante il corso della vita, ci imbattiamo.

Il cast è un cast assolutamente vincente: da Emma Watson (Hermione ndr) a Dan Stevens, Luke Evans, Kevin Kline, Josh Gad, Ewan McGregor. Nella versione originale sono tutti da chapeu in quanto sono loro stessi gli interpreti delle canzoni, mettendo in scena, di conseguenza, un vero e proprio musical.

Nella nostra versione italiana, si riconosce il grande stile del doppiaggio italiano: non ci sono distacchi fastidiosi tra le voci parlate e le voci cantate dei personaggi e, anzi, sono quasi uguali anche alla versione cartone animato tanto da lasciare il dubbio se siano gli stessi doppiatori del ’91.

È stata criticata la figura di Emma, in quanto, ad alcuni, ha dato l’impressione di essere più piccola della Belle che conosciamo: ricordiamoci però che tutte le principesse Disney hanno 16 anni e che, anzi, sono le principesse animate a sembrare troppo donne rispetto alla loro reale età.

Altro punto di dibattito è la figura di Le Tont, il leale amico di Gaston: la Disney ha deciso, in questa versione, di renderlo palesemente un personaggio omosessuale, innamoratissimo del suo amico. Bene o male? Bene! È giusto che la Disney, per prima, spezzi i dogmi che ci circondano e insegni la bellezza della diversità a tutti i bambini, con la sua delicatezza materna.

Per me, promosso con 30 e lode: dolce, veloce, commovente e magico. Personalmente, sono molto legata a questa trama e ai suoi vari insegnamenti. Quello che a me è da sempre arrivato più di tutti, è quello della speranza, del cambiamento che prima o poi arriva: ‘’quando sembra che non succeda più, ti riporta via, come la marea, la felicità’’…

Film o cartone, comunque, il commento è sempre lo stesso: ma chi lo vuole il principe… Noi vogliamo la Bestia!

Elena Anna Andronico

Cinefilia per idioti: il musical

Tutti canticchiamo.
Chi appena sveglio, chi sotto la doccia, chi in macchina, chi mentre si fa il bidet.
Tutti abbiamo sempre sognato di poterlo fare, magari sul tram, sull’autobus, sul treno accompagnati da un’ipotetica colonna sonora della nostra vita. Ed esistono solo due tipi di persone, chi lo ammette e chi mente.
Il lapalissiano successo di La la land mi obbliga a farvi dono di questo articolo per questo mese speciale che è Marzo (pazzerello esci con il sole e prendi l’ombrello).
Il genere che ho deciso di analizzare in modo sempre totalmente professionale e mai soggettivo, è proprio quel genere di film che o lo ami o lo odi (un po’ come i tuoi genitori): il MUSICAL. Genere che fin dalla culla ha accompagnato ognuno di noi, che ci piacesse o meno, ha creato delle colonne sonore che ancora oggi tutti conosciamo e qualsiasi serie tv che si rispetti vanta tra le proprie puntate, una versione musical.
Ma più di Sanremo, più del dentifricio che ti macchia i vestiti mentre ti lavi i denti, in modo inspiegabile, e tua madre ti dice ” ma tu perché ti lavi i denti vestita?” più della gente che dice “che vita sarebbe senza nutella”, più di tristi trentenni con la parrucca, che fanno video fingendo di essere delle ragazze, più di tutto questo io odio i musical.
Dopo quest’affermazione così decisa e del tutto inaspettata (non è vero) voi vi chiederete; Ma Elisia sei cresciuta a latte e Nesquik, fiabe sonore e cartoni animati Disney, come puoi dire una cosa del genere? E io vi risponderei come ad ogni domanda che mi viene posta ogni giorno della mia vita da quando sono nata: NON LO SO.
Il mio amico Nicola mi dice sempre di dover essere in grado di argomentare qualcosa, specie se, questo qualcosa, non mi piace.
Io sono dell’idea che non vi sia bisogno di argomentare un genere che agli occhi di un qualsiasi individuo, dotato di buon senso e poca pazienza, appaia odioso; ma per evitare di congedarci precocemente, facciamo un passo indietro.
La fonte certa di cui mi avvalgo sempre (Google) sostiene che il musical nasca negli USA il 12 settembre 1866, dalla fusione fra una compagnia di ballo e canto importata dall’Europa, con una compagnia di prosa, in quanto la prima era rimasta senza un teatro in cui esibirsi mentre, la seconda, era alle prese con una produzione che si stava rivelando più dispendiosa del previsto.
Bastano questi pochi accenni, a mio avviso, per capire che una cosa nata per caso e per risparmiare non possa generare nulla di buono. Superando quelli che sono i preconcetti , sempreverdi, legati al musical : che sono venerati da qualsiasi americano e dagli omosessuali, notiamo fin da subito che non si adattano proprio ad ogni genere cinematografico o teatrale. Basti pensare ad un contesto horror o drammatico, perché in quei casi credo si abbia altro di cui preoccuparsi anziché cantare.
Questo genere si sposa perfettamente con trame banali e cariche a loro volta di cliché tipiche del loro genere ( come quando una modella sposa un anziano milionario). Ma a noi, l’ovvio misto allo stravagante ci piace e quindi assistiamo a personaggi estremamente caratterizzati che si presentano a noi con canzoni di gruppo esaltando i loro più banali aspetti caratteriali (in viaggio con Pippo docet), tutti estremamente intonati e ballerini professionisti.

La peculiarità che mi lascia sempre esterrefatta (quasi infastidita), è la nonchalance con la quale tutti continuino a fare ciò che stavano facendo, prima che iniziassero a cantare e ballare, appena la musica finisce. E nonostante io abbia apprezzato Gesù e Giuda cantare in Jesus Christ superstar, o aver apprezzato Jessica Fletcher guidare un letto in pomi d’ottone e manici di scopa, e nonostante io mi compiaccia mi ogni volta che riesco a dire correttamente supercalifragilisitchespiralidoso; credere in un cavallo con il corpo da uomo che parla (Bojack horseman) oppure nell’esistenza in un sottosopra (Stranger Things ) lo ritengo più semplice.
Più del vedere uomini, donne, bambini e anziani ballare e cantare improvvisamente (con spunti futili, ad esempio riordinare una stanza) anche da soli in mezzo alla gente o sotto la pioggia.
Ma forse la magia dei musical è proprio questa: possono essere apprezzati solo dai sognatori. Oltre che dagli omosessuali.

Elisia Lo Schiavo

 

Da Stromboli a Idea di un’isola. La Sicilia e i siciliani per Roberto Rossellini

In occasione dei 40 anni dalla morte, la rassegna BAM – Biennale Arcipelago Mediterraneo, alla sua prima edizione, ha ospitato a Palermo nella sala dei Cantieri Culturali alla Zisa intitolata a Vittorio De Seta, una due giorni (17-18 febbraio) dedicata allo stretto legame intercorso tra il cinema di Roberto Rossellini e il soggetto che ha ispirato alcune delle sue pellicole più celebri.
Nell’incontro che ha preceduto le proiezioni sono intervenuti nel dibattito Bruno Roberti, critico ed esperto di Rossellini, il regista Franco MarescoRenzo Rossellini, figlio di Roberto e produttore cinematografico (ricordiamo, in mezzo alle centinaia di titoli famosissimi Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli, Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, La città delle donne e lo stralunato film a sfondo sociale Prova D’Orchestra di Federico Fellini).

Renzo Rossellini ha anche collaborato insieme al padre alla scrittura di quella che è la testimonianza diretta del suo rapporto d’elezione con la Sicilia e con la sua anima popolare: Idea di un’Isola è un documentario pensato per la TV americana con il contributo della Rai alla fine degli anni ’60 e di recente riproposto nella programmazione di Fuori Orario. Una terra sempre cara al cineasta che ha fornito una lettura attenta per raccontare in poco meno di 60 minuti i luoghi e le espressioni salienti sedimentate in secoli di storia della più grande isola del mediterraneo: “la mitica rupe di Scilla e il gorgo di Cariddi sono i pilastri dello stretto che la divide dal continente”.
A fare da raccordo a una carrellata che mette in simbiosi il teatro dei pupi, il vivo fuoco del folclore religioso, l’arte e l’islam, le saline e lo sguardo sulle industrie attive in quegli anni tra Gela e Milazzo, i tratti tipici del siciliano che quasi per abitudine secolare, costretto ad avere sempre un nuovo oppressore, ha maturato diffidenza, prudenza e segretezza: “in Sicilia certe cose non si dicono; si alludono. Per cui si è sviluppato un linguaggio più discreto di quello verbale, fatto di gesti. Più significativo”.

La voce fuori campo del palermitano Corrado Gaipa (doppiatore di Burt Lancaster nel Gattopardo) mostra uno spaccato interessante della realtà di alcuni luoghi, anche se non privo di una impostazione didattica un po’ cartolinesca, se vogliamo, del resto tipica di questo genere di produzione rosselliniana anche negli anni a venire, accompagnata a delle immagini documentarie comunque ricche di freschezza e leggerezza. Fu per effetto della forte presenza di immigrati italiani se nel ‘67 una famosa TV statunitense chiese a Rossellini di realizzare un cortometraggio che avesse come tema la Sicilia. Lui, che di Palermo conosceva ogni angolo, compresi i migliori ristoranti – ha precisato il figlio – accolse come un’opportunità irripetibile l’occasione del soggiorno nell’isola per realizzare le riprese. Alcuni critici osservarono come la rappresentazione idilliaca e pacifica di Idea di un’isola occultasse, al di là di una superficiale coloritura, ogni riferimento problematico alla mafia. Una decisione imputabile in buona misura alle direttive dell’emittente. Certo è che sono ancora lontani gli anni in cui le trattative stato-mafia, anche se già attive storicamente, sarebbero venute a galla.

Ma la Palermo tanto amata da Roberto Rossellini, città dell’accoglienza e scenario in cui civiltà diverse avevano convissuto (la Sicilia è la chiave di ogni cosa, diceva Goethe), è anche lo specchio del suo modo di operare con la cinepresa; tanto che, questa volta in tempi non sospetti, scrisse una sceneggiatura destinata a una serie in cinque puntate mai realizzata e pubblicata poi da Renzo col titolo Impariamo a conoscere il mondo musulmano (1975). Una storia dell’Islam rivolta alla televisione. Per Rossellini che nell’ultima lettera al figlio scriveva “ho cercato di fare per tutta la vita del cinema un arte utile agli uomini” il cinema doveva essere diretto non al “pubblico”, ma all’intelligenza della gente. Anche la televisione poteva quindi diventare uno strumento utile per non subire l’influsso della propaganda e per non diventare vittime di dittatori o come oggi, di politici prepotenti.
Bruno Roberti ha ricordato in proposito come il suo fosse un cinema senza uniforme: “È imprendibile, non può essere catalogato e storicizzato, per questo è attuale”.

Per molti abitanti di Stromboli l’arrivo della troupe insieme alle macchine da presa coincise con la scoperta del cinema. Il film del 1950 racconta l’incontro di una profuga con un prigioniero di guerra palermitano in un campo per stranieri alla fine della seconda guerra mondiale. Impossibilitata a tornare in Argentina la giovane decide di sposare l’uomo e, partendo da Messina, di trasferirsi con lui a Stromboli. Il tenore di vita e gli usi locali, molto lontani dalle sue abitudini, porteranno la ragazza a ripudiare il posto in cui si trova e desiderare di scappare dal giogo di un’isola primigenia e primitiva.

Stromboli – Terra di Dio (oggi in versione restaurata grazie alla cineteca di Bologna) è un film spiazzante e modernissimo, in cui polemicamente si è tentato di ravvisare un indizio di conversione al cattolicesimo ma che racchiude una spiritualità diversa, concreta e sofferente, che risiede nell’asperità selvaggia che riveste i tratti delle coste, che investe la severità del vulcano pronto ad esplodere, le case dei pescatori, e in generale l’umanità dei personaggi, cioè gli uomini e le donne dell’isola. Non traspare alcun giudizio morale o parodia macchiettistica costruita nel caratterizzare i siciliani che collaborarono a fianco di Ingrid Bergman (proprio a Stromboli nacque la sua storia d’amore con Rossellini. E per ripicca Anna Magnani lavorò a un altro film alle Eolie; Vulcano).
Prima di iniziare a girare il regista proiettò un film da mostrare abitanti di Stromboli per spiegare loro quello che stavano per fare. “Stromboli è un film sull’umanità, sulla cattiveria, e sulla capacità del cinema di redimere. Racconta delle cose vicine a quelle che viviamo oggi: un personaggio che arriva dall’estero e viene visto come un intruso. Un essere umano che viene trattato come straniero. Quello che sta succedendo un po’ oggi in Italia e in Europa”.
Così dopo il restauro è potuta riaffiorare tutta l’intensità delle immagini e la potenza feroce della natura. L’avventura di Stromboli non è soltanto quella legata a un film, e non si conclude una volta terminate le riprese, ma consiste nella capacità del cinema di entrare in contatto con un luogo e diventare parte delle memoria di una comunità.

Stromboli ha segnato un punto di svolta che non ha mancato di condizionare la Nouvelle Vogue francese.
Ma Rossellini ha inserito riferimenti alla Sicilia anche in Paisà e Viva l’Italia!. Se avesse potuto scegliere, ha detto Renzo con convinzione, avrebbe voluto essere siciliano; di loro ammirava l’intelligenza e il senso dell’umorismo: “Era anche innamorato della cucina siciliana e forse pure di qualche signora siciliana. Diceva che senza stima non si può amare. Lui stimava e si innamorava. Questa è la storia di Roberto Rossellini”.

Eulalia Cambria

Quando girare con un Super 8 era bello da morire

Nel lontano 1979, in Ohio, un giovane ragazzo di nome Joe Lamb (Joel Courtney) perde la madre in un incidente di fabbrica.
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La scena si apre proprio sulla veglia di quest’ultima, con Joe in lacrime, seduto su un’altalena che assiste inerme ad un ospite (Ron Eldard) appena arrivato cacciato dal padre del ragazzo (Kyle Chandler), facente parte del comando di polizia locale.

Passati quattro mesi, Lamb sembra apparentemente aver superato la morte della madre e insieme al suo migliore amico Charles Kaznyk (Riley Griffiths) ed altri suoi compagni di scuola Cary McCarthy (Ryan Lee), Martin Read (Gabriel Basso) ePreston Scott (Zach Mills), decidono di girare un film per un concorso cinematografico, trattando una storia basata su degli zombie e un detective che indaga su di essi.
Charles riesce ad aggiungere al gruppo una ragazza molto popolare a scuola, Alice Dainard (Elle Fanning), per interpretare la moglie del detective. Così, gruppo riunito, si danno appuntamento a mezzanotte per dirigersi verso una stazione ferroviaria per girare una scena precisa del futuro film, approfittando del passaggio del treno per rendere la scena più emblematica.
Tutto tranquillo finché Joe nota un pick-up dirigersi verso le rotaie in direzione del treno. Nel momento stesso in cui avvisa i suoi amici, avviene l’impatto devastante, talmente impetuoso da far deragliare il treno e far letteralmente volare tutti i vagoni che si disperdono nella zona circostante. Verificata la situazione di tutti i componenti della “produzione”, per fortuna interamente illesi, si dirigono verso il pick-up, dove trovano alla guida un loro professore scolastico, Thomas Woodward(Glynn Turman) che puntandogli una pistola contro gli intima di scappare e di non parlarne con nessuno, pena l’incolumità loro e delle loro famiglie.

Stasera-in-tv-Super-8-di-JJ-Abrams-su-Italia-1-8Con “Super 8”, per chi non ne fosse a conoscenza, si intende un tipo di formato cinematografico nato nel 1965. Ed è proprio da questo che il noto regista J.J. Abrams prende il nome per il suo film del 2011, prodotto anche da Steven Spielberg.
Perché proprio “Super 8”? Fondamentalmente al centro delle vicende c’è proprio la cinepresa e la necessità di creare un film, per cui sebbene si marginale, è proprio essa ad essere la protagonista ed il motore del film.
Il lavoro di Abrams è pieno del suo stile, tratti caratteristici ed altre componenti che lo rendono assolutamente particolare. Per i più, sembra ricordare lavori quali “Lost”, intramontabile e leggendaria serie tv curata proprio dal suddetto regista. Scindendo dalle componenti fondamentali come fotografia e regia, che sono senza dubbio curate e discutibili solo con note positive, la narrazione nonostante tratti temi che almeno in teoria potrebbero risultare contrastanti, riesce a creare un connubio perfetto rendendo ciò che sembra impossibile, quasi plausibile.
Un lavoro egregio che, sicuramente, non renderà Super 8 un film perfetto, ma assolutamente un opera piacevole e bella da vedere. Che, in sostanza, questo è ciò che importa.

 

Giuseppe Maimone

 

Un cult del cinema : Pulp fiction

“Quando devo scrivere una sceneggiatura io parto sempre dalla musica dei titoli di testa. Diventa il ritmo del mio film!”

pulp-fictionAprite Internet, cercate Miserlou di Dick Dale, mettete su le cuffie e preparatevi ad essere proiettati in uno degli universi più adrenalinici, frenetici e coinvolgenti che il cinema abbia mai partorito.

Benvenuti in “Pulp Fiction”!

PS: si prega di indossare gli occhialini protettivi, ci saranno parecchi schizzi di sangue…

È il 1994 quando nelle sale cinematografiche di tutto il mondo viene affisso un manifesto raffigurante una provocante ragazza con gli occhi di ghiaccio e il caschetto nero (Uma Thurman) che regge una sigaretta in una cupa stanza da letto; in cima, una scritta gialla a caratteri cubitali: “PULP FICTION”, diretto da Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, John Travolta, Bruce Willis, Tim Roth.
In poco tempo diventerà uno dei Cult della cinematografia mondiale di tutti i tempi, uno di quei film che ogni amante del cinema deve aver visto almeno una volta nella sua vita.

La storia è divisa in tre episodi che non seguono l’ordine cronologico (l’ordine della fabula), ma si intrecciano tra di loro riprendendo lo stile già usato da Tarantino nel suo precedente film “Le Iene”. Il risultato di questa scelta è una sorta di smarrimento tra i dialoghi convulsi e i colpi di scena che, come in un climax, accresceranno la suspense attimo dopo attimo:

1) Vincent Vega e Jules Winnfield

Sono due gangster al servizio del boss Marsellus Wallace, interpretati rispettivamente da John Travolta e Samuel L. Jackson, che avranno il compito di recuperare una misteriosa valigetta sottratta al proprio capo da un gruppo di ragazzi. Arrivati nel loro appartamento i due killer faranno fuori tutti i giovani tranne uno, che viene rapito per essere portato al cospetto del boss. In questa scena si colloca per la prima volta nel film il famoso monologo che Jules era solito recitare prima di uccidere le sue vittime, tratto da un “particolare” passo biblico “Ezechiele 25:17”, che effettivamente risulta ispirato, in parte, da un “Credo” di arti marziali del famoso Sonny Chiba, attore e regista di film orientali, particolarmente amato da Tarantino. Durante il viaggio in macchina verso il locale dove si sarebbero incontrati con Marsellus, inavvertitamente Vincent spara alla testa dell’ostaggio imbrattando la macchina di sangue e cervella. I due gangster saranno costretti a ripulire lo scempio con l’aiuto di Mr. Wolf (Harvey Keitel)…

2) Vincent e Mia Wallace

A Vincent viene dato il compito di uscire con la moglie di Marsellus, Mia Wallace (Uma Thurman), ma prima di raggiungerla a casa si dirige dal suo spacciatore di fiducia per comprare una grossa dose di eroina che in parte consumerà prima dell’incontro. I due andranno a cenare al “Jack Rabbit Slim’s”, locale in stile anni 50’ dove, dopo aver discusso per qualche minuto su temi banali e non, saranno coinvolti in una gara di ballo sulle note di “You Never Can Tell” di Chuck Berry, una delle scene più conosciute di questo film…

3) Butch Coolidge e Marsellus Wallace

Nel locale in cui Vincent e Jules incontrano Marsellus Wallace dopo aver recuperato la valigetta, Butch Coolidge (Bruce Willis), famoso pugile ormai al termine della sua carriera, sta avendo un colloquio con lo stesso boss che lo invita a perdere il suo prossimo incontro in cambio di una grande quantità di denaro, ma nonostante l’incontro sia truccato, Butch, mosso da un forte sentimento di orgoglio, non solo non andrà al tappeto, ma vincerà il round per KO, uccidendo il proprio avversario…

Anche in questo, così come in tutti i film di Tarantino, possiamo apprezzare alcuni dei punti di forza del suo stile di regia: l’inquadratura p.o.v. dall’interno di bauli o bagagliai; le lunghe scene di dialoghi faccia a faccia dove gli attori “cantano” le proprie battute; i primi piani sui piedi delle attrici, tra le quali la stessa Thurman; i fiumi di sangue che macchiano indelebilmente la pellicola del film; i continui collegamenti alla sua difficile infanzia.

Risulta davvero difficile recensire un film del genere senza cadere nella banalità o nei tanto temuti spoiler. Pulp Fiction è il capolavoro di un regista che nei suoi film mischia alla perfezione genio e sregolatezza; che riesce a calare nella vita di tutti i giorni violenza e sangue rendendoli parte integrante della vasta gamma di emozioni e sensazioni che proviamo nella nostra esistenza, nonostante spesso cerchiamo di evitarli; che fa della sessualità uno dei punti di forza dei suoi film senza mai mostrare una scena di nudo, bastano gli occhi, la musica, i sospiri.

È un film da vedere e rivedere più volte per assaporarne sempre meglio le sfaccettature; per capirne il senso bisogna macchiarsi del sangue di questo capolavoro e sentirlo pienamente nostro, essere parte del mondo semplice e reale, seppur folle e cruento, che questa pellicola ci mostra.

Giorgio Muzzupappa

La la land. Un inno ai sognatori e al cinema.

CINEMASCOPE la scritta gialla è la prima immagine che ci appare e dopo ci troviamo imbottigliati nel traffico di un raccordo dell’autostrada di Los Angeles ed è subito musica e balli sui tettucci delle macchine e fra queste.

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Questo è l’inizio di La la land l’ultima opera di Damien Chazelle (Whiplash), ha avuto una ricezione positiva immediatamente dopo la prima proiezione che ha anche inaugurato il passato Festival di Venezia.

Ryan Gosling è Sebastian, un pianista che ama il jazz e vorrebbe aprire un locale tutto suo dove “ridare vita al vero jazz” ma non avendo la capacità economica fa il pianobar suonando le canzoni natalizie nel ristorante di un JK Simmons imperturbabile.
Emma Stone è Mia, un’aspirante attrice che lavora come barista in un caffè degli studios della Warner.
I due si incontrano la prima volta nel ristorante dove Mia sente cantare e suonare Sebastian, ma è solo dopo una festa che i due stringeranno un legame forte, appassionato e profondo come il loro amore per l’arte. Momento clou della serata è lo scenografico e ben ballato tip tap fra le colline di LA mentre cantano “What a lovely night”.

La passione per la recitazione e la musica, la infinita gavetta (che tanti di quegli attori che noi ora apprezziamo hanno fatto) accettare la realtà dei fatti e poi rialzarsi per ricominciare.
E’ un film per i sognatori come canta la Stone ad un certo punto : “Here’s to the ones who dream. Foolish, as they may seem”

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Per gli appassionati di musical i riferimenti alle pietre miliari come Cantando sotto la pioggia West Side Story sono molteplici e facilmente riconoscibili. C’è il faccione della Bergman nel posto di Casablanca come carta da parati della camera di Mia, c’è Gioventù bruciataNotorius.
Chazelle gioca tutto il film coi long shots dando continuità alla recitazione e accentuando la fluidità delle parti danzate e coi colori dei vestiti e dei luoghi. Inquadrature in cinemascope con le figure intere testimoniano la performance ballerina degli attori.
Sebastian è un nostalgico e le sue emozioni si specchiano in una riflessione sul presente mondo dello spettacolo.

Le interpretazioni sono ottime Gosling convince completamente e ammalia.
Emma Stone , grazie anche all’esperienza fatta a teatro con “Cabaret” , è perfetta, coinvolgente espressiva e divertente.
In tanti hanno paragonato questa coppia a Fred e Ginger : non ballano come questi ma l’alchimia del duo sullo schermo è magica.

E’ un omaggio al Cinema e a Los Angeles che è la terza protagonista.
Il musical è un genere che non è mai passato rispetto a tanti altri più “forti” ,  come il western che invece hanno subito l’effetto del tempo, e con questo film gode di un rinnovamento. Una nuova fase del musical. E’ una boccata di aria fresca quella che ci permette di avere Damien Chazelle.
Dopo aver fatto incetta di Golden Globes , si è guadagnato 14 nomination agli Oscar (forse un po’ eccessivi ma si sa sono gli Academy) ed è il favoritissimo in categorie come miglior film e miglior attrice e attore protagonista. Non resta che attendere.

Intanto chiudete Netflix/Sky/Amazon alzatevi dal divano, sedetevi in sala e sognate.

Arianna De Arcangelis

Arrival: un nuovo tipo di fantascienza adatta a tutti

arrival-poster-venezuelaMisteriosi oggetti spuntano in dodici luoghi intorno al pianeta. Gli alieni , che sembrano delle grandi piovre miste a ragni con sette dita , però non invadono né devastano si cerca di capire cosa vogliono.

Viene ingaggiata dal governo americano una squadra di eccellenze capitanata dalla professoressa Louise Banks , esperta linguista, e il fisico Ian Donnelly che diverrà un fedele ed affiatato compagno di lavoro.
La comunicazione fra alieni e umani è possibile scoprirà la professoressa Banks.

E’ un film di fantascienza , tratto dal libro “Story of your life” di Ted Chiang, ma innovativo : c’è tanta scienza ma anche filosofia e linguistica. 

Gli alieni comunicano con un linguaggio che non dipende da una percezione lineare del tempo che la Banks riesce a decifrare, ma per capire il motivo della presenza degli alieni sulla Terra deve concepire il tempo come gli extraterrestri.
Ecco una caratteristica che non si è mai vista fino ad ora in un film di fantascienza : l’empatia e una grande prontezza nel gestire le emozioni, tratti tipicamente non eroici. 

Nessuna necessità di sparatorie o utilizzo di bombe per la Banks solo la sua abilità di comunicare con gli alieni e le persone che non si capiscono fra loro è l’unico modo di salvare il pianeta.

Le scene dentro la nave aliena sono incantevoli e la stanza in cui c’è il primo incontro ravvicinato con gli alieni sembra un palcoscenico , con una enorme lastra di vetro illuminata e queste due giganti figure eptapodi.

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L’interpretazione di Amy Adams (American Hustle, The Fighter, Di nuovo in gioco) è sublime, Villaneuve ha giocato moltissimo con i primi piani dell’attrice , la quale ha dato prova della sua grande espressività anche nelle scene di silenzio. Le ha fruttato una nomination Golden Globe come miglior attrice drammatica e , come sostiene buona parte della stampa internazionale, c’è odore di nomination agli Oscar.
Bravo anche Jeremy Renner che ha dismesso i panni dell’avenger Occhi di falco o del macho violento.
Nonostante l’utilizzo di pochi spazi non c’è un senso di oppressione.

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Villaneuve ha creato un film universale fatto per piacere agli amanti della fantascienza (un po’ annacquata ) che ci da un messaggio bello e puro quanto il viso della Adams quando interagisce con gli alieni : ascolto e comprensione del diverso da noi.
Concilia le esigenze di tutte le tipologie di pubblico.

NB: Villaneuve è il regista di Blade runner 2049 con Ryan Gosling protagonista, se le premesse sono queste si prospetta un ottimo sequel.

Arianna De Arcangelis

Collateral Beauty: 90 minuti di bellezza (non) collaterale

collateral_beauty_posterC’è stato l’anno di Eddie RedMayne, poi di Leo Di Caprio. Che questo sia, finalmente, l’anno di Will Smith?

Collateral Beauty, candidato all’Oscar insieme al suo attore protagonista, è un film che presenta diverse realtà di dolore e confronto con la vita.

Lo si può descrivere come una re-interpretazione in chiave contemporanea di ‘’Il canto di Natale’’ di Charles Dickens. I fantasmi, però, non rappresentano il passato il presente e il futuro ma l’amore, il tempo e la morte. E Scrooge non è cattivo, non lo è mai stato, è solo stato irrimediabilmente (?) investito dal lato peggiore della vita.

Curato nei minimi particolari è un film che, dal primo minuto all’ultimo, trascina nella trama con un finale a sorpresa che solo chi aguzza l’intelletto riesce a intuire e lascia assolutamente di stucco. Il gusto tragicomico non lo rende un film ‘’pesante’’, anzi, è un film drammatico che lascia il giusto spazio alle risate spontanee.

Il cast? Stellare: accanto Will Smith troviamo Kate Winslet, Keira Knightley, Helen Mirren, Edward Norton, Naomie Harris e tanti altri.

Le capacità interpretative di ognuno di loro sono all’altezza delle aspettative. Il protagonista, Will Smith, come sempre, fa trasparire attraverso lo schermo il dolore del protagonista in maniera sublime. Feticista delle lacrime, ti fa chiedere come possa riuscire a raccontare il dolore così bene attraverso un personaggio che, per la maggior parte del tempo, sta in silenzio.

Anche la colonna sonora merita di essere nominata: Let’s Hurt Tonight dei OneRepubblic, canzone che, si suppone, diventi disco d’oro, d’argento e di qualsiasi altro materiale esistente. O, magari, venga premiata agli Oscar.

Collateral beauty. La bellezza collaterale del film è il fine segno che lascia nei pensieri dello spettatore, che continua a rimuginarci su anche a luci accese, cercando la propria bellezza collaterale.

Elena Anna Andronico

Oceania: la Disney colpisce ancora

In questi giorni, nei cinema, si può andare a vedere ‘’Oceania’’ il nuovo film della Disney.oceania_disney_film_voci-1

Come ogni film che porta questo marchio, anche questo è da non perdere. A partire dai più piccoli fino ai più grandi, come sempre, la Disney colpisce ancora.

Oceania parla di una principessa, o meglio, una futura capo villaggio, che deve salvare il suo popolo riportando il cuore, perduto da secoli, a madre natura. L’accompagnano nell’impresa la Nonna (con il suo spirito), un pollo e l’Oceano. È stato infatti quest’ultimo a sceglierla per l’impresa, facendole trovare il cuore perduto.

Durante il suo viaggio, Vaiana (la principessa), deve anche trovare Maui: un semi-dio che ha perso un amo, oggetto che dona lui grandiosi poteri. La nostra principessa ha bisogno del suo aiuto per riportare il cuore a Madre Natura (nel film chiamata Te Fiti): così lo va a cercare. Una volta trovato lo aiuta a ritrovare il suo amo perduto e, insieme, navigheranno verso Te Fiti.

Ma, come in ogni favola che si rispetti, c’è sempre un cattivo. In questo caso si chiama Te Ka e ostacola la strada per arrivare a Te Fiti. Ma Vaiana, grazie alla sua forza di volontà, riuscirà a superare pure lui.

 

Perché Oceania è un film da andare a vedere? A partire dalla grafica sempre più eccezionale, con dei personaggi e disegni sempre più reali e curati in ogni minimo particolare, fino alla comicità semplice e diretta, caratteristica della Disney, è davvero un film che vale la pena vedere.maxresdefault

Importanti, inoltre, i temi che serpeggiano per tutto il film: in primis la nonna, reputata sui generis da tutto il villaggio per i suoi comportamenti bizzarri ma, in realtà, l’unica che crede nella protagonista e la sprona a lanciarsi verso la sua missione. Per spiegare a tutti che diverso non vuol dire sbagliato e uguale non vuol dire giusto.

Vaiana, la principessa che, come ormai quasi sempre nei film Disney, alla fine, si salva da sola. Sempre più si vedono queste ragazze che, al diavolo il principe azzurro, alla fine riportano la pace solo ed esclusivamente con le proprie forze. Lo abbiamo visto con Mulan, Frozen, Rapunzel, Cenerentola (sì, anche lei, pensateci bene): Oceania è l’ennesima prova. Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. E non puoi fare altro, quando sei là in sala, che tifare per la forza d’animo di questa piccola tahitiana che ci pensa da sola a riportare la pace per il suo villaggio.

Ancora Maui, il semidio, è un personaggio tutto tatuato. Non solo: i suoi tatuaggi si muovono, cantano, danzano, raccontano storie. E, ogni qualvolta lui compie una buona azione, gliene appare uno nuovo cosicché non se ne scordi mai. Con delicatezza e divertimento, la Disney sdogana, finalmente, il tatuaggio. Per la prima volta, da Pocahontas, appare un personaggio che non ha pelle pulita ma solo disegnata.

E, allora, cosa state aspettando? Tutti al cinema!

Elena Anna Andronico