Star Wars 40 : un tributo a Carrie Fisher

Qualche giorno fa si sono svolte le celebrazioni per i 40 anni dall’uscita del primo Star Wars
Durante le quali è  stato mostrato questo video tributo a Carrie Fisher: l’eterna principessa Leila deceduta lo scorso dicembre.

Dal video si comprende il tipo che era: una Jedi non una principessa.
Lei e il suo femminismo galattico e la costante lotta , sullo schermo e nella vita reale, con il Lato oscuro della forza.

Come cantava Meryl Streep in “Postcards from the edge” adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo della Fisher : “I’m checking out of this heartbreak hotel…”
Di nuovo arrivederci Carrie.

“Ora, credo che questa cosa diventerebbe un fantastico necrologio, e allora dico a tutti i miei amici più giovani di me che non importa come morirò: voglio che sia detto che sono affogata nella luce lunare, strangolata dal mio reggiseno.”

Arianna De Arcangelis

Ghost in the Shell: un remake come tanti o qualcosa di più?

L’idea di un remake live action di Ghost in the Shell (in sala dal 30 marzo), manga e poi anime tra i più riusciti degli anni 90, rappresenta, a film ancora non visto, una sfida quasi arrogante nei confronti di un’opera d’arte conclamata.
Il rischio tangibile che la profondità dell’anime di Mamoru Oshii potesse svanire dietro i seni di Scarlett Johansson (su cui pure torneremo) non si esaurisce di fronte alla resa grandiosa di un’animazione che è stata magnificamente ri-tradotta sul grande schermo.

Se da un lato persino il Titanic di Cameron deve molto del suo stile visivo al film di Oshii, dall’altro questo GITS chiude di fatto un cerchio, portando al cinema qualcosa che finora vi era rimasto essenzialmente escluso e che eppure così tanto aveva influenzato registi come i Wachowski ed il già citato Cameron. Per realizzare l’impresa, i tecnici della Dreamworks hanno attinto dagli autori di cui sopra, oltre che dall’illustre predecessore Ridley Scott e non solo: sin dalle primissime inquadrature appare chiaro come GITS sia un film che propone in veste commerciale colori delle più recenti avanguardie cinematografiche d’autore, Noé e Winding Refn in primis.

Eccellente il lavoro del direttore della fotografia Jess Hall, già sul set di Wally Pfister (ex cinematographer di Christopher Nolan) per Transcendence e frutto di una ricerca apposita per una mdp in grado di avvicinarsi il più possibile alla cel animation di Oshii.

Nonostante la relativa esperienza del regista Rupert Sanders, ci troviamo di fronte ad una sapiente ricostruzione del mondo di Oshii, mondo in cui è bello vedere qualcosa di più che semplici ricostruzioni delle scene più celebri dell’anime come il salto nel vuoto iniziale, l’inseguimento del camion della spazzatura o la scena della barca. E di questo siamo grati, perché il qualcosa in più arriva e non senza nuovi significati suoi precipui, con effetti speciali finalmente in grado di trasmettere emozioni e livelli di interpretazione, oltre il mero intrattenimento.

La cultura orientale viene stritolata, ingollata e digerita in forma nuova dalla tecnologia futuribile mostrata nel film. La vita quotidiana è arricchita da streaming cerebrali, enormi sistemi olografici alti quanto e più dei grattacieli e una certa estetica anni 80, umido riferimento a vicoli e veicoli di Blade Runner, che però combacia armoniosamente con la palpitante CGI contemporanea.

Impossibile sentirsi soli in un ambiente simile, tranne per il maggiore Mira Killian (Johansson): un prototipo di cyborg costituito da un corpo interamente artificiale in cui è stata installata una mente umana, un ghost e che promette di aprire le porte verso una nuova frontiera dell’umanità. Contro tale prospettiva un misterioso terrorista (Michael Pitt) sta scagliandosi con inaudita ferocia e abilità.
Compito della Sezione 9, servizio di sicurezza capeggiato da Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano), è fermare il terrorista con l’aiuto del maggiore e dell’agente Batou (Pilou Asbæk).

Si complica la trama rispetto all’originale, che preferiva un intreccio semplificato con dialoghi dalla maggior pregnanza filosofica ed esistenziale alle numerose scene d’azione e ai dialoghi didascalici marcatamente occidentali che riempiono il film di Sanders, oltre al pastiche che è stato composto prendendo elementi anche dal sequel (sempre diretto da Oshii nel 2004), Innocence.
Fuggendo la mania della fedeltà, la trama di GITS riesce a catturare lo spettatore, a patto che si sforzi appunto di dimenticare l’originale. La pellicola si presenta radicalmente divisa in due partinella prima riesce ad accrescere sequenza dopo sequenza l’interesse di chi osserva per la bellezza del grande Waste Land futuribile, dove i fantasmi culturali del passato aleggiano insieme a spot pubblicitari e ai fumi della metropoli.
Dal momento in cui il villain di Pitt si rivela, invece, inizia lo straniamento rispetto al film di Oshii, che qui non si vuole criticare per l’eccessiva libertà nelle direzioni fatte prendere al plot in sé, quanto per quella che è la conclusione filosofica, esasperata dal finale manieristico, che tradisce la natura stessa di Ghost in the Shell.
Alla fusione tra un’intelligenza artificiale che vuole farsi umana e dunque mortale con un’umana che ha fatto di tutto per non essere più tale, Sanders preferisce omettere la fusione e relegare l’identità del maggiore alla nostalgia di un passato perduto. Passato umano e luddista. Reazionaria rivolta contro il mondo moderno che schifa la tecnologia vista esclusivamente come opprimente tecnocrazia e celebra l’identità umana, mancando quell’appuntamento con la rete, assoluto informatico – hegeliano delle coscienze già in veste industrial nel Tetsuo di Tsukamoto, cui così magistralmente il film di Oshii consegnava la propria chiusura, aprendo ad interrogativi, paure e opinioni tanto discutibili quanto prolifiche. La necessità di rendere GITS un prodotto hollywoodiano rovina così tutto il potenziale dibattito che la cultura nipponica, di posizione storicamente progressista per quel che riguarda l’etica (fanta)scientifica, aveva trasmesso ai fan dell’anime: il ruolo della tecnologia viene ridotto considerevolmente e limitato allo scopo di un abbraccio tra una madre e la figlia perduta.


La scelta di Scarlett Johansson, paventata da molti e accusata di white washing (polemica inutile che sta, almeno secondo la Paramount, causando il flop al botteghino), risulta in realtà vincente dal punto di vista recitativo e coreografico, ma l’implicita attenzione pubblicitaria verso la bellezza della diva, poi censurata da Sanders con una banale tuta di latex che sostituisce squallidamente il nudo integrale mostrato da Oshii, fagocita l’insensatezza del corpo umano trasmessa originariamente, togliendo a quel gesto così espressivo della spoliazione del maggiore la sua fredda estemporaneità.
Il “non visto”, secondo il classico meccanismo di oggettivazione del corpo femminile che Hollywood attua da sempre, ha come è noto l’effetto opposto, focalizza cioè l’attenzione sulla sensualità. Nel caso di GITS ciò è fuori luogo, data la netta sensazione di asessualità che trasmetteva il cyborg di Oshii e la controparte villain, cui viene peraltro dato un aspetto maschile (nell’originale era femminile), col risultato di recuperare un’identità di genere puramente finalizzata allo stereotipo. Insomma, Scarlett Johansson l’avremmo preferita davvero nuda, chi per un motivo chi per un altro.

All’insegna dello stereotipo anche il ruolo di Juliette Binoche, nei panni della creatrice del maggiore con una stima viscerale verso la propria creatura e una forma di venerazione per il superomismo cibernetico.

Da notare invece il ruolo di Kitano, che al momento di entrare in azione sfodera un enorme revolver “old school”, con buona pace di mitra compattabili e pelli sintetiche in grado di rendere invisibili. Cocktail d’azione incredibilmente credibile, sporcato di noir e gradevolmente vicino al personaggio di un altro celebre anime, Toshimi Konakawa in Paprika del compianto Satoshi Kon. Ma il richiamo principale è ovviamente alla filmografia dello stesso Kitano.
Tirando le somme, Ghost in the Shell di Rupert Sanders è un remake che merita di essere visto nonostante difetti, fanservice ed eccessi che paiono ad un esame più attento come il canto del cigno non solo dei suoi personaggi cupi ed alla ricerca di un sé perduto, ma di un’industria cinematografica tutta (Hollywood) in piena crisi creativa se non ancora economica, furto maldestro da un Oriente che avanza sotto il punto di vista artistico ed espressivo, rinnovandosi a discapito di un Occidente granitico e sterile che perde la capacità di fondere arte e popolarità – dovendo spesso sacrificare una delle due – e quindi di intendere il cinema per ciò che sempre è stato: arte popolare.

Andrea Donato

A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone

La Bella e La Bestia: incanto Disney per ogni età.

Era il 1991 quando nelle sale, uscì quello che è stato il 30° film d’animazione della Disney: La Bella e La Bestia.

Questo cartone ha raggiunto il primo grande traguardo del mondo Disney: è stato il primo film d’animazione in assoluto ad essere candidato agli Oscar con ben 5 nomination e, infine, ne vinse due per la Miglior Colonna Sonora e la Miglior Canzone.

La storia della Bella e la Bestia la conosciamo (quasi) tutti. Parla di questa giovane e bellissima ragazza, figlia di un inventore, che abita in un isolato paesino di campagna nel quale si trova stretta. Siamo nel pieno del ‘700 francese e questa splendida ragazza, amante della letteratura, è, per ovvie ragioni, reputata strana, diversa.

Parallelamente, in un castello non molto lontano dal villaggio della ragazza, un giovane principe è stato trasformato in Bestia da una fata, che lo ha fatto per insegnargli che non bisogna mai giudicare le persone dalle apparenze. Infatti, la stessa fata, si era presentata alle porte del castello del giovane arrogante, sotto le sembianze di una vecchina e porse lui una rosa in cambio di una notte di riparo.

Il principe la respinse e lei si rivelò. La rosa era una rosa incantata e solo il vero amore poteva spezzare l’incantesimo. Se nessuno si fosse innamorato della Bestia prima della caduta dell’ultimo petalo della rosa incantata, allora il principe sarebbe rimasto una Bestia per sempre.

Il resto lo conosciamo bene: il padre di Belle si perde nei boschi e cerca riparo nel castello della Bestia, dove viene imprigionato dalla stessa. Belle riesce a raggiungerlo e dona sé stessa in cambio della liberazione del padre.

Da quel momento, tra alti e bassi, inizia questa strana convivenza tra la Bella e la Bestia e, piano piano, tra loro due sboccia l’amore. Un amore che, con una delle morali più dolci e profonde di tutta la Disney, va oltre le sembianze esterne in quanto all’amore basta il cuore e non l’aspetto esterno.

Ed è questo quello che troviamo in questo periodo nelle sale cinematografiche: la fedelissima trasposizione della trama animata in film.

Il film della Bella e la Bestia non lascia delusi perché nulla, a parte qualche parola qua e là nelle canzoni (che, comunque, costituiscono una colonna sonora assolutamente vincente), è diverso dal cartone animato. La magia è rimasta intatta e, grandi e piccini, vengono trascinati da essa in questa favola che così bene conosciamo.

Ci sono, però, delle canzoni e delle scene inedite: queste non spezzano o stravolgono la trama, anzi, ci rendono partecipi di alcuni piccoli particolari che ci fanno affezionare ancora di più a questa storia, che la rendono più umana, più reale. Queste scene inedite (che non vogliamo spoilerare) possono insegnare come tutte le nostre vite sono delle fiabe perché anche nelle fiabe c’è la realtà del dolore e delle sofferenze in cui tutti noi, durante il corso della vita, ci imbattiamo.

Il cast è un cast assolutamente vincente: da Emma Watson (Hermione ndr) a Dan Stevens, Luke Evans, Kevin Kline, Josh Gad, Ewan McGregor. Nella versione originale sono tutti da chapeu in quanto sono loro stessi gli interpreti delle canzoni, mettendo in scena, di conseguenza, un vero e proprio musical.

Nella nostra versione italiana, si riconosce il grande stile del doppiaggio italiano: non ci sono distacchi fastidiosi tra le voci parlate e le voci cantate dei personaggi e, anzi, sono quasi uguali anche alla versione cartone animato tanto da lasciare il dubbio se siano gli stessi doppiatori del ’91.

È stata criticata la figura di Emma, in quanto, ad alcuni, ha dato l’impressione di essere più piccola della Belle che conosciamo: ricordiamoci però che tutte le principesse Disney hanno 16 anni e che, anzi, sono le principesse animate a sembrare troppo donne rispetto alla loro reale età.

Altro punto di dibattito è la figura di Le Tont, il leale amico di Gaston: la Disney ha deciso, in questa versione, di renderlo palesemente un personaggio omosessuale, innamoratissimo del suo amico. Bene o male? Bene! È giusto che la Disney, per prima, spezzi i dogmi che ci circondano e insegni la bellezza della diversità a tutti i bambini, con la sua delicatezza materna.

Per me, promosso con 30 e lode: dolce, veloce, commovente e magico. Personalmente, sono molto legata a questa trama e ai suoi vari insegnamenti. Quello che a me è da sempre arrivato più di tutti, è quello della speranza, del cambiamento che prima o poi arriva: ‘’quando sembra che non succeda più, ti riporta via, come la marea, la felicità’’…

Film o cartone, comunque, il commento è sempre lo stesso: ma chi lo vuole il principe… Noi vogliamo la Bestia!

Elena Anna Andronico

Cinefilia per idioti: il musical

Tutti canticchiamo.
Chi appena sveglio, chi sotto la doccia, chi in macchina, chi mentre si fa il bidet.
Tutti abbiamo sempre sognato di poterlo fare, magari sul tram, sull’autobus, sul treno accompagnati da un’ipotetica colonna sonora della nostra vita. Ed esistono solo due tipi di persone, chi lo ammette e chi mente.
Il lapalissiano successo di La la land mi obbliga a farvi dono di questo articolo per questo mese speciale che è Marzo (pazzerello esci con il sole e prendi l’ombrello).
Il genere che ho deciso di analizzare in modo sempre totalmente professionale e mai soggettivo, è proprio quel genere di film che o lo ami o lo odi (un po’ come i tuoi genitori): il MUSICAL. Genere che fin dalla culla ha accompagnato ognuno di noi, che ci piacesse o meno, ha creato delle colonne sonore che ancora oggi tutti conosciamo e qualsiasi serie tv che si rispetti vanta tra le proprie puntate, una versione musical.
Ma più di Sanremo, più del dentifricio che ti macchia i vestiti mentre ti lavi i denti, in modo inspiegabile, e tua madre ti dice ” ma tu perché ti lavi i denti vestita?” più della gente che dice “che vita sarebbe senza nutella”, più di tristi trentenni con la parrucca, che fanno video fingendo di essere delle ragazze, più di tutto questo io odio i musical.
Dopo quest’affermazione così decisa e del tutto inaspettata (non è vero) voi vi chiederete; Ma Elisia sei cresciuta a latte e Nesquik, fiabe sonore e cartoni animati Disney, come puoi dire una cosa del genere? E io vi risponderei come ad ogni domanda che mi viene posta ogni giorno della mia vita da quando sono nata: NON LO SO.
Il mio amico Nicola mi dice sempre di dover essere in grado di argomentare qualcosa, specie se, questo qualcosa, non mi piace.
Io sono dell’idea che non vi sia bisogno di argomentare un genere che agli occhi di un qualsiasi individuo, dotato di buon senso e poca pazienza, appaia odioso; ma per evitare di congedarci precocemente, facciamo un passo indietro.
La fonte certa di cui mi avvalgo sempre (Google) sostiene che il musical nasca negli USA il 12 settembre 1866, dalla fusione fra una compagnia di ballo e canto importata dall’Europa, con una compagnia di prosa, in quanto la prima era rimasta senza un teatro in cui esibirsi mentre, la seconda, era alle prese con una produzione che si stava rivelando più dispendiosa del previsto.
Bastano questi pochi accenni, a mio avviso, per capire che una cosa nata per caso e per risparmiare non possa generare nulla di buono. Superando quelli che sono i preconcetti , sempreverdi, legati al musical : che sono venerati da qualsiasi americano e dagli omosessuali, notiamo fin da subito che non si adattano proprio ad ogni genere cinematografico o teatrale. Basti pensare ad un contesto horror o drammatico, perché in quei casi credo si abbia altro di cui preoccuparsi anziché cantare.
Questo genere si sposa perfettamente con trame banali e cariche a loro volta di cliché tipiche del loro genere ( come quando una modella sposa un anziano milionario). Ma a noi, l’ovvio misto allo stravagante ci piace e quindi assistiamo a personaggi estremamente caratterizzati che si presentano a noi con canzoni di gruppo esaltando i loro più banali aspetti caratteriali (in viaggio con Pippo docet), tutti estremamente intonati e ballerini professionisti.

La peculiarità che mi lascia sempre esterrefatta (quasi infastidita), è la nonchalance con la quale tutti continuino a fare ciò che stavano facendo, prima che iniziassero a cantare e ballare, appena la musica finisce. E nonostante io abbia apprezzato Gesù e Giuda cantare in Jesus Christ superstar, o aver apprezzato Jessica Fletcher guidare un letto in pomi d’ottone e manici di scopa, e nonostante io mi compiaccia mi ogni volta che riesco a dire correttamente supercalifragilisitchespiralidoso; credere in un cavallo con il corpo da uomo che parla (Bojack horseman) oppure nell’esistenza in un sottosopra (Stranger Things ) lo ritengo più semplice.
Più del vedere uomini, donne, bambini e anziani ballare e cantare improvvisamente (con spunti futili, ad esempio riordinare una stanza) anche da soli in mezzo alla gente o sotto la pioggia.
Ma forse la magia dei musical è proprio questa: possono essere apprezzati solo dai sognatori. Oltre che dagli omosessuali.

Elisia Lo Schiavo

 

Da Stromboli a Idea di un’isola. La Sicilia e i siciliani per Roberto Rossellini

In occasione dei 40 anni dalla morte, la rassegna BAM – Biennale Arcipelago Mediterraneo, alla sua prima edizione, ha ospitato a Palermo nella sala dei Cantieri Culturali alla Zisa intitolata a Vittorio De Seta, una due giorni (17-18 febbraio) dedicata allo stretto legame intercorso tra il cinema di Roberto Rossellini e il soggetto che ha ispirato alcune delle sue pellicole più celebri.
Nell’incontro che ha preceduto le proiezioni sono intervenuti nel dibattito Bruno Roberti, critico ed esperto di Rossellini, il regista Franco MarescoRenzo Rossellini, figlio di Roberto e produttore cinematografico (ricordiamo, in mezzo alle centinaia di titoli famosissimi Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli, Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, La città delle donne e lo stralunato film a sfondo sociale Prova D’Orchestra di Federico Fellini).

Renzo Rossellini ha anche collaborato insieme al padre alla scrittura di quella che è la testimonianza diretta del suo rapporto d’elezione con la Sicilia e con la sua anima popolare: Idea di un’Isola è un documentario pensato per la TV americana con il contributo della Rai alla fine degli anni ’60 e di recente riproposto nella programmazione di Fuori Orario. Una terra sempre cara al cineasta che ha fornito una lettura attenta per raccontare in poco meno di 60 minuti i luoghi e le espressioni salienti sedimentate in secoli di storia della più grande isola del mediterraneo: “la mitica rupe di Scilla e il gorgo di Cariddi sono i pilastri dello stretto che la divide dal continente”.
A fare da raccordo a una carrellata che mette in simbiosi il teatro dei pupi, il vivo fuoco del folclore religioso, l’arte e l’islam, le saline e lo sguardo sulle industrie attive in quegli anni tra Gela e Milazzo, i tratti tipici del siciliano che quasi per abitudine secolare, costretto ad avere sempre un nuovo oppressore, ha maturato diffidenza, prudenza e segretezza: “in Sicilia certe cose non si dicono; si alludono. Per cui si è sviluppato un linguaggio più discreto di quello verbale, fatto di gesti. Più significativo”.

La voce fuori campo del palermitano Corrado Gaipa (doppiatore di Burt Lancaster nel Gattopardo) mostra uno spaccato interessante della realtà di alcuni luoghi, anche se non privo di una impostazione didattica un po’ cartolinesca, se vogliamo, del resto tipica di questo genere di produzione rosselliniana anche negli anni a venire, accompagnata a delle immagini documentarie comunque ricche di freschezza e leggerezza. Fu per effetto della forte presenza di immigrati italiani se nel ‘67 una famosa TV statunitense chiese a Rossellini di realizzare un cortometraggio che avesse come tema la Sicilia. Lui, che di Palermo conosceva ogni angolo, compresi i migliori ristoranti – ha precisato il figlio – accolse come un’opportunità irripetibile l’occasione del soggiorno nell’isola per realizzare le riprese. Alcuni critici osservarono come la rappresentazione idilliaca e pacifica di Idea di un’isola occultasse, al di là di una superficiale coloritura, ogni riferimento problematico alla mafia. Una decisione imputabile in buona misura alle direttive dell’emittente. Certo è che sono ancora lontani gli anni in cui le trattative stato-mafia, anche se già attive storicamente, sarebbero venute a galla.

Ma la Palermo tanto amata da Roberto Rossellini, città dell’accoglienza e scenario in cui civiltà diverse avevano convissuto (la Sicilia è la chiave di ogni cosa, diceva Goethe), è anche lo specchio del suo modo di operare con la cinepresa; tanto che, questa volta in tempi non sospetti, scrisse una sceneggiatura destinata a una serie in cinque puntate mai realizzata e pubblicata poi da Renzo col titolo Impariamo a conoscere il mondo musulmano (1975). Una storia dell’Islam rivolta alla televisione. Per Rossellini che nell’ultima lettera al figlio scriveva “ho cercato di fare per tutta la vita del cinema un arte utile agli uomini” il cinema doveva essere diretto non al “pubblico”, ma all’intelligenza della gente. Anche la televisione poteva quindi diventare uno strumento utile per non subire l’influsso della propaganda e per non diventare vittime di dittatori o come oggi, di politici prepotenti.
Bruno Roberti ha ricordato in proposito come il suo fosse un cinema senza uniforme: “È imprendibile, non può essere catalogato e storicizzato, per questo è attuale”.

Per molti abitanti di Stromboli l’arrivo della troupe insieme alle macchine da presa coincise con la scoperta del cinema. Il film del 1950 racconta l’incontro di una profuga con un prigioniero di guerra palermitano in un campo per stranieri alla fine della seconda guerra mondiale. Impossibilitata a tornare in Argentina la giovane decide di sposare l’uomo e, partendo da Messina, di trasferirsi con lui a Stromboli. Il tenore di vita e gli usi locali, molto lontani dalle sue abitudini, porteranno la ragazza a ripudiare il posto in cui si trova e desiderare di scappare dal giogo di un’isola primigenia e primitiva.

Stromboli – Terra di Dio (oggi in versione restaurata grazie alla cineteca di Bologna) è un film spiazzante e modernissimo, in cui polemicamente si è tentato di ravvisare un indizio di conversione al cattolicesimo ma che racchiude una spiritualità diversa, concreta e sofferente, che risiede nell’asperità selvaggia che riveste i tratti delle coste, che investe la severità del vulcano pronto ad esplodere, le case dei pescatori, e in generale l’umanità dei personaggi, cioè gli uomini e le donne dell’isola. Non traspare alcun giudizio morale o parodia macchiettistica costruita nel caratterizzare i siciliani che collaborarono a fianco di Ingrid Bergman (proprio a Stromboli nacque la sua storia d’amore con Rossellini. E per ripicca Anna Magnani lavorò a un altro film alle Eolie; Vulcano).
Prima di iniziare a girare il regista proiettò un film da mostrare abitanti di Stromboli per spiegare loro quello che stavano per fare. “Stromboli è un film sull’umanità, sulla cattiveria, e sulla capacità del cinema di redimere. Racconta delle cose vicine a quelle che viviamo oggi: un personaggio che arriva dall’estero e viene visto come un intruso. Un essere umano che viene trattato come straniero. Quello che sta succedendo un po’ oggi in Italia e in Europa”.
Così dopo il restauro è potuta riaffiorare tutta l’intensità delle immagini e la potenza feroce della natura. L’avventura di Stromboli non è soltanto quella legata a un film, e non si conclude una volta terminate le riprese, ma consiste nella capacità del cinema di entrare in contatto con un luogo e diventare parte delle memoria di una comunità.

Stromboli ha segnato un punto di svolta che non ha mancato di condizionare la Nouvelle Vogue francese.
Ma Rossellini ha inserito riferimenti alla Sicilia anche in Paisà e Viva l’Italia!. Se avesse potuto scegliere, ha detto Renzo con convinzione, avrebbe voluto essere siciliano; di loro ammirava l’intelligenza e il senso dell’umorismo: “Era anche innamorato della cucina siciliana e forse pure di qualche signora siciliana. Diceva che senza stima non si può amare. Lui stimava e si innamorava. Questa è la storia di Roberto Rossellini”.

Eulalia Cambria

Quando girare con un Super 8 era bello da morire

Nel lontano 1979, in Ohio, un giovane ragazzo di nome Joe Lamb (Joel Courtney) perde la madre in un incidente di fabbrica.
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La scena si apre proprio sulla veglia di quest’ultima, con Joe in lacrime, seduto su un’altalena che assiste inerme ad un ospite (Ron Eldard) appena arrivato cacciato dal padre del ragazzo (Kyle Chandler), facente parte del comando di polizia locale.

Passati quattro mesi, Lamb sembra apparentemente aver superato la morte della madre e insieme al suo migliore amico Charles Kaznyk (Riley Griffiths) ed altri suoi compagni di scuola Cary McCarthy (Ryan Lee), Martin Read (Gabriel Basso) ePreston Scott (Zach Mills), decidono di girare un film per un concorso cinematografico, trattando una storia basata su degli zombie e un detective che indaga su di essi.
Charles riesce ad aggiungere al gruppo una ragazza molto popolare a scuola, Alice Dainard (Elle Fanning), per interpretare la moglie del detective. Così, gruppo riunito, si danno appuntamento a mezzanotte per dirigersi verso una stazione ferroviaria per girare una scena precisa del futuro film, approfittando del passaggio del treno per rendere la scena più emblematica.
Tutto tranquillo finché Joe nota un pick-up dirigersi verso le rotaie in direzione del treno. Nel momento stesso in cui avvisa i suoi amici, avviene l’impatto devastante, talmente impetuoso da far deragliare il treno e far letteralmente volare tutti i vagoni che si disperdono nella zona circostante. Verificata la situazione di tutti i componenti della “produzione”, per fortuna interamente illesi, si dirigono verso il pick-up, dove trovano alla guida un loro professore scolastico, Thomas Woodward(Glynn Turman) che puntandogli una pistola contro gli intima di scappare e di non parlarne con nessuno, pena l’incolumità loro e delle loro famiglie.

Stasera-in-tv-Super-8-di-JJ-Abrams-su-Italia-1-8Con “Super 8”, per chi non ne fosse a conoscenza, si intende un tipo di formato cinematografico nato nel 1965. Ed è proprio da questo che il noto regista J.J. Abrams prende il nome per il suo film del 2011, prodotto anche da Steven Spielberg.
Perché proprio “Super 8”? Fondamentalmente al centro delle vicende c’è proprio la cinepresa e la necessità di creare un film, per cui sebbene si marginale, è proprio essa ad essere la protagonista ed il motore del film.
Il lavoro di Abrams è pieno del suo stile, tratti caratteristici ed altre componenti che lo rendono assolutamente particolare. Per i più, sembra ricordare lavori quali “Lost”, intramontabile e leggendaria serie tv curata proprio dal suddetto regista. Scindendo dalle componenti fondamentali come fotografia e regia, che sono senza dubbio curate e discutibili solo con note positive, la narrazione nonostante tratti temi che almeno in teoria potrebbero risultare contrastanti, riesce a creare un connubio perfetto rendendo ciò che sembra impossibile, quasi plausibile.
Un lavoro egregio che, sicuramente, non renderà Super 8 un film perfetto, ma assolutamente un opera piacevole e bella da vedere. Che, in sostanza, questo è ciò che importa.

 

Giuseppe Maimone

 

Un cult del cinema : Pulp fiction

“Quando devo scrivere una sceneggiatura io parto sempre dalla musica dei titoli di testa. Diventa il ritmo del mio film!”

pulp-fictionAprite Internet, cercate Miserlou di Dick Dale, mettete su le cuffie e preparatevi ad essere proiettati in uno degli universi più adrenalinici, frenetici e coinvolgenti che il cinema abbia mai partorito.

Benvenuti in “Pulp Fiction”!

PS: si prega di indossare gli occhialini protettivi, ci saranno parecchi schizzi di sangue…

È il 1994 quando nelle sale cinematografiche di tutto il mondo viene affisso un manifesto raffigurante una provocante ragazza con gli occhi di ghiaccio e il caschetto nero (Uma Thurman) che regge una sigaretta in una cupa stanza da letto; in cima, una scritta gialla a caratteri cubitali: “PULP FICTION”, diretto da Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, John Travolta, Bruce Willis, Tim Roth.
In poco tempo diventerà uno dei Cult della cinematografia mondiale di tutti i tempi, uno di quei film che ogni amante del cinema deve aver visto almeno una volta nella sua vita.

La storia è divisa in tre episodi che non seguono l’ordine cronologico (l’ordine della fabula), ma si intrecciano tra di loro riprendendo lo stile già usato da Tarantino nel suo precedente film “Le Iene”. Il risultato di questa scelta è una sorta di smarrimento tra i dialoghi convulsi e i colpi di scena che, come in un climax, accresceranno la suspense attimo dopo attimo:

1) Vincent Vega e Jules Winnfield

Sono due gangster al servizio del boss Marsellus Wallace, interpretati rispettivamente da John Travolta e Samuel L. Jackson, che avranno il compito di recuperare una misteriosa valigetta sottratta al proprio capo da un gruppo di ragazzi. Arrivati nel loro appartamento i due killer faranno fuori tutti i giovani tranne uno, che viene rapito per essere portato al cospetto del boss. In questa scena si colloca per la prima volta nel film il famoso monologo che Jules era solito recitare prima di uccidere le sue vittime, tratto da un “particolare” passo biblico “Ezechiele 25:17”, che effettivamente risulta ispirato, in parte, da un “Credo” di arti marziali del famoso Sonny Chiba, attore e regista di film orientali, particolarmente amato da Tarantino. Durante il viaggio in macchina verso il locale dove si sarebbero incontrati con Marsellus, inavvertitamente Vincent spara alla testa dell’ostaggio imbrattando la macchina di sangue e cervella. I due gangster saranno costretti a ripulire lo scempio con l’aiuto di Mr. Wolf (Harvey Keitel)…

2) Vincent e Mia Wallace

A Vincent viene dato il compito di uscire con la moglie di Marsellus, Mia Wallace (Uma Thurman), ma prima di raggiungerla a casa si dirige dal suo spacciatore di fiducia per comprare una grossa dose di eroina che in parte consumerà prima dell’incontro. I due andranno a cenare al “Jack Rabbit Slim’s”, locale in stile anni 50’ dove, dopo aver discusso per qualche minuto su temi banali e non, saranno coinvolti in una gara di ballo sulle note di “You Never Can Tell” di Chuck Berry, una delle scene più conosciute di questo film…

3) Butch Coolidge e Marsellus Wallace

Nel locale in cui Vincent e Jules incontrano Marsellus Wallace dopo aver recuperato la valigetta, Butch Coolidge (Bruce Willis), famoso pugile ormai al termine della sua carriera, sta avendo un colloquio con lo stesso boss che lo invita a perdere il suo prossimo incontro in cambio di una grande quantità di denaro, ma nonostante l’incontro sia truccato, Butch, mosso da un forte sentimento di orgoglio, non solo non andrà al tappeto, ma vincerà il round per KO, uccidendo il proprio avversario…

Anche in questo, così come in tutti i film di Tarantino, possiamo apprezzare alcuni dei punti di forza del suo stile di regia: l’inquadratura p.o.v. dall’interno di bauli o bagagliai; le lunghe scene di dialoghi faccia a faccia dove gli attori “cantano” le proprie battute; i primi piani sui piedi delle attrici, tra le quali la stessa Thurman; i fiumi di sangue che macchiano indelebilmente la pellicola del film; i continui collegamenti alla sua difficile infanzia.

Risulta davvero difficile recensire un film del genere senza cadere nella banalità o nei tanto temuti spoiler. Pulp Fiction è il capolavoro di un regista che nei suoi film mischia alla perfezione genio e sregolatezza; che riesce a calare nella vita di tutti i giorni violenza e sangue rendendoli parte integrante della vasta gamma di emozioni e sensazioni che proviamo nella nostra esistenza, nonostante spesso cerchiamo di evitarli; che fa della sessualità uno dei punti di forza dei suoi film senza mai mostrare una scena di nudo, bastano gli occhi, la musica, i sospiri.

È un film da vedere e rivedere più volte per assaporarne sempre meglio le sfaccettature; per capirne il senso bisogna macchiarsi del sangue di questo capolavoro e sentirlo pienamente nostro, essere parte del mondo semplice e reale, seppur folle e cruento, che questa pellicola ci mostra.

Giorgio Muzzupappa

La la land. Un inno ai sognatori e al cinema.

CINEMASCOPE la scritta gialla è la prima immagine che ci appare e dopo ci troviamo imbottigliati nel traffico di un raccordo dell’autostrada di Los Angeles ed è subito musica e balli sui tettucci delle macchine e fra queste.

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Questo è l’inizio di La la land l’ultima opera di Damien Chazelle (Whiplash), ha avuto una ricezione positiva immediatamente dopo la prima proiezione che ha anche inaugurato il passato Festival di Venezia.

Ryan Gosling è Sebastian, un pianista che ama il jazz e vorrebbe aprire un locale tutto suo dove “ridare vita al vero jazz” ma non avendo la capacità economica fa il pianobar suonando le canzoni natalizie nel ristorante di un JK Simmons imperturbabile.
Emma Stone è Mia, un’aspirante attrice che lavora come barista in un caffè degli studios della Warner.
I due si incontrano la prima volta nel ristorante dove Mia sente cantare e suonare Sebastian, ma è solo dopo una festa che i due stringeranno un legame forte, appassionato e profondo come il loro amore per l’arte. Momento clou della serata è lo scenografico e ben ballato tip tap fra le colline di LA mentre cantano “What a lovely night”.

La passione per la recitazione e la musica, la infinita gavetta (che tanti di quegli attori che noi ora apprezziamo hanno fatto) accettare la realtà dei fatti e poi rialzarsi per ricominciare.
E’ un film per i sognatori come canta la Stone ad un certo punto : “Here’s to the ones who dream. Foolish, as they may seem”

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Per gli appassionati di musical i riferimenti alle pietre miliari come Cantando sotto la pioggia West Side Story sono molteplici e facilmente riconoscibili. C’è il faccione della Bergman nel posto di Casablanca come carta da parati della camera di Mia, c’è Gioventù bruciataNotorius.
Chazelle gioca tutto il film coi long shots dando continuità alla recitazione e accentuando la fluidità delle parti danzate e coi colori dei vestiti e dei luoghi. Inquadrature in cinemascope con le figure intere testimoniano la performance ballerina degli attori.
Sebastian è un nostalgico e le sue emozioni si specchiano in una riflessione sul presente mondo dello spettacolo.

Le interpretazioni sono ottime Gosling convince completamente e ammalia.
Emma Stone , grazie anche all’esperienza fatta a teatro con “Cabaret” , è perfetta, coinvolgente espressiva e divertente.
In tanti hanno paragonato questa coppia a Fred e Ginger : non ballano come questi ma l’alchimia del duo sullo schermo è magica.

E’ un omaggio al Cinema e a Los Angeles che è la terza protagonista.
Il musical è un genere che non è mai passato rispetto a tanti altri più “forti” ,  come il western che invece hanno subito l’effetto del tempo, e con questo film gode di un rinnovamento. Una nuova fase del musical. E’ una boccata di aria fresca quella che ci permette di avere Damien Chazelle.
Dopo aver fatto incetta di Golden Globes , si è guadagnato 14 nomination agli Oscar (forse un po’ eccessivi ma si sa sono gli Academy) ed è il favoritissimo in categorie come miglior film e miglior attrice e attore protagonista. Non resta che attendere.

Intanto chiudete Netflix/Sky/Amazon alzatevi dal divano, sedetevi in sala e sognate.

Arianna De Arcangelis

Arrival: un nuovo tipo di fantascienza adatta a tutti

arrival-poster-venezuelaMisteriosi oggetti spuntano in dodici luoghi intorno al pianeta. Gli alieni , che sembrano delle grandi piovre miste a ragni con sette dita , però non invadono né devastano si cerca di capire cosa vogliono.

Viene ingaggiata dal governo americano una squadra di eccellenze capitanata dalla professoressa Louise Banks , esperta linguista, e il fisico Ian Donnelly che diverrà un fedele ed affiatato compagno di lavoro.
La comunicazione fra alieni e umani è possibile scoprirà la professoressa Banks.

E’ un film di fantascienza , tratto dal libro “Story of your life” di Ted Chiang, ma innovativo : c’è tanta scienza ma anche filosofia e linguistica. 

Gli alieni comunicano con un linguaggio che non dipende da una percezione lineare del tempo che la Banks riesce a decifrare, ma per capire il motivo della presenza degli alieni sulla Terra deve concepire il tempo come gli extraterrestri.
Ecco una caratteristica che non si è mai vista fino ad ora in un film di fantascienza : l’empatia e una grande prontezza nel gestire le emozioni, tratti tipicamente non eroici. 

Nessuna necessità di sparatorie o utilizzo di bombe per la Banks solo la sua abilità di comunicare con gli alieni e le persone che non si capiscono fra loro è l’unico modo di salvare il pianeta.

Le scene dentro la nave aliena sono incantevoli e la stanza in cui c’è il primo incontro ravvicinato con gli alieni sembra un palcoscenico , con una enorme lastra di vetro illuminata e queste due giganti figure eptapodi.

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L’interpretazione di Amy Adams (American Hustle, The Fighter, Di nuovo in gioco) è sublime, Villaneuve ha giocato moltissimo con i primi piani dell’attrice , la quale ha dato prova della sua grande espressività anche nelle scene di silenzio. Le ha fruttato una nomination Golden Globe come miglior attrice drammatica e , come sostiene buona parte della stampa internazionale, c’è odore di nomination agli Oscar.
Bravo anche Jeremy Renner che ha dismesso i panni dell’avenger Occhi di falco o del macho violento.
Nonostante l’utilizzo di pochi spazi non c’è un senso di oppressione.

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Villaneuve ha creato un film universale fatto per piacere agli amanti della fantascienza (un po’ annacquata ) che ci da un messaggio bello e puro quanto il viso della Adams quando interagisce con gli alieni : ascolto e comprensione del diverso da noi.
Concilia le esigenze di tutte le tipologie di pubblico.

NB: Villaneuve è il regista di Blade runner 2049 con Ryan Gosling protagonista, se le premesse sono queste si prospetta un ottimo sequel.

Arianna De Arcangelis