IT. Il clown di Stephen King arriva in sala.

Lo vuoi un bel palloncino colorato?》

Era il 1990 quando il clown Pennywise si faceva conoscere per la prima volta attaverso una mini serie televisiva, adattamento del romanzo capolavoro di Stephen King.
Ed ora, 27 anni dopo, questo cult dell’horror torna in versione rivisitata, questa volta nei cinema italiani.
Non c’è persona che non conosca il suo inquietante protagonista o che non rabbrividisca alla vista di un palloncino rosso; per questi motivi l’attesa e le aspettative per questo ritorno erano alle stelle.

Nel 1988, in un’immaginaria cittadina del Maine, il piccolo George esce di casa durante un temporale per giocare con la sua barchetta di carta.
Quest’ultima viene risucchiata in un tombino, dove George, una volta abbassatosi per controllare, incontrerà lo sguardo del pagliaccio Pennywise e verrà risucchiato lui stesso.
Il caso di George non rimarrà però isolato, le persone scomparse diventano sempre più numerose ed è allora che un gruppo di ragazzini ‘il Club dei Perdenti’ decide di riunirsi per fare chiarezza sulle misteriose sparizioni, trovandosi però a dover fare i conti con una sconosciuta creatura demoniaca.

La pellicola, di Andy Muschietti, non è fedelissima alle pagine del libro.

Il regista sintetizza, taglia e mescola le carte in tavola, crea un film che, sì, mantiene l’essenza principale del libro, sono presenti infatti nella sceneggiatura spazi dedicati agli avvenimenti cruciali presenti nel romanzo, ma al tempo stesso sono presenti tanti piccoli cambiamenti che lasceranno interdetti i fans più accaniti.
Il nuovo Pennywise interpretato da Bill Skarsgård, è diverso rispetto a quello precedente di Tim Curry, ma comunque ugualmente iconico e spaventoso.
La caratterizzazione dei personaggi è impeccabile: il piccolo club è descritto talmente bene che lo spettatore ha l’impressione di conoscere singolarmente, uno per uno, tutti i “perdenti” che ne fanno parte.
Il cast scelto dal regista è ricco di grandi e piccole celebrità, è il caso di Finn Wolfhard, già conosciuto per il ruolo da protagonista nella famosissima serie tv Netflix ‘Stranger Things’.
Così come il romanzo si sviluppa su due piani temporali diversi, anche per la versione cinematografica sarà lo stesso.

Ma alla seconda parte verrà dedicato un sequel, che vedrà il ritorno dei Perdenti (ormai tutti adulti) in città dove dovranno nuovamente affrontare IT.
Sarà quello forse il vero e proprio banco di prova per il regista argentino che con IT si è trovato per la seconda volta dietro la macchina da presa.
Il suo lavoro è comunque sicuramente da apprezzare. La trasposizione di un capolavoro così complesso per ciò che riguarda i temi non era sicuramente facile, ma il regista si è dimostrato all’altezza.
Nel giro di soli due giorni dall’uscita nelle sale, il gran numero di incassi effettuati e di presenza nelle sale hanno portato il film a posizionarsi al primo posto in classifica al Box Office.

 

Benedetta Sisinni

 

La finestra sul cortile: quando il cinema diventa protagonista del film

Il semiologo francese Christian Metz, nel saggio Cinema e psicanalisi, afferma che gli spettatori cinematografici possono essere divisi in due categorie. In primo luogo c’è il sognatore che immobile, rilassato, nel buio della sala, come in un sogno, osserva un’illusione con cui non può interagire. Poi c’è il voyeur (termine francese che può essere semplicisticamente tradotto come “guardone”), che si introduce indisturbato nell’intimità dell’oggetto del desiderio, spiandolo come dal buco della serratura. 

Senza dubbio, nei cinefili più attenti, l’immagine dello spettatore-voyeur rievoca La finestra sul cortile, capolavoro di Alfred Hitchcock del 1954, tratto dal racconto di Cornell Woolrich.

Jeff (interpretato da uno splendido e spassoso James Stewart) un fotoreporter, è costretto all’immobilità a causa di una gamba rotta. Per trascorrere le afose giornate estive che gli restano prima della rimozione del gesso, osserva con un binocolo gli inquilini della palazzina di fronte alla sua finestra. Alcuni eventi sospetti osservati catturano la sua attenzione e grazie all’aiuto della devota fidanzata Lisa (interpretata dalla talentuosa Grace Kelly, che sembra nata per questo ruolo), comincia ad indagare.

Il sapiente gioco di alternare inquadrature convenzionali ed in soggettiva, attraverso il binocolo, suggerisce un rapporto strettissimo, spesso di immedesimazione, tra lo spettatore e Jeff. Come lo spettatore, Jeff osserva la realtà attraverso  una finestra che funge da schermo, ed un binocolo che funge da obbiettivo. Allo stesso tempo, come Jeff, lo spettatore è voyeur, vorrebbe avvertire i personaggi  dell’imminente pericolo, agire, ma non può muoversi, è immobile, incollato alla sedia. Ma non basta. Jeff difatti risulta essere anche regista, è colui che decide ciò che lo spettatore può vedere.

Jeff è un  personaggio statico, prototipo dell’inetto, che osserva la realtà ed è incapace di interagirvi. La vera azione viene svolta da Lisa, che per amore del fidanzato, arriva persino a mettere a rischio la vita. Solo alla fine il fotoreporter diventa attore della vicenda, quando l’azione si sposta nella sua camera, quando (riprendendo l’analogia esposta prima) si ha una rottura della quarta parete.

James Stewart veste i panni di Jeff

In generale, non è difficile identificarsi con il protagonista. Dopotutto, ancora oggi, basta guardarsi intorno per trovare tanti Jeff in mezzo a noi: lo vediamo incollato alla televisione davanti al reality di turno; lo vediamo cercare morbosamente dettagli sanguinosi sull’ultimo fatto di cronaca nera; più banalmente lo troviamo dietro un computer mentre si relaziona con il mondo attraverso uno schermo.

Una regia impeccabile, un soggetto accattivante,  una recitazione eccellente e mille spunti di riflessione . In poche parole un capolavoro che non può mancare nella lista dei film da vedere assolutamente.

Renata Cuzzola

“Mongoli, uniti!”

E’ il 1192 e Temüjin è solo un bambino.
Un giorno insieme al padre Yesugei, Khan della propria tribù (tipico capo delle tribù mongole) accompagnato da altri membri della stessa, si dirigono verso il villaggio dei Merkit attualmente in una situazione di contrasto nei loro confronti poiché anni prima, proprio lo stesso Yesugei, rapì la moglie del loro Khan per renderla sua, inimicandosi inevitabilmente l’intera tribù.

Infatti la soluzione è Temüjin che compiuti i nove anni di età, è costretto a scegliere una moglie, per cui la scelta migliore ricade su una bambina della tribù nemica, così da poter “medicare i rapporti”.
Il viaggio è molto lungo dunque viene presa la decisione di fermarsi ad un villaggio di mezzo dove il Khan di esso è un buon amico di Yesugei e qui Temüjin farà la conoscenza di Borte, una bambina di dieci anni che, venuta a sapere della ricerca di una moglie da parte del bambino, gli proporrà la sua persona e nonostante Temüjin conosca bene le intenzioni del padre e che la sua sposa non debba essere di questo villaggio, chiede a quest’ultimo se possa comunque fare una “prova” nell’eventualità che la sua sposa si trovi qui.

Prevedibilmente Borte è la protagonista della decisione di cui Yesugei era assolutamente all’oscuro, ufficializzando le nozze che dovrebbero avvenire fra cinque anni, quando i bambini saranno cresciuti. Benché il padre del ragazzo non approvi la sua scelta, che inevitabilmente alimenterà maggiormente il contrasto con la tribù Merkit, accetta la situazione.
Nel tragitto di ritorno il gruppo decide di accamparsi per riposare, ma nello stesso luogo vi sono alcuni nemici del Khan che decide di fermarsi nel punto prefissato nonostante tutto. Fra i due gruppi avviene uno scambio di offerte consistenti in alcune dosi di cibo e bevande, che per tradizione devono essere necessariamente consumati sotto gli occhi dell’offerente.
Consapevole del fatto che questo possa essere un grosso rischio poiché la bevanda potrebbe essere avvelenata, Yusegei decide di ingerirla comunque perché “le tradizioni sono importanti e vanno rispettate” .
Tornati sui loro passi il Khan accusa dei malori e cade da cavallo in fin di vita, affidando al figlio Temüjin la sorte della sua tribù rendendolo il nuovo Khan. Da questo momento la vita di Temüjin sarà completamente stravolta.

Mongol è un film del 2007 diretto da Sergej Vladimirovič Bodrov che racconta le vicende storiche e personali di Gengis Khan, ricevendo la Candidatura agli Oscar come Miglior Film Straniero nel 2008.
Fatta una doverosa premessa specificando che il film, per alcuni tratti si lega più al fattore “protagonista” mettendolo in buona luce anziché ad una funzione pedagogica, si comporta piuttosto bene.
Nonostante il lavoro di ottima regia, costumi curati, trucco ed effetti speciali da non sottovalutare (che oggi possono sembrare scarsi, ma bisogna considerare l’anno di produzione e uscita del prodotto), il film parte bene, ma non mantiene i buoni propositi.
Infatti, soprattutto nella fase avanzata della pellicola, essa risulterà piuttosto sottotono con una narrazione necessaria per lo svolgimento corretto della storia, ma che sarà difficile seguire con pieno entusiasmo.
Da apprezzare è anche la sceneggiatura che, se lo spettatore non avrà conoscenza della figura e storia di Gengis Khan, non gli renderà un lavoro facile al fine di fargli comprendere che si tratti di lui. Complessivamente il lavoro di Bodrov è sicuramente lodevole e ben fatto, ma Mongol non è il film perfetto.

                                                                                                                                              Giuseppe Maimone

Pirati dei Caraibi: la vendetta di Salazar

“Non vado in cerca di guai”
“Che orribile stile di vita ! “

Chi è che ad oggi non ha mai visto questa famosa e fortunatissima saga cinematografica?

Chi non ha mai subito il fascino dello stravagante e carismatico Capitan Jack Sparrow (Johnny Depp)? E chi non ha mai desiderato di trovarsi al suo posto e vivere le sue stesse avventure, oltremodo fuori dal normale?

Per tutti coloro che, dopo aver sospirato per la storia tra Sparrow e Angelica Teach (Penelope Cruz) in quello che sembrava essere l’ultimo capitolo, si sono chiesti se fosse davvero finita lì o ci sarebbe stato un seguito…beh, eccovi accontentati!

A distanza di ben sei anni, esce nelle sale italiane, il 24 maggio 2017, il quinto attesissimo episodio della saga: “La vendetta di Salazar”.

Jack Sparrow, più svampito del solito, è come sempre in balia della sfortuna e dei guai: una flotta di pirati fantasma guidati dal vendicativo Capitano Armando Salazar (Javier Bardem), fuggono dal Triangolo del Diavolo, a bordo della Silent Mary, e hanno come obbiettivo quello di ripulire il mare uccidendo ogni pirata, e in particolare vogliono uccidere Sparrow!

L’unica speranza di salvezza del nostro capitano è riposta nel Tridente di Poseidone, capace di spezzare ogni maledizione. La ricerca di quest‘ultimo porterà Jack ad incrociare la propria strada con quella di Carina Smyth (Kaya Scodelario) un’avvenente astronoma ed Henry Turner (Brenton Thwames) marinaio della Royal Navy, nonché figlio di Will Turner (Orlando Bloom) ed Elizabeth Swann (Keira Knightley), coppia che in quest’ultimo film fa il suo grande ritorno.

Saprà il nostro irriverente Jack, a bordo del suo malandato vascello, far fronte a tutti i pericoli che incomberanno e a salvarsi anche sta volta?

Dopo un quasi deludente quarto capitolo, che aveva fatto credere che più niente ci sarebbe stato da raccontare sulla vita di questi “cattivi del mare”, la regia dei norvegesi Joachim Rønning ed Espen Sandberg, si pone come obbiettivo quello di riportare il film ad avere lo stesso successo iniziale. Sono stati gli stessi registi ad affermare di voler realizzare “il miglior film della saga”; e per far ciò hanno voluto radunare, sempre citandoli ”la vecchia gang”.

Ecco spiegato allora il ritorno di Will ed Elizabeth, del figlio Henry e la presenza sempreverde di Geoffrey Rush nei panni di Hector Barbossa e ancora, come non sottolineare la partecipazione di Paul McCartney, anche lui col nome di Jack, ad interpretare lo zio del protagonista?

Protagonista che ci si presenta irriverente, scanzonato, impudente come sempre, insomma…il solito Capitan Jack Sparrow!

Un mix di personaggi vecchi e nuovi, un cast di tutto rispetto che gli conferisce la verve del primo film, quello che ha reso questa saga un cult del cinema fantastico.

Già dalla data di uscita il film è stato apprezzatissimo dai fans e ben accolto dalla critica; questo lascia forse ben sperare in un proseguimento? Lo scopriremo, nel frattempo continuiamo a riempire sale e come sempre… Vita da pirata!

Benedetta Sisinni

Wonder woman – la prima eroina.

C’è una bambina che corre, sta scappando per andare a vedere delle donne allenarsi al combattimento. Questa bambina è Diana (la futura Wonder Woman) e queste donne le Amazzoni.

Dopo anni la Warner Bros e la DC sono riusciti a produrre e mandare in sala Wonder Woman. Tratto dall’omonimo fumetto creato da William Moulton Marston nel 1941, nata come simbolo per le donne. Una delle eroine più famose della storia dei fumetti.

Figlia della regina delle Amazzoni Ippolita e cresciuta sull’isola Paradiso la lascerà quando sulle sue coste cade Steve Trevor un pilota americano, durante la seconda guerra mondiale.
In questa trasposizione cinematografica la cui regista è Patty Jenkins (Monster) e gli sceneggiatori e tutto l’ensemble sono uomini (“It is a man’s world” cantava James Brown) la nostra supereroina, invece, è catapultata durante la prima guerra mondiale e segue la spia Trevor in Inghilterra.
È convinta di poter ristabilire la pace universale trovando Ares e neutralizzandolo una volta per tutte.

La sceneggiatura è scarna, con qualche battuta divertente e d’effetto, la Jenkins però lascia il suo segno con la regia lineare, non puntata tutto sulla fisicità di Diane e delle Amazzoni. La differenza di stile fra chi ha diretto e chi ha sceneggiato è notevole.
Gioca molto sul contrasto fra i principi e gli usi dell’antica Grecia di Diana e quelli della modernità incarnati da Steve Trevor ciò stimolerà sicuramente le giovani menti.  
Il primo tempo è molto coinvolgente, belle le scene di battaglia sulla spiaggia (ndr sono state girate tutte in Italia : spiagge in Campania e le scene di palazzo a Matera e Castel del Monte).
Inizialmente il secondo tempo coinvolge, lo sguardo scioccato e innocente di Diana che si aggira per il fronte, siamo lì con lei e proviamo lo stesso sconforto.
Si allunga troppo lasciando spazio ad un finale un po’ eccessivo.

Gal Gadot è la perfetta Diana, sovrasta Chris Pine (Don’t worry darling) solo con lo sguardo, più che nei momenti di battaglia in quelli di quiete e di comprensione di com’è il mondo. È brava assai.
Caricaturali i tre personaggi che li accompagnano, un turco, un disadattato e un indiano. A quest’ultimo la limitata sceneggiatura gli affibbia frasi politically correct. Stereotipata pure la segretaria di Chris Pine, anche se simpatica.
Dulcis in fundo ci sono le amazzoni: splendide donne. Imponenti le scene iniziali dell’isola e dei combattimenti fra queste. E poi Connie Nielsen e Robin Wright nei panni della regina Ippolita e la generalessa Antiope che fanno dire , per citare il mio giornalista del cuore Federico Pontiggia,  “Wonder MILF”.

Wonder woman colpisce positivamente il pubblico e divide la critica (v. i numeri del box office e le valutazioni su Rotten Tomatoes). È già passato alla storia del botteghino in America con un incasso di $100.5 milioni di dollari nel primo weekend.
Chi scrive è cresciuta coi fumetti di Wonder Woman, Valentina e in tv Carmen Sandiego (Netflix la riporterà presto interpretata da Gina Rodriguez) e altre personaggi immaginari femminili però al cinema durante la mia infanzia non ho mai potuto apprezzare un film di questo tipo.
Questo film si sta ponendo come la alternativa per le ragazzine ad un panorama di eroi uomini. È coinvolgente e stilisticamente affascinante.
Le donne però non devono essere solo raffigurate ma anche coinvolte nei lavori, credute nei progetti che propongono. 

Ndr: nel 2016 il 4% erano registe, l’11% sceneggiatrici, 19% produttrici, 14% editrici e uno sconcertante 3% direttrici della fotografia. Ad Hollywood.

Arianna De Arcangelis

“The Big Kahuna”

Di film indipendenti se ne trovano a bizzeffe, specialmente da dopo la miracolosa discesa in terra della piattaforma mistica di nome “Netflix”, ma sono veramente pochi quelli che riescono a rimanere all’altezza degli standard delle grandi produzioni Hollywoodiane nonostante il loro budget molto limitato.
The Big Kahuna (La Grande Occasione) è uno di questi, una piccola, sbiadita e remota stellina lucente in mezzo ad un panorama troppo scuro…

E’ un film del 1999 diretto da John Swanbeck, tratto dalla commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff (che sarà anche sceneggiatore della stessa pellicola) che vede protagonisti “solo” tre attori: Danny DeVito, Kevin Spacey e un giovanissimo Peter Facinelli che interpretano il ruolo di tre venditori di lubrificanti industriali per una azienda sempre più sull’orlo del fallimento.
L’unica location utilizzata è una modesta stanza d’albergo di Wichita, Kansas dove i tre hanno organizzato un incontro con un grosso cliente che con il suo ordine potrebbe risollevare le sorti della loro azienda. Il problema è che nessuno di loro conosce il suo volto.

Ogni personaggio è diverso dall’altro e tutto il film ruota proprio attorno ai dialoghi che queste tre personalità tanto diverse riescono a partorire.
Il primo di cui facciamo la conoscenza è Phill Cooper (Danny DeVito) saggio venditore di mezz’età dalla personalità profonda e confusa che rappresenterà uno dei punti chiave di tutto il film. Insieme a Cooper troviamo Bob Walker (Peter Facinelli) giovanissimo venditore, neoassunto, ligio al dovere e fortemente legato alla religione Battista di cui è un fervido credente. L’ultimo ad intervenire è Larry Mann (Kevin Spacey) cinico ed astuto venditore, dotato di un grande sarcasmo che spesso lo spinge ad esagerare nell’uso di parole taglienti, specialmente nei confronti del giovanissimo Bob Walker.

“Be’, guardate, sono allibito! Io non fumo, tu non bevi e Bob non fa pensieri licenziosi sulle altre donne. Messi insieme noi tre siamo praticamente Gesù”

I dialoghi sono la vera perla di questo film, soprattutto se si considera che il tutto si ambienta in una sola, piccola e semplice stanza dalle pareti color kaki di un altrettanto anonimo albergo del Kansas. L’azione è bandita dalle scene, la parola viaggia libera e tocca i temi più disparati, dal senso della vita alla religione, dall’importanza della famiglia al valore dell’amicizia, fino, ovviamente, ai temi più concreti della finanza e del linguaggio imprenditoriale. Tutto si muove sulla linea del confronto/scontro tra Larry e Bob, troppo distanti caratterialmente per vivere una giornata intera gomito a gomito sotto la costante pressione di un cliente che non si palesa; confronto che scoppia nella costante battaglia tra il cinismo dato dall’esperienza di vita del primo e la forte e quasi eccessiva fede religiosa del secondo.

Non è un film che eccelle sotto tutti i punti di vista, anzi, spesso dimostra molte lacune sul piano della regia e della trama in se stessa, ma, nonostante la forte mediocrità dell’organizzazione di base, riesce a mettere in luce le splendide performance dei tre attori che riescono a cucirsi addosso perfettamente i loro ruoli, senza troppi eccessi, in maniera semplice, ma diretta. L’apice del film lo si raggiunge nel finale che riesce a condensare perfettamente il senso di tutta la storia in pochi minuti dalla straordinaria forza d’impatto, dimostrandosi così una perfetta chiosa per un film dalle poche aspettative, ma dai molti punti di riflessione e di indagine interiore.

“Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.”

È un film consigliato a tutti coloro che non hanno paura di mettersi in dubbio, di porre sotto i riflettori del giudizio altrui la propria personalità, i propri difetti e le proprie paure; che sono disposti a cambiare in meglio, a chiedere scusa e ad affrontare i problemi di ogni giorno con spensieratezza, perché, prima o poi, anche loro riusciranno a cogliere la loro grande occasione.

Giorgio Muzzupappa

Eventi del fine settimana

Venerdì 5

  • DA ANTONELLO A CARAVAGGIO: LA LUCE DI MESSINA NELL’ARTE

DOVE: Salone delle bandiere – Piazza del Municipio

QUANDO: dalle ore 17:00 alle ore 20:00

COSA: Per la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, si terrà il convegno su Antonello e Caravaggio, fautori della storia artistica italiana.

Interverranno il Dott. Franco Leone, esperto d’arte, scrittore e poeta; il Prof. Domenico Venuti, presidente dell’Associazione Nazionale del Fante di Messina e del Centro Europeo di Studi Universitari ( CO.B  – G.E.); il Dott. Giuseppe Previti, presidente della fondazione “Antonello da Messina“; Renato Di Pane, scrittore e poeta e la dicitrice Clara Russo.

 

  • SPAZI DI SOVRANITA’ NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

DOVE: Aula ex Chimica del Dipartimento di Giurisprudenza

QUANDO: dalle ore 17:00 alle ore 19:30

COSA: L’associazione Morgana invita a partecipare alla conferenza sopracitata.

Introducono: Giuseppe Domenico Di Giorgio, presidente dell’associazione Morgana; Diana Gerace, presidente dell’associazione Oltre la Linea.

Modera: Alberto De Luca, dottore di ricerca in storia dell’Europa Mediterranea.

Sarà previsto il riconoscimento di CFU per gli universitari.

 

SABATO 6

  • BUONA LA PRIMA : LAMAGARA

DOVE: Teatro dei 3 Mestieri – S.S. 1q4 Km 5,600 Via Roccamotore

QUANDO: dalle ore 20:45 – replica domenica 7 alle ore 18:30

COSA: Calabria, 1769, Cecilia viene processata per stregoneria. Ma chi è questa donna? Fata o strega? Lucifera, portatrice del sole o della luna?

Vedrete questo e molto altro a LAMAGARA, scritto da Emilio Suraci ed Emanuela Bianchi.

 

  • WORA WORA  WASHINGTON LIVE 

DOVE: RETRONUVEAU – Via Croce Rossa, 33

QUANDO: dalle ore 22:30 e show dalle 23:45

COSA: Serata perfetta per gli amanti della techno/ electro e per farsi catturare dal ritmo pulsante ed ossessivo dei Wora Wora Washington.

Ingresso 5€

  • WHORKSHOP DI SCRITTUTA A CURA DI DANIELA ORLANDO

DOVE: ARB – via Romagnosi, 18

QUANDO: dalle ore 10:00 alle ore 13:00 e dalle ore 14:00 alle ore 18:00; domenica 7 dalle ore 10:00 alle ore 13:00

COSA: È un liogo liberon in cui si gioca con le parole, si apre la mente e si sperimenta. Non importa avere esperienza, l’importante fornirsi di amore per la scrittura.

Il workshop prevede una quota pro-capite di 40€, ma per studenti e/o disoccupati di 20€.

È indispensabile la prenotazione per messaggio al numero 3357841234

 

DOMENICA 7

  • SECONDA EDIZIONE MESSINA CHE VALE

DOVE: Palazzo Mariani

QUANDO: dalle ore 10:30

COSA: abiili artigiani esporranno le loro creazioni e i ricercatori del CNR e dell’Università mostreranno i loro recenti lavori.

All’ex Palazzo delle Poste saranno anche presenti gli studenti delle scuole superiori con i loro progetti e artisti con le loro opere.

Nel mentre, si potranno gustare i prodotti tipici messsinesi.

 

  • CAMMINO DELLO JEDI

DOVE: Multisala Iris – Via Consolare Pompea, 240

QUANDO: dalle ore 13:00 alle ore 18:30

COSA: seminario di spada laser e tecniche di combattimento ispirato a Star Wars.

Il costo è di 10€ e si consiglia di indossare guanti per la protezione delle mani, maglietta nera ( o a tema Star Wars ) e pantaloni scuri.

 

  • LA SICILIA SUONA A SEI CORDE- SECONDO RADUNO DI CHITARRISTI IN SICILIA

DOVE: Spazio LOC – via del Fanciullo, Capo d’Orlando (ME)

QUANDO: dalle ore 16:30 alle ore 21:00

COSA: è un evento ideato e organizzato da Corrado Salerno con la collaborazione di Marco Corrao, patrocinato dallo Spazio Loc del comune di Capo d’Orlando.

L’ingresso è libero; per info chiamare 3402112990 o scrivere a corraoma@gmail.com

Jessica Cardullo

Arianna De Arcangelis

13 Assassini e la lotta per la giustizia del popolo.

Sono tredici, ma non sono audiocassette di una ragazzina suicida. 

Lord Naritsugu Matsudaira, fratello minore dello Shogun in carica, semina morte e paura per suo semplice diletto, in un periodo di assoluta pace che perpetua nel Giappone. Ciò non è accettabile, ma nonostante il disgusto e la disapprovazione delle più alte cariche, il legame di Naritsugu con il fratello lo rende fondamentalmente intoccabile, almeno dal punto di vista formale. Proprio per questo motivo, un nobile samurai di nome Shinzaemon Shimada viene incaricato di una missione assolutamente segreta e di vitale importanza: quella di ucciderlo. Shinzaemon sa perfettamente che questa sarà la missione della sua vita e che come ricompensa avrà solo la morte, dunque, con animo nobile e giusto di samurai, accetta di buon grado la missione senza esitare. Così comincia la ricerca di valorosi, fidati e abili guerrieri favorevoli al compimento della missione e pronti a tutto pur di portarla a termine. A ricerca conclusa, il gruppo risulta essere formato da soli dodici uomini, formidabili samurai votati all’arte della spada puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Lealtà e giustizia sono i punti cardine. Il loro appuntamento con la morte è dunque alle porte.

13 Assassini” di Takashi Miike è un’opera curata e controversa, remake dell’omonimo lavoro del 1963 a cura di Eiichi Kudo. Azione, esplosioni, combattimenti fra samurai, sangue. Gli ingredienti ci sono tutti o forse c’è qualcosa in più. Infatti la pellicola nipponica produce un buon risultato finale, nonostante la trama sia piuttosto lineare e prevedibile, senza trascurare elementi poco credibili e realistici utili ad alimentarne la spettacolarità, assolutamente gradita. Vi è da precisare che il genere non è proprio per tutti, specialmente nel caso trattato, dove per alcuni le sequenze iniziali potrebbero essere considerate “disturbanti”. Nel complesso si mantiene un certo equilibrio, con scene di piena azione, ma non troppo crude, alternate a combattimenti godibili. L’atmosfera che si viene a creare è sicuramente appropriata per il genere e in ogni singolo tratto del film, si respira Giappone dei tempi dello Shogunato (forse con qualche pizzico di stereotipi, ma non è dato saperlo con certezza). Se si è alla ricerca di un buon lavoro cinematografico e samurai impavidi con katana al loro seguito, “13 Assassini” sicuramente non deluderà.   

                                                                                                                                                Giuseppe Maimone

Star Wars 40 : un tributo a Carrie Fisher

Qualche giorno fa si sono svolte le celebrazioni per i 40 anni dall’uscita del primo Star Wars
Durante le quali è  stato mostrato questo video tributo a Carrie Fisher: l’eterna principessa Leila deceduta lo scorso dicembre.

Dal video si comprende il tipo che era: una Jedi non una principessa.
Lei e il suo femminismo galattico e la costante lotta , sullo schermo e nella vita reale, con il Lato oscuro della forza.

Come cantava Meryl Streep in “Postcards from the edge” adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo della Fisher : “I’m checking out of this heartbreak hotel…”
Di nuovo arrivederci Carrie.

“Ora, credo che questa cosa diventerebbe un fantastico necrologio, e allora dico a tutti i miei amici più giovani di me che non importa come morirò: voglio che sia detto che sono affogata nella luce lunare, strangolata dal mio reggiseno.”

Arianna De Arcangelis

Ghost in the Shell: un remake come tanti o qualcosa di più?

L’idea di un remake live action di Ghost in the Shell (in sala dal 30 marzo), manga e poi anime tra i più riusciti degli anni 90, rappresenta, a film ancora non visto, una sfida quasi arrogante nei confronti di un’opera d’arte conclamata.
Il rischio tangibile che la profondità dell’anime di Mamoru Oshii potesse svanire dietro i seni di Scarlett Johansson (su cui pure torneremo) non si esaurisce di fronte alla resa grandiosa di un’animazione che è stata magnificamente ri-tradotta sul grande schermo.

Se da un lato persino il Titanic di Cameron deve molto del suo stile visivo al film di Oshii, dall’altro questo GITS chiude di fatto un cerchio, portando al cinema qualcosa che finora vi era rimasto essenzialmente escluso e che eppure così tanto aveva influenzato registi come i Wachowski ed il già citato Cameron. Per realizzare l’impresa, i tecnici della Dreamworks hanno attinto dagli autori di cui sopra, oltre che dall’illustre predecessore Ridley Scott e non solo: sin dalle primissime inquadrature appare chiaro come GITS sia un film che propone in veste commerciale colori delle più recenti avanguardie cinematografiche d’autore, Noé e Winding Refn in primis.

Eccellente il lavoro del direttore della fotografia Jess Hall, già sul set di Wally Pfister (ex cinematographer di Christopher Nolan) per Transcendence e frutto di una ricerca apposita per una mdp in grado di avvicinarsi il più possibile alla cel animation di Oshii.

Nonostante la relativa esperienza del regista Rupert Sanders, ci troviamo di fronte ad una sapiente ricostruzione del mondo di Oshii, mondo in cui è bello vedere qualcosa di più che semplici ricostruzioni delle scene più celebri dell’anime come il salto nel vuoto iniziale, l’inseguimento del camion della spazzatura o la scena della barca. E di questo siamo grati, perché il qualcosa in più arriva e non senza nuovi significati suoi precipui, con effetti speciali finalmente in grado di trasmettere emozioni e livelli di interpretazione, oltre il mero intrattenimento.

La cultura orientale viene stritolata, ingollata e digerita in forma nuova dalla tecnologia futuribile mostrata nel film. La vita quotidiana è arricchita da streaming cerebrali, enormi sistemi olografici alti quanto e più dei grattacieli e una certa estetica anni 80, umido riferimento a vicoli e veicoli di Blade Runner, che però combacia armoniosamente con la palpitante CGI contemporanea.

Impossibile sentirsi soli in un ambiente simile, tranne per il maggiore Mira Killian (Johansson): un prototipo di cyborg costituito da un corpo interamente artificiale in cui è stata installata una mente umana, un ghost e che promette di aprire le porte verso una nuova frontiera dell’umanità. Contro tale prospettiva un misterioso terrorista (Michael Pitt) sta scagliandosi con inaudita ferocia e abilità.
Compito della Sezione 9, servizio di sicurezza capeggiato da Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano), è fermare il terrorista con l’aiuto del maggiore e dell’agente Batou (Pilou Asbæk).

Si complica la trama rispetto all’originale, che preferiva un intreccio semplificato con dialoghi dalla maggior pregnanza filosofica ed esistenziale alle numerose scene d’azione e ai dialoghi didascalici marcatamente occidentali che riempiono il film di Sanders, oltre al pastiche che è stato composto prendendo elementi anche dal sequel (sempre diretto da Oshii nel 2004), Innocence.
Fuggendo la mania della fedeltà, la trama di GITS riesce a catturare lo spettatore, a patto che si sforzi appunto di dimenticare l’originale. La pellicola si presenta radicalmente divisa in due partinella prima riesce ad accrescere sequenza dopo sequenza l’interesse di chi osserva per la bellezza del grande Waste Land futuribile, dove i fantasmi culturali del passato aleggiano insieme a spot pubblicitari e ai fumi della metropoli.
Dal momento in cui il villain di Pitt si rivela, invece, inizia lo straniamento rispetto al film di Oshii, che qui non si vuole criticare per l’eccessiva libertà nelle direzioni fatte prendere al plot in sé, quanto per quella che è la conclusione filosofica, esasperata dal finale manieristico, che tradisce la natura stessa di Ghost in the Shell.
Alla fusione tra un’intelligenza artificiale che vuole farsi umana e dunque mortale con un’umana che ha fatto di tutto per non essere più tale, Sanders preferisce omettere la fusione e relegare l’identità del maggiore alla nostalgia di un passato perduto. Passato umano e luddista. Reazionaria rivolta contro il mondo moderno che schifa la tecnologia vista esclusivamente come opprimente tecnocrazia e celebra l’identità umana, mancando quell’appuntamento con la rete, assoluto informatico – hegeliano delle coscienze già in veste industrial nel Tetsuo di Tsukamoto, cui così magistralmente il film di Oshii consegnava la propria chiusura, aprendo ad interrogativi, paure e opinioni tanto discutibili quanto prolifiche. La necessità di rendere GITS un prodotto hollywoodiano rovina così tutto il potenziale dibattito che la cultura nipponica, di posizione storicamente progressista per quel che riguarda l’etica (fanta)scientifica, aveva trasmesso ai fan dell’anime: il ruolo della tecnologia viene ridotto considerevolmente e limitato allo scopo di un abbraccio tra una madre e la figlia perduta.


La scelta di Scarlett Johansson, paventata da molti e accusata di white washing (polemica inutile che sta, almeno secondo la Paramount, causando il flop al botteghino), risulta in realtà vincente dal punto di vista recitativo e coreografico, ma l’implicita attenzione pubblicitaria verso la bellezza della diva, poi censurata da Sanders con una banale tuta di latex che sostituisce squallidamente il nudo integrale mostrato da Oshii, fagocita l’insensatezza del corpo umano trasmessa originariamente, togliendo a quel gesto così espressivo della spoliazione del maggiore la sua fredda estemporaneità.
Il “non visto”, secondo il classico meccanismo di oggettivazione del corpo femminile che Hollywood attua da sempre, ha come è noto l’effetto opposto, focalizza cioè l’attenzione sulla sensualità. Nel caso di GITS ciò è fuori luogo, data la netta sensazione di asessualità che trasmetteva il cyborg di Oshii e la controparte villain, cui viene peraltro dato un aspetto maschile (nell’originale era femminile), col risultato di recuperare un’identità di genere puramente finalizzata allo stereotipo. Insomma, Scarlett Johansson l’avremmo preferita davvero nuda, chi per un motivo chi per un altro.

All’insegna dello stereotipo anche il ruolo di Juliette Binoche, nei panni della creatrice del maggiore con una stima viscerale verso la propria creatura e una forma di venerazione per il superomismo cibernetico.

Da notare invece il ruolo di Kitano, che al momento di entrare in azione sfodera un enorme revolver “old school”, con buona pace di mitra compattabili e pelli sintetiche in grado di rendere invisibili. Cocktail d’azione incredibilmente credibile, sporcato di noir e gradevolmente vicino al personaggio di un altro celebre anime, Toshimi Konakawa in Paprika del compianto Satoshi Kon. Ma il richiamo principale è ovviamente alla filmografia dello stesso Kitano.
Tirando le somme, Ghost in the Shell di Rupert Sanders è un remake che merita di essere visto nonostante difetti, fanservice ed eccessi che paiono ad un esame più attento come il canto del cigno non solo dei suoi personaggi cupi ed alla ricerca di un sé perduto, ma di un’industria cinematografica tutta (Hollywood) in piena crisi creativa se non ancora economica, furto maldestro da un Oriente che avanza sotto il punto di vista artistico ed espressivo, rinnovandosi a discapito di un Occidente granitico e sterile che perde la capacità di fondere arte e popolarità – dovendo spesso sacrificare una delle due – e quindi di intendere il cinema per ciò che sempre è stato: arte popolare.

Andrea Donato