Diamanti: il nuovo Gioiello firmato Ferzan Özpetek

Il 19 Dicembre è arrivato nelle sale l’ultimo attesissimo lavoro del regista turco Ferzan Özpetek, Diamanti, a solo un anno di distanza dal precedente, Nuovo Olimpo, in collaborazione con Netflix. Un film tanto atteso oltre che per un cast meraviglioso anche per Ozpetek diverso dal solito, dedito ad omaggiare la creatività femminile e il cinema mettendo sottosopra la società. 

Trama

Anni ’70, Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca) sono le proprietarie di una sartoria cinematografica e teatrale a Roma. Le due sorelle sono affiancate da un gruppo di lavoro formato quasi esclusivamente da donne: Fausta (Geppi Cucciari), Eleonora (Lunetta Savino), Giuseppina (Sara Bosi), Nicoletta (Milena Mancini) e Nina, (Paola Minaccioni) la capo sarta. Oltre ai tre film in preparazione, iniziano una collaborazione con una costumista premio Oscar, Bianca Vega (Vanessa Scalera), incaricata di preparare i costumi per il film di un regista, anch’esso premio Oscar (interpretato da Stefano Accorsi). In sartoria lavorano anche Carlotta (Nicole Grimaudo), la tingitrice, e Silvana (Mara Venier), la cuoca. Durante la fase di lavorazione si vanno a conoscere queste donne, ognuna con la propria storia, fatta di fatica e di sacrificio.

Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca)Fonte: The Space Cinema
Fonte: The Space Cinema

I 18 Diamanti

Per il suo quindicesimo lungometraggio, Özpetek  ha valuto fare le cose in grande. Prodotto da Marco Belardi e distribuito dalla Vision Distribution, il film, basato su alcune esperienze autobiografiche del regista, presenta un cast d’eccezione, composto da ben 18 attrici, alcune delle quali presenti in altri suoi film: Paola Minaccioni e Loredana Cannata sono arrivate alla sesta collaborazione; Milena Vukotic, Elena Sofia Ricci e Luisa Ranieri (che abbiamo visto negli scorsi mesi al cinema anche con Parthenope di Paolo Sorrentino e Modì di Johnny Depp) alla quarta; Jasmine Trinca, Lunetta Savino, Anna Ferzetti e Nicole Grimaudo alla terza; Carla Signoris e Kasia Smutniak alla seconda. Nuove collaborazioni, come Vanessa Scalera (arrivata al successo grazie alla fiction di Rai 1 Imma Tataranni – Sostituto Procuratore), Milena Mancini, Gisella Volodi (che ha collaborato con  Woody Allen e Wes Anderson) e Geppi Cucciari, inserita dal regista nel cast tre settimane dopo la chiusura).

Sorprese e Garanzie

Inoltre in questo cast straordinario troviamo due nuove leve del cinema italiano, Sara Bosi (scoperta dal regista presso L’Oltarno, l’Accademia di alta formazione del mestiere dell’attore a Firenze) e Aurora Giovinazzo (che abbiamo visto recentemente al cinema con Eterno Visionario diretta da Michele Placido), e la zia Mara Venier (che torna sul grande schermo dopo anni dedicati esclusivamente alla conduzione). Infine non possiamo non citare Stefano Accorsi (che con l’interpretazione del regista premio Oscar Lorenzo è arrivato alla sua collaborazione con Özpetek), Luca Barbarossa (cantautore e conduttore radiofonico, qui nei panni di Lucio, marito di Gabriella), Carmine Recano (conosciuto anche per il ruolo del comandante Massimo in Mare Fuori) e Edoardo Purgatori (conosciuto per il ruolo di Emiliano nella fiction storica di Rai 1 Un medico in famiglia)

Fonte: My Movies
Fonte: My Movies

Altri Contributi

Non mancano presenze importanti anche dal punto di vista musicale. A rendere ancora più magico il film non sono solo le musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia ma anche tre voci straordinarie. Le abbiamo già visto in altri film del regista: Mina (con Mi sei scoppiato dentro al cuore e L’amore vero), Patty Pravo (con Gli occhi dell’amore) e Giorgia (con Diamanti che accompagna i titoli di coda). Proprio la prima ha suggerito al regista turco il titolo del film attraverso la seguente frase:

“Il diamante è quello che resiste a tutto, come le donne” 

 

Fonte: Style Magazine – Corriere della sera
Fonte: Style Magazine – Corriere della sera

Diamanti oscilla tra riflessione ed emozione

Daiamanti è un film che, per molti aspetti, si contrddistingue nel suo genere. la sceneggiatuera di Deniz Göktürk Kobanbay, i costumi di Stefano Ciammitti, il cast strepitoso già menzionato e le varie tematiche affrontate attraverso il capovolgimento degli stereotipi e i pregiudizi che caratterizzano la società (ancora oggi). Özpetek con questo è riuscito a mettere al centro la personalità di donne diverse. Proprio attraverso la creatività, il coraggio e la determinazione, affrontano il loro destino diventandone protagoniste. Un film emozionante, carico di energia e che stimola emozioni profonde.

 

Rosanna Bonfiglio

 

Natale e Cinema: 7 pellicole a tema natalizio da Riscoprire

Manca ormai sempre meno al Natale e tra alberi addobbati, regali incartati e città illuminate, le serate film a tema natalizio non mancano mai. Sono infatti centinaia i film di Natale capaci di farci ridere, di farci emozionare e di farci sognare. Raggrupparli tutti è impossibile, ma abbiamo provato a fare una piccola guida per chi è in cerca di una pellicola in grado di trasmettere la magia del Natale inserendo anche alcuni film forse un po’ dimenticati. Da un capolavoro di Tim Burton con un giovane Johnny Depp, ad una action-comedy natalizia con Arnold Schwarzenegger fino ad arrivare a Carol, la struggente pellicola con Cate Blanchett.

1. The Family Man (2000)

Jack, Nicolas Cage, è un uomo d’affari pronto a lavorare anche a Natale per fare soldi. Nessuna famiglia, nessun amore, solo soldi e pochi scrupoli. Ma Jack non è stato sempre così, un tempo amava Kate (Tea Leoni), ma quella vita e quel possibile futuro è ormai perduto. Ma un fantasma, di dickensiana memoria, appare a Jack e gli farà vivere la vita che avrebbe potuto avere se avesse scelto Kate mostrandogli che oltre ai soldi e al successo c’è molto di più: c’è l’amore.

The Family Man Regia: Brett Ratner Distribuzione: Medusa Film Film di Natale
The Family Man. Regia: Brett Ratner. Distribuzione: Medusa Film.

2. Una promessa è una promessa (1996)

Arnold Schwarzenegger dopo aver sconfitto un Predator e aver affrontato Skynet per salvare l’umanità dai Terminator si trova ad affrontare la sfida più dura: essere un papà a Natale. Howard è infatti un papà distratto, gli affari lo tengono lontano da casa sia con il corpo che con la mente. Vuole quindi sfruttare il Natale per farsi perdonare dal figlio regalandogli il modellino di Turbo Man, l’eroe televisivo più amato dai bambini. La ricerca del modellino sarà più difficile del previsto, ma la promessa fatta al figlio Jamie vale più di ogni altra cosa.

3. Jack Frost (1998)

Il Natale è per tutti un momento di gioia e felicità, ma purtroppo non è sempre così ed è proprio quello che racconta Jack Frost. Jack (Micheal Keaton) è un musicista che ama la sua famiglia, ma che spesso per lavoro affronta lunghe trasferte. Un giorno mentre è di ritorno a casa dal lavoro, perde la vita in un incidente stradale.  Un anno dopo, arrivato il Natale, Charlie figlio di Jack costruisce un pupazzo di neve nel quale si trasferirà l’anima del padre scomparso l’anno prima.

Jack FrostRegia: Troy MillerDistribuzione: Warner Bros. Pictures
Jack Frost Regia: Troy Miller. Distribuzione: Warner Bros. Pictures.

4. Edward mani di forbice (1991)

Tim Burton crea una favola dark natalizia, una favola sull’inclusività dove però manca il lieto fine. Edward (Jonny Depp) è una creatura nata dalla visione di un inventore, è un ragazzo con le forbici al posto delle mani che vive ormai da solo dopo la morte del suo creatore. L’incontro con una rappresentante di cosmetici lo porterà a cercarsi di integrare nella società grazie alla sua bravura come parrucchiere, ma come Einstein insegna “è più facile scindere un atomo che abolire un pregiudizio” e le differenze con le persone “normali” diventeranno un ostacolo difficile da superare.

5. Carol (2014)

Nel Natale del 1952, in un’America omofoba che vede l’omosessualità come una grave malattia mentale, scoppia l’amore tra Carol (Kate Blanchett) e Therese (Rooney Mara). Le due donne cercheranno di ignorare i pregiudizi e l’odio sociale per vivere un amore forte seppur proibito in un lungo e gelido inverno. Un film potente, che affronta tematiche necessarie e che ci ricorda che l’amore è sempre e comunque amore.

6. A Christmas Carol (2009)

La favola natalizia di Charles Dickens riproposta sul grande schermo sotto forma di film d’animazione con protagonista Jim Carrey grazie all’uso del Performance Capture. Ebenezer Scrooge (Jim Carrey), un vecchio strozzino, è un uomo avido che allontana quelle poche persone che ancora gli vogliono bene. Non conosce la magia del Natale ed è interessato solo a stesso. Ma la notte di Natale, la visita di tre fantasmi, quelli del Natale passato, del Natale presente e del Natale futuro gli faranno capire il vero significato del Natale e che non è mai troppo tardi per amare gli altri.

A Christmas Carol Regia: Robert Zemeckis Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures
A Christmas Carol Regia: Robert Zemeckis. Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures.

7. Krampus – Natale non è sempre Natale (2015)

Chiudiamo questa lista con un film natalizio un po’ diverso. Stiamo parlando di Krampus, un horror che unisce brividi alla magia del Natale. Un antico demone del Natale prende di mira la famiglia di Max, un bambino che ha voltato le spalle al Natale. L’unico modo che hanno Max e la sua famiglia per sconfiggere Krampus è quella di tornare ad essere uniti e disposti a mettere da parte gli attriti per amore del bene altrui.

 

 

Francesco Pio Magazzù

Mufasa: come il “Cerchio della Vita” iniziò a ruotare

Il mese di dicembre ha ufficialmente aperto la stagione invernale dei grandi attesissimi appuntamenti nelle sale, da Diamanti, l’ultimo capolavoro di Özpetek, a Conclave con il suo cast d’eccezione, fino a Una notte a New York. È al grande universo della Disney però che appartiene uno dei titoli più attesi, si tratta ovviamente di Mufasa che, con un cast di voci eccezionali e una storia perfettamente studiata ed emozionante è riuscito a far breccia nei cuori di grandi e piccini.

Fonte: Walt Disney
Taka e Mufasa cuccioli in una scena del film

Il prequel/sequel che ci meritavamo

La storia si presenta come un prequel e al tempo stesso un sequel del classico d’animazione Disney del 1994 (riproposto in live-action nel 2019) Il Re Leone. Simba e la compagna Nala sono pronti ad affrontare un viaggio attraverso le intemperie che caratterizzano la stagione delle piogge africana e ovviamente non possono rischiare di far intraprendere questa pericolosa avventura anche alla loro piccola Kiara, sarà questo il motivo per cui sarà lasciata in custodia a Timon e Pumbaa e soprattutto al saggio Rafiki che le racconterà la storia di quelle che furono le origini di suo nonno, il grande re Mufasa e di Taka, colui che divenne suo fratello, il “principe” meglio noto come Scar.

È un racconto che riesce a sorprendere anche il pubblico più esperto quello che Rafiki ci porta, un racconto incredibile che ci mostra quanto siano lontane le origini di Mufasa da Milele, la futura Terra del Branco, una storia profonda che ci racconta di un orfano senza neanche una macchia di sangue regale che trova un fratello col quale ne nasce un rapporto così meraviglioso da far venire il magone, sapendo già l’esito finale della loro storia. Di fatto una storia che spiega perfettamente non solo come Taka è diventato Scar ma da cosa è nata la sua sete di potere, nel suo branco, prima di conoscere Mufasa ed affrontare gli “emarginati” era lui ad essere destinato a diventare il re. Le origini di Zazu legate a Sarabi e quelle dello stesso Rafiki completano l’emozionante quadro di grandi rivelazioni.

Mufasa: Dietro le quinte della savana

Reduce dal successo ottenuto nel 2019 con il live-action del lungometraggio animato del 1994 la Casa di Topolino ha ben pensato di realizzare per questo sequel/prequel un film a tutti gli effetti senza far uso dell’animazione né moderna né tantomeno tradizionale. Una decisione che ha scaturito non pochi timori al lancio del film sulla memoria di ciò che fu quel live-action de Il Re Leone, un grande successo. Successo che ha però messo a dura prova la produzione in CGI dei personaggi che a suo tempo non è riuscita a restituire nei volti realistici degli animali le espressioni dei personaggi animati, timori scampati nel momento in cui questo nuovo film ci ha portato a conoscenza dei grandi passi da gigante fatti in pochi anni dalla CGI che ci ha regalato stavolta delle espressioni animali degne, nonostante si trattasse di un film, dell’animazione Disney.

C’é da ricordare come dietro un film del genere vi siano anche delle voci straordinarie, un cast di voci che vede il ritorno di Marco Mengoni nei panni di Simba dopo il live-action del 2019 e anche di Edoardo Leo e di Stefano Fresi nei panni di Timon e Pumbaa e di Elisa (e di Beyoncé nella versione originale) nei panni di Nala, e poi, tra le nuove voci la meravigliosa Elodie nei panni di Sarabi, Luca Marinelli nei panni di Mufasa e Mads Mikkelsen che nella versione originale presta la voce al perfido Kiros e ovviamente tra le varie voci non poteva mancare il commovente tributo a James Earl Jones, la voce originale di Mufasa nel classico del 1994 e nel suo live-action del 2019.

Fonte: Walt Disney
Mufasa e Taka in una scena del film

Un’eco più del 1994 che del 2019

Complici anche i già citati progressi della CGI, questo film si è sorprendentemente e piacevolmente dimostrato molto più legato al classico d’animazione originale che al suo remake live-action, lo dimostrano in primis i caratteri dei vari personaggi come la stravaganza di Rafiki marcata qui quanto nel lungometraggio animato, i tempi comici di Zazu anche questi ultimi molto più fedeli al lungometraggio del 1994 che al suo live-action del 2019 ma soprattutto il sarcasmo di Taka che si manifesta dall’inizio fin proprio alla fine perfettamente fedele e in linea con quello dello Scar originale del capolavoro animato mentre nel live-action assistiamo ad uno Scar profondamente oscuro ed estremamente malvagio, sempre di Rafiki abbiamo poi il legame col suo bastone che, esattamente come in questo film una volta trovato, nel lungometraggio animato non lo lascerà mai mentre nella versione live-action ne farà uso solo alla fine. A farci emozionare poi all’accostamento con l’opera originale abbiamo il legame che si stringe tra Mufasa e Rafiki, la bontà di Mufasa, la nascita della Terra del Branco, la cicatrice di Scar, l’amore tra Mufasa e Sarabi e poi la presenza di Kiros, un villain tanto malefico quanto brillante in puro stile Disney.

Il distacco dal precedente live/action

Ben pochi sono invece i legami con il live-action del 2019 dove addirittura Zazu racconterà un aneddoto di Mufasa cucciolo così come Scar che narrerà un avvenimento di Mufasa anche quest’ultimo avvenuto in tenera età nelle Terre del Branco, informazioni anacronistiche rispetto a quanto narrato in questo ultimo prequel, unico elemento che vede effettivamente legati i due film è il rapporto sentimentale di Taka/Scar nei confronti della regina Sarabi e l’accenno che nel live-action del 2019 viene fatto di un precedente scontro tra Taka/Scar e il fratello Mufasa.

Fonte: Walt Disney
Mufasa, Rafiki, Zazu, Taka e Sarabi diretti verso la luce

La perfezione non esiste, neanche in Mufasa

Tuttavia c’è da dire che anche un film così ben costruito presenta i suoi piccoli buchi nell’acqua, se da un lato abbiamo infatti delle meravigliose e nuove rappresentazioni del paesaggio africano e l’originale idea di fare dei leoni bianchi gli antagonisti avversari degli altri leoni “classici” dall’altro abbiamo la strana idea per quanto scenograficamente riuscita di far passeggiare dei leoni su delle montagne non solo innevate ma addirittura colpite da potenti tempeste di neve, idea che ha fatto suscitare non poche domande al pubblico così come le ha fatte scaturire l’idea di aggiungere delle iene ad acclamare Mufasa come il nuovo re tra gli altri animali, proprio le iene, in natura rivali dei leoni e soprattutto antagoniste principali del lungometraggio originale al fianco di Scar (si può presumere che Scar si sia alleato con loro nell’arco di tempo che va dai fatti narrati in questo film all’inizio del lungometraggio originale).

L’elemento di cui più si è risentito però sono senza alcun dubbio le musiche, uno degli elementi che ha da sempre reso Il Re Leone così memorabile sono le musiche, grandi musiche indimenticabili che hanno fatto la Storia e che qui vengono quasi completamente a mancare. Si canta molto anche all’interno di questo film ma trattasi di pezzi facilmente dimenticabili che certamente non lasceranno il segno così come hanno fatto altre melodie di casa Disney, de Il Re Leone nella fattispecie.

Un capolavoro per tutte le età

In ogni caso comunque si tratta questo dell’ennesimo bersaglio perfettamente centrato di casa Disney, un film che al di là dei rimandi al film originale è in grado di emozionare e divertire, un capolavoro per tutte le età, brillante, preciso e straordinario che merita assolutamente di essere visto.

 

Marco Castiglia

Giurato numero 2, il potente addio di Clint Eastwood al cinema

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia. L’addio alla regia di uno dei più grandi registi di sempre.

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia., – Voto UVM: 5/5

Chi è il giurato Numero 2?

Justin Kemp, un futuro papà con un passato da alcolista, è convocato come giurato in quello che sembra essere il processo con il più facile dei verdetti. Un omicidio, quello della giovane Kendall Carter, che non ha alcun segreto. La vittima sembrerebbe essere stata picchiata e gettata in un burrone dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, un ex membro pentito di una gang di quartiere. Non sembra esserci alcun ragionevole dubbio per i 12 giurati fin quando Justin, il giurato numero 2, si rende conto che il colpevole della morte della giovane Kendall è proprio lui. La tragedia, avvenuta un anno prima, è frutto di un tragico incidente sotto la pioggia dove ad essere urtata dalla macchina di Justin non è un cervo ma la povera Kendall.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un dilemma morale 

Il giurato numero 2, un giovane in procinto di diventare padre, si trova di fronte al più grande dilemma morale della sua vita. Confessare scagionando l’imputato, dovendo però rinunciare alla sua vita visto anche il passato da alcolista, o mantenere il segreto ma condannare un innocente all’ergastolo? È questo il dilemma che muove la pellicola, l’ennesima pellicola dove Clint Eastwood affronta temi morali e lo fa con il punto di vista della persona comune. Se in “Million Dollar Baby” Clint rifletteva sul senso della vita chiedendosi e chiedendoci con grande coraggio quale fosse la cosa giusta da fare, in Giurato Numero 2 è il significato stesso di giustizia ad essere messo in discussione.

Le riflessioni morali trovano forza nelle immagini di Giurato Numero 2

Nessun elemento è lasciato al caso, ogni immagine ha un significato che va oltre a ciò che vediamo e che contribuisce a rendere la pellicola un’ode al grande cinema. La prima scena ritrae la dea Bendata Themis, dea della giustizia che brandisce in una mano una spada e nell’altra una bilancia, seguita dall’immagine di una donna anch’essa bendata ma questa volta guidata da un uomo. Justin che viene lasciato al buio dalla moglie che spegne la luce, i flashback che ci mostrano chiaramente i punti di vista oggettivi e soggettivi di quello che è successo nella notte della morte della giovane Kendall. Sono tutte immagini pregne di significato che trasmettono allo spettatore enormi spunti di riflessione celati proprio sotto il nostro sguardo a volte distratto.

Giurato numero 2, quando la giustizia è soprattutto umana

Una delle riflessioni più importanti del film è quella sul concetto di giustizia. Il sistema giudiziario americano, prevede la presenza di una giuria che deve valutare se esiste o meno il ragionevole dubbio che l’imputato non sia colpevole. Ed è nella costruzione della giuria che Clint Eastwood mette in discussione la giustizia umana. I 12 membri, Justin compreso, appartengono a ceti e categorie sociali diversi. C’è chi dà più importanza al ruolo in sé più che all’esito del processo, c’è chi non vede l’ora di tornare a casa, chi condanna a priori l’imputato per il suo passato nelle gang e chi si pone il ragionevole dubbio perché non convinto del tutto dalle prove mostrate dall’accusa. Ed è in questo mix sociale e psicologico magistralmente descritto dal Eastwood che Justin, il giurato numero 2, tenta di convincere gli altri giurati dell’esistenza del “ragionevole dubbio”.

La giustizia è bendata, ma spesso lo sono anche le persone

Clint ancora una volta, come già fatto in “Mystic River” e “Flag of our Fathers”, mette in dubbio la capacità di giudizio umana. E questo non lo vediamo solo con la giuria. Il pubblico ministero sotto elezioni che ha bisogno di chiudere velocemente il caso, la polizia che si accontenta della prima spiegazione plausibile, l’opinione pubblica che vuole un colpevole sono esempi emblematici di quanto la giustizia possa essere vittima della miopia umana. Lo stesso Justin, egoisticamente, non agisce per la salvezza dell’innocente ma quanto per trovare un modo di convivere con i suoi sensi di colpa. Ad essere bendate quindi sono anche le persone, le quali però non indossano una benda per essere imparziali ma per scegliere più o meno volutamente cosa non vedere.

Una profonda riflessione sulla giustizia

Se in “Richard Jwell” il protagonista cerca di dimostrare di essere innocente, ricercando una coincidenza tra giustizia dei tribunali e sociale, in Giurato Numero 2 la giustizia è astratta e si scinde come un atomo inesorabilmente. A quanti interessa davvero che sia fatta giustizia? D’altronde l’imputato ha un passato violento e Justin è solo un padre di famiglia vittima di una serie di tristi coincidenze. Ed è qui che c’è la vera riflessione del film, ciò che è giusto non sempre coincide con la verità e la giustizia dei tribunali non sempre coincide con la giustizia sociale. Giurato numero 2 è un film che riflette sulle scelte, sulla giustizia con un finale duro ma che vede il trionfo della cosa giusta da fare, qualsiasi sia il suo prezzo anche contro la nostra volontà.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions
Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un cast stellare diretto magistralmente

Il cast di Giurato Numero 2 vanta attori del calibro di Toni Colette (pubblico ministero), J.K Simmons con un ruolo piccolo ma interpretato con tutta la potenza di questo attore e Nicholas Hoult nei panni di Justin e Zoey Deutch che interpreta la moglie. Il film è diretto magistralmente da un 94enne Clint Eastwood che ha ormai raggiunto l’olimpo dei registi di Hollywood. Una pellicola lucida, che non si perde mai e con un comparto tecnico perfetto. Clint Eastwood lascia probabilmente il cinema con l’ennesima opera potente che investe lo spettatore di emozioni contrastanti e che lasciano un segno indelebile e quella domanda ormai ricorrente: Cosa avrei fatto io al suo posto?

 

Francesco Pio Magazzù

Wicked: Defying Gravity diventerà un modo di dire universale

Wicked
Voto UVM: 4/5 – finalmente sono due donne a prendersi la scena dall’inizio alla fine. Una lezione che il cinema deve reimparare è che se si crea qualcosa che sia davvero un evento per le donne, si faranno sicuramente sentire.

Record al box office per  Wicked, diretto da Jon M. Chu (Crazy & Rich, Sognando a New York – In the Heights), uno dei musical più amati e simbolo di una generazione, che il novembre scorso ha debuttato sul grande schermo come uno dei principali eventi cinematografici e culturali del 2024. È prevista l’uscita del secondo capitolo nel novembre 2025.

Sinossi

Prima dell’arrivo di Dorothy Gale la storia di Oz vede protagoniste Cynthia Erivo (Harriet, The Color Purple di Broadway) e Ariana Grande – per la seconda volta al cinema dopo Don’t Look Up (2021) – nei ruoli di Elphaba, studentessa modello, che cerca la sua strada camminando instancabilmente sotto il peso del pregiudizio, e Galinda, una fanciulla frizzante e popolare, adornata dal privilegio e dell’ambizione. Le due giovani donne stringono un’amicizia tanto improbabile quanto profonda che le porta all’incontro col leggendario Mago di Oz e con gli schemi corrotti del suo regno. Si troveranno di fronte a una scelta e al compimento dei loro destini come la Strega Buona del Sud e la Strega Cattiva dell’Ovest tipiche della fiaba classica.

Wicked: un classico tra librerie, teatri e cinema

I libri che compongono la serie di Oz sono quaranta, detti i “famous forty”, oltre a questi c’è una miriade di materiali “paralleli”, canonici e non-canonici. Quella di Wicked è una storia alternativa, nata come romanzo “apocrifo” di Gregory Maguire nel 1995 e diventato nel 2003 un musical pluri-premiato scritto da Winnie Holzman e Stephen Schwartz. Negli ultimi vent’anni si è affermato come un classico di Broadway e della West End.

In questo adattamento cinematografico, rispetto al musical, alcune scene chiariscono meglio il flusso degli eventi e la personalità dei protagonisti. Chu ha dichiarato che la sua volontà era quella di dare ai personaggi lo spazio che in palcoscenico non gli era stato concesso. La sceneggiatura sonora del film include sia alcuni successi della pièce originale, sia nuovi brani ineditiIn omaggio al musical, il regista Jon M Chu ha inserito Idina Menzel e Kristin Chenoweth in una sequenza nella Città di Smeraldo.

Wicked
Cynthia Erivo in una scena di “Wicked” di Jon M. Chu (Universal Pictures 2024)

Le donne in Wicked: la magia di Ariana Grande e Cynthia Erivo  

Come promesso dalle tentacolari campagne pubblicitarie per Wicked, Cynthia Erivo e Ariana Grande sono il centro della narrazione: finalmente sono due donne a prendersi la scena dall’inizio alla fine e ogni errante principe o potente mago è meramente di supporto. Questo film è incentrato sulle donne, è una lezione che il cinema deve reimparare: se si crea qualcosa che sia davvero un evento per le donne, si faranno sicuramente sentire. “Barbie” lo ha largamente dimostrato l’anno scorso.

Galinda bilancia l’aspetto comico slapstick con la sua natura di mean girl, che emerge nei momenti centrali del racconto. La Erivo sceglie invece un approccio naturalistico: offre alla sua Elphaba un arco emotivo coerente e sempre crescente. Grande lavoro la loro rappresentazione visiva: contrassegnate dai colori rosa e verde, spiccavano in mezzo al blu delle divise degli altri studenti. 

Divise uguali ma ognuno diverso: Wicked racconta anche, attraverso il cinismo mascherato degli studenti mastichini, temi forti del nostro tempo: il razzismo, il bullismo, l’abilismo e la sfida individuale dell’autodeterminazione. 

Wicked

L’imperialismo di Smeraldo: il male è arrivato ad Oz

Se in questa storia la cattiva non è la strega, l’antagonista è proprio il mago di Oz, qui simbolo della mentalità autoritaria. Delega il lavoro sporco agli altri e sottomette gli animali privandoli della libertà di parlare e pensare. Abbiamo un mago con tendenze quasi totalitariste, qui tratteggiato da Jeff Goldblum in una sequenza coreografica visivamente impeccabile. Anche il personaggio del Dottor Dillamond, l’unico insegnante animale rimasto ad Oz, è vittima di questo clima oppressivo e, si sa, in tempi di difficoltà, si cerca sempre qualcuno da incolpare: in questo caso il bersaglio sono tutti gli animali come lui. 

<<Uno dei benefici di ingabbiare un animale è che non impara mai a parlare>>.

Si presenta come uno dei personaggi più interessanti,coerenti e, per assurdo, umani del film – oltre che un esempio di buon uso della CGI e degli effetti speciali in generale, oggi fin troppo spesso abusati. 

Wicked
Cynthia Erivo e Ariana Grande al Super Bowl durante il press tour di “Wicked” di Jon M. Chu (Universal Pictures 2024)

 

“Il rosa sta bene col verde”: Wicked è il marketing at it’s finest

Universal ha collaborato con oltre 400 marchi aziendali per creare decine di prodotti, l’Empire State Building è stato illuminato di rosa e verde – i colori ormai distintivi delle due streghe – Cynthia Erivo e Ariana Grande hanno fatto tappa alle Olimpiadi estive di Parigi in cosplay di Elphaba e Galinda, e Wicked è approdato anche negli intermezzi del Super Bowl. 

È rischioso per i grandi rivenditori scommettere su un primo film. Di solito, questo livello di campagna è riservato ai titoli di franchising. Viviamo in un ambiente in cui la monocultura non basta, bisogna essere ovunque si trovino le persone nei loro percorsi di consumo. È stato tutto meticolosamente progettato dal direttore marketing della Universal Michael Moses, la cui missione con Wicked era quella di essere “appena al di sotto dell’odioso“: dice a Variety che “Defying Gravity” diventerà un modo di dire in tutte le lingue del mondo.

 

Carla Fiorentino

La Stanza Accanto: Almodóvar porta delicatezza al cinema

La Stanza Accanto(The Room Next Door) è un film del 2024 scritto e diretto da Pedro Almodóvar, con protagoniste Tilda Swinton e Julianne Moore. Oltre loro due, sono presenti anche John Turturro, Alessandro Nivola, Juan Diego Botto, ecc.

Il film è il primo lungometraggio del regista in lingua inglese ed è tratto dal romanzo Attraverso La Vita di Sigrid Nunez. E’ stato proiettato in anteprima lo scorso Settembre all’81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Di Venezia, dove si è aggiudicato Il Leone D’Oro come Miglior Film. E’ arrivato in sala lo scorso 5 Dicembre.

Trama

Martha (Tilda Swinton) e Ingrid (Julianne Moore) erano due grandissime amiche ma un brutto litigio le ha portate ad allontanarsi, rimanendo distanti per moltissimi anni. Nel frattempo, entrambe hanno avuto carriere piuttosto brillanti. Ingrid è diventata un’autrice di successo ed ora ha pubblicato un nuovo libro, dove espone la sua paura della morte. Martha è divenuta una reporter di guerra, ma ora è affetta da un cancro alla cervice in fase terminale.

Il suo cancro potrebbe essere trattabile con una terapia sperimentale, ma non priva di sofferenze e non senza il rischio che porti comunque alla morte. Tuttavia Martha ha già deciso di morire e vorrebbe una morte rapida ed indolore, con una pillola comprata sul dark web. Non vorrebbe morire da sola e visto che non ha un rapporto ideale con la figlia, chiede alla sua ex-amica Ingrid (che è andata a trovarla in ospedale appena ha saputo della condizione di Martha) aiuto per il suicidio assistito. Le due amiche dovranno andare in una casa del bosco e Ingrid dovrà alloggiare nella stanza accanto a quella di Martha, mentre quest’ultima compirà l’atto estremo una volta avvertito l’arrivo del momento di “abbandonare il party”.

Nonostante la titubanza, Ingrid accetterà la proposta e trascorrerà gli ultimi attimi con la sua amica storica. Nell’accordo, è previsto che Ingrid troverà chiusa la porta della stanza di Martha, quando arriverà il momento.

Almodóvar non si smentisce mai (e va bene così)

Almodóvar è il più grande cineasta spagnolo di tutti i tempi e questo riconoscimento è pienamente meritato. Nel corso della sua carriera, il suo modo di fare cinema si è evoluto, seguendo ed adattandosi ai cambiamenti della società, mantenendo sempre una certa lucidità. La sua carriera si può considerare piuttosto variegata e i suoi film hanno fatto compiuto passaggi dalla trasgressione alla riflessione autobiografica, come il suo stile registico che è sempre stato contrastato, provocatorio, impulsivo o riflessivo (o addirittura ha compreso tutte queste caratteristiche).

Si è sempre discostato dalla normalità, tanto da considerarla quasi inaccettabile, avendo la capacità di raccontare  mondi estremamente complessi con intelligenza, ma soprattutto senza giudizio. Anzi, spesso aggiungendo delicatezza e sensibilità, Almodóvar riesce sempre a far entrare in empatia il pubblico con i personaggi dei suoi film e a far comprendere le loro azioni.

Con La Stanza Accanto, ha messo in risalto la sua capacità riflessiva e toccando una tematica, di cui si percepisce la sua sensibilità ad essa

Pedro Almodovar
Pedro Almodovar. Fonte: Gaeta

Il ritorno di Almodóvar in versione “riflessiva”, delicata ed empatica

“La Stanza Accanto” si può considerare uno dei migliori film di Almodóvar , dove quest’ultimo torna nella sua versione più riflessiva e delicata con un film (il primo del regista girato completamente in inglese) semplicemente toccante, struggente e capace di entrare dentro l’anima. Il suo obiettivo è quello di sensibilizzare, far riflettere e soprattutto far commuovere lo spettatore (e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto) su una tematica così delicata come l’eutanasia.

Con una regia calma e delicata e con un ritmo che ricorda un po’ lo stile di Hitchcock, parla dell’eutanasia e della morte in tutte le sue sfumature. Ma attenzione, lui non vuole solo sensibilizzare lo spettatore all’eutanasia, ma far comprendere le motivazioni (altra caratteristica di Almodóvar)  di una delle due protagoniste e mostrare la bellezza e il valore della vita, senza cascare nella malinconia, attraverso Martha e Ingrid.

Martha ed Ingrid si abbracciano
Martha ed Ingrid si abbracciano. Fonte: Everyeye

Tilda Swinton e Julianne Moore da Oscar

Le due protagoniste, rimaste lontane per tanto tempo per poi ritrovarsi, condividono i momenti che accompagnano verso l’eutanasia. Da una parte, c’è una donna che ne ha passate tante e lotta contro una malattia che la sta divorando e preferisce una morte rapida ed indolore, al posto di una lenta e dolorosa. In tutto questo, viaggia attraverso i ricordi senza cascare nella malinconia e far capire il valore della vita, anche se la sua si sta spegnendo. Dall’altra, invece, c’è un’altra donna che lotta tra la paura della morte e i dubbi morali sull’appoggiare o no l’amica storica o lasciarla nelle sofferenze, però allo stesso tempo, sa di essere quella conferma per lei di aver vissuto quella vita. Tilda Swinton e Julianne Moore sono state bravissime e hanno mostrato un’alchimia pazzesca nelle scene. Le loro interpretazioni , varranno probabilmente la candidatura agli Oscar.

Martha ed Ingrid
Martha ed Ingrid. Fonte MovieDigger

Il significato metaforico della Stanza Accanto e il senso della vita

Il titolo del film fa pensare semplicemente ad una stanza effettiva accanto ad altre e vista la trama si può pensare semplicemente a questo, ma in realtà durante la visione si percepisce ben altro e rientra nel linguaggio cinematografico e nel movente di Almodóvar.

Ci sono significati letterari e metaforici nel film. Si racconta l’esplorazione di un rapporto intimo e l’importanza di una connessione umana indipendentemente da quello che il passato ha lasciato. In questo caso, il rapporto tra due amiche, fatto di ricordi e confidenze. Nonostante siano state lontane fisicamente, sono rimaste unite da un filo conduttore. Le strade delle due amiche si intrecciano di nuovo e andranno entrambe, nella stessa direzione ma con motivazioni diverse. La Stanza Accanto è un’opera delicata che tratta una tematica toccante, ma è anche un’inno alla bellezza e al senso della vita.

Un contrasto di significati

Nonostante il tema dell’eutanasia e della morte, il film è più luminoso di quanto si pensi ed invita anche ad apprezzare la vita e tutto quello che ha da offrire, fino alla fine. E’ giusto godersela, così com’è giusto il diritto di avere una morte dignitosa. La Stanza Accanto è una riflessione al tempo colorata e trattenuta, elegante e disperata, asciutta e commovente, sui momenti prima arrivare ad aprire l’ultima porta, vederla chiudersi, e varcare l’altra parte.

Uno dei migliori film dell’anno.

 

Giorgio Maria Aloi

 

Berlinguer: la grande ambizione – L’uomo oltre il politico

Berlinguer: La Grande ambizione
Berlinguer: la grande ambizione racconta la storia di un partito e di un uomo in maniera oggettiva – Voto UVM 4/5

Berlinguer: la grande ambizione è un biopic di Andrea Segre con protagonista Elio Germano. Presentato in anteprima all’apertura della Festa del Cinema di Roma 2024, ha già superato i tre milioni di incassi al box office. Proprio al festival romano, Germano è riuscito a portarsi a casa il premio come miglior attore, a testimonianza dell’ottima interpretazione portata in scena.

La Grande Ambizione: non solo storia, ma anche società

Il film si ambienta fra il 1973 e il 1978, anni dove il Partito Comunista Italiano vive il suo miglior periodo in termini elettorali. Il protagonista è, come suggerisce il titolo, Enrico Berlinguer, segretario del PCI all’indomani del golpe in Cile contro Salvador Allende. In piena guerra fredda, neanche l’Italia vive tempi sereni: è infatti reduce dai movimenti del ‘68, dove studenti e operai si mobilitarono in massa. Ad aggravare la situazione di inizio degli anni ’70 sono le violenze di carattere politico perpetrate dalle organizzazioni terroristiche. Queste continueranno per tutto il decennio, che verrà ricordato come il decennio degli “anni di piombo”. In questa intricata tela sociale, Berlinguer deve anche riuscire a distaccarsi dell’Unione Sovietica, che vede nel suo modello di stato l’unica via per il socialismo.

Dopo i fatti in Cile, per timore di una deriva antidemocratica anche in Italia, Berlinguer teorizza la sua grande ambizione, il compromesso storico. Capisce che per arrivare al governo non bastano i consensi, ma è necessaria un’alleanza con gli altri partiti sorti dalla resistenza antifascista. Il quadro politico della prima repubblica è infatti influenzato dalla conventio ad excludendum, una legge non scritta che esclude a priori le forze di sinistra dagli accordi di governo. Berlinguer quindi ambisce all’apertura al fine di instaurare un dialogo con i democristiani, altra principale forza popolare, in carica dalla nascita della repubblica.

Berlinguer: La Grande Ambizione
“Un italiano su tre vota comunista!” – Fonte: esquire.com

Nonostante un attentato fallito da parte dei servizi segreti bulgari, con il quale il film si apre, continua comunque imperterrito per la sua strada. Riuscirà pian piano, come vedremo, a separarsi anche pubblicamente dal giogo di Mosca, affermando il partito come forza democratica. Seguendo il segretario nel suo tragitto, incontriamo altri maggiori esponenti del PCI: Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Nilde Iotti e molti altri. Questi lo affiancano nelle sue visite alle fabbriche popolari o durante i grandi comizi, credendo in Berlinguer tanto quanto credono nel loro ideale politico comune.

Il film però non ci parla solamente del Berlinguer politico. Accanto alla vita politica, c’è quella privata composta dalle figure della moglie Letizia Laurenti e dei quattro figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura. Il ruolo di Enrico si fa quindi duplice: non solo funzionario maggiore di partito, ma anche padre di famiglia e fedele marito. Purtroppo le due vite sono difficilmente sovrapponibili, con la prima che toglie continuamente spazio all’altra con suo grande rammarico. Nei rapporti con la famiglia però la politica non manca affatto: vengono infatti continuamente dibattuti accadimenti e questioni dell’epoca.

La Grande Ambizione: l’altra Italia di Berlinguer

L’Italia raccontata in Berlinguer – La grande ambizione, quella della “prima repubblica”, è sì lo spaccato di una società diversa dalla nostra, ma che non è troppo distante. La differenza più evidente sta proprio nel coinvolgimento popolare nella politica. Questa è molto più partecipata e sentita rispetto ad oggi, a testimonianza del fatto che il tema dell’affluenza è oggi più centrale che mai. Impressionante è ad esempio la scena finale che mostra il funerale del segretario. Il corteo che si forma per rendergli onore è immenso e anche le emozioni viste in sala testimoniano quanto sia cambiata la situazione.

Berlinguer: La Grande Ambizione
Festa dell’Unità di Firenze, 1975 – Fonte: iodonna.it

Berlinguer, come mostrano le scene, si batte fino all’ultimo per un comunismo dal volto umano, volto a portare il volere dei lavoratori in alto. Quando Andreotti, in occasione della formazione del suo terzo governo spera di convincerlo, lui risponde “non è me che dovete convincere, ma i lavoratori”. Attraverso interviste e testimonianze, il film mostra anche un uomo riservato e profondamente etico, che riuscì a conquistare la fiducia di molti italiani. La pellicola invita a riflettere sulla politica di oggi, sull’assenza di figure di simile statura morale e sulla necessità di rinnovamento della società odierna.

Giuseppe Micari

Il Gladiatore 2 è l’ennesimo flopbuster?

Il Gladiatore
“Il Gladiatore 2 è un’operazione azzardata di cui forse non c’era davvero bisogno, con uno sviluppo piuttosto prevedibile e abusi di cgi, ma al di là degli scivoloni, ha la stoffa di campione d’incassi anche grazie al suo cast stellare.” Voto: 3/5

Ventiquattro anni dopo l’uscita de Il Gladiatore, Ridley Scott consegna al pubblico il seguito del peplum che ha definito la sua carriera e ha ispirato blockbuster del calibro di Troy e videogiochi come God of War, e non per nulla vincitore di 5 premi Oscar nel 2001. 

Si affida a un cast stellare: Paul Mescal, Pedro Pascal, Denzel Washington, Connie Nielsen e Joseph Quinn sono sicuramente nomi di grande attrattiva per il pubblico, infatti Il Gladiatore 2, è uscito solo il 14 novembre scorso ed è già leader dei box office mondiali. Ma c’era davvero bisogno di un sequel?

Sinossi

Anni dopo aver assistito alla tragica morte di Massimo Decimo Meridio per mano  di Commodo, Annone si trova a combattere nel Colosseo come bottino di guerra del generale Acacio, fidato degli imperatori gemelli Geta e Caracalla. Come Massimo, ciò che cerca è la vendetta, e con il destino dell’Impero appeso a un filo, riscopre nel suo passato la forza e l’onore necessari per riportare la gloria di Roma al suo popolo e vincere i giochi di potere dilaganti nella politica imperiale.

Denzel Washington: il suo Macrino è il self made man del sogno americano

In tutta onestà, sembra che ci sia solo un personaggio a muovere davvero la narrazione: il Macrino di Washington è il personaggio più eversivo della pellicola.

Macrino è la personificazione del “sogno di Roma” e parallelamente il self made man del “sogno americano”: partito dalla servitù e arrivato al consolato. Questo parallelismo sottile tra i subdoli giochi di potere della Roma antica e la politica statunitense odierna, effettivamente, aleggia per tutto il film, e l’interpretazione di Washington odora già di Oscar.

Il Gladiatore
Denzel Washington in una scena de “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott, Eagle Pictures (2024)

Il Gladiatore 2 : ennesimo “flopbuster” per Ridley Scott?

Per tutto il Gladiatore 2 riecheggia un grido di rivoluzione, ma mai si era vista una rivoluzione tanto semplice: gli imperatori si spodestano praticamente da soli, Annone si convince del suo destino nel tempo di un cambio di scena, Acacio e Lucilla mettono in atto un colpo di stato approssimativo, iniziato e fallito nel giro di pochi frame.

Per il resto, la pellicola è piuttosto prevedibile, tra usi e abusi di CGI nelle scenografie, scimmie mangiatrici di uomini, squali che nuotano nel Colosseo, un Acacio che muore martire alla San Sebastiano, interi eserciti che si fermano ad osservare inermi il duello finale, “legge del più forte” e massime morali. La scelta di rappresentare un oltretomba medievale contrasta col contesto. Vediamo una morte incappucciata raggiungerlo in una sequenza subacquea che, a dire la verità, sembra un p0′ una pubblicità. Forse preferivamo il sogno di Roma quando era ancora un sogno.

Il Gladiatore
Una scena dal film “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott (2024)

I veri eroi del Gladiatore 2 stanno dietro la cinepresa

Al di là degli scivoloni, truccatori e costumisti risultano impeccabili e condividono grandi meriti con gli scrittori .

In mancanza di un catalizzatore forte come il Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe, si è giocato molto sulla moltiplicazione: le caratteristiche prima proprie solo di Massimo, sono qui distribuite tra Annone e Acacio. Anche Commodo viene duplicato attraverso Geta e Caracalla. 

Il film è sia speculare che antitetico a quello originale, che finiva nei Campi Elisi con la mano di Massimo che accarezza le spighe di grano, qui invece quel grano è stato raccolto da Annone e simboleggia il passaggio di testimone tra padre e figlio. 

I colori sono ad alto contrasto: dal giallo ocra della Numidia all’oro e al nero che circonda le facce pallide degli imperatori in Senato. La scelta di rappresentare le naumachie che, per davvero, avevano luogo nel Colosseo ai tempi del fasto di Roma e le citazioni intrise di letteratura classica, sono poi delle chicche che, squali a parte, meritano plauso.

Il Gladiatore
(da sinistra) Pedro Pascal e Joseph Quinn in una scena de “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott, Eagle Pictures (2024)

C’era davvero bisogno di un sequel de “Il Gladiatore”?

Si tratta di un’operazione azzardata di cui forse non c’era davvero bisogno, ma che si allinea con la tendenza dell’ultima fase della carriera di Scott: con House of Gucci e Napoleon, il regista resta sempre in equilibrio sul sottilissimo confine tra epico e ridicolo volontario. 

Dopotutto, segue anche il vizio più recente tra i prodotti hollywoodiani: l’industria dell’intrattenimento americana non si è mai davvero ripresa dalla “existential crisis” cominciata con la pandemia, che è diventata quella di un modello economico intero e di una Hollywood che prende sempre di più le sembianze di un’industria qualsiasi. Al momento, proporre soggetti nuovi resta un rischio, e perciò si punta sul riproporre nuove avventure di personaggi già noti, di flopbuster in flopbuster.

Ma in fondo, a Hollywood funziona così da sempre, un periodo di crisi è allo stesso tempo conseguenza e premessa di una serie di successi, dopo una vecchia Hollywood ne verrà sempre una nuova e la ricchezza generata dal cinema commerciale, finanzierà quello artistico. 

 

Carla Fiorentino

Speak no Evil: un instant ramake in salsa USA che convince

CVLT
Remake in salsa Hollywoodiana della pellicola danese Speak no Evil del 2022, Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti Voto UVM: 4/5

“Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciutiè un thriller psicologico con sfumature horror che, in un crescendo di tensione, sprigiona tutta la sua potenza di pari passo alla crescente interpretazione di James McAvoy. Non privo di qualche difetto, l’opera del regista James Watkins convince ma potrebbe far storcere il naso a chi ha apprezzato la versione danese. Voto UVM: 4/5

Speak no Evil: la trama è fedele alla versione danese?

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, condivide buona parte della trama con la versione danese della pellicola. Una famiglia americana in vacanza in Toscana fa la conoscenza di una famiglia inglese molto estroversa. Dopo una gradevole cena e qualche bicchiere di vino, gli inglesi Paddy e Ciara, con a seguito il piccolo Ant, invitano gli americani Ben, Louise e la piccola Agnes a passare un week end nella loro casa immersa nelle campagne inglesi. Dopo un po’ di titubanza, dovuta anche ai loro rapporti familiari ormai logori, la famiglia americana decide di accettare l’invito.

Due famiglie a confronto

Speak no Evil gioca sulle differenze nella costruzione della storia per condurci sempre di più in una spirale di paura. Le due famiglie non potrebbero essere più diverse. Ben, Louise e la figlia Agnes vivono dei rapporti familiari tesi. Tra marito e moglie aleggia l’ombra dell’infedeltà di Louise e dei problemi lavorativi di Ben che li ha costretti a trasferirsi in Inghilterra, il tutto reso ancora più complicato dalle ansie della giovane Agnes. Paddy, Ciara e Ant, bambino con difficoltà comunicative dovute ad una malformazione alla lingua, sono apparentemente la famiglia perfetta. Passione, complicità e lavoro di squadra si mescolano ad alcuni strani comportamenti che con il passare dei minuti fanno capire allo spettatore che in Speak no Evil qualcosa non va.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

 Speak no Evil: un gioco tra opposti

É proprio nei suoi protagonisti e nelle loro interazioni che Speak no Evil trova la sua forza. Paddy (James McAvoy) e Ben (Scoot McNairy) sono diametralmente opposti. L’inglese è un padre severo, tutto d’un pezzo e sicuro di sé, mentre Ben è un uomo pavido ed insicuro. Anche Ciara e Louise sono agli antipodi. Louise è la vera guida della sua famiglia, Ciara è la tipica moglie che cerca di fare di tutto per assecondare il marito. Sono proprio l’incrocio e lo scontro tra le diverse personalità dei protagonisti a muovere la storia e, minuto dopo minuto, a farci capire che dietro l’apparente stranezza si cela qualcosa di oscuro.

Speak no Evil dimostra che è meglio non fidarsi degli sconosciuti 

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, svela la sua natura a partire dal secondo atto. Quello che poteva sembrare un semplice weekend tra amici si trasforma presto in incubo per Ben, Louise e Agnes. Ed è proprio dal secondo atto che James McAvoy innalza il livello della sua interpretazione ben al di sopra delle righe di pari passo all’evoluzione del suo personaggio. Paddy si trasforma nel predatore che è sempre stato ed inizia la sua caccia che non risparmia nessuno e che vede in Louise unico baluardo di una famiglia che cade a pezzi ma che necessita di una guida.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

Il terzo atto convince ma si allontana dall’originale

Il terzo atto è quello che svela tutte le carte del film e che allontana la pellicola di Watkins da quella danese del 2022. Se la versione danese di Speak no Evil manteneva sempre un ritmo volontariamente compassato, la pellicola con protagonista James McAvoy trova nel terzo atto il suo cambio di registro. Tutto si palesa, tutti i dubbi vengono fugati e inizia la ciaccia spietata tipica del genere a cui Hollywood ci ha già abituati. Ed è proprio questa caccia con il suo finale, per certi aspetti fin troppo buono, che potrebbe far storcere il naso a chi apprezzato la pellicola danese. Chi si aspettava un finale cupo ed incerto come quello del film danese potrebbe rimanere deluso. Ma è proprio questo finale figlio di un terzo atto diverso che dà un senso a questo remake uscito appena due anni dopo la pellicola del 2022.

Una regia solida 

La regia di James Watkins è solida e funziona. I primi piani, ed in particolare quelli su James McAvoy, permettono di cogliere le sfumature emotive e l’evoluzione dei protagonisti. Ogni atto è caratterizzato dalla prevalenza di un certo tipo di scenario, che muta con il proseguo della trama. Dalle grandi campagne inglesi ci ritroviamo catapultati in stretti corridoi e stanze buie dove ogni rumore può fare la differenza tra la vita e la morte. La scrittura convince se non per qualche scena che sottolinea fin troppo l’inettitudine di Ben. Il comparto sonoro fa il suo dovere nel caricare la crescente tensione soprattutto nel terzo atto del film.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Francesco Pio Magazzù

Il “Masterclass tour” di Edoardo Leo arriva a Messina con “Non sono quello che sono”

Nel pomeriggio di lunedì 28 ottobre, l’Università degli studi di Messina ha avuto il piacere di ospitare Edoardo Leo per presentare il suo “Masterclass Tour”. Dopo la tappa a Catania, l’attore è arrivato nel messinese dove ha avuto modo di presentare la sua opera intitolata “Non sono quello che sono”. La pellicola ritratta in chiave moderna l’Otello, mirando a sottolineare l’attualità della tragedia shakespeariana.

Il paragone di Edoardo Leo fra la società del tempo e quella odierna

Dopo la presentazione e i saluti istituzionali della magnifica rettrice Giovanna Spatari, è stato mostrato il trailer del film, seguito da una breve introduzione di Leo. L’opera riprende un tema quanto mai attuale: il feminicidio, enfatizzando proprio le figure maschili e la loro mentalità patriarcale. L’attore ha ammesso che avrebbe voluto portare il tour anche nelle scuole, col rischio che il film risultasse troppo violento per quella fascia d’età e fosse quindi forzatamente edulcorato.

“Non sono quello che sono” si focalizza come già detto sulla figura maschile, la quale secondo il regista al giorno d’oggi ignora il problema della violenza e degli abusi di genere. Lo dimostrano le statistiche: ogni giorno in media due donne sono vittime di feminicidio. I protagonisti maschili dell’opera vengono caratterizzati da una mentalità maschilista e patriarcale incline alla gelosia e alla violenza, mostrata allo spettatore con la premeditazione degli omicidi. L’opera ha poi natura popolare: lo scrittore inglese di fatti ideò una tragedia rivolta al popolo e ciò si riflette nel film con l’utilizzo dei dialetti romano e napoletano, ma anche con la collocazione popolare e pseudo-criminale dei personaggi trattati, contesti in cui la logica del possesso della donna è più tipica.

Edoardo Leo parla di Franca Rame. Crediti: UniVersoMe

Maltrattare l’oggetto del proprio amore

Nella tragedia Edoardo Leo sviscera il complicato rapporto tra Otello e Desdemona, la sua amata. L’amore in questione non è naturale, ha più il carattere di un’ossessione. La stessa natura la ritroviamo anche con Iago che non riesce a baciare Emilia senza prima toglierle la sua identità di donna, come accade quando le copre il viso con un hijab. Questa relazione di amore e gelosia che si trasforma pian piano in odio viene ben spiegata nella resa in italiano della celebre citazione shakespeariana:

“La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che sputa nel piatto in cui mangia” (riproposizione di Leo in “Non sono quello che sono”)

Per l’adattamento del film il regista ha studiato l’opera in lingua originale, per ricostruire al meglio la contorta psicologia dietro ogni personaggio. Ad esempio Iago, vero antagonista della storia, riesce a usar espedienti manipolatori per ingannare Otello e fargli credere che l’amata e i suoi cari stessero tramando continuamente alle sue spalle. Lo stesso Iago, che nell’opera originale si tace e scompare dai dialoghi, viene tramutato da Leo in un carcerato che il regista ha immaginato da vecchio, uscito di prigione, mentre racconta la vicenda in un programma tv tramite numerosi flashback. Anche il personaggio di Desdemona è particolare: nonostante il rapporto tossico che ha con l’amato, rimane fedele e gli perdona i soprusi e gli scatti d’ira per amore. Anche quando rivela all’amica Emilia che teme per la sua stessa vita, continua ad affermare che “nemmeno per tutto l’oro del mondo tradirebbe il suo uomo”.

Scena del film di Edoardo Leo - Crediti: UniVersoMe
Scena del film di Edoardo Leo – Crediti: UniVersoMe

La rappresentazione dell’abuso

Iconica è la scena della morte di Desdemona, raccontata da Leo come rappresentazione massima del disprezzo e del disgusto che l’uomo può provare nei confronti della donna. Otello, che ha l’occasione per ucciderla tagliandole la gola, preferisce utilizzare una pistola, simboleggiando la distanza che tiene a mantenere anche nel momento dell’omicidio. Il regista, inoltre, imposta un linguaggio che rispecchia sia l’”Otello” originale che il linguaggio d’odio della società dei giorni nostri. L’utilizzo della parola “puttana” per rivolgersi a una qualsiasi donna è ordinario in “Non sono quello che sono” e, spiacevolmente, l’attore sottolinea come sia anche l’insulto più rivolto alle donne al giorno d’oggi. Ciò viaggia parallelamente all’insulto più rivolto verso gli uomini, ovvero “cornuto”, che indica indirettamente la malafede della donna altrui. È tutto un circolo vizioso che fa capo alla cultura del possesso.

A conclusione dell’evento, per sensibilizzare ulteriormente il pubblico sull’argomento, Edoardo Leo ha recitati un pezzo tratto dall’opera di Franca Rame, attrice impegnata in politica, che fu vittima di uno stupro punitivo da parte di esponenti dell’estrema destra nel 1973. Il suo racconto è testimonianza, attraverso il libro del 1981 “Lo stupro e il docufilm dedicato “Processo per stupro” del 1979. Entrambe le opere ebbero un enorme eco nell’opinione pubblica e scossero le coscienze degli Italiani. Fino a meno di 50 anni fa l’uomo violento aveva la possibilità di appellarsi a sistemi come il delitto d’onore o l’adulterio considerato un crimine imputabile solo a donne. In questo racconto Leo si è confrontato a tu per tu con tutti gli spettatori, instaurando un dialogo attivo che ha visto studenti e docenti coinvolti ed entusiasti.

“Non sono quello che sono” di Edoardo Leo sarà nelle sale dal prossimo 14 novembre.

 

Giuseppe Micari

Carla Fiorentino