L’Avventura nel viale San Martino: sulle tracce di Michelangelo Antonioni

Messina mi ha colpito di più, come ha colpito tutti gli altri: è una città che si differenzia radicalmente da tutte le altre dell’isola” (Michelangelo Antonioni, La tribuna del Mezzogiorno, 8 dicembre 1958)

Prima di trasformarsi in fotogrammi le immagini del cinema prendono forma nel canovaccio della sceneggiatura. Partendo da questo presupposto, e da un incrocio attraverso i generi dell’arte, cercheremo di Leggere Messina con le inquadrature della macchina da presa.

È 1960. L’anno della Dolce Vita. L’immaginario è popolato di starlet e paparazzi. L’avanguardia sperimentale e l’esplorazione degli stati mentali sono un territorio vivo nelle mani dei cineasti. Fa sfoggio di sè un’Italia benestante, economicamente sicura, ma non per questo libera da inquietiduini e incertezze. Dieci anni prima Roberto Rossellini (clicca quì per il link all’articolo) aveva portato alle Eolie una troupe cinematografica, scontrandosi con l’asprezza delle rocce a picco e arrivando a inserire il paesaggio sullo stesso piano della solitudine esistenziale dell’attrice protagonista. Le difficoltà, non soltanto a livello di produzione, incontrare durante la realizzazione dell’Avventura (di cui ha parlato anche Antonioni, ad esempio nell’articolo apparso sul Corriere della Sera, Le avventure dell’Avventura) in un certo senso creano un sodalizio di emozioni con lo scenario con cui si scontrano: il mare perennemente scosso, gli ostacoli negli spostamenti e i problemi materiali durante le riprese sono stati un fattore non da poco nella riuscita dell’opera. Il film è il primo di una trilogia di lungometraggi che ha al centro il tema dell’incomunicabilità, seguito dal più noto La Notte (1961) con Marcello Mastroianni e L’Eclisse (1962). A questi può essere avvicinato Deserto Rosso, il capolavoro del regista, realizzato a colori nel 1964. I rapporti umani, specialmente quelli di coppia, sono attraversati dal tarlo del dubbio, dall’instabilità e dall’impossibilità di esprimersi, di confrontarsi realmente con i sentimenti. A una dimensione razionale, tipica del neorealismo, si oppone l’ombra dello smarrimento e dell’angoscia.

La sparizione di una ragazza appartenente alla borghesia benestante romana, Anna (Lea Massari), arrivata insieme a un gruppo di amici su uno yacht nell’isolotto di Lisca Bianca, vicino Panarea, è un espediente della trama che non incide sullo svolgimento complessivo del film, che si concentra tutto sull’amore tra Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti),  infatuati l’uno dell’altra durante la ricerca, pretestuosa più che interessata, di Anna. Molte le riprese realizzate in Sicilia; dalle Eolie (a Lisca Bianca, Michelangelo Antonioni tornerà nel 1983, girando un corto in ricordo dell’Avventura), Noto, Bagheria, Milazzo, Taormina e Messina. Le scene riguarderanno esterni, come quelli a Noto e alla stazione di Milazzo, ma anche l’interno di un treno che va a Palermo e ferma a Castroreale. L’Hotel San Domenico di Taormina sarà al centro di una serata mondana dove si ritrovano gli altri protagonisti e dove si consumerà il tradimento di Gabriele (nella sceneggiatura con una ragazza messinese, poi sostituita da una escort straniera), mentre la scena finale sulla terrazza, in un certo senso il perno concettuale del film, girata nello stesso albergo, mostrerà alle spalle di Claudia l’Etna coperta di neve. La luce fredda e la desolazione delle ambientazioni, nonostante si aggirino sul fondo delle vicende psicologiche, sono un fattore preminente nel cinema di Antonioni, come lo stesso regista ha ammesso. Per Nino Genovese, che ha curato il volume Messina nella sua Avventura. Omaggio a Michelangelo Antonioni, i paesaggi non rappresentano un fondale scenografico, ma hanno una preminente funzione stilistico-espressiva.

Nella scena di quattro minuti girata a Messina appare un campo lungo sul viale San Martino. Le riprese iniziano il 9 dicembre 1959. La strada è affollata da centinaia di ragazzi elettrizzati dalla presenza di una bella donna in abiti succinti. Gabriele è andato lì per parlare con un giornalista de L’Ora e avere delle testimonianze sui diversi avvistamenti che hanno coinvolto la fidanzata Anna. La sequenza principale avviene nel bar Grotta Orione. Quì Gloria Perkins (Dorothy de Poliolo) viene accerchiata. Poco dopo, quando finalmente la ragazza riesce a liberarsi grazie all’intervento della polizia, l’inquadratura si sposta di nuovo sul viale San Martino, all’altezza del negozio Lisitano (ancora oggi esistente). Alla fine dell’inquaratura si vede in lontananza lo stretto e l’incrocio col Viale Europa (Quartiere Lombardo). Al posto del bar Grotta Orione – un ritrovo all’epoca – adesso c’è un palazzo moderno al cui piano terra si trova un altro bar. L’episodio girato a Messina si è realmente verificato a Palermo, tuttavia Antonioni preferì non ambientarlo nel capoluogo perché i palermitani erano considerati più irascibili dei messinesi, e si temeva potessero opporre una maggiore avversione alla troupe che alloggiava al Jolly Hotel. Tantissime le testimonianze dei giovani che per 3.000 lire vennero coinvolti come comparse. Tra queste è particolarmente curiosa quella di Francesco Cimino, riportata nel volume di Nino Genovese, che viveva nella Casa dello studente di Messina e parlò del film anche con il rettore Salvatore Pugliatti. Il giovane faceva allora parte del Senato goliardico Accademico dell’Ateneo ed entrò in contatto, nel bar Irrera di piazza Cairoli, con dei componenti della produzione che diedero appuntamento il giorno dopo per un colloquio con Antonioni per affidargli il ruolo di un farmacista nella scena a Casalvecchio Siculo. Cimino sarà in seguito anche uno degli organizzatori del Festival dello Spettacolo universitario messinese.

L’Avventura è il primo film importante di Monica Vitti che, dopo questa parte, accompagnerà Antonioni in alcune delle sue pellicole maggiori. L’attrice ha un filo più diretto che la lega a Messina, avendo vissuto l’infanzia in città fino all’età di 8 anni. L’opera trionferà al Festival di Cannes nello stesso anno, ottenendo il plauso della critica, nonostante i fischi da parte di alcuni spettatori presenti che non apprezzarono l’inchiesta del triller trasfornarsi in analisi dell’interiorità umana. A quasi 60 anni di distanza il bianco e nero delle increspature del mare e degli scogli dell’isola di Lisca Bianca, l’ambientazione urbana di Messina in un periodo di fervore sociale e culturale, il vacillare sottile dei sentimenti d’amore, sono ancora elementi intatti di un capolavoro che ha condizionato la storia del cinema e la carriera del regista. Per celebrare il passaggio di Michelangelo Antonioni e la sua Avventura messinese, tra viale San Martino e viale Europa nel 2007 è stata posizionata una targa.

Bibliografia:

Omaggio a Michelangelo Antonioni. Messina nella sua Avventura, a cura di Nino Genovese, 2007

L’Avventura ovvero l’isola che c’è, Edizioni del centro studi di Lipari, 2000

Eulalia Cambria

Eyes di Maria Laura Moraci: trenta attori recitano ad occhi chiusi

 

Eyes è un cortometraggio della durata di 13 minuti, nel quale la regista ha voluto mettere in luce un tema molto attuale, ovvero l’indifferenza.

La regista e sceneggiatrice Maria Laura Moraci, alla sua prima esperienza, è una ragazza 24enne, attrice, ha lavorato con registi come Pupi Avati e Bernardo Carboni; tratta di un documentario basato su una storia vera di immigrazione e integrazione.

Ha dedicato quest’opera al pestaggio di Niccolò Ciatti, ventiduenne picchiato a morte da tre coetanei nell’indifferenza generale ad agosto 2017 in una discoteca vicino Barcellona.

L’originalità è data dal fatto che 28 attori su 30 hanno recitato ad occhi chiusi per l’intero cortometraggio, con gli occhi dipinti sulle palpebre.

Inizialmente si vedono delle prostitute che parlano tra di loro, una delle quali si allontana, con le cuffie nelle orecchie ascoltando “Mad World”.

Poi si passa alla scena principale, nella quale dei personaggi attendono presso la fermata del bus, un bus che peraltro non arriverà mai, in chiaro riferimento ad “Aspettando Godot”.

Ad un tratto si sentono delle urla provenienti davanti a loro, ma nessuno si alza. Una ragazza ha le cuffie isolandosi dal mondo esterno, una coppia si bacia, due ragazze attendono giudicando i passanti, un uomo intento a disegnare una donna cancella le sue labbra con il rosso, con rabbia, intento a cancellare il rumore fastidioso che sente. Come se non volesse sentirlo.

Nessuno si alza nonostante le grida persistano. Ma passato un po’ di tempo tutti i personaggi aprono gli occhi contemporaneamente, e decidono di alzarsi andando verso la donna che continua ad urlare.

Emozionante e intenso, Eyes ci manda delle immagini di grande impatto e potenti in cui vediamo una società che non vuole vedere, non vuole ascoltare il mondo circostante, una società egocentrica se vogliamo, ma soprattutto incapace di avere empatia verso l’altro.

Solo alla determinazione della donna, che desidera essere salvata, che crede davvero che qualcuno possa venire ad aiutarla, le persone si alzano andando verso di lei.

La fotografia è stata curata da Daniele Ciprì, autore della fotografia che ha lavorato con Bellocchio. Risulta ben fatto, il colore è saturo, caldo, rimane impresso nella mente.

Le opere cinematografiche che vogliono fare denuncia sociale, verso temi delicati ed attuali (qui la violenza sulla donna e l’indifferenza) sono da ammirare e da prendere come modelli d’ispirazione.

Il cortometraggio ha ricevuto parecchi riconoscimenti e premi in festival di tutto il mondo.

Marina Fulco

A Star is born

Recentissima l’uscita nelle sale di questo nuovo remake del vecchio “È nata una stella” del 1937. Bradley Cooper è sia attore protagonista che regista, e per questo esordio dietro la macchina da presa ha scelto come sua prima donna la grande Lady Gaga.

La cantante, che qui interpreta Ally, si spoglia dei suoi eccentrici soliti abiti per tornare semplicemente la Germanotta acqua e sapone che ormai avevamo quasi dimenticato. La storia è sempre quella, semplice e lineare, senza troppi colpi di scena.

Jackson, star del rock ormai al tramonto della sua carriera, incontra una sera la timida cantante esordiente Ally, fa in modo che lei riesca a tirare fuori tutto il suo talento e poi da lì è tutta una scalata verso il successo. Successo di lei. Il nostro uomo invece continuerà la sua caduta libera verso l’abisso. Ovviamente il tutto ha un lato molto romantico, per il rapporto speciale che si creerà tra i due, con contorno di alcool, droga e depressione.

Niente di nuovo insomma. Classici elementi che ritroviamo in qualunque melodramma americano. Nonostante tutto, il film riesce comunque a stupire. Tutto questo è facilmente spiegabile: a catturare totalmente l’attenzione non è la storia, bensì l’interpretazione degli attori.

Che Cooper fosse un attore di qualità era ben risaputo e qui riconferma il suo talento. Una rivelazione è stata invece la pop star, che al suo esordio da protagonista ha lasciato tutti di stucco. Ottima interpretazione, forte e potente che cattura fin dalle prime scene, il ruolo sembra esserle stato cucito addosso. La complicità tra la coppia di attori è palese, ed è anche per questo se l’attenzione si sposta dalla classica storia che è alla base a quella che lega i due. Dunque, un film non eccelso ma bello, ricordiamo che è il primo esordio da regista di Cooper, che supera comunque la prova.

 

Benedetta Sisinni

Marigold Hotel: L’India che non ti aspetti. O forse sì.

L’avanzare dell’età non per tutti è semplice da affrontare, soprattutto quando ci si domanda quale possa essere il proprio “ruolo” in questa fase inevitabile della vita. E’ proprio ciò che accade ai nostri protagonisti, sette personaggi di origine inglese “più in là” con gli anni che, per motivi disparati che possono variare da una semplice ricerca di un posto tranquillo dove poter trascorrere la vecchiaia, a pura necessità, si ritrovano ad essere tutti clienti – pur non conoscendosi fra loro – di un hotel di lusso, sfarzoso, moderno e appena restaurato, dedicato ai clienti della terza età, intitolato “Marigold Hotel”.

Questo hotel, tuttavia, si trova a Jaipur, in India. Così il gruppo senile comprendente Evelyn Greenslade (Judi Dench), casalinga ormai vedova, soffocata dai debiti del marito; Douglas e Jean Ainslie (Bill Nighy e Penelope Wilton ), coniugi ridotti sul lastrico a causa dell’investimento di tutto il loro denaro in progetti lavorativi della figlia; Muriel Donnelly (Maggie Smith) un’ex governante con pregiudizi raziali nei confronti di persone di colore; Madge Hardcastle (Celia Imrie), una donna sola alla ricerca di un nuovo marito; Graham Dashwood (Tom Wilkinson), un giudice improvvisamente ritiratosi in pensione e, infine, Norman Cousins (Ronald Pickup), un uomo che cerca in tutti i modi di ritrovare la propria giovinezza, tentando di conquistare qualche signora per passare una notte di piacere.

Dunque, colmi di bagagli sia fisici che astratti, i nostri si dirigono verso l’India, senza saltare qualche imprevisto di rito, come un volo in estremo ritardo. Ma le sorprese, di certo, non finiscono qui. Una volta giunti a Jaipur, il Marigold Hotel non si rivelerà essere quello che ci si aspettava: un ambiente fatiscente, rustico, di cattivo gusto e un servizio ben poco organizzato, se non improvvisato, si pone davanti ai nostri protagonisti, ovviamente delusi e disgustati da quella che sarebbe stata la loro dimora durante tutto questo viaggio.

L’avventura indiana è appena cominciata. “Marigold Hotel” (The Best Exotic Marigold Hotel) è un film del 2012 diretto da John Madden. La commedia si basa sul romanzo “These Foolish Things” di Deborah Moggach e pone l’accento sulla questione del progredire degli anni, arrivando all’anzianità dove mille domande attanagliano l’uomo ed un senso di abbandono e inutilità spesso lo circondano. Ed è proprio l’anzianità che prevale e trionfa in questa pellicola, lasciando trasparire il messaggio efficace di un’età avanzata in cui non si è finiti e non si ha smesso di fare, con ancora molte possibilità di fronte a sé, di una vita mai esausta e sempre pronta a sorprendere.

Benché questo possa essere un messaggio puro e lodevole da trasmettere, l’opera di Madden non gli rende giustizia, risultando una commedia a volte piacevole, altre sottotono, che non riesce a farsi comprendere fino in fondo, lasciando lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca. Un prodotto che cercava di risaltare grazie anche ad un cast arricchito da alcune “stelle” – da Dev Patel (“The Millionaire”, “Lion”) a Maggie Smith (“Harry Potter”) – ma che, tuttavia, rimane nell’ombra, incapace di trasmettere a pieno le ragioni citate sopra. Complessivamente “Marigold Hotel” si rivela un prodotto discreto, un po’ sotto le aspettative, ma che cerca di porre l’attenzione su un tema mai da trascurare che potrebbe, ad uno spettatore più anziano di chi scrive, suscitare più che semplice “indifferenza”.

Giuseppe Maimone

Film e serie tv in uscita.

27 giugno

HURRICANE – ALLERTA URAGANO

regia: Rob Cohen

cast: Toby Kebbell, Maggie Grace

trama: Dopo la morte del padre, vittima di uno dei tornado, Will  meteorologo del Governo impegnato a studiare Tammy: un uragano in arrivo sull’Alabama che si preannuncia essere il più violento nella storia degli Stati Uniti. Mentre gli abitanti cominciano ad evacuare la zona, Will, suo fratello e l’ agente del Tesoro Casey si ritrovano soli in mezzo alla furia dell’uragano e, allo stesso tempo, alle prese con un gruppo di rapinatori che vuole approfittare dell’imminente catastrofe per compiere una rapina  alla Zecca dello Stato.

28 giugno

IL SACRIFICIO DEL CERVO

regia: Yorgos Lanthimos

cast: Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Alicia Silverstone

trama: Un famoso chirurgo cardiotoracico insieme alla moglie Anna e ai loro due figli vive una vita felice e ricca di soddisfazioni.
Un giorno Steven stringe amicizia con Martin un sedicenne solitario che ha da poco perso il padre e decide di prenderlo sotto la sua ala protettrice.
Quando il ragazzo viene presentato alla famiglia, tutto ad un tratto, cominciano a verificarsi eventi sempre più inquietanti, che progressivamente mettono in subbuglio tutto il loro mondo, costringendo Steven a compiere un sacrificio sconvolgente per non correre il rischio di perdere tutto.

 

LA GUERRA DEL MAIALE

regia: David Maria Putorti

cast: Victor Laplace, Arturo Goetz, Ricardo Merkin, Vera Carnevale

trama: La comune convinzione che l’uomo invecchiando finisca per maturare serenità e saggezza è falsa. L’essere umano una volta superato l’acme della propria esistenza, comincia l’inesorabile e inevitabile discesa verso la morte e in questo lento diminuire la paura cresce dominandolo, trasformandolo in un essere vulnerabile, egoista e vigliacco.
Questa semplice e cruda riflessione e il ciclico conflitto tra le generazioni sono il nucleo del film, adattamento dell’enorme successo editoriale dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares.

 

L’ALBERO DEL VICINO

regia: Hafsteinn Gunnar Sigurosson

cast: Steinpór Hróar Steinporsson, Edda Björgvinsdóttir, Porsteinn Bachmann, Selma Björnsdóttir, Dóra Jóhannsdóttir

trama: Agnes caccia di casa Atli e non vuole che lui veda più la loro figlia Ása. L’uomo si trasferisce dai genitori, coinvolti in un’amara disputa riguardante il loro grande e magnifico albero, che fa ombra al giardino dei vicini. Mentre Atli lotta per ottenere il diritto di vedere la figlia, la lite con i vicini si intensifica: la proprietà subisce danni, animali scompaiono nel nulla, vengono installate telecamere di sicurezza e gira voce che il vicino sia stato visto con una motosega in mano.

 

TULLY

regia: Jason Bateman

cast: Charlize Theron, Mackenzie Davis, Mark Duplass, Ron Livingston

trama: Il duo Jason Bateman – Diablo Cody torna sul grande schermo dopo il successo di Juno e Young Adult. Qui raccontano la faticosa vita di una madre di tre bambini e le gioie e gli ostacoli della maternità. Marlo è al limite delle forze, incapace di donare a ciascun componente della famiglia le attenzioni di cui ha bisogno, una giovane Mary Poppins in skinny jeans suona alla porta.
La tata Tully arriva per prendersi cura dei bambini e della loro stanchissima madre. All’inizio Marlo fatica ad abituarsi ai modi inconsueti e stravaganti della baby sitter e ai numerosi cambiamenti apportati alla sua sfibrante routine serale, col tempo le due donne stringeranno una proficua alleanza che si trasformerà in un sincero legame d’amicizia.

 

29 giugno su Netflix

GLOW

Tornano le” Gorgeous Ladies Of Wrestling”. La serie racconta delle lottatrici che acquisirono notorietà negli anni Ottanta, con corpi statuari, costumi striminziti e glitter. Creato da Jenji Kohan sceneggiatrice e produttrice di “Weed” e “Orange is the new black”.
Le avevamo lasciate sul ring e nel tripudio della registrazione del primo incontro chissà cosa accadrà in questa seconda stagione.

 

The Danish Girl: Una storia vera raccontata con delicatezza

Nel 2000, David Ebershoff scriveva “The Danish Girl” ispirato alle vite dei due pittori danesi Gerda Wegener e Einar Wegener/Lili Elbe; Quest’ultima identificata come la prima transessuale e che si è sottoposta a interventi chirurgici per cambiare la propria identità sessuale.

Il film del 2015 di Tom Hooper (che ha diretto anche “il Discorso del Re”), adatta cinematograficamente il romanzo, con le dovute licenze e secondo la poetica del regista. Una visione forse edulcorata per alcuni spettatori, ma sicuramente apprezzabile che non ha timore di mostrare delle nudità intere e anche scene con tematiche sessuali esplicite senza cadere nella volgarità o nello squallore (ciò nonostante Negli Stati Uniti è stato vietato ai minori di 17 anni non accompagnati). La fotografia scandisce il passaggio da uomo a donna, partendo da una Copenaghen anni ’20 con toni freddi grigiastri, per arrivare a una Parigi calda e avvolgente dove Lili trova finalmente se stessa.

Sono, però, le emozioni, anche quelle non dette a far “rumore”. Eddie Redmayne riesce a trasmettere le sofferenze interiori di una donna intrappolata nel corpo di un uomo, le sue incertezze, paure, fragilità, capricci e la forza di volontà nel portare a termine questa sua missione. La sua interpretazione delicata e forte allo stesso tempo, è davvero intensa; ma è Alicia Vikander che esalta questa interpretazione (difatti ha vinto un oscar per questo). L’attrice riesce a mostrare tutti gli stati d’animo di una moglie che vede le difficoltà di un marito, che diventa un’ami

ca. Come può una donna accettare tutto questo? Eppure Gerda lo fa con amore incondizionato, un amore che va oltre l’identità sessuale.

Questo film probabilmente farà storcere il naso a chi crede che certe cose siano “contro natura”, ma non fa altro che mostrare la vita di due donne, unite da un legame profondo, in un tempo non molto vicino, ma per certi aspetti nemmeno troppo lontano.

 

Saveria Serena Foti

Gatta Cenerentola: quando l’animazione è cosa da adulti.

E’ un momento d’oro per Napoli.
Vittorio Basile (Mariano Rigillo), un ricco scienziato di origini napoletane, è pronto a rilanciare la città ed il territorio con un progetto ambizioso consistente nella trasformazione dell’area partenopea in un polo tecnologico, sfruttando la tecnologia della nuova nave di sua proprietà, la “Megaride”, in grado di trasmettere sotto forma di ologrammi ciò che accade al suo interno. Ma Vittorio è più di questo.

E’ anche padre di Mia, sua unica figlia e futuro sposo di Angelica Carannante (Maria Pia Calzone), avvenente donna con a carico cinque figli, quattro femmine e un maschio al quale piace assumere atteggiamenti femminili. In realtà la promessa sposa cela un grande segreto: una relazione con Salvatore Lo Giusto (Massimiliano Gallo), un malavitoso con l’intento di arricchirsi sfruttando le radici del lavoro in fase embrionale di Vittorio. Sarà proprio Lo Giusto a convincere Angelica a sposare lo scienziato, secondo un piano elaborato nei minimi dettagli dove Vittorio ne uscirà inevitabilmente sconfitto. Questo evento stravolgerà la vita promessa di Napoli, ma soprattutto, quella di Mia.

“Gatta Cenerentola” è un film di animazione del 2017, diretto da Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone.
Riconosciuto con svariati premi e nomination tra cui due David di Donatello, vanta di essere un progetto tutto italiano e unico nel suo genere, vista la quasi estraneità italiana ad un ambito cinematografico così mirato, spesso cedendo il passo alla ormai consacrata arte nipponica, leader del genere.
Eppure l’Italia non smette di stupire, proponendo un prodotto alieno che suscita stupore se in relazione al nostro territorio e che riesce a scardinare la inevitabile relazione disegno-bambino.

Perché qui di infantile, c’è davvero poco. Benché lontani dalla concorrenza “Made in USA” firmata Pixar e il “Re” del Sol Levante, Studio Ghibli, è lodevole il lavoro svolto nella realizzazione dei soggetti e lo stile usato, nonostante molti difetti e forse un disegno volutamente grezzo.
Interessante è la scelta di usare “un cartone” per narrare vicende adulte, quali sanguinarie faide familiari, che a primo impatto andrebbero in contrasto. Eppure, dopo aver superato questo “ostacolo”, tutto sembra funzionare senza badarci troppo, accompagnato da un doppiaggio altalenante, che oscilla fra il bene e il male (primeggia senza dubbio Massimiliano Gallo, alla sua prima esperienza di doppiaggio).
Purtroppo la scelta del parlato, quasi del tutto in lingua napoletana, è un arma a doppio taglio. Se da una parte è una precisa cura del dettaglio e azzeccata decisione al fine di intersecare temi e luoghi, per una coerenza e immedesimazione maggiore assolutamente apprezzabile, dall’altra rischia di far abbassare l’attenzione dello spettatore più focalizzato nel tentativo di comprendere i dialoghi che nel seguire le immagini a schermo.

“Gatta Cenerentola” è un ottimo inizio per espandere il cinema italiano in altri ambiti cinematografici ancora poco esplorati e un buon banco di prova che dimostra che con costante impegno, tenacia e, possibilmente, coraggio, si può solo migliorare.

                                                                                             Giuseppe Maimone

Festival di Cannes 2018: poche “stars” e molte polemiche

Come ogni anno, con l’arrivo di Maggio, ritorna il più importante evento cinematografico dopo gli Oscar hollywoodiani:  il Festival di Cannes, la splendida passerella che ha portato al trionfo pellicole cult come Miracolo a Milano di De SicaLa dolce vita di Fellini e Pulp Fiction di Tarantino (solo per citarne alcuni).

Ma, a soli 8 mesi dallo scoppio del “Caso Weinstein” e, con il ricordo ancora vivido delle bellissime parole pronunciate durante la serata degli Oscar dall’attrice Francis McDormand, è stato facile prevedere la forte ondata di polemiche e manifestazioni che sta colpendo giorno dopo giorno l’evento di punta della stupenda città della Costa Azzurra. È stata, infatti, assordante la marcia silenziosa portata avanti sul red carpet del Palais des Festivals et des Congrès, da parte di 82 donne del cinema tra cui registe, attrici, produttrici, manager che hanno sfilato per manifestare contro le violenze sessuali e spingere verso una più netta e concreta equiparazione dei sessi all’interno dell’industria cinematografica e non solo. In testa al corteo la presidente della giuria, Cate Blanchett, e la regista belga, neo-vincitrice di un Oscar alla carriera, Agnés Varda, hanno sottolineato l’importanza di questo gesto con la lettura di un significativo discorso sulle scale d’ingresso del Grand théâtre Lumière:

“Le donne non sono una minoranza nel mondo, ma la rappresentanza che abbiamo nell’industria sembra dire ancora altro… affrontiamo ovunque ognuna le proprie sfide, ma oggi siamo qui insieme per dare un segnale della nostra determinazione e del nostro impegno al progresso. Queste scale devono essere accessibili a tutte. Scaliamole!”

Ad organizzare la marcia è stato il nuovo movimento femminile francese 5050×2020” che, insieme ai già noti Time’s up , Dissenso comune e MeToo, si sta impegnando in questa dura battaglia.

E, se da un lato spiccano in senso positivo questi gesti di ribellione e invito al progresso, dall’altro destano scalpore e danno adito ad altre polemiche, le decisioni prese dal delegato generale del Festival di Cannes 2018, Thierry Fremaux.

Il cinquantottenne critico cinematografico francese e direttore dell’Istituto Lumière di Lione, si è fatto notare proprio per le restrizioni a cui ha sottoposto questa 71esima edizione della kermesse, negando, in primis, la partecipazione alla corsa alla Palma d’oro, dei film prodotti dal colosso statunitense Netflix, denunciando l’incompatibilità dei metodi di distribuzione delle pellicole da parte della piattaforma web, con le regole del Festival:

“Il loro modello (di Netflix, ndr) è incompatibile con quello francese, a Venezia non hanno lo stesso problema (…) Noi per questa edizione avremmo voluto il film di Cuarón, Roma, in Concorso, e il film inedito e restaurato di Orson Welles, The Other Side of the Wind, fuori concorso. Per il primo non c’era possibilità di accordo, perché il Concorso comporta il passaggio in sala, ma per il secondo non ci sarebbero stati problemi, è una loro scelta”

Risultati immagini per Thierry Fremaux

A queste polemiche si sono accompagnate quelle relative alla cancellazione delle anticipate stampa (le proiezioni in anteprima dei film destinate ai soli giornalisti che permettevano loro di scrivere gli articoli per tempo), decisione che ha completamente stravolto il piano di copertura informativa di Tv e carta stampata, scatenando le ire dei giornalisti. Le motivazioni espresse da Fremaux sono da ricollegare alla volontà di evitare spoiler ed anticipazioni sui social network o sulle testate online:

Volevamo che la proiezione di gala fosse una vera première, un vero evento, il primo passaggio in assoluto del film. Non è un provvedimento contro la stampa.”

Infine, l’ultima e forse più bizzarra presa di posizione del delegato generale, è stata quella di negare la possibilità a tutti di fare selfie sul red carpet, scelta che giustifica con la questione della sicurezza :

Siamo l’unico grande festival che consente l’accesso sul red carpet a tutti. Capitava che la gente cadesse sulle scale per fare una foto.”

Ciò ha fatto molto arrabbiare i fan che aspettavano con ansia di immortalare il loro volto accanto a quello dei loro attori e registi preferiti e che invece potranno solo guardare da lontano.

Sarà, dunque, un Festival dai pochi likes sui social e dalle molte facce serie quello del 2018, in cui le polemiche stanno avendo un ruolo di punta. Ma ciò che ci auguriamo è che si riesca a mantenere tutto questo lontano da quello che realmente conta: la bellezza dei film in concorso e le storie che questi vogliono raccontare al pubblico.

Che vinca il migliore!

Giorgio Muzzupappa

Il favoloso mondo di Amelie: una favola stravagante su sfondo impressionista.

Film del 2001 del regista francese Jean Pierre Jeunet, Il favoloso mondo di Amelie è considerato un cult del nuovo millennio. La pellicola ha riscosso un gran successo non solo in Francia, ma anche in tutta Europa e negli USA. 

Amelie cresce in una famiglia fredda, composta da un padre anaffettivo e da una madre nevrotica. A causa di una malattia fittizia (legata alla mancanza di affetto che prova Amelie), la bambina viene educata in casa e non ha alcun rapporto con i bambini della sua età. Per sopperire alla solitudine, sviluppa una fervida immaginazione e sogna ad occhi aperti le cose più impensabili. Una volta cresciuta, la ragazza si trasferisce a Parigi, dove lavora come cameriera in un bistrot. La sua esistenza viene sconvolta dal ritrovamento in casa propria di una scatola dei ricordi nascosta lì da un bambino negli anni ’50. Dopo aver restituito la scatola al legittimo proprietario, Amelie viene colpita così intensamente dalla reazione dell’uomo, da decidere di dedicare la sua vita ad aiutare il prossimo. Basterà questo a renderla felice?

È interessante vedere come, al di là della trama principale, il film faccia entrare lo spettatore nella vita dei personaggi più disparati, che vengono presentati da una voce fuori campo con uno stile quasi documentaristico. Sebbene non sia subito evidente, ben presto ci si accorge che tutti i personaggi sono accomunati dalla solitudine.

C’è ad esempio l’uomo di vetro, affetto da osteogenesi imperfecta, che rappresenta la fragilità umana.

Oppure c’è Georgette, che cerca di attirare l’attenzione con mille malattie immaginarie.

Abbiamo poi Raphael, il padre di Amelie, che non riuscendo ad affrontare la morte della moglie, si impegna in modo quasi maniacale nella costruzione di un mausoleo per le ceneri della consorte.

Vi è poi Nino che colleziona le fototessere cestinate, forse per riuscire a trovare la propria identità.

Infine c’è Amelie, una ragazza introversa e sensibile, attenta agli altri. Incapace di comunicare, per imbarazzo o paura di essere rifiutata, si chiude in un “favoloso” mondo immaginario. In psichiatria si parlerebbe di disturbo di personalità evitante. Il processo per superare la paura del rifiuto è lungo e per sapere se la protagonista ce la farà bisogna vedere il film.

Sicuramente la resa dei personaggi è legata in buona parte alla prova recitativa degli attori. Semplicemente meravigliosa è Audrey Tatou (nel film Amelie) che grazie al successo del film è stata lanciata sulla scena internazionale e che ha reso Amelie un personaggio ormai iconico. Degna di nota anche la recitazione del simpaticissimo Mathieu Kassovitz (Nino) e di un eccezionale Serge Merlin (l’uomo di vetro).

Non si può non parlare della fotografia, che sembra portare lo spettatore in un quadro impressionista di Renoir, uno di quelli che l’uomo di vetro ama dipingere per hobby. La scelta dei colori è spesso lo specchio dell’umore della protagonista: si vedano ad esempio la preponderanza dei colori rosso e verde nelle scene più allegre e la presenza della pioggia nei momenti più tristi.

Menzione a parte merita la colonna sonora composta Yann Tiersen, che può essere considerato sia come elemento cardine del film, ma anche come capolavoro a sé stante. Nell’ambito del film lo si può definire come ponte tra lo sfondo, una Parigi dal sapore malinconico impregnata di colori e odori, e il mondo interno dei personaggi, su cui il regista pone sempre l’attenzione.

Il favoloso mondo di Amelie è una favola stravagante, a volte troppo buonista, ma in grado di sciogliere anche i cuori più gelidi, insomma indimenticabile.

Renata Cuzzola

Recensione in anteprima “Tuo, Simon” (Senza Spoiler)

Simon Spier (Nick Robinson) è un normalissimo adolescente di 17 anni, che come tutti i ragazzi della sua età  frequenta il liceo. Ha anche una vita sociale attiva, grazie al suo gruppo di amici composto da Leah Burke (Katherine Langford), sua amica d’infanzia, Nick Eisner (Jorge Lendeborg Jr.), un ragazzo afroamericano con la passione per Cristiano Ronaldo e Abby Suso (Alexandra Shipp), ragazza appena trasferitasi in città integrata nel gruppo con estrema facilità. Inoltre, segue un corso di teatro dopo le lezioni e proviene da una famiglia benestante e “da sogno”. Sembra una vita piena e meravigliosa, tuttavia nasconde un grande segreto: la sua omosessualità. Nonostante il contesto familiare favorevole e amici comprensivi, Simon non riesce a rivelare ciò che realmente è, a causa di quella che ritiene possa essere paura per le conseguenze che il suo coming out possa provocare e l’insicurezza di rivelarsi “altro dal normale”, pur riconoscendo che il suo orientamento sessuale non è anormalità e non vi è vergogna nell’essere tale. Oppresso da questa sua situazione dalla quale non sembra trovare una via d’uscita, improvvisamente la vita gli pone davanti un’opportunità. Sulla piattaforma social inerente all’istituto da lui frequentato, viene pubblicato un messaggio anonimo di un ragazzo che dichiara la sua omosessualità, ammettendo che nella realtà non potrebbe mai fare una cosa simile. Ispirato dalle parole del ragazzo sconosciuto, il giovane protagonista decide di rispondere al messaggio in maniera anonima, allo stesso modo del mittente, rivelando anch’egli la sua omosessualità e l’impossibilità di uscire allo scoperto…

Tuo, Simon” diretto da Greg Berlanti, è un film adattamento del romanzo “Non so chi sei, ma io sono qui (Simon vs. the Homo Sapiens Agenda)”, in uscita il 31 maggio nelle sale italiane.
Il film si rivela essere esattamente quello che ci si aspetta: un prodotto rivolto al pubblico adolescenziale – “teen movie” per i più – trattante tematiche tipiche dei ragazzi di quell’insieme di età, oscurando problemi gravi e pesanti, se non anche troppo stereotipati, quali droga e sesso.
Ed è probabilmente questa la chiave che rende la pellicola spensierata e per nulla dura all’occhio dello spettatore, poiché riesce a concentrarsi su un’unica problematica, ovvero l’accettazione dell’omosessualità soprattutto in contesti scolastici, senza neanche gravare troppo su di essa e, per certi versi, dimenticandosene facendo risaltare la normalità di un adolescenze che “se proprio è necessario saperlo”, è anche omosessuale.

Nonostante quanto detto finora, il film non si distacca mai dalla sua identità, rimanendo stereotipato -anche se in maniera positiva ed, in fondo, accettabile – prevedibile e quasi scontato, soprattutto creando un distacco dallo spettatore che quell’età l’ha ormai superata (risultato comprensibile, ma non per questo conseguenza necessaria).
Nella totalità “Tuo, Simon” è un buon modo per lanciare un messaggio importante di accettazione sociale, senza eccessi né grosse pretese, servito in maniera leggera e fruibile a tutti, rendendolo un film piacevole e ottimo per una serata dedicata alla visione con amici, soprattutto se vorrete tornare adolescenti nuovamente per quasi due ore.

Giuseppe Maimone