Parasite, Bong Joon-ho è da Oscar

Locandina del film – Fonte: ansa.it

Vincitore della palma d’oro al festival di Cannes 2019, con oltre cento milioni di dollari di incasso mondiale, il film sudcoreano è stato un successo commerciale, ma ha ricevuto anche il consenso della critica. Infatti, la pellicola è stata la 1ª in assoluto non in lingua inglese ad essere premiata come miglior film agli Oscar. Parasite si è inoltre aggiudicato altre 3 statuette: miglior film straniero, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.

È un film eclettico, una satira sociale, una commedia, un action movie, un film aperto come il cinema del regista Bong Joon-ho, che ha sempre spaziato tra i vari  generi cinematografici. Autore di bellissimi film come Memorie di un assassino, The Host e Snowpiercer, che nel 2013 fece parlare di possibili candidature agli Oscar.

La pellicola tratta del conflitto sociale tra poveri e ricchi, attraverso le vicende della famiglia dei Kim, poveri ma intelligenti, furbi e pericolosissimi e la famiglia dei Park, ricchi ma ingenui e sempliciotti. Entrambe le famiglie  sono composte da padre, madre e due figli, un maschio e una femmina.

Il regista, in modo brusco e incessante, rappresenta la condizione di povertà nella quale riversa la famiglia Kim, riprendendo in maniera grezza i bassifondi di Seul e gli alloggi seminterrati presenti, mostrandoci in particolare quello della povera famiglia, costretta a vivere di sussidio di disoccupazione. La pellicola subisce una svolta attraverso un escamotage narrativo, un Deus ex Machina, rappresentato da Min, il quale offre a Ki-woo, figlio della famiglia Kim, di impartire lezioni private di inglese al posto suo alla figlia primogenita della ricca famiglia Park.

 

Ki-woo e la figlia dei Park durante una lezione di inglese – Fonte: mymovies.it

Attraverso i movimenti sinuosi della sua camera, Bong Joon-ho mostra la differenza tra la bassa e l’alta Seul, composta da villette e abitazioni lussuose, poste tanto in alto da obbligare Ki-woo ad affrontare un percorso in salita che gli permetterà di raggiungere la fantasmagorica reggia della famiglia Park, che avrà un ruolo chiave durante tutto lo svolgimento della storia.

Il susseguirsi delle vicende porterà ad un attacco parassitario nei confronti della ricca famiglia dei Park, la quale verrà  astutamente raggirata dagli stratagemmi ingegnosi da parte dei Kim, che si dimostreranno più truffaldini  e menzogneri del Keyser Soze de I soliti sospetti di Bryan Singer, uno dei manipolatori più importanti della storia del cinema.

I Kim che recitano dei dialoghi – Fonte: cinemamonamouritalia.org

Tutti gli attori ci regalano delle magnifiche performance, calandosi perfettamente nei panni dei rispettivi personaggi, ma risulta doveroso evidenziare la magistrale interpretazione di  Song Kang-ho, Ki-Taek nel film e capofamiglia dei Kim, il quale era già presente nei tre film del regista sudcoreano precedentemente citati.

Da copione i protagonisti principali in questo capolavoro cinematografico sono otto, quattro per famiglia, però, quasi in maniera subordinata (ed è che qui stai il genio del regista), possiamo definirne un nono: la casa.

 La lussuosa casa dei Park – Fonte: iodonna.it

Ebbene sì, anche se non esplicitamente elencato, l’edificio dell’architetto Namgoong, rappresenta uno dei personaggi più importanti della storia, un edificio che dà l’idea del divario sociale, che a tratti, evidenziato dalla grande vastità della casa nella quale le camere sono disposte lontane l’una dalle altre, sottolinea la scarsa idea di famiglia unita che volevano rappresentare i Park.

Non possiamo infine non parlare della scelta musicale adottata dallo stesso regista, una scelta alquanto bizzarra ed a tratti ironica, della quale però vorremmo preservare l’identità, con la speranza di suscitare in voi  un po’ di curiosità che questo film realmente merita.

Vi lasciamo con una frase significativa pronunciata da Ki-Taek, che racchiude in sé la magnifica e dirompente energia di questo film: “Dobbiamo prendere il loro posto, i ricchi sono davvero fessi“.

Giuseppe Currenti, Davide Riganello

Alla scoperta degli Oscar: i 5 grandi esclusi

Se in Italia scoppiano polemiche per il festival di Sanremo, nel mondo intero le polemiche più accese scoppiano per gli Oscar.

Anche per quest’edizione sono state mosse diverse critiche nei confronti dell’Academy per una serie di esclusioni che hanno suscitato la disapprovazione di molti.

Mettiamo da parte il polverone per l’assenza di Greta Gerwig nella lista dei candidati per il miglior regista ed altri disordini che si sono creati andando a toccare temi ben più seri, come il razzismo o la parità dei sessi, e andiamo ad analizzare quelli che secondo me sono i 5 grandi esclusi dagli Oscar 2020, da un punto di vista puramente tecnico.

Fonte: Ciakclub.it

1.Robert De Niro

Robert De Niro a 76 anni è ancora tra i migliori attori in circolazione. Le sue performance in The Irishman e Joker hanno contribuito enormemente al successo delle due pellicole. Nel film di Scorsese, De Niro può essere considerato una sorta di Atlante, in quanto sostiene l’intero peso della narrativa fungendo da centro di collegamento tra eventi e personaggi in modo tale da ammaliare lo spettatore per 210 minuti.

Prima di iniziare le riprese di The Irishman, l’attore ha voluto rigirare insieme al regista delle scene di Quei bravi ragazzi (1990) così da entrare meglio nel ruolo del malavitoso e su quella base poi De Niro ha lavorato per costruire un nuovo personaggio, che incarna la perfetta evoluzione di quello precedente.

Robert De Niro in una scena di The Irishman – Fonte: meteoweek.com

In Joker la prova d’attore di De Niro è essenziale, innanzitutto ai fini della trama: l’attore recita nei panni di un personaggio di primaria importanza (il conduttore Murray Franklin). Inoltre, Joaquin Phoenix ha potuto tirare fuori il meglio di se proprio grazie alla sintonia creatasi con De Niro. Si può anche essere il Marlon Brando o il Jack Nicholson della situazione ma se il proprio partner non dà le battute correttamente, non entra nel personaggio o non vi è chimica tra i due, l’interpretazione logicamente ne risentirà e di conseguenza le scene non verranno mai alla perfezione.

Credo che Robert avrebbe meritato almeno una candidatura non tanto per la sua carriera – perché per assegnare un Oscar bisognerebbe sempre osservare le interpretazioni degli attori nell’ultimo anno –  ma proprio per il modo in cui ha creato i personaggi e per il lavoro svolto sui set.

2.Taika Waititi

Il regista Taika Waititi ha fatto un film dove è riuscito a spiegare cosa sia realmente il nazismo sbeffeggiandolo con esilarante ironia. Già in passato con Vita da vampiro- What We Do in the Shadows ha mostrato al grande pubblico di saper raccontare una storia in maniera diversa dagli standard cinematografici ai quali siamo abituati. Con Jojo Rabbit si è confermato come regista-innovatore e avrebbe di certo meritato una nomination come miglior regista per il magnifico lavoro svolto.

3.Il traditore

Rabbia, davvero tanta rabbia. La pellicola di Marco Bellocchio è andata vicinissimo alla nomination finale per aggiudicarsi il premio come miglior film straniero. L’interpretazione di Pierfrancesco Favino nei panni di Tommaso Buscetta è magistrale e la regia di Bellocchio celeberrima. Sinceramente credevo fortemente che questo film potesse riportare la statuetta in Italia, ma ahimè non sarà così. Mi sollevo perché, grazie a pellicole come Il traditore, so che il cinema italiano non è definitivamente morto ma ha ancora qualcosa da trasmettere.

Pierfrancesco Favino nei panni di Tommaso Buscetta nel film Il Traditore – Fonte: internazionale.it

4.Lupita Nyong’o

L’attrice messicana è la protagonista e l’antagonista del film Noi di Jordan Peele. Personalmente la pellicola non mi ha entusiasmato, ma l’interpretazione della Nyong’o si. La carriera dell’attrice è appena decollata e già vanta una serie di grandi film a cui ha preso parte (12 anni schiavo, due film di Star Wars, Blackpanther), i quali provano a conti fatti che vi sia del talento nella ragazza. La prova d’attrice in Noi le avrebbe dovuto concedere la possibilità di poter concorrere alla statuetta come miglior attrice protagonista per l’enfasi e l’intensità della sua interpretazione.

5.Spider-Man: Far from Home

Escluso dalla candidatura ai miglior effetti speciali. Non sono un grande fan dei film della Marvel, ma alcuni li guardo con piacere ed in Spider-man: Far from Home ci sono scene d’azione che mi hanno fatto divertire come un bambino a Disneyland. In particolare vi è una sequenza dove il protagonista combatte contro il supercattivo nel caos più totale e tali scene sono caratterizzate da una serie di effetti speciali realizzati in maniera impeccabile, che coinvolgono lo spettatore come se fosse sulle montagne russe.

Spider-Man: Far from Home – Fonte:cinematographe.it

Nel momento in cui si viene esclusi dal premio cinematografico più importante dell’anno ovviamente la delusione è tanta, ma alla fine l’obiettivo principale di tutti i membri del settore è quello di creare arte.

Il cinema è eterno, non può morire. Se non si portano a casa i premi poco importa. La cosa rilevante è far emozionare le persone, di farle quindi ridere, piangere, anche impazzire è lecito, e questi film o attori che non sono stati candidati lo hanno fatto egregiamente, dunque: chapeau.

 

Vincenzo Barbera

 

Alla scoperta degli Oscar: Jojo rabbit, il film rivelazione dell’anno

Voto UVM: 4/5

Locandina del film – Fonte: mymovies.it

Jojo Rabbit è il nuovo film diretto dal regista neozelandese Taika Waititi, tratto dal romanzo del 2004 “Come semi d’autunno” della scrittrice Christine Leunens.

Il film ha come protagonista Jojo Betzler, un ragazzino tedesco di 10 anni cresciuto in pieno Terzo Reich e appartenente alla Gioventù Hitleriana, il cui più grande desiderio è quello di diventare un giorno la guardia del corpo del Führer.  Jojo è un bambino acuto e intelligente, che mette a servizio le sue doti a favore della grande Germania. Nonostante il suo fanatico e infantile amore verso il nazismo, non possiede quella freddezza d’animo nel compiere quei gesti che sono propri dei nazisti; viene quindi considerato un codardo e da qui si conquisterà l’appellativo di “rabbit”, ovvero coniglio. Il ragazzino vive insieme alla madre Rosie e ad Elsa, una ragazza ebrea che Rosie tiene nascosta in casa e di cui neanche Jojo era a conoscenza; tra i due nascerà una grande amicizia.

Scarlett Johansson (Rosie) e Roman Griffin Davis (Jojo)  – Fonte: nonsolocinema.com

La pellicola racconta, diversamente da come è stato finora fatto, la dittatura nazista, la guerra e le persecuzioni contro gli ebrei e gli oppositori del regime. Waititi sceglie dunque di partire dalla satira per “smontare” il regime hitleriano e l’ideale nazista davanti agli occhi dello stesso protagonista, che come in un crescendo prende pian piano consapevolezza della grande illusione in cui crede.

Il regista quindi ridicolizza tutto ciò che appartiene ideologicamente e materialmente al Terzo Reich: oggetti, simboli, slogan propagandistici, mimica e gestualità, tutto ciò che noi storicamente colleghiamo alla Germania nazista. Pare dunque difficile non notare con quale enfasi in molte scene viene utilizzato fino alla noia il classico saluto “Heil Hitler” ovvero “Salute Hitler” con tanto di braccio destro in alto.

Senza troppo impressionare Waititi non lascia nulla all’immaginazione dello spettatore, facendo ben vedere cosa significasse vivere nel Terzo Reich per gli oppositori di regime, per un’ebrea come Elsa e per un fanatico nazista quale Jojo. Alla stregua de “La vita è bella” con cui Benigni raccontò l’orrore dei lager, Waititi con una commedia drammatica mostra l’illusione del sogno hitleriano nell’ultimo anno di guerra, che si manifesta in personaggi buffi quali il capitano Klenzendorf.

Sam Rockwell (sinistra) nei panni del capitano Klenzendorf – Fonte: masedomani.com

Oltre la satira verso il regime nazista, il regista mostra un background di altre tematiche quali la solitudine; il protagonista infatti ricorre ad un amico immaginario molto singolare. Non passa di certo inosservato il ruolo di Rosie che apparentemente in un primo momento sembra assecondare la devozione di Jojo per il regime, tanto da rivolgersi al figlio chiamandolo “feld maresciallo Jojo”. Un personaggio carico di tenacia e dolcezza quello di Rosie che lascia intravedere la sensibilità del regista verso il mondo femminile, che ha fatto guadagnare a Scarlett Johansson la nomination come miglior attrice non protagonista.

Originale infine la scelta di brani classic rock che aprono e chiudono la pellicola. Presente all’inizio “Komm, gib mir deine hand” versione tedesca di “I want to hold your hand” dei Beatles e in chiusura “Helden” versione tedesca di “Heroes” di David Bowie. Meritano considerazione i colori vividi della fotografia, diversamente da quanto accade nella filmografia dedicata al nazismo in cui prevalgono colori più cupi.

Il film è ambientato nella Germania del 1945, sebbene sia stato girato interamente a Praga. Taika Waititi firma regia e sceneggiatura, ottenendo la candidatura all’Oscar nella categoria miglior film e migliore sceneggiatura non originale. In lizza per l’ambito premio anche costumi, scenografia e montaggio, caratterizzato dall’assenza di piano sequenza e dunque da numerosi stacchi nelle inquadrature.

Riuscirà il film a portare a casa qualche statuetta?

Di certo la concorrenza è tanta, ma Jojo Rabbit ha saputo sorprendere grazie a un nuovo e originale modo di fare satira sul regime nazista.

                                                                                                                                                                         Ilenia Rocca

Alla scoperta degli Oscar: The Irishman

The Irishman – voto UVM: 4/5

Martin Scorsese è tornato, questa volta più agguerrito che mai. Dopo il fiasco al botteghino del film Silence (2016) ha deciso di creare un’opera di 210 minuti in cui ha esaltato il suo passato cinematografico ed ha riproposto tematiche, già precedentemente affrontate, in chiave più matura e riflessiva. Scopriamo insieme perché ha già conquistato il favore della critica e, pertanto, potrà ambire a più di una statuetta.

Locandina del film – Fonte: MYmovies.it

Produzione

Per The Irishman il regista ha affermato: “volevo fare un film con i miei amici“; dunque, ha formato un cast stellare che comprende Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci ed Harvey Keitel, riunendo così le colonne portanti del genere gangster in un unico lungometraggio.

Inizialmente, il progetto di The Irishman fu rifiutato da diverse case di produzione, visto l’elevato budget richiesto per girare in CGI (Computer-generated imagery), finché non è intervenuta Netflix, che ha finanziato la pellicola. Diversi utenti della piattaforma streaming si sono lamentati della lunghezza del film, etichettandolo come “noioso, terribile e confusionario” esclusivamente per la durata, senza porre attenzione alla regia ed alle grandissime interpretazioni degli attori. E non è un caso che il film abbia ottenuto ben 10 candidature agli Oscar.

Regia: tra introspezione ed evoluzione del cinema di Scorsese

La pellicola, candidata nella categoria miglior film, ha riproposto al grande pubblico quegli aspetti della vita criminale già mostrati dal regista in Goodfellas (1990) e Casinò (1995), rimodellandoli con lunghe scene in cui i personaggi riflettono sul loro passato. Di conseguenza, l’intero film diventa un’evoluzione del cinema stesso di Scorsese, il quale ci fa comprendere lo stato d’animo ed i pensieri di un gangster giunto ormai alla fine dei suoi giorni, dopo aver vissuto in maniera frenetica un’esistenza segnata dai peccati più terribili.

The Irishman potrebbe infatti essere considerato il sequel diretto di Quei bravi ragazzi dove la “bella vita” condotta dai criminali a base di alcol, soldi sporchi, donne favolose e voglia di espandere il proprio potere, alla fine viene annichilita e smembrata semplicemente dallo scorrere inevitabile del tempo, che obbliga i protagonisti a guardare dentro sé stessi ed a tirare le somme.

Quei bravi ragazzi (Goodfellas) – Fonte: thecinematograph.it

Il regista, a 79 anni, decide di raccontarsi all’interno della pellicola, mostrandoci le ansie e le paure della vecchiaia che ormai incombe irrimediabilmente. E lo fa su una solida base, poggiata sul suo modo di fare cinema, che lo ha consacrato negli anni ’90 tra i più grandi registi della storia. La maestria di Martin Scorsese nel dirigere i suoi attori , facendoli immedesimare in modo quasi mistico nei vari personaggi, e nello sperimentare innovative tecniche di ripresa è stata riconosciuta dall’Academy, che gli ha riservato la nona nomination della sua carriera al premio come miglior regista.

Il cast

Joe Pesci dopo 24 anni torna a recitare con De Niro in un film di Scorsese. L’ultima volta fu in Casinò, e non a caso si ritrova nel quintetto dei candidati per il miglior attore non protagonista. La prova d’attore di Pesci dovrebbe essere proiettata in tutte le scuole di recitazione per far comprendere cosa sia realmente un attore e cosa debba fare per poter essere considerato tale. Pesci è stato capace di interpretare alla perfezione il capomafia Russell Bufalino, replicando le movenze tipiche di un siciliano in età avanzata e trasmettendo emozioni proprio per mezzo della gestualità.

Robert De Niro ha suggerito al regista di prendere, per il ruolo di Jimmy Hoffa, il collega Al Pacino, con il quale aveva già recitato in Sfida senza regole (2008) ed in Heat-La sfida (1995).  Il protagonista di Scarface, anche a 79 anni, riesce magistralmente a rivestire il ruolo di uno dei più importanti sindacalisti degli anni ’60, donandogli tutto il suo carisma ed esaltando la simpatia e la genialità di un uomo estremamente potente. Anche per Al Pacino è arrivata la candidatura all’Oscar (migliore attore non protagonista).

Robert De Niro, Al Pacino e Ray Romano in una scena del film – Fonte: The Post

Lo sceneggiatore Steven Zaillian ha ottenuto la nomination per la miglior sceneggiatura non originale: nessuna sorpresa, data la fluidità della narrativa e l’abilità di Zaillian nel raccontare storie realmente accadute. Lo scrittore non è nuovo nell’approcciarsi a storie reali ed è riuscito a riproporne gli eventi più emblematici della vicenda, enfatizzando le emozioni che le persone provano vivendoli, come fece anche per Schindler’s List.

Nessuna candidatura -a malincuore- per Robert De Niro ed Harvey Keitel, che quando recitano insieme (come fu in Taxi Driver) danno vita a momenti indimenticabili di vero cinema, grazie all’armonia che scorre tra i due attori (osservabile nel film solo per pochi minuti).

In conclusione, The Irishman è una pellicola degna di far parte della lunga lista di opere d’arte dirette da Martin Scorsese.

Forse non sarà ai livelli di Taxi Driver, Toro scatenato o Quei bravi ragazzi, ma il regista ci presenta un’opera diversa, più matura e ricercata, ricca di innovazioni e sicuramente di altissimo rango. Con le sue 10 candidature ai premi Oscar del 2020 è, obiettivamente, tra i migliori film dell’anno.

 

Vincenzo Barbera

La sindrome di Joker

Una risata inadeguata

Da diverse settimane Joker di Todd Phillips riempie i cinema di tutto il globo sorprendendo gli spettatori per un’immensa interpretazione di Joaquin Phoenix. Costante durante il film ci accompagna il suono di una risata isterica e nevrotica, che erompe inquietante e, inutilmente strozzata dal protagonista, si fa più intensa nelle situazioni meno adeguate, quando maggiore è la volontà di reprimerla, allontanando Arthur Fleck da una società già di per sé indifferente alla sua condizione e di chi, come lui, è relegato in un ghetto di Gotham dimenticato dalla politica, della quale Thomas Wayne è il simbolo.

La risata è anche sintomo dell’instabilità psichica che porterà alla metamorfosi di Arthur Fleck in Joker ed è tema centrale del film, tant’è che lo stesso Phillips dichiara che l’idea di questo Joker nasce da L’homme qui rit, opera di Vitor Hugo, trasposta in pellicola nel primo dopoguerra. E proprio Phoenix afferma che, con l’obiettivo di rendere al meglio la sua performance, ha studiato dei video di persone affette da risata incontrollata: si tratta infatti di un disturbo assolutamente patologico e reale. Crisi di risa involontarie? Ma di che razza di malattia si parla?

La sindrome di Joker

La sindrome pseudobulbare, o meglio, affettività pseudobulbare è caratterizzata da crisi di risa o pianto inconsistenti con lo stato emotivo dell’individuo che ne soffre. È dovuta a danni neurologici di diversa natura e, sebbene non se ne conoscano a pieno i meccanismi alla base, alcuni recenti studi rivelano il circuito neuronale danneggiato che conduce a queste risposte emotive incontrollate.


Normalmente la corteccia motoria inibisce alcune regioni del tronco encefalico che controllano le espressioni emotive. In seguito a lesioni della corteccia motoria, la mancata inibizione dei nuclei troncoencefalici comporterebbe un aumento della loro attività, con esito in risposte emotive involontarie ed anomale rispetto alla circostanza che l’individuo sta vivendo. In realtà, una più vasta e complessa rete neurale comprendente corteccia frontale, sistema limbico, cervelletto e tronco encefalico concorre alla genesi dell’affezione pseudobulbare. I circuiti limbico-frontali sono infatti coinvolti nei meccanismi che regolano il comportamento in base alle emozioni. Queste vie nervose (cortico-ponto-cerebellare) sarebbero dunque all’origine della “incontinenza emotiva”, ovvero delle manifestazioni motorie di risa o pianto patologiche.

Tali eventi acuti devono tuttavia essere distinti da altri disturbi psichiatrici, quali depressione e disturbo bipolare, caratterizzati – questi – da una persistente durata di uno stato emotivo alterato, in contrapposizione con la transitorietà che definisce l’affezione pseudobulbare. Le crisi possono essere invalidanti dal punto di vista sociale e l’impatto sulla vita quotidiana notevole. Differenti approcci terapeutici permettono però un controllo e una riduzione della frequenza degli episodi. Si tratta di farmaci che regolano la concentrazione di alcune molecole chiamate neurotrasmettitori (in questo caso glutammato e serotonina), stabilizzando la trasmissione nervosa nel cervello.

La trasformazione di Arthur

Nel film, quando Arthur Fleck è costretto a sospendere la terapia a causa della manovra di Thomas Wayne (che taglia i fondi ai servizi sociali), ha inizio la tumultuosa trasformazione di Arthur, individuo solo e inascoltato che vive la scissione tra ciò che è e ciò che la gente si aspetta lui sia – come esprime nel suo diario: <<La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi>> – in Joker, personaggio che non deve più strozzare la propria risata, ma che anzi la eleva a simbolo, potendo essere finalmente sé stesso.

Fonti:

Pseudobulbar affecthttps://www.tandfonline.com/doi/full/10.1586/ern.11.68 

Joaquin Phoenix, Todd Phillips – Joker press conference – 76th Venice Film Festival: https://www.youtube.com/watch?v=mK7dkmekfIg 

Mattia Porcino

The hurt locker: il miglior (non) film di guerra

“The hurt locker: rompere gli schemi convenzionali del film di guerra”

Voto UvM: 5/5

 

Fermi lì!

Devo avvisarvi: se non avete preso sul serio il titolo dell’articolo vi sconsiglio anche solo di guardare il trailer del film in questione.

Questo non è un classico film di guerra, ricco d’azione e “God bless America”.

Non esalta figure di soldati strafighi e virili, eroi che risolvono tutti i problemi o salvatori del mondo.

Non è neanche un film storico, la seconda guerra mondiale non c’entra proprio nulla.

Quest’opera non segue le etichette tradizionali della sua categoria, potrebbe trattarsi di un caso unico nel suo genere.

Per cui, se non siete pronti ad affrontare le novità (tematiche, narrative e stilistiche), ma anzi preferite il solito film d’azione che ha il solito finale e la solita sceneggiatura, lasciate perdere immediatamente. Non fa al caso vostro.

Detto questo…iniziamo da qualche dato tecnico.

The hurt locker è un film del 2008 diretto da Kathryn Bigelow e scritto dal giornalista Mark Boal, risultato vincitore di 6 premi Oscar nel 2010 (miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, miglior regista e miglior film).

Racconta le vicende di un gruppo di artificieri dell’esercito americano in Iraq, impegnato nella localizzazione e neutralizzazione delle mine. Protagonista indiscusso è il sergente Will James, interpretato da Jeremy Renner.

Ciò nonostante, in parallelo, vengono sviluppate le vicende esistenziali dei due suoi compagni, il sergente JT Sanborn e lo specialista Eldridge, per poi confluire in un’unica trama.

 

I tre sono accomunati dal desiderio -o dalla necessità- di sopravvivere in uno scenario pieno di ingiustificate atrocità, davanti alle quali si è soltanto impotenti.

Il montaggio delle scene e le inquadrature comunicano la drammaticità della situazione.

Vi capiterà di restare col cuore in gola e provare emozioni forti.

Tutto questo è reso possibile grazie ad una strana sensazione di sentirsi in pericolo anche nei momenti in cui questo non esiste.

Non a caso, il titolo del film si riferisce ad un’espressione militare per indicare “un luogo particolarmente rischioso i cui risvolti sono imprevedibili”.

 

Cosa puoi aspettarti dalla visione di questo film? Perchè dovresti guardarlo?

 

 

 

  • L’adrenalina che trasmette il protagonista

Il sergente James è un soldato un po’ folle. Imparerai a conoscerlo insieme ai suoi compagni di squadra, i quali si troveranno in pericolo diverse volte a causa delle scelte azzardate del collega.
Ricorda che stiamo parlando di artificieri…e dunque di disinnesco bombe.
Stiamo parlando di un un “folle”, non in senso psichiatrico, che disinnesca ordigni: trai le tue conclusioni.

Come già detto, il montaggio delle scene ti permetterà di provare adrenalina insieme al protagonista e ansia insieme ai suoi compagni. Ne uscirai scosso, garantito!

  • La drammaticità della guerra, quella vera

Inutile dire sempre le stesse cose: lo sanno tutti che la guerra la vediamo solo attraverso la televisione e non possiamo comprenderla davvero.

Qui vengono colti solo alcuni scorci del conflitto armato.

Sì pochi, ma buoni.

Potrai confrontarti con i sentimenti di chi, normalmente, è il buono, l’eroe.

Capirai che dietro gli eserciti ci sono uomini, e dietro di loro emozioni troppo difficili da spiegare a parole.

  • Il finale, fortemente controintuitivo, a cui non potrai più smettere di pensare

Tutti i motivi che ti ho elencato e i complimenti fatti a questo film non possono eguagliare il finale.

Resterai stupito e anche fortemente colpito nel profondo.

Dopo aver “vissuto” il film insieme ai protagonisti ti sembrerà di esserne colpito in prima persona.

Proverai a capire, a immedesimarti ma, a differenza di quanto accadrà lungo tutto il film, nell’ultima scena non ci riuscirai.

Sta’ attento, perchè potrebbe creare dipendenza.

Capirai dopo aver visto. Buona visione!

Trailer qui

Angela Cucinotta

Adaline – L’eterna giovinezza

Una storia romantica e paranormale. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Adaline, una giovane fanciulla nata a cavallo del 20esimo secolo viene resa senza età dopo un tragico incidente stradale.

Dopo anni di vita solitaria, incotra un uomo per cui forse varrà la pena perdere la sua immortalità.

Adaline Bowman, all’età di 29 anni è vittima di un incidente che le cambierà, anzi le fermerà la vita, rendendola immortale.

Dal quel momento la protagonista smetterà di invecchiare, vedrà passare la vita della figlia, e quando ha raggiunto  l’età di una signora anziana, Adaline ha imparato a non innamorarsi di nessuno.

Ma i suoi piani falliranno con l’arrivo di un giovane amore che cambierà tutto.

 

 

Un film ispirato a “Il curioso caso di Benjamin Button”; un film romantico dai risvolti “paranormali”.

In italia al Box Office “Adaline – L’eterna giovinezza” ha incassato nelle prime settimane di programmazione €3,3 milioni.

Dalila De Benedetto

A un metro da te

La lotta contro una brutta malattia e la forza dell’amore per superarla. Voto Uvm: 4/5

 

 

 

 

 

Diretto da Justin Baldoni, questo teendrama è il racconto della storia di due adolescenti, colpiti dalla stessa malattia.

Stella (Haley Lu Richardson), una ragazza determinata a vincere questa lotta contro la sua patologia, cercando di rendere le sue giornate sempre più interessanti, riprendendo i suoi progressi.

Will (Cole Sprouse), il protagonista maschile, menefreghista e rassegnato nei confronti della sua malattia.

Per i due sarà amore a prima vista.

 

 

Sarà proprio l’amore a spingere i due giovani a cercare di superare gli ostacoli.

Il titolo inglese “Five feet apart”, allude alla distanza alla quale devono stare i due innamorati, entrambi effetti dalla fibrosi cistica.

 

 

Per i due l’obbligo più grande sarà quello di stare lontani, per evitare lo scambio di batteri; ma i due innamorati combatteranno oltre il tempo e lo spazio.

Dalila De Benedetto

 

Momenti di trascurabile felicità

Noie, contrattempi e fastidi. Voto Uvm: 3/5

 

 

 

 

 

Tratto dall’omonimo libro “Momenti di trascurabile infelicità” è un diario delle noie, dei contrattempi e dei fastidi.

L’opera di Francesco Piccolo è il libro che tutti vorrebbero scrivere perché l’arte comunicativa dello sceneggiatore casertano è rendere la normalità, che talvolta diviene banalità, straordinaria attraverso una scrittura semplice ma arguta e soprattutto intrisa di leggiadra ironia, un’impresa letteraria notevole.

 

 

 

Daniele Luchetti e lo stesso Piccolo sono riusciti a rendere il film una creatura altra rispetto ai pensieri sparsi pubblicati nel libro del 2010, perché c’è un protagonista di nome Paolo che non ha sempre la stessa prospettiva di Piccolo, visto che è più indolente, un po’ mediocre, decisamente anaffettivo e più pigro, sebbene risulti simpatico e l’identificazione nel personaggio, a sua volta, immediata.

È un atto di coraggio che si rivela premiante, perché l’autore campano ha saputo estrarre l’anima e lo spirito dai suoi scritti, costruendo una storia leggera e profonda, elegante nella forma e sensibile nei contenuti.

In più il personaggio di Paolo (e l’interpretazione di Pif) aggiungono una nota di tenerezza e di bonaria indolenza “siciliana” che conquistano il pubblico.

 

 

Il resto del cast aggiunge freschezza (Thony nel ruolo delizioso della moglie, Angelica Alleruzzo e Francesco Giammanco in quelli dei figli) e proprietà tecnica (l’imprescindibile Renato Carpentieri, angelo custode di Paolo).

Una commedia semplice e spensierata che gioca ironicamente con la morte per far prendere coscienza delle cose realmente importanti della vita, troppo spesso non adeguatamente comprese e date per scontato.

L’autore premio Strega fotografa magistralmente “quei piaceri intensi e fuggevoli che punteggiano le nostre giornate, mettendo a nudo con spietato umorismo i lampi gioia, le emozione improvvise ed incontrollate con le quali prima o poi tutti dobbiamo fare i conti.

Comprendere la trasposizione cinematografica di Piccolo significa sapersi riconoscere ed accettare poichè si possiede il codice di se stessi, anche attraverso debolezze ed imperfezioni.

Antonio Mulone

 

Vice – L’uomo nell’ombra

L’ascesa politica di Dick Cheney. Voto UvM: 4/5

 

 

 

 

Il potere? Non sempre si mostra in quelle forme spettacolarizzate che ci si potrebbe aspettare.

Il vero potere sta nell’ombra, non si espone, cresce silenziosamente e si insinua in ogni falla del sistema potenzialmente sfruttabile.

Il vero potere è subdolo, ipocrita, opportunista, segue trame e sentieri volutamente ambigui e celati agli occhi dei più.

È questa la verità che Adam McKay mostra con il suo ultimo biopic dal titolo “Vice”, vincitore della statuetta come miglior trucco agli Oscar 2019 e candidato ad altri sette Golden Globe.

Scandito dalle straordinarie interpretazioni di Christian Bale (Dick Cheney) ed Amy Adams (Lynne Cheney), Vice racconta con toni ironici e sferzanti l’ambigua ascesa al potere di Dick Cheney, vicepresidente “imperiale” dell’amministrazione George W. Bush.

 

 

Efficace e pungente, Vice ripercorre con obiettività la storia del più potente vice – presidente degli Stati Uniti d’America, senza mai tuttavia presentarlo agli spettatori come il “cattivo” di turno.

Dick Cheney, dapprima giovane scapestrato e studente ben poco brillante, si mostra in tutta la sua pochezza: è un pessimo oratore, poco attraente, privo di ideali politi o di alcun tipo di acutezza.

Egli è un uomo “banale”, mediocre, dannatamente insulso e perlopiù manovrato dai desideri ambiziosi di una moderna “Lady Macbeth” (la moglie Lynne) ancor più assettata di potere.

 

 

Ma, pur rimanendo un inetto privo di alcuna aspirazione, strisciando silenziosamente tra una occasione e l’altra e approfittando della vicinanza dei “potenti”, egli riesce in pochi anni ad emergere politicamente, a fianco di Donald Rumsfeld e del presidente Ford.

L’occasione per esercitare finalmente il potere assoluto, pur restando comodamente nell’ombra, gli si presenta grazie al presidente Bush junior, interpretato da Sam Rockwell, dipinto nel film come un imbecille facilmente manovrabile, incapace di governare, che ottiene la poltrona quasi “per via ereditaria”.

Debole e incompetente, il piccolo Bush è la preda perfetta per Dick Cheney, che ne diventa presto il burattinaio.

George W. Bush: Ti voglio come vicepresidente. Io, George Bush, voglio te.
– Dick Cheney: Io ti ringrazio, ma sono già l’amministratore delegato di una multinazionale, sono già stato segretario della Difesa e sono già stato Capo di Gabinetto della Casa Bianca, quindi la vicepresidenza non è che una carica simbolica. Se invece trovassimo un diverso accordo, se mi dessi le deleghe per cose più… banali… amministrazione, esercito, energia e politica estera…”

 

 

Dick Cheney, approfittando delle informazioni ottenute in qualità di vicepresidente e piazzando i propri uomini in ruoli chiave dell’amministrazione, diviene, all’insaputa della popolazione americana, il vero cuore pulsante della Casa Bianca.

È Dick il solo ad impartire ordini l’11 settembre 2001, approfittando dell’assenza del presidente, è Dick a dirottare tutti sulla necessità di muovere guerra in Medio Oriente, è Dick a rendere praticabili alcune forme di tortura nei confronti dei prigionieri politici, ed è ancora Dick ad aggirare le leggi per mettere in pratica la teoria dell’esecutivo unitario e a favorire le multinazionali.

Vice non è semplicemente la trasposizione cinematografica della vita di Dick Cheney, esso è la chiara dimostrazione di come l’attuale crisi politica, la nascita dell’ Isis, l’aggressiva gestione del terrorismo furono in gran parte causate dalle azioni occulte di quell’uomo che, paradossalmente, fece del restare nell’ombra il proprio unico e grande punto di forza.

 

Giusy Mantarro

 

https://youtu.be/PkdnBmUHAYg