I 5 drive-in più cult della storia del cinema

La pandemia da COVID-19 ha costretto a chiudere molte attività, tra le quali inevitabilmente anche i cinema. Il coronavirus ci ha sottratto la nostra quotidianità,  ma ci ha anche fatto ritornare al passato, almeno in qualche caso.

Parlando di cinema, infatti, è tornata di moda l’idea del drive-in. Questa appare oggi una soluzione ideale: un locale all’aperto in cui si può assistere alla proiezione di film rimanendo nella propria macchina, mantenendo le distanze e senza creare assembramenti.

Il primo ristorante drive-in aprì a Dallas nel 1921: veniva servito cibo da fast-food  ed era frequentato prevalentemente da giovani. Un luogo che permetteva di distaccare la mente dalla realtà e immergerla nell’arte cinematografica.

Sono molti i film nei quali sono presenti riferimenti espliciti al drive-in, ma oggi noi ve ne presentiamo cinque.

Partiremo dagli anni ’50 per arrivare ai giorni nostri, quindi mettetevi comodi e lasciatevi trasportare in questo viaggio nel tempo!

1)Grease di Ranald Kleiser (1978)

Sì, questo è il mio nome ma non lo sciupare.

Chi non conosce Grease-Brillantina? Chi non ha mai sognato di uscire con Danny Zuko (interpretato da John Travolta) o avere la giacca delle Pink Ladies?

Grease è ambientato negli anni ’50 negli Stati-Uniti ed è considerato come uno dei più grandi musical di sempre.

I protagonisti sono Sanndy (Oliva Newton John) e Danny Zuko, due giovani innamorati che si sono conosciuti un giorno d’estate ma costretti a separarsi per via della fine delle vacanze, il classico “amore estivo”. Ci sarà una sorpresa per il nostro bad-boy: infatti, la dolce e ingenua Sandy si traferirà nella città di Danny e anche nella sua stessa scuola: ma per giungere al “vissero per sempre felici e contenti”, i due dovranno affrontare varie difficoltà legate non solo all’arroganza del protagonista ma anche ai loro amici.

In questo film c’è una famosa scena ambientata in un drive-in, nella quale Danny invita Sandy per riconquistarla, ma per via della sua frettolosità la ragazza scappa via piangendo. Così Danny, disperato e dispiaciuto, comincia a vagare per il drive-in cantando la canzone “Sandy”, dimostrando che è realmente innamorato.

Abbandonato al drive-in, definito un idiota, cosa diranno lunedì a scuola? Sandy, non lo vedi, sono in miseria. Avevamo iniziato, ora siamo divisi, non è rimasto niente per me.

Fonte: pinterest

2)The Founder di John Lee Hancock (2017)

So che cosa vi chiedete. Come fa uno di 52 anni, attempato, che vende frullatori per milkshake, a diventare il fondatore di un impero del fast food con 1600 ristoranti e un fatturato di 700 milioni di dollari? Una sola parola: perseveranza.

The Founder è un film che racconta la vera storia dell’imprenditore Ray Kroc (interpretato da Micheal Keaton) e di come sia riuscito a impossessarsi il marchio McDonald’s dai due fratelli McDonald. Il film si apre proprio con una scena ambienta in un drive-in, nella quale vediamo il nostro protagonista intento di vendere al proprietario un frullatore per il suo locale: ma gli affari per Kroc non vanno come sperato ed è costretto a girare con la sua macchina finché non si imbatte in un chiosco gestito dai i due fratelli. È proprio qui che Ray Kroc elabora il suo piano per rendere quel semplice fast-food il McDonald che tutti noi conosciamo.

Fonte: Comingsoon

3) American Graffiti di George Lucas ( 1973)

Siamo sempre in America, ma non un’America qualsiasi… È quella favolosa dell’ american dream, delle rock’n’roll hits, l’America ingenua e spavalda delle corse in auto alla James Dean, quella dove basta abbassare il finestrino di una splendida auto laccata per gustare hamburger e patatine fritte. È l’America di Grease, ma non proprio.

American Graffiti: poster. Fonte: posteritati.com

Cult diretto da George Lucas,  prodotto niente meno che da Francis Ford Coppola e interpretato da stelle come Harrison Ford (Bob Falfa) e Ron Howard (Steve Bolander), American Graffiti racconta l’ultima notte da liceali di quattro ragazzi pronti a spiccare il volo verso il college e l’età adulta.

Tra dilemmi adolescenziali e note strategie di rimorchio, Lucas affronta un periodo di passaggio fondamentale alle soglie di una nuova epoca. È il 1962 e come dice John Milner (Paul Le Mat), il più scapestrato dei quattro, «il rock’n’roll, dopo la morte di Buddy Holly non è più lo stesso».

Ma presto neppure l’America sarà più la stessa: l’assassinio di Kennedy, la guerra in Vietnam, le contestazioni giovanili porranno fine a quel sogno americano che il film coglie al suo tramonto.

Il Mel’s drive in. Fonte: wereporter.com

Non è un caso se il Mel’s drive-in – con la sua attraente insegna al neon –  è solo un locale sullo sfondo delle prime scena. I ragazzi, a differenza di Grease, non assisteranno a nessuna proiezione: ordineranno qualcosa da sgranocchiare per poi sfrecciare per le strade della città in cerca di qualcosa che forse è solo un’illusione.

4) La leggenda di Al, John e Jack di Massimo Venier (2002)

Non è la prima volta che in un film del trio assistiamo alla magia del cinema dentro il cinema (vedi Così è la vita del 1997).

Questo film del 2002, parodia mai scadente del genere gangster, si apre proprio in un drive-in. Siamo a New York, nel 1958 e sullo schermo viene proiettato Vertigo (meglio conosciuto in Italia come La donna che visse due volte).

Al,John e Jack al drive-in. Fonte: justwatch.com

Alla tensione della pellicola hitchcockiana fa da contraltare quella più comica dei tre impacciati malavitosi Al Caruso (Aldo Baglio) Johnny Gresko (Giovanni Storti) e Jack Amoruso (Giacomo Poretti), accorsi alla proiezione per cogliere il boss Sam Genovese (Aldo Maccione) in flagrante di reato e venderlo all’FBI.

L’espediente sarà un vecchio registratore a cassette che comporterà non pochi problemi, dando risvolti divertenti alla vicenda.

Insomma, se in un vicino futuro l’ipotesi drive-in diventerà concreta realtà, speriamo di non rimanere invischiati in simili intrighi criminali. Anzi, speriamo di trovare a fianco della nostra auto tre spioni così simpatici come Aldo, Giovanni e Giacomo.

5) Nuovo cinema paradiso di Giuseppe Tornatore (1988)

Chi non conosce Nuovo Cinema Paradiso?

L’amore per il cinema raccontato dal cinema stesso, attraverso la storia del piccolo Salvatore detto Totò (Salvatore Cascio) che troverà nel proiezionista Alfredo (Philippe Noiret) il proprio mentore e padre in un paesino siciliano del dopoguerra.

A partire da una vita che “è più difficile di quella vista al cinematografo“, ma che trova il proprio riscatto proprio grazie a quest’ultimo, Nuovo Cinema Paradiso rivela la propria potenza non solo nel messaggio ricco di profondità, ma nelle immagini iconiche e attuali… fino alla profezia! Pensate alla celebre scena in cui Alfredo proietta la pellicola I pompieri di Viggiù (1949) sul palazzo di fronte davanti alla folla sbalordita.

Nuova Cinema Paradiso: la proiezione sul palazzo.Fonte: farodiroma.it

Oppure a quella in cui il pubblico di Giancaldo, per sfuggire all’afa estiva, si trova ad assistere all’aperto all’Ulisse del ‘54 con Kirk Douglas e accorrono i pescatori dal mare sulle proprie barche, pronti anche loro a farsi suggestionare dalla magia del cinema.

Le barche che si accostano per guardare il film in Nuovo Cinema Paradiso. Fonte: El heraldo.hn

In tempi di pandemia qualcuno sembra aver fatto tesoro dei suggerimenti geniali di Tornatore.

Film cult come Pulp Fiction, Tempi moderni o Forrest Gump sono già stati proiettati sulle palazzine di città quali Roma, Bologna, Firenze e Bari nel mese di marzo, in piena quarantena.

Il “cinema da casa” a Roma. Fonte: donnemagazine.it

E chissà se, passati alla fase 2 e con le dovute distanze di sicurezza, un boat-in come quello che si vede in Nuovo Cinema Paradiso non potrà essere una soluzione tutta italiana di far ripartire l’industria cinematografica e il turismo sulle nostre belle coste!

Un’idea forse poco pratica, ma sicuramente originale.

Angelica Rocca, Alessia Orsa

 

Harvey Keitel: la qualità non sta nella quantità

Oggi compie 81 anni il grande Harvey Keitel, che con le sue interpretazioni ha deliziato gli spettatori del mondo intero e grazie al suo fiuto è riuscito a far emergere grandi registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino e Ridley Scott.

Noi di UniVersoMe vogliamo omaggiare la sua figura andando ad analizzare la sua filmografia ed i suoi personaggi più rilevanti.

Harvey Keitel al Taormina Film Festival del 2016 – Fonte: archivio Paolo Barbera ©

 

Biografia e sodalizi

Nato a Brookyn nel 1939 da una famiglia ebraica, trascorre un’adolescenza turbolenta. All’età di 16 anni si arruola nei Marines e prende parte ad un intervento militare in Libano.

Tornato a New York inizia a studiare recitazione presso la prestigiosa scuola dell’Actors studio e dopo 10 anni di esperienze teatrali esordisce sul grande schermo con Mean Streets-Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (1973), il film che lanciato Martin Scorsese.

Con il regista instaurerà un solido rapporto, sia professionale che d’amicizia, grazie al quale girerà altri film come Alice non abita più qui (1974), Taxi driver (1976), L’ultima tentazione di Cristo (1988) e The Irishman (2019).

Nel 1977 recita ne I duellanti, il film che segna l’inizio della carriera di Ridley Scott con il quale lavorerà anche in Thelma e Louise (1991).

All’inizio degli anni ’90 un collega di Harvey dell’Actors studio gli presentò una sceneggiatura di un film scritta da un ancora sconosciuto Quentin Tarantino (che lavorava ancora in una videoteca come commesso).

Quentin Tarantino, Steve Buscemi e Harvey Keitel sul set del film Le Iene – Fonte: ebay.ie

L’attore rimase estremamente colpito dalla trama, ma non vi era denaro a sufficienza per girare la pellicola. Lo stesso Harvey Keitel quindi decise di raccogliere i fondi necessari per finanziarla ed è così che venne creato uno dei migliori film della storia: Le Iene (1992).

A conti fatti, se non fosse stato per l’intervento dell’attore probabilmente non avremmo mai potuto godere dell’intera arte di Quentin Tarantino. I due collaboreranno anche in Pulp Fiction (1994).

Personaggi

Tra la miriade di personaggi interpretati da Harvey Keitel, ve ne sono alcuni che sono rimasti impressi nella mente di tutti noi in maniera indelebile.

Il primo è Matthew Sport, il protettore di prostitute in Taxi Driver.

L’attore, anche se compare per poco tempo sul grande schermo, è riuscito comunque a creare un personaggio assai intrigante, dotato di una forte aura menefreghista che in realtà cela tutta la sua crudeltà.

Harvey Keitel nei panni di Matthew Sport in Taxi Driver – Fonte: dagospia.com

Grazie alla prova d’attore di Harvey, il personaggio riesce comunque a mettersi in luce nonostante potesse essere oscurato dall’imponente interpretazione di Robert De Niro.

Da ricordare è sicuramente anche il ruolo di Mr White nel film Le Iene.

Harvey Keitel ha interpretato al meglio il ruolo di un criminale ricco d’esperienza e capace di compiere qualsiasi follia per ottenere ciò che vuole, riuscendo appunto a trasmettergli tutta la cattiveria e la maturità necessaria per imporsi come una sorta di capitano durante la rapina.

Harvey Keitel che interpreta Mr White nel film Le iene – Fonte: filmalcinema.com

Possiamo riscontrare la sua prova d’attore d’eccellenza in Pulp Fiction, dove Harvey Keitel interpreta l’indimenticabile Mr Wolf.

Il suo compito – a detta sua- è quello di “risolvere problemi”e ciò che affascina è proprio il modo in cui li risolve.

Appare in scena per una decina di minuti, ma sono sufficienti per ammirarne la maestosità. Durante questo arco temporale, Mr Wolf pianifica un modo per tirare fuori dai guai due uomini del gangster Marsellus Wallace che accidentalmente hanno sparato in testa ad un ragazzo nella loro auto.

Mr Wolf non alza nemmeno un dito, anzi: mentre impartisce ordini su cosa fare, sorseggia beatamente una tazza di caffè (con molta panna e molto zucchero). Harvey Keitel ha dato vita ad un personaggio simpatico, elegantissimo nei modi di fare e soprattutto che conquista lo spettatore per la sua capacità di analizzare perfettamente ogni dettaglio di una qualsiasi problematica e di porvi rimedio in breve tempo.

 

Se nel corso di una carriera un attore prende parte a ben 158 film, obiettivamente ha del talento. Se a ciò si aggiunge il fatto che Harvey Keitel abbia preso parte ai primi lavori di registi del calibro di Scorsese, Tarantino e Ridley Scott, ciò implica che l’attore in questione abbia qualcosa in più degli altri. L’attore passa alla storia in particolare per ruoli che lo vedono sul grande schermo solo per pochi minuti, ma come diceva Stanislavskij: «non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori».

Vincenzo Barbera

 

Cinema rompicapo: 5 film che metteranno a dura prova la vostra mente

Spesso un buon film è un’ottima occasione per evadere un po’ dai pensieri della nostra routine che ci schiaccia. A questo scopo, quale film migliore se non uno che ci arrovella così tanto il cervello da costringerci a spremere ogni nostro neurone per venire a capo di enigmi e controverse meccaniche presenti nella storia che stiamo guardando?

Eccovi dunque cinque film la cui visione potrebbe tenervi svegli tutta la notte nel tentativo di capire cosa abbiate appena visto.

1) Fight Club (David Fincher, 1999)

Tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, il film si pone come una forte critica alla società contemporanea volta al consumismo più sfrenato.

Il protagonista è un impiegato in una società di assicurazioni interpretato da Edward Norton che, durante un viaggio di lavoro, incontra Tyler Durden (Brad Pitt) il quale conduce uno stile di vita diametralmente opposto al suo e rappresenta tutto ciò che l’impiegato vorrebbe essere. I due fondano un club dove gli uomini danno sfogo ai loro istinti violenti in combattimenti clandestini a mani nude, che ben presto comincia a mutare diventando un’organizzazione dalle proporzioni più grandi volta alla messa in atto di veri e propri attacchi terroristici contro le principali sedi del potere economico della città, sfuggendo al controllo del protagonista.

La nostra mente però può giocarci brutti scherzi e a volte la realtà che vediamo può rivelarsi ingannevole.

Edward Norton e Brad Pitt in una scena del film. Fonte: movieplayer.it

2) Donnie Darko (Richard Kelly, 2001)

Film che non ha bisogno di presentazioni in cui un giovanissimo Jake Gyllenhaal, ancora agli albori della sua carriera attoriale, interpreta Donnie, un liceale che sembra essere affetto da schizofrenia, poiché è l’unico a poter vedere Frank: quest’ultimo è un uomo con un vestito da coniglio che lo invoglia a compiere azioni sempre più drammatiche, senza che Donnie riesca ad opporsi al suo volere.

Tutto ha inizio con un incidente aereo che distrugge la camera del protagonista, il quale miracolosamente si salva per un attacco di sonnambulismo a causa del quale si sveglia nel bel mezzo di un campo da golf. La storia si snoda quindi tra paradossi temporali e wormhole fino ad arrivare a un finale che tuttora divide gli spettatori offrendo varie interpretazioni.

Donnie, la sua fidanzata Gretchen e Frank al cinema. Fonte: thevision.com

3) Mr. Nobody (Jaco Van Dormael, 2009)

All’interno di questa surreale pellicola veniamo catapultati in un futuro in cui l’uomo ha scoperto un trattamento che permette di vivere per sempre. Ma Nemo Nobody, interpretato da Jared Leto, ha 118 anni ed è l’ultimo uomo a non essersi sottoposto al suddetto trattamento e – di conseguenza – sarà l’ultimo uomo sulla Terra a morire.

Giunto quasi alla fine dei suoi giorni viene intervistato da un giornalista che gli chiede di raccontargli la sua vita. Inizia così un viaggio a ritroso nelle memorie dell’anziano che analizza tutte le scelte che l’hanno condotto fino a quel momento, ripercorrendo tre età fondamentali della sua vita. Si scoprirà che non sempre l’inizio e la fine del concetto che chiamiamo “tempo” sono come ce li aspettavamo.

Nemo Nobody (Jared Leto) a visita dal suo medico. Fonte: filmpost.it

4) Inception (Christopher Nolan, 2010)

Vincitore di 4 premi Oscar vanta anche un cast di tutto rispetto tra cui Leonardo Di Caprio e l’inseparabile coppia Tom Hardy/Cillian Murphy.

Cosa accadrebbe se un estraneo prendesse il controllo dei nostri sogni? Questo è possibile in Inception grazie a un macchinario che permette di entrare nei sogni delle persone e impiantare delle idee nella mente dei sognatori. Questa pratica è, tuttavia, molto pericolosa: stare troppo dentro un sogno ed entrare sempre più a fondo nella mente di qualcun altro può far perdere il contatto con la realtà. Una continua alternanza di sequenze tra sogno e realtà che conduce a un finale ricco di incertezze e che spinge ogni spettatore a chiedersi se il protagonista stia ancora sognando o sia sveglio.

Il totem di Dom Cobb (Leonardo Di Caprio). Fonte: auralcrave.com

5) Madre! (Darren Aronofsky, 2017)

Madre! rappresenta probabilmente la più grande sfida che il regista ha lanciato alla critica cinematografica, essendo il film un concentrato di metafore e simbolismi spinti spesso anche all’eccesso.

Il film è avvolto da un alone di mistero, complice anche la mancanza di nomi dei personaggi: ad esempio, i due protagonisti, interpretati da Jennifer Lawrence e Javier Bardem, sono chiamati semplicemente “madre” o “Lui”. All’inizio della storia veniamo introdotti alla tranquilla vita della giovane coppia che vive in una bella casa isolata dal resto del mondo, anche se non lo rimarrà a lungo: assisteremo infatti all’arrivo di uno straniero che si è perso e viene invitato dal padrone di casa a fermarsi per la notte. Da questo momento la coppia verrà travolta da una serie di eventi che porteranno alla distruzione della loro realtà.

Jennifer Lawrence in una scena nella casa. Fonte: movieplayer.it

Viene da chiedersi come questi registi possano partorire delle storie così intricate, ma in fondo sono pur sempre degli artisti e si sa che per esserlo bisogna essere un po’ strani. Anche se, come ci insegna Donnie Darko, “strano” può essere anche un complimento.

Davide Attardo

Sergio Leone: il regista che ha presentato l’Italia agli americani

Oggi avrebbe compiuto 92 anni uno dei più grandi registi della storia del cinema. Sergio Leone, considerato un trait d’union tra il cinema italiano e quello americano, ha diretto pellicole che non solo hanno stupito il grande pubblico, ma hanno influenzato registi d’altissimo calibro come Quentin Tarantino.

Noi di UniVersoMe andremo a comprendere come questo regista sia stato capace di dar vita ad un nuovo genere cinematografico e come abbia fatto a conquistare il pubblico internazionale.

Sergio Leone all’opera – Fonte: pinterest.com

La Trilogia del dollaro

La cosiddetta Trilogia del dollaro comprende i primi 3 film western del regista: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966).

Le tre pellicole narrano tre storie diverse tra loro. L’unico motivo per il quale vengono considerate parte di una trilogia è grazie alla presenza dell’Uomo senza nome (Clint Eastwood).

Per interpretare il ruolo del protagonista in Per un pugno di dollari, Sergio Leone aveva pensato ad attori del calibro di Henry Fonda e Cliff Robertson, ma in seguito ai loro rifiuti decise di ingaggiare un giovane – ed ancora sconosciuto – Clint Eastwood.

L’attore si rivelò uno dei punti di forza per il successo del film. Artefice di un’interpretazione magistrale caratterizzata da movimenti lenti e da un’unica espressione che rappresenta tutta la virilità del genere maschile, è diventato un’icona del western al pari di John Wayne.

Da qui cominciò la meravigliosa carriera di Clint Eastwood, star americana vincitrice di 5 premi Oscar scoperta e lanciata proprio da Sergio Leone.

Il regista decise di confermare l’attore anche per gli altri due film, facendogli interpretare lo stesso identico personaggio, ma introdusse altri protagonisti che condivisero alla pari la scena con Clint Eastwood. In Per qualche dollaro in più spicca il personaggio di Douglas Mortimer (Lee Van Cleef) che probabilmente è il cacciatore di taglie più elegante della storia.

Clint Eastwood e Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più – Fonte: comingsoon.it

Ne Il buono, il brutto, il cattivo vengono riconfermati i due interpreti precedenti e Leone ne aggiunge un terzo: Eli Wallach nei panni di Tuco Ramirez (il brutto) che incarna perfettamente il ruolo di un astuto farabutto sempre pronto a tradire dinnanzi al dio denaro, ma che in fondo al proprio animo nasconde una sensibilità infantile.

Le interpretazioni di questi attori restano celebri, ma il tocco da maestro di Leone sta proprio nell’aver saputo bilanciarle tra loro perfettamente, riuscendo a creare un equilibrio grazie al quale nessuno degli attori prevale sull’altro rubando la scena. Da segnalare anche la partecipazione di grandi attori italiani nei panni dei cattivi come Gian Maria Volontè e Mario Brega (forse il miglior caratterista italiano).

 

Spaghetti-western

La trilogia diede vita allo spaghetti-western, un genere cinematografico che ebbe molto successo in Italia tra gli 60 e 70, riportando il western in auge dopo un periodo di decadenza.

Tra gli elementi distintivi del genere spicca la figura dell’antieroe: un uomo privo degli attributi tradizionalmente riconosciuti agli eroi, ma protagonista di imprese portentose con atteggiamenti spesso rozzi e violenti.

Un altro elemento proprio di questo genere è sicuramente lo stallo alla messicana. Consiste in una situazione nella quale due o più persone (solitamente tre) si tengono sotto tiro a vicenda con delle armi, in modo che nessuno possa attaccare un avversario senza essere a propria volta attaccato.

Locandina del film Il buono, il brutto, il cattivo – Fonte: lacooltura.com

Sergio Leone lo ha introdotto per la prima volta nel cinema con Il buono, il brutto, il cattivo e da lì in poi numerosi registi lo hanno riproposto nelle proprie pellicole. Quentin Tarantino più volte ha dichiarato che proprio questo film fosse il suo preferito ed in numerosi film lui stesso ha messo in scena il famoso stallo alla messicana (ad esempio Le iene).

Stile

Sergio Leone – con delle inquadrature straordinarie – ci ha raccontato storie dalla trama non di certo innovativa nell’immaginario del vecchio West, ma che hanno riscosso un successo gigantesco grazie ai dettagli.

Il sigaro messo in bocca a Clint Eastwood è un tocco di classe che solo Leone poteva apporre.

L’attore non era un fumatore e non amava ovviamente tenerlo tra i denti; infatti, quando venne chiamato per girare il secondo film disse a Sergio: “Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa, non mi rimettere in bocca quel sigaro!” ed il regista rispose: “E che vuoi lasciare a casa il protagonista?”. Geniale.

Clint Eastwood con il protagonista del film – Fonte: grossetonotizie.com

Il regista ha trasformato elementi inanimati in accessori che arricchiscono vertiginosamente la qualità dei personaggi e che hanno un ruolo centrale nelle storie (oltre al sigaro ricordiamo anche l’orologio con carillon in Per qualche dollaro in più).

C’era una volta in America (1984)

Dopo i film C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971), Leone decise di prendersi una pausa dalla regia per dedicarsi all’attività di produttore.

Per 12 anni produsse diversi film: tra questi, anche molte commedie mediante le quali fece spopolare un giovanissimo Carlo Verdone con il quale stringerà una relazione profondissima, quasi come un rapporto padre-figlio. In questo arco di tempo Sergio Leone si dedica anche ad un progetto al quale pensava da tutta la vita: C’era una volta in America. Il film ha ricevuto il massimo dell’impegno da parte del regista (più di 10 anni solo per la fase di pre-produzione) anche se alla fine purtroppo non è stato apprezzato dal pubblico americano. Semplicemente perché non è stato ben compreso, dato che la produzione impose di ridurre la durata del film a soli 139 minuti; alla fine del primo montaggio si contavano ben 10 ore (oggi si sarebbe fatta una serie televisiva).

Robert De Niro in una scena del film – Fonte: umbria24.it

La pellicola non è classificabile all’interno di un genere cinematografico perché si trova di tutto: gangster, dramma, biografie, realismo, noir, ecc.

L’estro di Sergio Leone alla regia si identifica nel modo in cui ha rappresentato la virtuosità del tempo. Il regista gioca molto con gli sbalzi temporali ricorrendo all’uso dell’analessi e dell’ellissi, così da spiegarli senza annoiare lo spettatore.

Un altro punto di forza di questo capolavoro è sicuramente Robert De Niro, autore di un’interpretazione degna del suo nome. Grazie alle direttive di Sergio Leone, l’attore è riuscito ad incarnare il ruolo di Noodles, che può essere considerato da un punto di vista metaforico la personificazione della memoria: tutto il film si concentra sui ricordi di questo personaggio, il quale ci trasporta dentro il racconto esclusivamente con i suoi pensieri.

 

Sergio Leone ha fatto conoscere la nostra identità italiana agli americani. Con la Trilogia del dollaro ha riesaminato delle tematiche già trattate e ritrattate dalla vecchia Hollywood e le ha ripresentate secondo il suo punto di vista, innalzandone esponenzialmente la qualità. Con C’era una volta in America ha raccontato il senso del tempo ripercorrendo 40 anni di storia americana. Dai dettagli e dai particolari dei suoi film si coglie quel tocco in più che solo lui poteva dare e che lo rende unico nel suo stile.

Vincenzo Barbera

5 film da vedere di Al Pacino, l’attore di origini siciliane che ha conquistato Hollywood

Ad 80 anni appena compiuti, Al Pacino è a tutti gli effetti un mostro sacro della recitazione. Ha dato vita a personaggi rimasti impressi nella storia del cinema che, grazie alle sue prestazioni, hanno affascinato il pubblico di diverse generazioni. Noi di UniVersoMe vogliamo rendere omaggio a questo grande interprete ricordando 5 dei suoi più grandi capolavori.

Al Pacino vince il premio Oscar nel 1993 per Scent of a Woman – Fonte: cinemaclassico.com

Scarface di Brian De Palma (1983)

Il film diretto da Brian De Palma è una pietra miliare del genere gangster. La pellicola racconta la storia di Tony Montana (interpretato da Al Pacino), criminale cubano che cerca di imporsi nel mondo della malavita grazie alla propria tenacia ed alla propria furbizia.

Scarface è un film che indubbiamente rimane impresso nella memoria di tutti gli amanti del cinema grazie principalmente alla splendida performance di Al Pacino.

Al Pacino nei panni di Tony Montana in una scena di Scarface -Fonte: artphotolimited.com

L’attore infatti ha potuto dare sfoggio di tutte le sue doti teatrali riuscendo a creare un personaggio in parte schizoide, dotato di un grande carisma e – tramite una mimica marcata – ne ha rappresentato perfettamente la personalità sbruffona.

Il film costituisce un elemento di primaria importanza per la filmografia di Al Pacino in quanto ci permette di osservare come egli sia stato capace di ricoprire magnificamente il ruolo di un mafioso seguendo due chiavi di lettura completamente diverse tra loro: Michael Corleone ne Il padrino si presenta come un uomo calmo e sofisticato, Tony Montana invece appare come rude e spregiudicato.

Donnie Brasco di Mike Newell (1997)

Ispirata alla vera storia del poliziotto Joe Pistone (interpretato nel film da Johnny Depp), la pellicola di Mike Newell narra le vicende di un agente FBI infiltrato all’interno di un’organizzazione mafiosa tra gli anni ’70 e ’80. Nel contempo il film si concentra sul rapporto di amicizia che nasce tra Joe ed il suo mentore Benjamin “Lefty” Ruggiero (Al Pacino) il quale lo farà entrare nel clan di cui fa parte ed in seguito gli insegnerà tutti i meccanismi ed i segreti della malavita.

L’interpretazione degli attori è magistrale.

Grazie alla chimica instauratasi tra i due, la narrazione scorre meravigliosamente coinvolgendo e mantenendo alta l’attenzione dello spettatore.

Johnny Depp e Al Pacino nel film Donnie Brasco – Fonte: pinterest.it

Al Pacino si ritrova nuovamente a vestire i panni di un mafioso, al quale stavolta dona tramite i gesti, gli sguardi e le espressioni una forte venatura di malinconia e di rassegnazione, che viene però attenuata dalla voglia di riscatto quando Lefty conosce Joe. Egli infatti lo considera un figlio acquisito al quale vuole insegnare tutto ciò che ha imparato ed al tempo stesso proteggerlo dalle molteplici insidie. Si assiste quindi ad una vera e propria rinascita del personaggio interpretato da Al Pacino che mette in atto una delle sue migliori performance insieme a Johnny Depp.

Il padrino di Francis Ford Coppola (1972)

Non è stato il film di debutto del nostro attore come molti invece pensano, ma sicuramente il gangster movie che l’ha fatto entrare a buon diritto nell’ Olimpo dei grandi del cinema.

In realtà tanti erano i numi avversi all’ingaggio di Al Pacino come protagonista della celeberrima trilogia tratta dal romanzo di Mario Puzo e diretta da Francis Ford Coppola. La Paramount, per il ruolo di Michael Corleone, inizialmente innocuo pesce fuor d’acqua in una losca famiglia d’italo-americani nella New York degli anni Cinquanta e poi il “padrino” che prende in mano le redini dell’organizzazione mafiosa, aveva pensato a Dustin Hoffman o Robert Redford, già più affermati ad Hollywood e dintorni.

 

Michael Corleone (Al Pacino) con i suoi scagnozzi in Sicilia. Fonte: La voce di New York.

L’occhio da buon regista di Coppola, nell’immaginare le scene di Michael che vagava per la campagna siciliana ne Il padrino (1972) vide invece il viso di Pacino, dai tratti decisamente più siciliani. Non dimentichiamoci infatti che nelle vene di Alfredo James Pacino (così all’anagrafe) scorre sangue siculo: i suoi nonni paterni erano di San Fratello, mentre quelli materni proprio di Corleone!

In definitva Pacino convince tutti soprattutto quando si siede per la prima volta sulla poltrona di Don Vito (Marlon Brando) e la metamorfosi da bravo ragazzo a criminale è compiuta. Il suo è un personaggio fuori dai canoni del boss violento stile old mafia: Michael Corleone è posata spregiudicatezza, astuzia calcolata e sangue freddo resi da una mimica perfetta e da uno sguardo glaciale.

Michael Corleone ormai diventato “il padrino”. Fonte: sorrisi.com

La scelta di Coppola si rivela azzeccata : l’attore è così bravo  che lo spettatore finisce per stare dalla parte del cattivo.

 

L’avvocato del diavolo di Taylor Hackford (1997)

Spregiudicatezza e mistero caratterizzano sempre un altro ruolo di Al: quello di John Milton, affermato avvocato newyorkese che prende sotto la sua ala protettiva un giovane e talentuoso legale di provincia Kevin Lomax (Keaneau Reeves). Lo sprovveduto Lomax appena entrato “come pecora tra i lupi” nella società di Milton, sarà coinvolto in un giro di corruzione e degrado morale che lo porterà a perdere i suoi legami più cari, in una trama surreale e a tratti horror che molti critici hanno trovato esagerata.

John Milton ( Al Pacino) nel celebre monologo. Fonte: ciakclub

Per niente esagerata è invece la performance di Pacino: solo un attore del suo calibro poteva dare così tanto pathos al monologo in cui Milton rivela la propria identità. Chi è davvero il più potente avvocato di New York?

Profumo di donna di Martin Brest (1992)

Personaggio sicuramente più complesso è invece quello che gli valse l’oscar come miglior attore protagonista nel 1993: Frank Slade, colonnello rimasto cieco in un incidente militare che decide di farsi accompagnare in un “viaggio di piacere” a New York da Charlie Simms (Chris O’ Donnel), liceale a corto di quattrini e con qualche problema di integrazione in una scuola esclusiva del New England.

Il viaggio rivelerà parecchie sorprese, ma a sorprenderci ancor di più (anche sul finale) è proprio il colonnello Slade, uomo mai statico e in continua evoluzione: ora cinico, ora paterno nei confronti del suo accompagnatore, a volte sfrenato edonista a caccia di donne e nuove emozioni, altre volte uomo profondamente scosso e depresso.

Al Pacino e Chris O’ Donnel per le strade di New York.  Fonte: nospoiler.it

 

Il dinamismo di Pacino incarna perfettamente il personaggio! Ma la migliore prova d’attore è ancora una volta lo sguardo: spento come quello di un uomo che non trova più alcun senso nel vivere.

Curiosità on topic: quello di Martin Brest è il remake più fortunato dell’omonimo film del 1974 di Dino Risi con protagonista Vittorio Gassman. Pare che Pacino, per interpretare il protagonista, non solo abbia preso contatti con delle associazioni americane di non vedenti, ma abbia anche incontrato il nostro Mattatore.

Al Pacino. Fonte: lascimmiapensa.com

La carriera di Al Pacino parla da sé e rivela un professionista della recitazione che si ispira alla realtà per interpretare personaggi di fantasia e non ha mai rinnegato le sue umili origini.

“Mi sento più vivo in un teatro che in qualunque altro posto, ma quello che faccio a teatro l’ho preso dalla strada.”

Angelica Rocca, Vincenzo Barbera

Cecità: la necessità di una guida nel pieno di una pandemia

Voto UVM: 5/5 libro; 4/5 film

“Ciechi che, pur vedendo, non vedono”

Nel 1995 José Saramago, Nobel per la Letteratura, scrisse un romanzo che poi fu reso anche film: il titolo originale “Ensaio sobre a Cegueira” non sembrava poi così accattivante, così si è scelto di ridurlo a Cecità (in inglese Blindess).

Josè Saramago

 

Ambientato in una città senza nome e in un periodo senza data, l’autore ci rende spettatori e partecipanti, di uno scenario complesso.

Il tutto comincia all’improvviso, in pieno traffico cittadino, coinvolgendo un uomo qualunque: questo viene colpito da una cecità particolare che non lascia segno; “Non le riscontro alcuna lesione, i suoi occhi sono perfetti” sentiremo dire al medico, ma questo mal bianco si dimostrerà essere una malattia molto contagiosa, dalla causa sconosciuta che colpirà a ciel sereno una società impreparata (non era il COVID-19, ma si, è perfetto per l’attuale pandemia).

Non abbiamo nomi, solo dei “titoli” per descrivere i personaggi: scelta curiosa, ma sicuramente abile; la consideriamo come un espediente per dare spazio al lettore, per riproporsi in chi vuole.  Attraverso i personaggi, viene espressa la criticità della risposta umana all’incertezza e alla paura: c’è chi vorrebbe trarre vantaggio dalla sventura altrui come il ladro di automobili, che deruberà il primo cieco non appena ne avrà la possibilità, e chi come la moglie del medico deve tenere le redini della situazione.

Ma poco importa, finiranno tutti nello stesso posto e saranno queste “etichette” a stabilirne atteggiamenti e movimenti.

In tutto ciò, le forze dell’ordine, che al caro José non dovevano andare molto a genio, vengono condannate, descritte come prive di intelligenza ma piene di paura. Talmente tanta da decidere di portare i malati in un ex manicomio.

Ex Manicomio

Lo scenario si sposta in una struttura dismessa, priva dei beni essenziali e soprattutto priva di umanità.

Prime persone messe in quarantena, fonte: cinematographe.it

Lo descrive perfettamente, in maniera cruda e attraverso gli occhi dell’unica donna che ci vede, la moglie del medico: “Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali”.

Il film le ha dato un volto: bionda e candida, sicuramente non una scelta casuale; man mano che la situazione peggiora e che l’umanità si mostra sempre più fragile , lei deve resistere, ma inevitabilmente la sua immagine ne risente.

Nessuno la vede, ma noi si. Come se ci aspettassimo che l’unica donna non cieca, non possa avere i piedi sporchi. Invece lei li ha, si deteriorerà fuori pur di non perdere quella luce che ha dentro. Come a voler dimostrare quanto siano inutili bellezza ed eleganza se si è vuoti dentro. Banale penserete, invece no.

Julianne Moore, fonte: cinematographe.it

All’interno del manicomio si ricreerà una società rudimentale, in cui il più forte prende l’unica cosa che può: il cibo. E si fa pagare con le uniche cose che gli altri hanno: beni materiali (per quanto sia possibile in quella situazione). E quando questi non bastano, vorrà di più: “dateci le donne”, così da prendere anche quello che “di materiale” non è.

Ecco che l’equilibrio si rompe, Saramago non si risparmia e sottolinea l’indifferenza che soffoca la speranza: dalle continue richieste di aiuto e di umanità non si ottiene nessuna risposta.

Né dalle autorità, né da quelli che possiamo considerare “pari” dei nostri protagonisti. Grida che nascondono il silenzio e un candore, che coprendo gli occhi nasconde la brutalità della scena. Brutalità che si vedrà anche fuori, la città diventa il nuovo scenario.

Città

“E’ una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli”: nonostante sembri un post scritto adesso su un social, evidenzia le crepe della società orfana di nome e di epoca descritta nel romanzo.

E si… crepe sempre esistite e adesso più evidenti che mai.

Tutti ciechi ed affamati, tutti impauriti e arrabbiati. Tranne la moglie del medico, lei non può permetterselo. Deve fare tutto ciò che può per la sua nuova famiglia, i cui membri (marito escluso) non l’avevano letteralmente mai vista, ma che si fidavano ciecamente (scusate il gioco di parole) di lei.

fonte: movieplayer.it

Madre, sorella, la loro e la nostra guida. Azzarderei che era l’unica a non avere quel bagliore negli occhi, perché era l’unica ad averlo nel cuore e nella mente. E anche quello – in tal caso fortunatamente era contagioso.

Ma come a voler sottolineare ancora l’indifferenza degli uomini, dei pari soprattutto, l’autore inserisce una figura: quella del cane delle lacrime. Non si infetta, non è contagioso ma ha solo bisogno di amore. Lui supporta la donna, la segue, le fa compagnia, la difende e creerà un legame che non sarà possibile dissolvere.

In cecità non c’è niente che non abbiamo già visto, anzi, è tutto descritto alla perfezione. Ovviamente amplificato, con una sintassi molto particolare, scenari cupi e dettagli raccapriccianti.

Ma con molta verità.

Non si parla di profezie e complotti: anche lì le autorità erano impreparate. Né di eroi, ma di semplici combattenti; non si parla di ricchi e poveri, ma di pari.

Cosa ci insegna questo ? Non lo sappiamo con certezza ma ci dà speranza laddove serve.

La ragazza con gli occhiali scuri (senza occhiali in questa scena)- fonte: lafabricadeisogni.it

La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.”

Barbara Granata 

3 film che ci hanno mostrato la genialità di Jack Nicholson

Oggi Jack Nicholson compie 83 anni. Considerato come uno dei più grandi attori della storia del cinema, ha incantato il pubblico di tutto il mondo con delle interpretazioni magistrali. Ha lavorato con registi di altissimo calibro come Stanley Kubrick, Martin Scorsese, Tim Burton, Roman Polanski ed altri, i quali hanno saputo valorizzarlo e grazie al suo estro sono riusciti a girare delle pellicole che ad oggi sono dei tesori del patrimonio cinematografico.

Andiamo vedere e ad analizzare quelle che secondo noi di UniVersoMe sono le 3 migliori interpretazioni di Jack Nicholson.

Jack Nicholson da giovane – Fonte: blog.filmamo.it

Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)

Il film è sicuramente uno dei migliori della sua filmografia personale. L’attore interpreta un delinquente che viene rinchiuso in un manicomio per verificare se la sua aggressività nasca da un disturbo mentale o meno. In poco tempo riuscirà a conquistarsi la fiducia e la simpatia degli altri pazienti ponendo in essere comportamenti fuori dalla norma e creando scompiglio. Tutto ciò non verrà visto di buon occhio dalla capo-reparto (interpretata da Louise Fletcher) la quale adotterà metodi ancor più crudeli ed illogici nei confronti dei degenti: durante le sedute collettive non mostra un reale interesse circa il loro stato d’animo, li imbottisce di medicine senza senso, li sottopone ad elettro-shock.

Jack Nicholson in una scena del film Qualcuno volò sul nido del cuculo – Fonte: imdb.com

La prova d’attore di Jack Nicholson è a dir poco strabiliante. Riesce ad interpretare il ruolo in maniera realistica senza eccedere mai, nonostante l’alta carica emotiva richiesta per questo personaggio. Non solo: ci fa addirittura ridere in un film dove la risata non era minimamente contemplata, nemmeno in caso di errori sulle battute sul set.

Non a caso, per questo film l’Academy assegnò l’Oscar per il miglior attore protagonista e per la miglior attrice protagonista a Jack Nicholson e a Louise Fletcher.

Shining (1980)

Il film è ispirato al romanzo Shining (1977) di Stephen King. La pellicola del più grande regista di tutti i tempi (Stanley Kubrick) deve moltissimo sicuramente al lavoro svolto dal suo attore principale.

Per il ruolo del protagonista Jack Torrance, il regista inizialmente aveva pensato ad altri attori oltre che a Nicholson.

Robert De Niro rifiutò il film visto che, a detta sua, la semplice lettura del copione lo aveva così tanto turbato da causargli incubi per un mese intero.

Robin Williams ed Harrison Ford incontrarono invece la disapprovazione di King.

Sul set vi furono molteplici scontri soprattutto tra Kubrick e l’attrice protagonista Shelley Duvall (nel film interpreta la moglie di Jack, Wendy Torrance) che sicuramente non permettevano di lavorare in un clima sereno. In seguito al film l’attrice cadde in un profondissimo stato di depressione ed ancora oggi purtroppo non è riuscita ad uscirne.

Tra le varie problematiche poi vi erano anche: le continue proteste dello scrittore Stephen King, che accusava il regista di stravolgere radicalmente il racconto;  varie sequenze che venivano girate e rigirate fino a contare addirittura 150 ciak per una singola scena, stremando logicamente gli attori; Kubrick cambiava così tante volte le battute che Jack Nicholson si rifiutava di impararle a memoria perché sapeva che dopo 15 minuti sarebbero state modificate.

Nonostante tutte le avversità, ci troviamo di fronte alla miglior interpretazione attoriale della storia del cinema. Jack Nicholson ha creato un personaggio tanto folle quanto affascinante, che tramite le sue azioni non fa staccare gli occhi dello spettatore dallo schermo qualsiasi cosa egli faccia.

Durante i suoi deliri – con i quali dà voce alla follia del personaggio – lo si ascolta come se fosse una poesia di Leopardi. Mentre sta in silenzio sul letto con lo sguardo perso nel vuoto lo si ammira come se fosse un dipinto di Michelangelo.

Tutto questo è reso possibile grazie alla grandissima tecnica posseduta dall’attore.

Jack Nicholson nei panni di Jack Torrence mentre fissa il vuoto nel film Shining – Fonte: repubblica.it

Innanzitutto, egli entra nel personaggio comprendendone i pensieri e gli atteggiamenti per poi riproporli in scena in maniera spettacolare. Il termine “spettacolare” non è sinonimo in questo caso di “meraviglioso” ma è inteso nel senso di rappresentare una determinata emozione enfatizzandone minuziosamente ogni minimo aspetto, con il fine ovvio poi di ottenere una reazione specifica da parte dello spettatore. Mentre De Niro e Marlon Brando recitano partendo dall’istinto, immedesimandosi totalmente nella parte e senza sapere realmente dove si possa andare a finire, Jack Nicholson prende per un istante le distanze dal proprio personaggio.

La sua interpretazione è frutto di un’operazione matematica prestabilita che deve in qualche modo fungere da tramite per manifestare poi un sentimento; ma preliminarmente egli sa benissimo dove si andrà a parare, perciò conosce gli attimi precisi in cui può forzare eventualmente un’espressione facciale o effettuare un determinato gesto.

In Shining l’attore ha dato libero sfogo a tutte quelle che sono le sue capacità attoriali, divenendo un’icona per tutti gli amanti del cinema. E poi diciamocelo: lo sguardo da folle lo ha di natura.

The Departed – Il bene e il male (2006)

Un gangster movie di Scorsese ambientato ai giorni nostri. Con un cast d’eccezione ed uno dei migliori registi della storia del cinema il risultato non può che non essere strepitoso.

Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson durante una scena di The Departed – Fonte: it.wikipedia.org

Qui la particolarità della prova d’attore di Nicholson risiede nel fatto che apparentemente sembra non recitare.

Se vedete il film noterete un signore che parla, minaccia, ride e uccide con una normalità disarmante. Essendo abituati a vedere Jack “strafare” nelle sue interpretazioni, guardando questo film si resta attoniti. Egli è entrato talmente tanto nella parte che lo spettatore può benissimo pensare di avere davanti a sé una persona reale e non un personaggio interpretato da un attore. Scorsese comprese questo fatto, infatti gran parte delle scene di Nicholson sono del tutto improvvisate.

 

Non è sufficiente solo un articolo per parlare di un’icona del cinema come Jack Nicholson. Ciò che l’attore ha donato al cinema è qualcosa di veramente strabiliante. Nel corso della sua carriera ha vinto ben 3 premi Oscar, ma per attori del genere dovrebbero istituire un riconoscimento a parte.

Se dopo 130 anni di storia il cinema ancora oggi esiste, è grazie a persone e ad artisti come Jack Nicholson.

Vincenzo Barbera

Eli Roth ed Hostel: l’orrore peggiore è nel mondo reale

Compie oggi 48 anni uno dei maestri che hanno innovato il genere dell’orrore e dello splatter in maniera significativa. Eli Roth, conosciuto per aver diretto Cabin Fever  (2002) ed aver recitato in Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino, deve il suo successo in gran parte ad Hostel (2005), un film che ha sconvolto l’America per la sua violenza e ad oggi risulta essere ancor più inquietante visti i temi trattati.

Eli Roth nei panni dell’Orso Ebreo in Bastardi senza gloria – Fonte: inglouriousbasterds.fandom.com

Hostel

Il film narra la storia di 2 ragazzi americani, Paxton e Josh, che fanno un Interrail in Europa. Qui conoscono Oli, un ragazzo islandese che si unirà al loro viaggio. Durante una nottata a base di sesso e droga, i tre rimangono chiusi fuori dal proprio bed&breakfast. Vengono ospitati quindi da un ragazzo che li informa circa l’opportunità di recarsi in Slovacchia dove c’è un ostello abitualmente frequentato da bellissime ragazze.

I 3 partono alla volta di Bratislava ed il soggiorno presto si rivelerà un vero e proprio incubo. Uno ad uno vengono rapiti per poi essere torturati brutalmente da alcuni uomini vestiti da macellai in delle piccole e cupe stanze.

Paxton mentre viene seviziato dal suo aguzzino – Fonte: filmjunk.com

Paxton riesce a liberarsi e si ritrova nello spogliatoio dei torturatori dove incontra uno dei boia, il quale lo scambia per uno di loro ed iniziano a dialogare. Da quell’uomo viene a conoscenza di una società segreta nella quale i membri pagano grosse somme di denaro per seviziare i turisti.

Il film, prodotto da Quentin Tarantino, con un budget di appena 4 milioni di dollari ne incassò 80 ottenendo un grandissimo successo a livello economico, ma opinioni contrastanti da parte della critica. In seguito vennero girati anche due sequel: Hostel Part II (2007), diretto sempre da Eli Roth, ed Hostel Part III (2011), che venne invece venne diretto da Scott Spiegel. 

È sicuramente un film che apre un nuovo sottogenere dell’orrore, principalmente basato sulla rappresentazione di una violenza nuda e cruda, fortemente disturbante.

Ciò che colpisce nel profondo è che la pellicola – come lo stesso regista ha dichiarato – è basata su casi reali identificati dalla polizia di New Dehli in India. Dalle indagini è emersa l’esistenza di un club segreto dove uomini ricchi e potenti di tutto il mondo “compravano” persone per soddisfare i propri desideri malati.

Eli Roth, forse senza volerlo, aveva girato un film che denunciava l’allora sconosciuto deep web.

Deep e Dark Web

Il Deep Web è la parte di Internet che non è indicizzata dai motori di ricerca. Per spiegare facilmente questo concetto si utilizza spesso l’immagine di un iceberg: la parte che fuoriesce rappresenta l’Internet al quale accediamo ogni giorno, mentre la parte sommersa corrisponde a tutti i siti non indicizzati.

L’iceberg è un esempio perfetto per comprendere lo schema del Web nel suo complesso – Fonte: pattayatoday.net

Il Dark Web invece è un sottoinsieme del Deep Web ancora più oscuro e misterioso.

Vi si può accedere esclusivamente tramite dei software particolari, visto che gli indirizzi IP cambiano continuamente e non restano uguali come nel Surface Web (la parte conosciuta del Web). Ciò implica che è maggiormente complesso risalire eventualmente ad identificare un soggetto operante all’interno di questo ambito. È proprio per questo motivo che dentro il Dark Web sono attivi numerosi mercati illegali dove si commercia di tutto: droga, armi, credenziali aziendali e bancarie, organi, ecc.

Purtroppo è molto diffuso anche lo scambio dei cosiddetti snuff movie, cioè quei film in cui vi sono delle persone che vengono sottoposte a violenze.

Il fenomeno del Deep Web è emerso solo negli ultimi anni; fino a poco tempo fa, quasi nessuno ne era a conoscenza.

Eli Roth, con Hostel, ha praticamente spiegato per filo e per segno uno degli aspetti più orridi ed inquietanti della parte oscura di Internet. Conoscendo oggi cosa c’è dietro il Dark Web possiamo vedere questa pellicola in chiave diversa rispetto al passato, perché sappiamo che tutto quello che accade nel film potrebbe accadere in qualsiasi parte del mondo;  ciò amplifica notevolmente la sensazione di ansia e angoscia durante la visione della pellicola.

Tutto ciò deve farci riflettere sulle capacità possedute dal cinema: ancora una volta, una pellicola è stata capace di mettere in luce tematiche che sarebbero venute a galla approfonditamente solo diversi anni più tardi.

Vincenzo Barbera

 

Quando l’attore diventa il personaggio

Ha da pochi giorni compiuto 47 anni il protagonista di una delle interpretazioni più realistiche della storia del cinema.

Adrien Brody dagli inizi degli anni 2000 è considerato uno dei migliori interpreti a livello internazionale. Durante la sua carriera ha lavorato con grandi registi ed ha preso parte a numerosi film di successo come La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick, Il Pianista (2002) di Roman Polanski, The village (2004) di M. Night Shyamalan, King Kong (2005) di Peter Jackson, The Experiment (2010) di Paul Scheuring, Midnight in Paris (2011) di Woody Allen (cameo), Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson.

Adrien Brody – Fonte: livingadamis.it

Gli inizi

Adrien Brody nasce il 14 aprile 1973 a New York. Incoraggiato dalla madre si iscrive alla scuola d’Arte drammatica e debutta giovanissimo nella sit-com televisiva Annie McGuire.

Trasferitosi a Los Angeles prende parte ad una serie di film indipendenti grazie ai quali inizia a farsi conoscere.

La svolta per la sua carriera cinematografica arriva nel 1997 quando entra a far parte del ricchissimo cast del film  La sottile linea rossa (1998), seppur gran parte delle sue scene vennero tagliate in fase di montaggio.

Ma la consacrazione di Brody a stella del cinema avviene nel 2002 con l’uscita nelle sale del film Il Pianista di Roman Polanski.

Adrien Brody in una scena del film Il Pianista – Fonte: wyborcza.pl

Il Pianista

La pellicola narra la vera storia del pianista polacco Wladyslaw Szpilman durante gli anni dell’occupazione nazista e del ghetto di Varsavia.

Molte scene prendono spunto dalle esperienze personali del regista Roman Polanski, il quale essendo ebreo e polacco le ha vissute sulla sua pelle da ragazzo.

Non a caso lo stesso Adrien Brody ha dichiarato:” Il film racconta la storia di un sopravvissuto raccontata da un sopravvissuto”.

Per interpretare al meglio il ruolo di un ebreo al quale pian piano viene tolta qualsiasi cosa, l’attore ha deciso di lasciare il suo appartamento, vendere la sua macchina e di smettere di utilizzare i cellulari. Ciò non fu sufficiente per Brody, infatti per entrare maggiormente nel personaggio di Wladyslaw è partito per l’Europa, dove in poco tempo ha perso 15 kg ed ha imparato a suonare il pianoforte.

Grazie a quest’ardua preparazione è riuscito a mettere in scena una delle interpretazioni più realistiche della storia del cinema. Nel momento in cui l’attore ha deciso di spogliarsi dei suoi averi è stato capace di trasmettere questa sensazione di vacuità al suo personaggio, plasmandola in un vuoto ancora più profondo alimentato da tutta la tristezza e la disperazione che un ebreo poteva provare in quel tragico periodo.

Adrien Brody tra le rovine di Varsavia nel film Il Pianista – Fonte: cinelapsus.com

Il film è stato girato in ordine cronologico inverso, dalla fine all’inizio; quindi l’attore ha dovuto ripercorrere il percorso psicologico del proprio personaggio al contrario, partendo dalla fine, cioè dal momento sicuramente più intenso della storia.

Già di per sé risulta abbastanza complicato dover  interpretare un ruolo del genere, se in più lo si deve fare partendo dalla conclusione, ovviamente la difficoltà si alza notevolemente. Nonostante ciò comunque la prova d’attore di Adrien Brody è stata magistrale, infatti l’Academy lo ha premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista nell’edizione del 2003.

 

L’interpretazione di Adrien Brody nel film Il pianista costituisce un tesoro preziosissimo nel mondo del cinema. Anche se ha lavorato in altri grandi film ed ha dato prova del suo talento senza mai tirare il freno, in nessuno di questi ha raggiunto il livello ottenuto nella pellicola di Polanski: ma forse questo è impossibile.

Vincenzo Barbera

 

Il Buco, la metafora dell’ingordigia e del consumismo

“La panna cotta è il messaggio”

Una delle citazioni che meglio comunicano il senso narrativo de Il Buco, uno tra gli ultimissimi contenuti originali prodotti e promossi dal colosso Netflix.

Film horror di matrice spagnola (esordio alla regia di Galder Gaztelu-Urritia) che ha stuzzicato la sensibilità anche dei meno appassionati del genere.

Questa pellicola noir, pregna di sfumature drammatiche e connotata da una forte denuncia sociale, trova tempo e spazio (con originalità) nella narrazione per parlare di cibo.

Il cibo diventa simbolo dell’opulenza e delle contraddizioni della contemporaneità, della lotta per la dignità e per la sopravvivenza.

Il Buco si dispiega nella logica di un futuro distopico, nel quale gli esseri umani vengono rinchiusi in una prigione speciale.

Strutturata come una torre altissima e costruita sotto terra, la fossa – com’è chiamata dai detenuti – accoglie un numero indefinito di prigionieri.

Fonte: Skycinema.it

Ogni piano ha una cella in cui vivono due detenuti, nella parte centrale c’è un buco all’interno del quale ogni giorno una sola volta rotea una piattaforma imbandita da delizie culinarie preparate da chef di alta cucina.
Dal primo piano della torre la piattaforma rotante, un piano alla volta, e si ferma solo 120 secondi.
La piattaforma rotante diviene espediente narrativo che svela un meccanismo semplice: i detenuti dei piani alti hanno la possibilità di sfamarsi, chi si trova ai livelli inferiori finirà invece con l’avere da mangiare solamente gli scarti.

Il nuovo film spagnolo esplica ancora di più la sua potenza emotiva in questi momenti fatti di incertezza e paura.

Il cibo viene rappresentato come dicotomia tra paradiso e inferno: una bidimensionalità che separa l’impeccabile cucina, ed i detenuti sudici che si avventano come avvoltoi sul cibo strappandolo, divorandolo con ferocia animalesca.

Fonte: Cinematography.it

Tutte le pietanze succulente sulla piattaforma corrispondono alle scelte fatte dai detenuti nel momento di compilazione del questionario sottopostogli prima di accedere alla prigione.

Questo horror, mediante la sua simbologia originale rimanda molto alla nostra collettività e alla divisione in classi sociali.

Valori fondanti quali unione, solidarietà, compassione e carità risultano sempre più arenati verso l’individualismo più sfrenato.

Ne Il Buco il binomio grottesco cibo/sopravvivenza viene estremizzato.

Fonte: Movieplayer.it

Goreng, il protagonista, è costretto a cibarsi del suo compagno di cella per sopravvivere; il cibo come metafora del “mangiare noi stessi”, dell’impoverimento dei valori della moderna società verticale.

Persino il suicidio, nello specifico di una donna morta affinché venisse compiuta la rivoluzione, si intreccia con inedita originalità al concetto di cibo come sacrificio, ribellione e condivisione di valori.

Il Buco rivela, esasperandole, le dinamiche della società neocapitalista nella quale l’equità è un’utopia che si configura nel fururo distopico in cui domina la pochezza umana. Temi centrali sono  appunto l’incoscienza umana, l’egoismo e l’indifferenza nei confronti del più debole.

Questa pellicola può essere vista con leggerezza ed al contempo riflessione, entrambe sotto la propulsione registica incalzante e ritmata.

Uno di quei film – come si suol dire – fatto con due lire ma che sprigiona tutta la sua forza nel senso metaforico del suo racconto.
Preciso e che sa esattamente come colpire lo spettatore creando degli inaspettati colpi di scena, ma anche attraverso crescendo di tensione che parte dal primo minuto e arriva ad esplodere nel finale della pellicola.

Il Buco è mosso da una  critica feroce ed esplicita agli sprechi scellerati del consumismo, protagonista assoluto del nostro quotidiano.

Un’ invettiva sulla disuguaglianza e l’egoismo umano, un ammonimento artistico travestito da thriller sci-fi del quale, probabilmente, avevamo bisogno.

Antonio Mulone