Little Miss Sunshine: viaggio tra uno dei più recenti road movie

 

Little Miss Sunshine: una commedia drammatica senza troppe pretese – Voto UVM: 3/5

 

Quante di noi hanno desiderato da piccole di essere incoronate reginette di bellezza? Così come lo ha sognato la nostra Olive Hoover (Abigail Breslin), protagonista del film Little Miss Sunshine, scelto dall’associazione universitaria Aegee per la maratona del cineforum #methalhealth e di cui noi di Universome vi proponiamo una recensione.

Trama

La piccola Olive Hoover vive ad Albuquerque, città del New Mexico, con la sua famiglia composta dalla madre Sheryl (Toni Collette), il padre Richard (Greg Kinnear), il fratello Dwayne (Paul Dano), il nonno cocainomane Edwin (Alan Arkin) e a cui presto si aggiungerà lo zio Frank (Steve Carell). Quest’ultimo apparirà come un uomo frustrato sia dal punto di vista sentimentale – in seguito ad una relazione con un collega finita male – che dal punto di vista lavorativo: è stato “sbattuto fuori” dall’università in cui svolgeva il ruolo di ricercatore; egli stesso si definirà nel corso del film «lo studioso numero uno di Proust di tutta l’America».

Fonte: Prime Video – la famiglia Hoover

L’elemento centrale della pellicola è la partecipazione della piccola Olive al concorso di bellezza per bambine Little Miss California per il quale la bimba preparerà un numero con l’aiuto dell’eccentrico nonno, ma l’unico mezzo a disposizione per raggiungere l’albergo – in cui si terrà lo show – è un pullmino vintage giallo della Volkswagen e così tutta la famiglia partirà alla volta di Little Miss California.

Ne viene fuori un road movie, senza troppe pretese di esserlo, con tanto di peripezie e di intoppi lungo la via, che più volte tenteranno di far desistere i protagonisti dal continuare il loro viaggio verso la California.

Fonte: Cinematographe.it – gli Hoover durante il viaggio

Caratterizzazione o stereotipizzazione

I protagonisti sono dei personaggi ben caratterizzati se non quasi stereotipati.

Abbiamo l’ossessivo compulsivo Richard Hoover, al limite della sopportazione dello spettatore, che tiene corsi motivazionali per raggiungere il successo ed è anche il motore propulsore delle sane ambizioni della famiglia. Richard divide il mondo tra vincenti e perdenti; a lui sono sconosciute entità quali la fortuna, vista come un alibi per chi “non ce la fa” e il sarcasmo che viene interpretato come un espediente utilizzato dal perdente per demoralizzare il vincente. Poi dalla saggia e realistica moglie Sheryl si passa al cinico ed eccentrico nonno Edwin al quale la piccola Olive è molto legata. Non potevano di certo mancare i “casi umani” all’interno dell’albero genealogico degli Hoover: Dwayne, classico adolescente problematico che odia tutti e che ha fatto il voto del silenzio e infine lo zio Frank da poco uscito da una clinica psichiatrica.

Fonte: The Take – zio Frank e Dwayne

Ma chi è la piccola Olive? Una ragazzina che dall’aspetto esteriore non sembrerebbe avere le sembianze (canoniche e richieste) di una reginetta di bellezza. Porta occhialoni con delle lenti spesse e possiede delle  movenze proprie delle bambine della sua etá, come è giusto che sia, e non di una baby top model; insomma sarà diversa rispetto alle mini Naomi Campbell o Claudia Schiffer che si vedranno nel film.

Fonte: Exibart – la piccola Olive al concorso

Casi umani ma non troppo

Abbiamo parlato di “casi umani” riferendoci ad alcuni di questi personaggi, ma in fondo tutti i protagonisti di Little Miss Sunshine lo sono. In realtà lo siamo un po’ tutti noi con le nostre miserie così come l’intera famiglia Hoover. Nel corso del viaggio e fino alla meta verranno fuori le debolezze di ognuno e salteranno via le corazze di tutti, persino quella del presunto vincente Richard. Non ci sono corsi motivazionali, strategie o schemi mentali che tengano.

La vita, così come il viaggio degli Hoover, è fatta di circostanze e imprevisti. Inutile il dualismo tra vincenti e perdenti. Forse è proprio questo che Little Miss Sunshine vuole insegnarci, nato dall’idea dello sceneggiatore Micheal Arndt di sfatare la logica del perdente.

Ilenia Rocca

Hammamet: quando Favino supera sé stesso

Un film su un politico che non è assolutamente politico. Pregi e difetti per la pellicola sugli ultimi anni di Craxi – Voto UVM: 3/5

Ci sono uomini che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del nostro Paese.

Chiunque ha diritto di dedicarli un libro, un quadro o un film. Fondamentale è però giudicare l’opera in sé e per sé, senza farsi condizionare da ciò che il protagonista ha fatto nel corso della sua vita.

In occasione dell’anniversario della morte di Bettino Craxi, recensiamo il film Hammamet (2020) di Gianni Amelio.

La locandina del film – Fonte: screenweek.it

Trama

La pellicola narra gli ultimi mesi di vita di Craxi. Il segretario del PSI (Partito socialista italiano) in seguito allo scandalo di Mani Pulite si è rifugiato con la famiglia in Tunisia, dove vive all’interno di una lussuosa villa sotto la protezione del dittatore Ben Ali.

L’ex presidente del consiglio conduce una vita normale: si preoccupa di badare al nipotino, riflette sul difficile rapporto che da sempre ha avuto con il figlio e fa trascrivere le sue memorie. Nonostante l’età che avanza ed una forma grave di diabete, continua a seguire con molta attenzione tutto ciò che accade in Italia.

Una notte un ragazzo si introduce furtivamente nella villa, ma viene tempestivamente catturato. Craxi riconosce che costui era Fausto, il figlio di Vincenzo Sartori (uno sei suoi uomini più fidati ai tempi della politica e morto in seguito a tangentopoli). Tra i due si instaura un profondo legame: infatti, trascorrono gran parte delle giornate a fare delle passeggiate per le strade tunisine, durante le quali il ragazzo filma Craxi mentre racconta aneddoti ed esprime i suoi pensieri.

La volontà reale di Fausto è però quella di uccidere Craxi: infatti, compra una pistola che nasconde nel proprio zaino.

Craxi (Pierfrancesco Favino) e Fausto (Luca Filippi) in una scena del film – Fonte: panorama.it

Un giorno Bettino gli rivela di essere sempre stato a conoscenza dell’arma e gli propone un patto: se lo avesse lasciato in vita, lui gli avrebbe comunicato informazioni talmente importanti da poter far venir meno l’assetto politico del Paese. Fausto accetta e dopo averlo ripreso per un’ultima volta sparisce.

In seguito l’ex Presidente riceverà altre due visite: quella di un ex amante e quella di uno dei suoi più grandi rivali politici, mentre il diabete  nel frattempo si è aggravato e la sua salute viene ulteriormente ostacolata dalla comparsa di un tumore ad un rene. Difficilmente operabile in Tunisia, la famiglia decide di tornare in Italia nonostante il forte rischio di essere scoperti e quindi di far arrestare Bettino.

Tuttavia al momento di prende l’aereo Craxi ci ripensa e si fa operare in Africa. Pochi giorni dopo l’operazione viene colto da un infarto che si rivelerà fatale.

Il film si chiude con Anita (la figlia di Craxi) che va a trovare Fausto in una clinica psichiatrica, il quale le consegnerà le registrazioni effettuate in Tunisia.

Regia

Qualsiasi critica socio-politica che si possa avanzare nei confronti di Hammamet, la lasciamo a chi non si occupa di cinema. Il regista ha scelto di raccontare la storia di Craxi da un punto di vista prettamente umano.

Il film si sofferma sugli aspetti della vita quotidiana di un uomo anziano, mostrando tutte le difficoltà causate dall’età che avanza e dal progredire della malattia.

Vengono messe a nudo tutte le paure ed i rimorsi dell’ex Presidente che, per quanto possa essere stato incredibilmente potente, è semplicemente un essere umano.

Pierfrancesco Favino ed il regista Gianni Amelio sul set – Fonte: ilriformista.it

Punto di forza della pellicola sono sicuramente le inquadrature scelte dal regista durante i dialoghi: il continuo alternarsi tra i primi piani rende partecipe lo spettatore alle acute ed articolate discussioni tra gli attori.

Tuttavia il film presenta dei momenti di vuoto puro che rallentano il racconto in maniera del tutto insensata e a tratti il film risulta essere profondamente noioso.

Favino

Ciò che rende Hammamet uno dei film italiani migliori del 2020 è obiettivamente la sontuosa interpretazione di Pierfrancesco Favino.

La voce è il primo elemento a rendere la prova d’attore encomiabile, anche se la prima cosa che effettivamente stupisce è la strabiliante somiglianza tra Favino e Craxi, ma di ciò se ne deve dare atto giustamente ai truccatori.

Pierfrancesco riesce a riprodurre fedelmente ogni singola lettera esattamente come veniva pronunciata dal Presidente, riproponendone anche l’autorità e la dialettica – caratteristiche che contraddistinguevano Craxi nei suoi interventi – in modo impeccabile.

Pierfrancesco Favino e Bettino Craxi – Fonte: faige.it

Da un punto di vista tecnico l’interprete è riuscito inoltre a rappresentare le movenze tipiche di un uomo anziano. Questi due elementi sono di per sé sufficienti a provare la realisticità dell’interpretazione.

Favino però va oltre questo concetto facendo uso dello strumento che più di tutti è capace di distinguere un fuoriclasse da un attore medio. Gli occhi di Pierfrancesco rispecchiano l’anima del personaggio e ci permettono di capire quanto sia stato elevato il suo livello di immedesimazione.

Favino non ci fa vedere un attore che interpreta Craxi, ma semplicemente, Craxi.

 

In conclusione, il film ha ricevuto critiche miste: come abbiamo potuto osservare anche noi, la pellicola presenta infatti pregi e difetti.

L’importante nel cinema, come in qualsiasi altra forma d’arte, è giudicare il prodotto per come è fatto (oggettivamente) e per quello che suscita in noi (soggettivamente). Politicamente? In separata sede.

Vincenzo Barbera

 

 

Ma che razza di isola è? Alla scoperta del nuovo film di Sibilia

Voto UVM 4/5: Una delle migliori commedie degli ultimi tempi. Diverte e fa riflettere senza annoiare

Sbarcato da più di un mese su Netflix, L’incredibile storia dell’isola delle rose ha raccolto parecchie lodi, ma anche diverse critiche. Noi di UniVersoMe non potevamo perdere l’occasione di svelarvi i segreti del suo successo e dirvi cosa ne pensiamo dell’ultimo film di Sidney Sibilia.

Tra realtà e finzione: l’incredibile trama

Bologna, anni ’60. L’ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano), appena laureatosi è un ragazzo inventivo e stravagante che sembra vivere in un mondo a parte e ai limiti della legalità. Proprio perché incapace ad adattarsi, decide di fondare una nazione tutta sua servendosi di un’idea geniale: costruire una piattaforma a 12 km dalla costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. Il suo progetto incontrerà le ire del presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e del ministro degli interni Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio).

L’incredibile storia dell’isola delle Rose: locandina. Fonte: eHabitat.it

Il film di Sibilia prende spunto da una storia vera: quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, micronazione durata meno di un anno (dal maggio ’68 al febbraio ’69), dotata di propria bandiera, valuta e governo, fondata dall’ingegner Rosa.

Tuttavia anziché dare una ricostruzione fedele dei fatti, il regista preferisce ispirarsi al romanzo di Walter Veltroni: L’isola e le rose;  infatti ritrae la piattaforma di Rosa come una piccola Woodstock dell’Adriatico  laddove nella realtà storica l’ingegnere, sebbene ostacolato dallo Stato, era mosso più da fini commerciali che politici e il suo intento non era quello di dar vita a una sorta di esperimento utopico. Chi si aspetta una lezione di storia degna di un docu-film rimarrà perciò deluso. Resta invece piacevolmente colpito chi vuole ridere, ma anche riflettere su un’avventura breve ma ancora oggi suggestiva.

La vera Isola delle Rose in una foto d’epoca. Fonte: living.corriere.it

Il film pone diversi interrogativi allo spettatore: perchè le autorità sono state così poco tolleranti nei confronti di questa impresa? Era forse il periodo storico particolarmente caldo a giustificare la bocciatura di ogni iniziativa che inneggiasse alla libertà? 

In effetti la pellicola lascia lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca e il rimpianto di non aver passato – neanche un giorno – su quella piattaforma che è ignorata da tanti libri di storia. Discoteca balneare o paradiso utopico, non si doveva star poi così male sull’Isola delle Rose. 

Perché ci piace così tanto l’Isola delle Rose?

Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi in cuor suo lo desidera. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, in cui il più piccolo errore di un individuo ricade inevitabilmente su tutti gli altri – in una sorta di catena infinita da fiera dell’est – quale rifugio migliore di un’isola-Stato costruita a misura dei nostri desideri? Tanto più adesso che una malattia contagiosa quale il Covid-19 ci mostra come la società umana sia una grande rete che protegge anche se a volte finisce per soffocare.

L’isola colma di turisti in festa. Fonte: agi.it

Ecco perché simpatizziamo con il protagonista, una sorta di moderno Peter Pan pronto a costruirsi da sé la mitica isola che non c’è. Ancora di più si immedesimano tutti quelli più volte riportati sulla retta via perché troppo eccentrici e sbadati e perciò accusati di “vivere in un mondo tutto loro”. Insomma nel protagonista si ritrovano tutti coloro che sono come strumenti incapaci di andare a tempo col ritmo dell’intera orchestra, a cui non resta che la fuga felice – o peggio – il naufragio.

Perché convince il film di Sibilia?

Resta a galla, a differenza del progetto di Rosa, la commedia scritta e diretta da Sibilia: un mix perfetto di realtà storica romanzata, comicità e riflessione politica solo accennata e quel goccio di nostalgia che non manca mai in un film ambientato nei mitici anni ’60. La colonna sonora accompagna degnamente quel vento di libertà che il film fa respirare: il nostro protagonista ha l’illuminazione di costruire una piattaforma sul ruggente sottofondo di Hey Joe di Jimi Hendrix.

Cast del film. Fonte: viaggicorriere.it

Convince anche il cast: su tutti Elio Germano si rivela ancora una volta perfetto nei panni del diverso, dell’ingenuo visionario; anche qui sarà un giovane favoloso che sa credere alle proprie aspirazioni pur di cambiare il mondo o «almeno di provarci». La sua performance vanta poi un bolognese impeccabile. A questo proposito anche la scelta di enfatizzare i dialetti rende lo script ancora più divertente.

Forse possiamo storcere il naso (ma anche ridere) davanti al siciliano – per alcuni caricaturale – del bravissimo Fabrizio Bentivoglio: in alcune scene più gangster che uomo di stato. Ma in ogni caso le diverse parlate dei protagonisti creano un mosaico ancor più vivace e variegato.

Nella squadra dello stravagante ingegnere, desta meno simpatia l’amico Orlandini (Leonardo Lidi), viziato figlio di papà che ruba dalle casse dell’azienda di famiglia e fa ricadere la colpa sugli operai calabresi; qui saranno complici i pregiudizi dell’epoca. Tuttavia anche dietro questo personaggio moralmente discutibile si intravede il tocco di Sibilia (già evidente nella trilogia Smetto quando voglio) che ritrae con pregi e difetti personalità a tutto tondo, allontanandosi dal riduttivo schema buoni vs cattivi da happy-ending comedy.

Sicuramente più simpatico e sui generis invece Rudy Neumann (Tom Wlaschiha): apolide rigettato dalla Germania, perché disertore durante la Seconda Guerra Mondiale, sarà accolto a braccia aperte sull’Isola . Di personaggi tedeschi abbondano le commedie di tutti i tempi, ma raramente si esce dallo stereotipo del rigido intellettuale o del generale super severo pronto a impartire ordini di nazista memoria.

Rudy Neumann (Tom Wlaschiha) anima le feste dell’Isola. Fonte: avgmagazine.it

Chi si aspetterebbe invece un PR ante-litteram, un animatore che grida con accento germanico «Benvenuti sull’isola delle rose!»? Neumann è proprio questo e perciò incarna alla perfezione lo spirito di una commedia che non pretende di essere un film storico o ideologico, ma rimane comunque un inno a tutti i diversi, ai senza patria, ai fuori posto, a coloro al di là di tutte le convenzioni e aspettative altrui.

  Angelica Rocca

L’amore proibito che diede origine al mito di Wonder Woman

(La locandina del film – themarysue.com)

Ultimo appuntamento per il cineforum #socialequity in collaborazione con AEGEE-Messina: film della serata sarà Professor Marston and the Wonder Women; pellicola del 2017 diretta da Angela Robinson e basata su una storia vera.

In tema di diritti civili, questo film drammatico-biografico si colloca come “punto di arrivo” di un percorso iniziato settimane fa, ed abbraccia alcuni degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni. Inoltre, tratta con estrema delicatezza questioni che – ad oggi – rappresentano motivo di scandalo per la società occidentale.

Voto UVM: 4/5 – film interessante e scorrevole, ma pecca in alcuni punti

La sinossi e i temi trattati

Dominanza, seduzione, sottomissione e condiscendenza. Queste sono le quattro parole che riassumono l’intera carriera – se non la vita – del dottore in psicologia William Moulton Marston (Luke Evans), studioso della teoria DISC, seguace della neo-corrente del femminismo liberale ed intento a creare la prima macchina della verità. È il 1928 quando quest’ultimo, assieme alla moglie e ricercatrice Elizabeth Marston (Rebecca Hall), inizia una relazione poliamorosa con una studentessa che frequenta il suo corso d’insegnamento ad Harvard, Olive Byrne (Bella Heathcote).

Tale rapporto, connotato da un amore vero e sincero, lo avvicinerà presto al mondo del bondage, al punto che ne approfondirà gli aspetti psicologici trasponendoli al contempo all’interno del proprio fumetto: nascerà così la celebre eroina Wonder Woman e la sua immensa eredità.

Le complessità di questo dramma sono molte: innanzitutto vi è il sentimento poliamoroso, perno dell’intero lungometraggio; poi abbiamo l’interesse alla pratica bondage. Accanto ai temi appena citati si pone infine quello della discriminazione subita dai protagonisti e dai figli, i quali tuttavia vivevano quella realtà con normalità e felicità. Dalla paura, dalla vergogna, dal tormento subìto per via di tali persecuzioni, nascerà l’intento del protagonista di creare qualcosa che dia un nuovo vigore alla figura della donna e che inviti ciascuna a lottare per i propri diritti: l’opera di Marston si pone così all’interno di un’ottica femminista che ben si conforma agli ideali del creatore.

Due argomenti che meritano di essere trattati con delicatezza, senza toni scandalistici o paternalistici: in tal senso, la Robinson è riuscita a non sfociare nella banalità, mostrando un affetto puro e degno da parte di tutti e tre i personaggi. Un affetto che, dopotutto, si condenserà nel personaggio di Wonder Woman, che rappresenta una fusione delle due donne amate da Marston.

(C’è da notare come il professore nutrisse un profondo rispetto per il mondo femminile, essendo vicino agli ideali di femminismo, nota assolutamente progressista per i tempi in cui la vicenda è ambientata).

(In una scena del film, il professore illustra lo studio della DISC ai propri studenti – newswise.com)

La nascita di Wonder Woman e il rapporto tra i personaggi

Wonder Woman è effettivamente ispirata alla forza d’animo di Elizabeth ed Olive, due caratteri agli antipodi ma che si temperano ed attraggono a vicenda. Da un lato la signora Marston, incarnazione della donna in carriera anni ’20; dall’altro Olive, dolce, ingenua ma determinata. A fare “da ponte” tra le due vi è sicuramente il mite ed ambizioso Bill. Il personaggio risulta abilmente lavorato: dall’interpretazione di Luke Evans si nota la smania di grandezza, la voglia di “strafare” sempre e costantemente tenuta a freno dalla disillusione della moglie.

È proprio quest’ultima a mostrarsi inizialmente indecisa verso il rapporto che si andava creando, nutrendo una gelosia nei confronti del marito che tuttavia non passerà mai. E sarà sempre lei a non volersi “cedere” psicologicamente fino all’ultimo, fin quando non si sarà fatta palese la necessità di stabilità nella loro vita: una stabilità che solo Olive è capace di offrirgli.

Inutile però voler negare l’azzardo della regista nel trattare così tanti temi in soli 90 minuti di film: un approfondimento della loro intesa (soprattutto del momento della nascita di essa) avrebbe garantito una maggiore comprensione dei meccanismi del loro amore, anche ai più restii. Rimane invece in dubbio, osservando il complesso, se fosse vero amore o semplice necessità; necessità di alimentare il fuoco di un matrimonio che andava a spegnersi, forse.

Tuttavia, il pathos delle ultime battute del film lascia intendere che durante gli anni il rapporto sia andato fortemente consolidandosi; questo prospetta effettivamente la possibilità che la relazione fosse quanto più che sincera.

La passione e l’affetto che animano i Marston-Byrne si basano sulle quattro parole sopracitate, così come anche lo stesso personaggio di Wonder Woman. Infatti, sin dai primi capitoli del fumetto, l’eroina è ritratta a dominare, sedurre, sottomettere i propri nemici con sfumature erotiche che suscitarono un enorme scandalo.

(I protagonisti in una scena del film – theguardian.com)

Conclusioni

In ultima analisi, il film rimane intrigante sotto molti punti di vista e senza dubbio è piacevole; tuttavia fallisce in alcuni punti, come se la forte drammaticità non riuscisse a trasmettere l’intensità del sentimento provato dai tre. Da guardare se si cerca qualcosa di scorrevole e se ci si vuole avvicinare a tematiche diverse dal solito.

Valeria Bonaccorso

Speciale di Natale: 5 film e serie TV (più un libro) per passare al meglio le festività

Una cosa è sicura: quest’anno sarà un Natale diverso dal solito. Ma come trovare il giusto spirito natalizio? Sicuramente un film, una serie TV o un libro potrebbero aiutare (sopratutto se a tema).

Ne abbiamo scelti alcuni per voi, tra quelli più nuovi e adatti a tutti i tipi di età.

Holidate

Questo film originale Netflix, uscito nel 2020, è una commedia romantica di John Whitesell con attori protagonisti Emma Roberts (Sloane) e Luke Bracey (Jackson). 

Fonte: netflix.com

Sloane è una ragazza single che viene assillata dai propri parenti affinché trovi un fidanzato ufficiale così da non essere sola per le feste; prenderà in esempio lo stratagemma usato dalla zia: il festa-amico, cioè uno sconosciuto che la accompagni alle feste in famiglia. Sloane incontra in un centro commerciale Jackson, anche lui alla ricerca di stratagemmi per non passare le feste da solo, come organizzare appuntamenti al buio. In fila per restituire dei regali di Natale si conosceranno e si racconteranno le proprie vicende disastrose, decideranno così di diventare festa-amici. Cosa accadrà?

Jingle Jangle – Un’avventura Natalizia

Jingle Jangle è un musical – fantasy con attori protagonisti Forest Whitaker (Jeronicus Jangle) e Madalen Mills (Journey), diretto da David E. Talbert e distribuito da Netflix.

Fonte: spettacolo.periodicodaily.com

E’ ambientato nella cittadina di Cobbleton, in cui vive Jeronicus Jangle con tutta la sua famiglia; è un famoso giocattolaio dalle magiche invenzioni che avrà dei problemi con il suo giovane apprendista. Infatti questo lo tradirà rubandogli la sua creazione più grande insieme al libro che custodiva i segreti delle sue creazioni. A salvare la situazione ci sarà la nipotina Journey, questa farà ritrovare la speranza al nonno e riuscirà a salvarlo dalla situazione grazie ad una vecchia invenzione da lui dimenticata. Ma niente sarà facile!

Krampus – Natale non è sempre Natale

Questo film dell’Universal Pictures, uscito nel 2015, è una commedia – horror che vede alcuni attori come Toni Collette (Sarah Engel) e Adam Scott (Tom Engel) e come regista Michael Dougherty.

Fonte: themacguffin.it

Mancano pochi giorni al Natale e tutta la famiglia si riunisce. Max, figlio di Sarah e Tom, crede in Babbo Natale e vorrebbe che in famiglia ci fosse lo spirito natalizio che invece manca. Durante una cena le cugine di Max leggono ad alta voce – e davanti a tutti – la lettera da lui scritta per Babbo Natale, provocando così uno scatto d’ira che lo porta ad urlare di odiare il Natale, strappando la lettera. Improvvisamente una bufera di neve causa un blackout; strani esseri iniziano ad invadere la casa attaccando i membri della famiglia, ma ancor peggio, arriverà il Krampus, un demone che punisce chi perde lo spirito del Natale. Riuscirà la famiglia a salvarsi da lui ed i suoi mostruosi scagnozzi?

Klaus – I segreti del Natale

Film d’animazione e avventura spagnolo di Sergio Pablos, distribuito da Netflix, uscito nel 2019 con un cast di voci (nella versione italiana) che comprende Francesco Pannofino (Klaus) e Marco Mengoni (Jesper).

Fonte: nerdevil.it

Jesper, figlio di un ricco padre esperto nel mercato postale, è incapace di compiere il lavoro da postino; così viene spedito dal padre nella piccola cittadina di Smeerensburg, un’isola deserta e ghiacciata, con il compito di consegnare 6000 lettere in un anno. Con gli abitanti divisi in due fazioni, da sempre in lotta tra loro, non è un’impresa facile. Nel corso della missione si imbatte in Klaus, un vecchio falegname con una casa isolata e piena di giocattoli (da lui creati) e in Alva, una maestra che vendendo pesce fa di tutto per risparmiare per andare via da lì. Klaus, vedendo un disegno fatto da un bambino triste, inizia insieme a Jesper la consegna di regali a tutti i bambini che attraverso le loro lettere chiedono la felicità. Cosa combineranno?

Nailed It / Sugar Rush 

Serie TV statunitensi trasmesse su Netflix dal 2018/19. Delle tanti edizioni e da numerosi Paesi troviamo anche le edizioni dedicate al Natale!

Fonte: news.newonnetflix.info 

Dei pasticceri, principianti e non, si sfideranno ai fornelli per aggiudicarsi il premio di 10’000$. A giudicare le loro preparazioni un team di giudici esperti. Ne combineranno delle belle!

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale

Avete presente quando fuori fa molto freddo e le braci sono quasi spente? Ebbene, ecco un ciocco di legno per ravvivare il fuoco del caminetto!

 Fonte: fotografia di Rita Gaia Asti

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale è una poesia di Gianni Rodari, edita da Einaudi Ragazzi e tratta da Il secondo libro delle filastrocche del 1985.
L’autore – insignito del premio Hans Christian Andersen per la narrativa per l’infanzia – racconta la storia di un passerotto infreddolito che scorge dal davanzale di una finestra una famiglia in procinto di fare l’albero di Natale. La invita quindi a lasciarlo entrare, perché possa non solo fare il nido sul loro abete e scaldarsi, ma anche dare gioia ai più piccoli di casa, che apprenderanno l’importanza di accogliere e proteggere anche la più piccola tra le creature viventi:

E per il vostro bambino
pensate domani che gioia

trovare tra i doni, dietro
una mezzaluna di latta,
fra la neve d’ovatta
e la rugiada di vetro.

Trovare un passero vero,
con un cuore vero nel petto

E’ una lettura adatta al periodo natalizio, accompagnata da illustrazioni gradevoli, capace di rasserenare l’animo e scaldare il cuore di grandi e piccini; particolarmente indicata per quei momenti di sconforto nei quali si avverte l’esigenza di alleviare le preoccupazioni.

                                                                                                                                                                                              Samuele Vita e Rita Gaia Asti

Il diritto di contare: quando il “limite” è solo nella formula

Nuovo incontro in collaborazione con l’associazione AEGEE-Messina per il cineforum #socialequity: il film della settimana è la pellicola del 2016 di Theodore Melfi, Il diritto di contare (Hidden Figures).

Voto UVM: 5/5; una pellicola che pur trattando tematiche importanti è scorrevole e mai banale

Ispirandosi a tematiche di equità sociale, il film racconta la vera storia di Katherine Johnson (conosciuta anche come Katherine Gobble) che con l’aiuto delle proprie amiche, negli anni ’60, lotta contro le mille discriminazioni subite in ambiente lavorativo (e non) per poter esercitare i propri diritti. Tra tutti, quello di contare: ossia quello di vedersi riconosciute le proprie capacità, il proprio potenziale, ma anche e soprattutto quello di essere considerata al pari dei propri colleghi.

Magistrali le interpretazioni di Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe, affiancate da Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.

(paoline.it)

La trama

Il film si apre con un salto negli USA del passato, mostrando una Katherine (Taraji P. Henson) in tenera età che studia presso un istituto per sole persone di colore (termine che con accezione dispregiativa veniva utilizzato per indicare la gente afroamericana). Sono gli anni della segregazione razziale e avranno fine solo decenni dopo. La bambina si distingue per le eccezionali doti matematiche, che le garantiscono di poter studiare nei migliori istituti.

Tornati al presente (nel 1961) Katherine ha trovato occupazione come addetta calcolatrice presso gli uffici della NASA assieme alle amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). Queste ultime – come la protagonista – aspirano entrambe a degli incarichi più alti ed adatti alle loro capacità ma che tuttavia non riescono a raggiungere, per via delle diffuse discriminazioni razziali dell’epoca.

Una svolta si ottiene in seguito alla promozione della protagonista, ammessa a lavorare per la Space Task Group. Quest’ultima, nata in occasione della “corsa allo spazio” contro i sovietici, mirava a mandare un uomo in orbita prima dei russi, ma come sappiamo, il primato è di questi ultimi che lanciarono in orbita di Yuri Gagarin nel 1961.

Da qui, molte sfide incroceranno i destini delle tre donne, che dovranno fare i conti con un computer IBM 7090 – che minaccerà il lavoro di molte addette del settore calcoli – e con una licenza d’ingegneria ottenibile soltanto frequentando dei corsi (presente in un istituto per soli bianchi).

(blog.screenweek.it)

«Un passo avanti per tutte noi»

La pellicola richiama un periodo di forte sofferenza per tutte le donne nere, riuscendo a mettere in luce una discriminazione subita a trecentosessanta gradi: intanto perché nere e successivamente perché donne. Le oppressioni che si riverberano nella vita di queste tre donne geniali ci mettono di fronte ad un grande quesito: dove saremmo oggi se il talento di molte di queste persone non fosse andato sprecato per stupide e immotivate discriminazioni razziali?

La particolarità di questo film è che, pur essendo ispirato alla lotta per i diritti civili, non ritrae enormi gesti clamorosi ed eroici: si tratta di persone che riescono a farsi strada grazie alle proprie armi e nello specifico quelle della mente.

E non è perché indossiamo le gonne… è perché indossiamo gli occhiali!

Questo è ciò che afferma la protagonista Katherine mentre passeggia col Tenente Jim, il quale mostra alcuni segni d’incertezza all’idea che una donna possa occuparsi di “cose così complicate”.

(comingsoon.it)

I vari volti dell’oppressione

Da qui, si evincono le oppressioni ricevute non solo dagli oppressori bianchi, ma per giunta dagli uomini neri che stanno al loro fianco. Tale caratteristica viene pienamente impersonata dal marito dell’amica Mary, il quale vorrebbe che lei fosse più presente a casa e la intima a non accettare le «concessioni dei bianchi, perché i diritti si dovrebbero pretendere». Una voce molto più radicale, che tuttavia investe il libero arbitrio dell’aspirante ingegnere. Ciò, tuttavia, non la fermerà dallo scegliere la strada più adatta a sé.

E ancora, naturalmente, non manca l’oppressione da parte di altre donne: la responsabile del reparto in cui lavorano le tre addette, interpretata da Kirsten Dunst, abbraccia il proprio ruolo di antagonista bloccando continuamente la strada a Dorothy che aspira a ricevere il ruolo di responsabile permanente.

Molti saranno gli ostacoli, molte le umiliazioni che si porranno sul cammino delle tre matematiche: a partire dalle difficoltà di trovare un bagno per gente di colore, passando per i famosi autobus coi posti a sedere per soli bianchi.

(rsi.ch)

Una valutazione finale

Insomma, un tripudio di tematiche che se non fossero state gestite con la massima serietà ed accuratezza avrebbero potuto mettere a rischio il film: fortunatamente quella che ci è stata servita è una pellicola seria ma leggera, dalla vena ironica (il classico “si ride per non piangere”) che coinvolge, che ci fa entrare nel mondo di una donna afroamericana negli anni ’60.

Riuscendo nell’intento, questo lungometraggio è riuscito a guadagnarsi varie candidature agli Oscar, tra cui quella a Miglior film, a Migliore attrice non protagonista (per Octavia Spencer) e quella a Migliore sceneggiatura non originale.

Una storia non certo facile da raccontare, ma da cui le giovani donne nere di oggi possono trarre ispirazione ed un sospiro di sollievo nel vedersi rappresentate. E questa componente non va affatto sottovalutata.

 

Valeria Bonaccorso

Milada: due dittature non bastano per annientare la forza di volontà

Alcune volte il cinema è uno strumento necessario per poter comprendere il passato.
I film rappresentano realtà storiche di primaria importanza, soprattutto quando raccontate dal punto di vista di chi le ha vissute in prima persona.

I libri svolgono una funzione fondamentale per la nostra istruzione ma con le pellicole cinematografiche – di norma – riusciamo ad immergerci maggiormente all’interno di un determinato contesto. Se questi film da un lato ci permettono di conoscere profondamente una verità, dall’altro ci servono per aprire gli occhi.

Questo è il caso di Milada (2017) diretto da David Mrnka e scelto dall’associazione AEGEE per il cineforum #socialequity; il film narra la storia di Milada Horáková, una giurista e politica cecoslovacca divenuta celebre per le sue battaglie, prima contro il nazismo e poi contro il comunismo.

La locandina del film – Fonte: praguesoundtracks.com

Trama

Negli anni 30 Milada Horàkovà (Ayelet Zurer) è membro del partito socialista nazionale cecoslovacco; moglie di Bohuslav Horák (Robert Gant), anch’egli membro del partito e madre di Jana (interpretata nelle sue fasi di crescita da Daniel, Karina Rchichev e Tatjana Medvecká) si mostra da subito riluttante nei confronti della Germania di Hitler.

La donna entra immediatamente a far parte della resistenza contro l’occupazione nazista diventandone uno dei membri di spicco; sarà scoperta ed arrestata dalla Gestapo che in un primo momento la condannerà a morte. Successivamente la pena sarà convertita in ergastolo e Milada verrà deportata – così come il marito – in un campo di concentramento.

Una volta finita la guerra e dopo essere sopravvissuta agli orrori dei tedeschi, decide di candidarsi in politica. Insignita della Legion d’onore francese continuerà a svolgere le sue funzioni ribellandosi alle continue minacce del regime comunista fino a quando verrà nuovamente incarcerata e torturata brutalmente perché considerata una spia.

Milada durante un interrogatorio sovietico – Fonte: hanavagnerova.com

Trascorrono i mesi e i sovietici non permettono a Milada neppure di ricevere visite dalla famiglia; sarà costretta a vivere in una cella minuscola e a subire vessazioni fisiche e psicologiche con il fine di costringerla a dichiararsi nemica dello Stato.

Milada difenderà il suo credo ed il suo operato e lo farà fino alla fine.

Regia e cast

Il lavoro svolto dal giovane regista David Mrnka è splendido; egli è stato capace di raccontare egregiamente i fatti tragici ma (purtroppo) reali che hanno afflitto la vita di Milada.

Dato il suo ritmo lento il film sembra essere quasi drammatico; tuttavia il regista ha deciso di concedere spazio a sotto-trame secondarie per far comprendere integralmente le vicende dell’epoca così da poter dare un tono fortemente biografico al film.

Concretamente, i due generi cinematografici sono come “mescolati” tra loro in modo tale da non far prevalere uno rispetto all’altro, ottenendo così la possibilità di poter narrare una realtà nuda e cruda facendo commuovere e riflettere allo stesso tempo lo spettatore.

Una scena del film – Fonte: imdb.com

La performance dell’attrice israeliana Ayelet Zurer (così come quella degli altri membri del cast) è lodevole; profondamente calata all’interno della parte riesce ad ottenere il massimo a cui un interprete possa aspirare: non far trasparire che si stia recitando quando lo si sta effettivamente facendo.

Milada come simbolo

Affermare che Milada Horáková sia un esempio per la lotta dei diritti umani è riduttivo (soprattutto in questi tempi). Oggi, termini quali dittatura vengono utilizzati in maniera del tutto impropria per alimentare in maniera becera le propagande e per immolarsi paladini di una lotta che – almeno nel nostro e in molti alti paesi democratici – fortunatamente non esiste.

Il processo a Milada, da lei stessa definito «buffonata» – Fonte: expres.cz

Utilizzare tali terminologie solamente per creare paure e per gettare fumo negli occhi è ampiamente vile e irrispettoso nei confronti di chi ha dovuto realmente sacrificare la propria esistenza per abbattere queste tirannie.

Ad oggi diversi Stati del mondo sono sottoposti a regimi dittatoriali veri e propri e Milada è come un ausilio per distinguere la vera dittatura da quella creata per incantare le masse.

Vincenzo Barbera

Borat 2 e la parodia all’ennesima potenza

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere. – Voto UVM: 4/5

Chi potrebbe essere così pazzo da girare un film in segreto durante una delle più grandi pandemie di tutti i tempi? Sacha Baron Cohen, ovviamente! Borat – Seguito di film cinema (per gli amici Borat 2) è approdato il 23 ottobre su Amazon Prime Video, giusto in tempo per le elezioni americane, e non ha fatto rimpiangere nulla della prima avventura del giornalista kazako.

Borat viene riconosciuto appena arrivato in America – Fonte: justnerd.it

La trama

Il film inizia con un rapido riepilogo delle pene che Borat Sagdiyev ha dovuto patire negli ultimi 14 anni dopo il disonore portato al suo paese a causa della sua prima pellicola. Per dargli un’altra possibilità, il presidente del Kazakistan affida al giornalista una missione: portare in dono al vicepresidente americano Michael Pence la più grande star del Kazakistan, Johnny la scimmia, al fine di ingraziarsi il presidente (Mc)Donald Trump.

Una volta in America, a Borat viene recapitata la gabbia che avrebbe dovuto contenere la scimmia. Con sua sorpresa però troverà la figlia Tutar insieme a un defunto Johnny. Ciononostante, il giornalista non si perde d’animo e decide che sarà proprio la figlia il regalo per il vicepresidente; ma prima dovrà renderla appetibile per un uomo americano.

Borat e la figlia Tutar – Fonte: leganerd.com

Un film unico…

Cosa rende la pellicola così unica nel suo genere? Sicuramente il fatto che, ad eccezione per i pochissimi attori protagonisti, tutto viene girato all’insaputa delle persone che – inevitabilmente – finiscono a far parte della storia. Il risultato di questo espediente è riuscire a mostrare la quotidianità degli americani nella sua sfaccettatura più intima, quella che magari non vediamo ai TG o che viene derisa sui social. Basti pensare al commerciante che − con naturalezza – consiglia a Borat il quantitativo di propano necessario per uccidere degli zingari o la pasticciera che non fa una piega alla sua richiesta di scrivere una frase antisemita sulla torta.

Cohen è bravissimo nel mostrare questa realtà a tratti anche brutale, rappresentandola in sequenze a loro volta brutali. Questa tattica non è mai fine a sé stessa, ma è mirata a far riflettere lo spettatore riguardo la direzione che la nostra società sta prendendo e quello che possiamo fare per migliorarla.

La parodia diventa dunque un’arma da usare non solo per suscitare ilarità, ma anche per sensibilizzare gli spettatori verso una giusta causa comune.

 

Borat travestito da Trump – Fonte: esquire.com

…e pericoloso

Il coraggio di Sacha Baron Cohen non si ferma certo all’aver girato un film durante una pandemia. Durante le riprese, infatti, l’attore si è trovato a dover affrontare diverse situazioni spiacevoli o da cui qualsiasi persona sana di mente si sarebbe tenuta alla larga. Per citarne qualcuna: è stato allontanato con la forza da un comizio del vicepresidente Pence ed è stato assalito dai partecipanti a una manifestazione di estrema destra (da cui è riuscito a scappare quasi per miracolo). Per non parlare poi della valanga di querele che già si porta dietro dal primo film e che non si sono risparmiate neanche in questo secondo capitolo.

Insomma, ogni volta che Borat va in missione farà sicuramente parlare di sé e arrabbiare qualcuno.

Borat alla manifestazione di estrema destra – Fonte: wumagazine.com

Perché guardare Borat 2?

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale e volgare, si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere su cosa è giusto e cosa è sbagliato.

In un mondo in preda ai drammi, ringraziamo Cohen per la boccata d’aria fresca che ha portato nel cinema e nella satira.

Davide Attardo 

Le cinque migliori interpretazioni di Leonardo DiCaprio

Ammettiamolo: qualsiasi sia il contenuto di questo articolo, le nostre scelte faranno storcere il naso a qualcuno. Ma se questo potrebbe essere visto come un nostro demerito, in realtà è soltanto il risultato dell’immenso talento di uno degli attori più “prolifici” della storia del cinema contemporaneo, capace di recitare sempre a livelli altissimi.

Vediamo dunque le nostre – opinabili ma inevitabili – scelte che, nella settimana del suo 46esimo compleanno, tentano di racchiudere l’intera filmografia di Leo in soli 5 titoli.

Shutter Island, Martin Scorsese (2010)

Uno dei titoli certamente più affascinanti targati Scorsese-DiCaprio, ma – paradossalmente – l’unico a non aver ricevuto nemmeno un candidatura agli Oscar (mentre gli altri 4 vantano un totale di ben 31 nomination e 9 statuette). Poco importa, sappiamo quanto sia stato un tabù – sfatato – per Leo il premio più ambito in ambito cinematografico, se la pellicola, oltre alla combinazione trama-soggetto-sceneggiatura davvero accattivante, può contare su uno protagonista straordinario.

Mark Ruffalo e Leonardo DiCaprio in una delle scene iniziali – Fonte: nospoiler.it

DiCaprio ci accompagna nei meandri della psiche umana, incarnando perfettamente quel tanto ricercato genere del thriller psicologico: la vita di un uomo in bilico tra finzione e realtà, tra presente e passato, raccontata da un interprete che si adatta perfettamente ai vari colpi di scena che il film offre, risultando sempre carico di sicurezza e risolutezza, ma anche emotività, fino allo smarrimento finale.

Tutta la poetica dell’opera si potrebbe riassumere con le ultime battute, pronunciate con un tono tale da far dubitare anche lo spettatore più distaccato, come solo i grandi attori sanno fare.

The Aviator, Martin Scorsese (2004)

Il film narra la vera storia di Howard Huges (Leonardo DiCaprio), un regista ed aviatore celebre negli anni 40 per avere implementato nuove tecniche di ripresa e per aver pilotato l’idrovolante Hughes H-4 Hercules.

DiCaprio è autore di un’interpretazione straordinaria e ed in questo caso occorre definirla anche coraggiosa.

Come si può evincere facilmente dalla pellicola infatti, Huges soffriva di una pesante forma di disturbo ossessivo compulsivo. Leonardo – in virtù della sua professionalità – ha deciso di immedesimarsi profondamente nel ruolo, cercando quindi di ricreare dei rituali da mettere in atto prima di dover fare una determinata cosa, così da poter comprendere meglio la patologia di Howard.

Fonte: ondacinema.it

Sostanzialmente l’attore ha provato a ricreare una mente alterata all’interno della suo stesso cervello: in pochi possono riuscirci. La truccatrice stessa ha dichiarato di doverlo “acchiappare” tra una scena e l’altra perché l’attore in preda ai suoi tic non riusciva a stare fermo.

The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese (2013)

Ennesimo titolo nato dalla perfetta collaborazione attore-regista, la pellicola racconta l’ascesa del broker newyorkese Jordan Belfort, ispirandosi alla biografia dell’uomo d’affari pubblicata qualche anno prima. Ancora una volta, DiCaprio sembra calarsi perfettamente nella parte: giovane, bello e spregiudicato, nell’immaginario collettivo gli agenti di borsa americani sono esattamente così.

Fonte: mymovies.it

Ma oltre gli stereotipi c’è molto di più, in un film che racconta gli eccessi, il cinismo “sfrenato” di una generazione di broker che hanno intuito alla perfezione come fare più soldi possibili, forse un po’ troppi: ecco che la vita viziosa dei personaggi entra in crisi, mostrando l’altra faccia della medaglia. Leo riesce ad esprimere tutto ciò con una performance che disturba quasi lo spettatore. Nei suoi occhi troviamo tutta la lucida follia dell’uomo d’affari, nelle sue parole – i frequenti turpiloqui fruttarono alcune critiche al film – tutti gli eccessi di chi vive costantemente al limite. Chi osserva la pellicola si trova così in uno stato che oscilla tra risate, esaltazione e ribrezzo, a tratti quasi pena.

È un film difficile che porta me stesso e la pellicola a rischio di molte critiche. È un atto di accusa contro quel mondo, non ci piacciono queste persone, ma ci siamo impegnati a isolare il pubblico nella mentalità in cui questa gente viveva, così da capire qualcosa in più della cultura reale in cui viviamo ora.

Lonardo DiCaprio si difende dalle critiche su “La Presse”

The Revenant, Alejandro González Iñárritu (2015)

Interrompiamo per un momento il duetto con Scorsese per parlare del film che ha permesso a Leo di ottenere la tanto agognata statuetta, che inoltre ottenne anche gli Oscar per miglior regia e fotografia. Possiamo affermare che i premi – per una volta – rispecchiano perfettamente i punti di forza della pellicola, che trae impulso da tutto il talento di DiCaprio, perfettamente diretto da Iñárritu e valorizzato dalla fotografia di Emmanuel Lubezki.

Fonte: taxidrivers.it

Il film è in parte basato sul romanzo Revenant – La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta (2002) di Michael Punke, che narra la vita del cacciatore di pelli Hugh Glass, in particolare l’episodio che, nel 1823, lo portò a dover tentare di sopravvivere durante una spedizione commerciale lungo il Missouri, abbandonato in fin di vita dai suoi compagni.

Pertanto, la trama – molto individualista –, la regia che sfrutta lunghi piani sequenza, la fotografia dai toni perfettamente adattati ai paesaggi spogli, sembrano cucite addosso al protagonista.

Tutto orchestrato per “consegnarli” l’Oscar? A posteriori, è facile dire di .

That’s all folks

Avevamo promesso 5 titoli, ma lasciamo l’ultima parte di questo articolo per le opinioni di tutti i lettori, cinefili e non. Come dimenticare la complessità machiavellica di Inception? E ancora, il capolavoro The Departed – Il bene e il maleun giovanissimo DiCaprio in Buon compleanno Mr Grapela brillantezza del personaggio Frank Abagnale in Prova a prendermi , per finire con Django Unchained, Il grande Gatsby e C’era una volta a… Hollywood. 

Film per tutti i gusti, che mostrano un DiCaprio versatile e diretto da grandissimi registi: a voi l’ultima parola.

Emanuele Chiara, Vincenzo Barbera

Oltre la notte, un thriller introspettivo per raccontare il terrorismo

In questo 2020 dilaniato dalla pandemia da Coronavirus, non avremmo mai potuto pensare che ci fosse spazio per nuovi attentati terroristici di matrice islamica in alcune città europee. Giorni fa i media ci hanno riportato i fatti di Nizza – già reduce di un attacco nel luglio 2016 – e di Vienna, che fino ad ora non era mai stata colpita.

Rimanendo in tema con i drammatici accadimenti di questi giorni, vi proponiamo la recensione di una pellicola del 2017 del regista Faith Akin “Oltre la notte”, che mostra un’altra faccia del terrorismo, spesso meno nota a molti.

Fonte: Mymovies, Diane Kruger

Trama

Oltre la notte è un film ambientato nell’odierna Germania. La protagonista è Katja (Diane Kruger), una donna tedesca sposata con Nuri (Numan Akar) uomo di origini turche che in passato è stato in carcere per spaccio di stupefacenti. I due hanno un figlio di sei anni di nome Rocco.

Fonte: Panorama, Katja e Nuri (Numan Akar)

La vita di Katja viene sconvolta in una sera, quando percorrendo la strada per andare all’ufficio del marito (in un quartiere turco della città) trova molti poliziotti, transenne e tanta gente accorsa sul posto.

C’è stata un’esplosione proprio lì dove lavora Nuri; sia lui che il figlioletto Rocco sono morti. Katja in poche ore del pomeriggio ha perso praticamente tutto il suo mondo. Dalle prime indagini della polizia tedesca emerge subito che davanti all’ufficio qualcuno ha piazzato e fatto esplodere un ordigno. Purtroppo il passato dell’uomo legato alla droga fa subito pensare agli inquirenti che fosse coinvolto in qualche losco affare o che fosse attivo politicamente o addirittura finanziasse qualche associazione curda. Katja, nonostante il dolore, è più lungimirante. Secondo lei è un attentato di natura xenofoba, probabilmente di matrice neonazista.

La storia vera dietro il film

Il nostro regista, di origini turche, si è ispirato ad alcuni episodi di cronaca nera avvenuti tra gli anni ’90 e i primi 2000 da parte di un’associazione terroristica neonazista e xenofoba, la NSU, ai danni della comunità turca e di alcuni greci residenti in Germania. La polizia tedesca ricercava gli stessi colpevoli nel ristretto giro dei contatti delle vittime e negli ambienti legati al traffico di stupefacenti all’interno di queste stesse comunità, quasi a voler trovare una giustificazione a quelle stragi. Anni dopo la NSU rivendicò la paternità di quegli attacchi.

Originalità

Non siamo davanti alle solite storie di terrorismo, kamikaze e fondamentalismo islamico. Siamo davanti ad un attacco sferzato da gente proveniente dal cuore dell’Europa, una strage di matrice europea quindi da parte di “bianchi; una radice ideologica opposta a quella cui siamo stati abituati nel recente passato.

Non ci troviamo nemmeno davanti al solito thriller, allo scenario da “spionaggio” per andare alla ricerca dei colpevoli. Quello di Oltre la notte è un racconto introspettivo in cui viene messo in evidenza il dolore di una donna colpita dalla grave perdita del marito e del figlio. Non viene quasi per niente in rilievo il profilo psicologico degli autori del fatto, il regista si concentra sul profilo delle vittime e su come Katja (interpretata lodevolmente dalla Kruger) affronta la situazione.

Sempre un thriller sì, ma a sfondo introspettivo.

Fonte: Mymovies

La pellicola si struttura in tre parti: la famiglia, la giustizia, il mare. Un crescendo di suspense durante questi tre episodi; a fiato sospeso vediamo Katja affrontare il lutto, ricercare spiegazioni, chiedere giustizia e a tratti vendetta. Non mancano i colpi di scena ma –sicuramente – gli occhi di un attento osservatore riusciranno anche a cogliere un barlume di speranza che in qualche scena segnerà le vicende drammatiche della nostra protagonista.

Fonte: Movietele.it

Un thriller drammatico tratto da fatti di cronaca che è riuscito a conquistare molti premi cinematografici, tra cui il Golden Globe per il miglio film straniero e la Palma d’oro per la miglior interpretazione femminile a Diane Kruger al Festival di Cannes.

 Ilenia Rocca