L’Avventura nel viale San Martino: sulle tracce di Michelangelo Antonioni

Messina mi ha colpito di più, come ha colpito tutti gli altri: è una città che si differenzia radicalmente da tutte le altre dell’isola” (Michelangelo Antonioni, La tribuna del Mezzogiorno, 8 dicembre 1958)

Prima di trasformarsi in fotogrammi le immagini del cinema prendono forma nel canovaccio della sceneggiatura. Partendo da questo presupposto, e da un incrocio attraverso i generi dell’arte, cercheremo di Leggere Messina con le inquadrature della macchina da presa.

È 1960. L’anno della Dolce Vita. L’immaginario è popolato di starlet e paparazzi. L’avanguardia sperimentale e l’esplorazione degli stati mentali sono un territorio vivo nelle mani dei cineasti. Fa sfoggio di sè un’Italia benestante, economicamente sicura, ma non per questo libera da inquietiduini e incertezze. Dieci anni prima Roberto Rossellini (clicca quì per il link all’articolo) aveva portato alle Eolie una troupe cinematografica, scontrandosi con l’asprezza delle rocce a picco e arrivando a inserire il paesaggio sullo stesso piano della solitudine esistenziale dell’attrice protagonista. Le difficoltà, non soltanto a livello di produzione, incontrare durante la realizzazione dell’Avventura (di cui ha parlato anche Antonioni, ad esempio nell’articolo apparso sul Corriere della Sera, Le avventure dell’Avventura) in un certo senso creano un sodalizio di emozioni con lo scenario con cui si scontrano: il mare perennemente scosso, gli ostacoli negli spostamenti e i problemi materiali durante le riprese sono stati un fattore non da poco nella riuscita dell’opera. Il film è il primo di una trilogia di lungometraggi che ha al centro il tema dell’incomunicabilità, seguito dal più noto La Notte (1961) con Marcello Mastroianni e L’Eclisse (1962). A questi può essere avvicinato Deserto Rosso, il capolavoro del regista, realizzato a colori nel 1964. I rapporti umani, specialmente quelli di coppia, sono attraversati dal tarlo del dubbio, dall’instabilità e dall’impossibilità di esprimersi, di confrontarsi realmente con i sentimenti. A una dimensione razionale, tipica del neorealismo, si oppone l’ombra dello smarrimento e dell’angoscia.

La sparizione di una ragazza appartenente alla borghesia benestante romana, Anna (Lea Massari), arrivata insieme a un gruppo di amici su uno yacht nell’isolotto di Lisca Bianca, vicino Panarea, è un espediente della trama che non incide sullo svolgimento complessivo del film, che si concentra tutto sull’amore tra Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti),  infatuati l’uno dell’altra durante la ricerca, pretestuosa più che interessata, di Anna. Molte le riprese realizzate in Sicilia; dalle Eolie (a Lisca Bianca, Michelangelo Antonioni tornerà nel 1983, girando un corto in ricordo dell’Avventura), Noto, Bagheria, Milazzo, Taormina e Messina. Le scene riguarderanno esterni, come quelli a Noto e alla stazione di Milazzo, ma anche l’interno di un treno che va a Palermo e ferma a Castroreale. L’Hotel San Domenico di Taormina sarà al centro di una serata mondana dove si ritrovano gli altri protagonisti e dove si consumerà il tradimento di Gabriele (nella sceneggiatura con una ragazza messinese, poi sostituita da una escort straniera), mentre la scena finale sulla terrazza, in un certo senso il perno concettuale del film, girata nello stesso albergo, mostrerà alle spalle di Claudia l’Etna coperta di neve. La luce fredda e la desolazione delle ambientazioni, nonostante si aggirino sul fondo delle vicende psicologiche, sono un fattore preminente nel cinema di Antonioni, come lo stesso regista ha ammesso. Per Nino Genovese, che ha curato il volume Messina nella sua Avventura. Omaggio a Michelangelo Antonioni, i paesaggi non rappresentano un fondale scenografico, ma hanno una preminente funzione stilistico-espressiva.

Nella scena di quattro minuti girata a Messina appare un campo lungo sul viale San Martino. Le riprese iniziano il 9 dicembre 1959. La strada è affollata da centinaia di ragazzi elettrizzati dalla presenza di una bella donna in abiti succinti. Gabriele è andato lì per parlare con un giornalista de L’Ora e avere delle testimonianze sui diversi avvistamenti che hanno coinvolto la fidanzata Anna. La sequenza principale avviene nel bar Grotta Orione. Quì Gloria Perkins (Dorothy de Poliolo) viene accerchiata. Poco dopo, quando finalmente la ragazza riesce a liberarsi grazie all’intervento della polizia, l’inquadratura si sposta di nuovo sul viale San Martino, all’altezza del negozio Lisitano (ancora oggi esistente). Alla fine dell’inquaratura si vede in lontananza lo stretto e l’incrocio col Viale Europa (Quartiere Lombardo). Al posto del bar Grotta Orione – un ritrovo all’epoca – adesso c’è un palazzo moderno al cui piano terra si trova un altro bar. L’episodio girato a Messina si è realmente verificato a Palermo, tuttavia Antonioni preferì non ambientarlo nel capoluogo perché i palermitani erano considerati più irascibili dei messinesi, e si temeva potessero opporre una maggiore avversione alla troupe che alloggiava al Jolly Hotel. Tantissime le testimonianze dei giovani che per 3.000 lire vennero coinvolti come comparse. Tra queste è particolarmente curiosa quella di Francesco Cimino, riportata nel volume di Nino Genovese, che viveva nella Casa dello studente di Messina e parlò del film anche con il rettore Salvatore Pugliatti. Il giovane faceva allora parte del Senato goliardico Accademico dell’Ateneo ed entrò in contatto, nel bar Irrera di piazza Cairoli, con dei componenti della produzione che diedero appuntamento il giorno dopo per un colloquio con Antonioni per affidargli il ruolo di un farmacista nella scena a Casalvecchio Siculo. Cimino sarà in seguito anche uno degli organizzatori del Festival dello Spettacolo universitario messinese.

L’Avventura è il primo film importante di Monica Vitti che, dopo questa parte, accompagnerà Antonioni in alcune delle sue pellicole maggiori. L’attrice ha un filo più diretto che la lega a Messina, avendo vissuto l’infanzia in città fino all’età di 8 anni. L’opera trionferà al Festival di Cannes nello stesso anno, ottenendo il plauso della critica, nonostante i fischi da parte di alcuni spettatori presenti che non apprezzarono l’inchiesta del triller trasfornarsi in analisi dell’interiorità umana. A quasi 60 anni di distanza il bianco e nero delle increspature del mare e degli scogli dell’isola di Lisca Bianca, l’ambientazione urbana di Messina in un periodo di fervore sociale e culturale, il vacillare sottile dei sentimenti d’amore, sono ancora elementi intatti di un capolavoro che ha condizionato la storia del cinema e la carriera del regista. Per celebrare il passaggio di Michelangelo Antonioni e la sua Avventura messinese, tra viale San Martino e viale Europa nel 2007 è stata posizionata una targa.

Bibliografia:

Omaggio a Michelangelo Antonioni. Messina nella sua Avventura, a cura di Nino Genovese, 2007

L’Avventura ovvero l’isola che c’è, Edizioni del centro studi di Lipari, 2000

Eulalia Cambria

Un borghese piccolo piccolo: la parabola della classe media

Film del 1976 diretto da Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo è tratto dall’omonima opera letteraria di Vincenzo Cerami. La vita dell’impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi (uno straordinario Alberto Sordi) scorre tra la sicurezza di un lavoro modesto ma sicuro, un altrettanto routinario ménage familiare e modeste aspirazioni.

Alle soglie della pensione il signor Vivaldi coltiva il sogno di “sistemare” il proprio figlio unico, diplomato ragioniere, presso il ministero in cui ha lavorato. Approfittando dell’imminente concorso pubblico, per conseguire il proprio scopo, utilizza l’arma della adulazione e della sottomissione al potente di turno ed agli esponenti dell’apparato politico-burocratico. Per amore del figlio non esita nemmeno ad affiliarsi ad una loggia massonica.

L’idillio immaginato da Giovanni viene sconvolto da un evento drammatico.

Il giorno del concorso, infatti, un evento fortuito, una rapina, una pallottola vagante, determinano la morte del figlio: il significato dell’esistenza del misero impiegato viene irrimediabilmente spezzato.

La moglie di Vivaldi (un’inedita Shelley Winters rubata ai fasti hollywoodiani), appresa fortuitamente la tragica notizia, viene colta da un ictus che la relega paralitica ed afasica in una sedia a rotelle.

Il signor Vivaldi abbandona il ruolo di misero ed ossequioso impiegato per impersonare quello dell’implacabile e spietato vendicatore, come Charles Bronson nel Giustiziere della Notte (1974).

Innumerevoli gli spunti di riflessione. Tra questi, lo sviluppo di un cupo dramma che assume i toni della tragedia greca, laddove le tranquille vicende umane vengono stravolte dall’intervento di un dio o del fato. Il paradosso sta nel fatto che il regista e l’attore principale sono tra i protagonisti assoluti della Commedia all’Italiana, eppure riescono mirabilmente a riprodurre le miserie, le aspirazioni e la rabbia di un uomo e forse di un’intera generazione.

Vivaldi rappresenta il prototipo di un borghese piccolo piccolo, che ha barattato i propri ideali (lo stesso nel film ha partecipato alla resistenza), la libertà e la dignità in cambio di un modesto posto fisso, di una modesta abitazione e di un altrettanto modesto ma certo futuro per il proprio figlio. Il mancato conseguimento del compenso pattuito per colpa dell’uomo o del destino, trasforma il mite e sottomesso impiegato in una belva assetata di vendetta.

Nell’opera letteraria, e dopo cinematografica, si coglie una capacità di prevedere le trasformazioni della società italiana ed occidentale: la classe media tradita dal sogno di benessere, segnata dalla crisi economica, intimorita dall’immigrazione, sgomenta dal senso di impotenza di fronte al fenomeno delinquenziale, abbandonerà i vecchi strumenti di rappresentanza politica ed erigerà muri, frontiere anteponendo la richiesta di sicurezza e tutela personale ai precedenti ideali.

Renata Cuzzola

Dogman: il ritorno di Matteo Garrone

Marcello (Marcello Fonte) è proprietario di una bottega di toelettatura per cani, il lavoro lo assorbe completamente, così come l’amore per la figlia Alida (Alida Baldari Calabria) e lo strano rapporto di sudditanza che lo lega a Simoncino (Edoardo Pesce), delinquente del quartiere che terrorizza tutti e tiene in pugno Marcello. Dopo l’ennesimo sopruso la volontà del protagonista di riaffermare la propria dignità prevale e il rapporto prende una piega del tutto inaspettata.

Lo sfondo è quello della degradata periferia romana, la storia è liberamente ispirata ad uno dei casi di cronaca nera più duri, la vicenda a tutti nota del Canaro della Magliana.

Il regista Matteo Garrone, ha chiarito che questo film non vuole essere una narrazione di come avvenne quel delitto ma si tratta di uno spunto per una nuova vicenda, che si basa principalmente su una riflessione a riguardo delle vite dei personaggi, dei loro pensieri, della genesi della vendetta che verrà progettata da Marcello. E’ il lato psicologico a venir messo a fuoco.

Marcello è un uomo buono, inoffensivo, vittima di soprusi da parte di Simoncino ma al tempo stesso benvoluto dalla gente del quartiere, innamorato dei cani, del suo lavoro, della figlia, ma non di se stesso. La sua esasperazione nasce da questo odio verso la propria condizione, condizione in cui però è lui stesso a mettersi ogni giorno subendo ancora e ancora. Ed è allora che esplode tutta la sua brutalità, violenta e crudele ma che non porterà a nulla, non risolve i suoi conflitti interiori.

L’interpretazione di Marcello Fonte è indecrivibile: il suo volto, la fisicità, l’espressione buona ma triste non avrebbero potuto rendere giustizia migliore al protagonista; Garrone come sempre si concentra sui volti e come sempre la scelta è stata impeccabile. Non per nulla il reggino Fonte si è aggiudicato il premio come migliore attore al Festival di Cannes 2018. E’ un film reale ma al tempo stesso astratto, come fosse atemporale, fuori da tutto. Le ambientazioni sono quasi sempre buie, l’atmosfera triste e violenta, il tutto accompagnato da un sentimento di paura e una malinconia lacerante.

Al tempo stesso una carica di suspence ti fa rimanere con gli occhi incollati allo schermo, il cuore che ogni nuova scena ha un balzo perche sai che qualunque cosa potrebbe accadere. Che dire? Garrone con questo suo ultimo lavoro si è superato, è pefetto sotto tutti i punti di vista. Anche la violenza che pervade viene raccontata e descritta con una tale bravura da renderla assolutamente indispensabile alla buona riuscita del racconto.

 

Benedetta Sisinni