Parthenope: l’accidental baroque di Sorrentino

Parthenope
Sorrentino in “Parthenope” rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. – Voto UVM: 5/5

Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è nei nostri cinema dallo scorso 24 ottobre il nuovo film di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri e Gary Oldman.

Parthenope: Sinossi

La bella Parthenope (Celeste Dalla Porta, da adulta con il volto di Stefania Sandrelli), ragazza partorita in mare, è così attraente da conquistare ogni uomo e donna e vive la gioventù in equilibrio tra una dimensione onirica e una realtà dolorosa. Dal 1950 al 2023, passando per il 1974 e il 1982, seguiamo un’epica del femminile senza eroismi, la cronaca del viaggio che è la vita.

Il “viaggio da fermo” di Paolo Sorrentino

Dice il regista: “a Napoli, dove puoi viaggiare stando fermo. Mi sembrava bellissimo questo meccanismo di identificazione fra una donna e la città stessa. ”

«È impossibile essere felici nella città più bella del mondo…».

Parthenope è il suo alter-ego e il riflesso di una Napoli ipnotica quanto problematica. C’è poi un cambio di scenario, che rappresenta l’età adulta della disillusione con i sobborghi della malavita: un presepe di povera gente allo sbando.

In questo film Sorrentino rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. E parallelamente c’è la storia di Napoli: il colera, il Sessantotto, lo scudetto.

I tanti volti dell’amore di Sorrentino

Parthenope vive la vita rincorrendo la poesia, la libertà della gioventù. “Non so niente ma mi piace tutto”, frase che spiazza e che tradisce, nella sua ingenuità, un’incredibile intelligenza.

Non si lega mai a nessuno, ma tra tutti quelli che la vogliono, la vediamo innamorarsi dell’intelletto e della profondità di tre soli uomini, gli unici a cui, tra l’altro, non si è mai concessa: il fratello Raimondo, il suo mentore e padre putativo, professore Marotta, e lo scrittore John Cheever.

Quest’ultimo, diventa un anello di congiunzione fondamentale tra il male di vivere suo e di Raimondo. “Raimondo vede tutto”, ha una sensibilità fuori dal comune e un’interiorità delicata quanto ingombrante. “Quando sai tutto muori triste e solo, hai conoscenze con l’indicibile”. Lo scrittore e il giovane sono dunque totalmente speculari.

Tra questi due estremi dell’emozione umana, troviamo Marotta, che esprime l’età adulta, la tranquillità in cui si comincia a “vedere”: non si è più tanto impegnati a vivere soltanto, e ci si può permettere il lusso di stare a guardare.

Parthenope
Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

La “grande bellezza” di Parthenope

La bellezza è come la guerra: apre le porte”, Cheever delinea la figura di una Parthenope talmente dirompente da sembrare sovrumana e misteriosa.

Il silenzio nei belli è mistero, nei brutti un fallimento”, dice ancora l’autore americano, prevedendo la complessa relazione che collega Parthenope al mondo: la sua carica erotica è anche l’ unica cosa che gli altri riescono a vedere, “le donne belle vengono sempre offese”, perché quando non si concede, viene sminuita. Nessuno sa interpretare i suoi silenzi: “a cosa stai pensando?” è la domanda più frequente, che si ripete in modo quasi assillante per tutto il film, e lei non risponde mai.

Libertà significa Solitudine: il complesso di Parthenope

Le sue scelte “distratte” di libertà, finiscono per farle terra bruciata intorno lasciandola invecchiare da sola: si fa specchio delle dive decadute che ha incontrato nel suo percorso: Flora Malva (Isabella Ferrari), e Greta Cool (Luisa Ranieri), che rappresentano l’inganno dell’apparenza, di chi non vive lo scorrere del tempo e resta bloccato nel proprio passato, rinnegando il mondo che cambia attorno a sé.

La collaborazione di Sorrentino con Saint Laurent per Parthenope

Il costumista del film ha lavorato con Anthony Vaccarello, attuale Direttore creativo di Saint Laurent, qui coinvolto in veste di Costume Artistic Director e produttore, di pari passo con quello del direttore della fotografia e dello scenografo.

“Non sono stati usati capi di repertorio di Saint Laurent: è stato realizzato tutto ex novo. Mi piace dare un colore a un personaggio per caratterizzarlo. Per Parthenope partiamo da colori forti quando è giovane. Nel finale, vanno a scemare, diventando sempre più pallidi.” – Anthony Vaccarello

Questa collaborazione è un chiaro esempio di come il cinema possa collaborare con la moda, forte del suo carattere evocativo, per raccontare una storia.

Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

Il gioiello cinematografico di Sorrentino

Questo film propone più volte campi lunghi in cui da Napoli passa su una Parthenope piangente che ci guarda e comincia a ridere mentre i suoni intorno a lei, da ovattati, si fanno sempre più chiari. Alcune volte la camera si sostituisce ai suoi occhi. Altre volte invece, c’è una rottura della quarta parete. In coda alla pellicola, Parthenope ci dice:

«A cosa stavo pensando? L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento… forse non è così».

Tutta l’estetica del film è volta al bello, all’eccessivo, all’immaginifico. Sorrentino offre molti momenti d’alta cinematografia, come un quadro dal gusto “accidental baroque”: la ragazza in lacrime con i rivoluzionari alla ribalta alle sue spalle.

Colonna Sonora di “Parthenope”

Il film intreccia lingua italiana e inglese: gira il mondo senza muoversi da Napoli, attraverso la musica folk spagnola e la disco portoghese, approda in America con Frank Sinatra, e finisce col cantautorato di Gino Paoli e Cocciante. Centrale, di quest’ultimo, il brano Era già tutto previsto, che racchiude in sé il messaggio della pellicola: era già tutto previsto, bellezza da una parte e dolore dall’altra.

 

di Carla Fiorentino

Dolan e il suo cinema “arcobaleno” per uscire dall’opacità

“Vorrei vivere in un film di Wes Anderson” cantavano, nel lontano 2010, I Cani, progetto musicale indie-pop nato dal cantautore e produttore romano Niccolò Contessa. Ma al giorno d’oggi, forse, e senza rischiare di essere troppo prolissi, alcuni preferirebbero poter dire: “Vorrei vivere in un film di Xavier Dolan. Quest’ultimo, un regista francese classe ‘89, colpevole a soli 26 anni di essersi aggiudicato la Palma D’Oro al Festival di Cannes con Mommy, commettendo così un vero e proprio parricidio estetico.
In quell’occasione, infatti, Dolan non solo si aggiudicò il Premio della giuria in ex-aequo con Adieu au Langage del padre della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard, ma dopo aver vinto il premio, il giovane regista affermò durante una conferenza stampa: “Le opere di Godard non sono film che mi interessano”.

Fu proprio con queste parole che l’enfant prodige del cinema francese iniziò la sua carriera. E ne passerà di tempo fino a quando Dolan farà un film che potrà mettere d’accordo la critica. Con l’uscita di La mia vita con John F. Donovan (2018), sulle pagine del Guardian si scriveva di lui:

“Dolan esplora ancora una volta temi importanti per se stesso e per il suo lavoro, ma senza curarsi troppo di capire se il pubblico troverà il suo film interessante, coinvolgente o almeno coerente”.

Ma quindi perché dovremmo voler vivere dentro un film di Dolan?

Semplicemente perché il suo mondo, contrariamente a quello di Godard, non è mai troppo opaco, con personaggi misteriosi e irrazionali e narrazioni poco comprensibili. Quello di Dolan è un mondo di continue sfocature e messe a fuoco, di primi piani a effetto, di attenzione maniacale su tutti i dettagli anche sui più minuziosi. Un mondo in cui tutto questo fa da contraltare ad una quotidianità quasi cinematografica.
E poi, Dolan viene criticato semplicemente perché nei suoi film ci parla di lui, della sua omosessualità e di come sia difficile viverla ed esprimerla senza sentirsi inadeguati in un mondo, – forse più vicino a Godard che a lui – troppo opaco per comprendere a pieno una tale sincerità.

Si è festeggiata proprio ieri, mercoledì 17 maggio, la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Ed è grave che ancora oggi molte persone LGBTIQ+ siano costrette a subire discriminazioni, abusi e violenze. È proprio in un mondo così, in cui l’omofobia è l’odio dei pochi che non sanno amare, che ognuno sente il bisogno di trovare il proprio “inno d’amore”. E perché non cercarlo proprio nel cinema, in film come il recente Stranizza d’amuri di Giuseppe Fiorello che nel raccontarci un tragico evento accaduto nella Sicilia degli anni ‘80, il delitto di Giarre, è riuscito a farci riflettere sul fatto che, nonostante il tempo trascorso, l’omofobia resta un problema ancora attuale.

Saremmo, forse, tutti più felici?

Cosa significherebbe immedesimarci in personaggi come Laurence Alia, professore universitario di letteratura francese che comunica alla compagna il proprio desiderio di intraprendere un percorso di transizione e diventare donna? E ancora, come ci comporteremmo se fossimo al posto di Frédérique, la compagna di Laurence? Decideremmo anche noi di restare accanto alla persona amata?

Laurence Anyways e il desiderio di una donna…, il film in questione, presentato al Festival di Cannes nel 2012 e che ha fatto ottenere a Dolan proprio la Queer Palm, è solo uno dei tantissimi esempi che potremmo fare guardando la filmografia del regista. E per Dolan forse il cinema sarà un modo per raccontare la sua vita ma di sicuro – e mi rivolgo alla critica – è anche un modo per farci capire che siamo tutti diversi, siamo tutti vittime di tabù e ruoli predefiniti, compreso lui, ma a volte per uscire da un mondo un po’ troppo opaco basta davvero poco.

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

 

*Articolo pubblicato il 18/05/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

“Il sol dell’avvenire” di Moretti: rivoluzione che sa di testamento

Tra omaggi continui al cinema e una satira dolcemente incisiva, Moretti si supera ancora! Voto UVM – 5/5

 

Se pensate che solo dal titolo questo film sia per un determinato pubblico, vi invito a cambiare idea. Se pensate anche che Nanni Moretti sia divenuto un anziano regista trombone che non sa più cosa inventarsi, vi sbagliate ancora.

Il sol dell’avvenire, – in concorso al 76esimo Festival di Cannes – è forse il film più completo della carriera del celebre regista poiché, ponendo al centro della trama le vicende del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, sviscera quelli che sono i pensieri di un uomo che deve fare i conti con sé stesso. Questo elemento in particolare, lo si evince dalla scelta di far dialogare i personaggi con egli, un fatto che nei film precedenti non accadeva quasi mai. Inoltre, Moretti lancia una critica spietata anche al mondo delle piattaforme di streaming, in particolare Netflix.

Però c’è del rosso e del giallo, il titolo rimanda a una canzone — a sua volta ripresa da una composizione russa — che parla di libertà; insomma, si può sapere a che punto vuole arrivare? Vuole forse confondere lo spettatore? Scopriamolo!

Sinossi

Moretti
Nanni Moretti e Margherita Buy durante una scena del film (fonte: ilfattoquotidiano.it)

“Io faccio un film una volta ogni cinque anni. Cosa ti costa vedere Lola una volta ogni cinque anni? E poi non va bene che faccio un film una volta ogni cinque anni qui bisogna stringere, accelerare.” Cit -Giovanni

Il film vede come protagonista Giovanni, un regista che decide di fare un film sulla posizione del Partito Comunista Italiano durante la rivoluzione ungherese, manifestatasi nel 1956. Come è noto, l’intervento armato sovietico pose il PCI in una posizione scomoda: il film, dunque, segue il conflitto tra il personaggio di Ennio (Silvio Orlando), segretario di un circolo romano del PCI e redattore dell’Unità, e la moglie Vera (Barbora Bobulova).

La moglie sposa subito la causa ungherese mentre il marito aspetta che sia il partito a prendere posizione. Al di fuori delle riprese, la moglie Paola (Margherita Buy, figura immancabile nei film di Moretti) che è anche la produttrice del film, si rende conto di non stare più bene con lui e si rivolge all’aiuto di uno psicoanalista. Tra questo e la relazione della figlia Emma (Valentina Romani, alias Naditza in Mare Fuori) con un ricco magnate polacco (Jerzy Stuhr), sembra che il regista vada in crisi.

La strategia del “film nel film”chiaro omaggio a Fellini — si rivela il pretesto per riflettere sulle proprie fragilità, le famose occasioni perdute e vari sentimenti con cui, inevitabilmente, tocca fare i conti durante la nostra esistenza.

La critica a Netflix

Una delle scene più esilaranti e incisive è il dialogo con i produttori di Netflix, giunto dopo che l’amico Pierre (Mathieu Amalric) è stato arrestato per truffa. Questi non vogliono produrre il film perché non rispetta certi parametri, come per esempio l’assenza di un turning point e momenti what a fuck. Semmai questa esclamazione dovremmo dirla noi povero pubblico insieme al regista, costretto a fare i conti con un’industria cinematografica che persegue esclusivamente i propri interessi per invogliare al consumo, senza interessarsi alla portata culturale e sociale di un prodotto cinematografico.

Il vortice interiore di Giovanni/Moretti

Il motivo per il quale si sostiene che questo film sia una sorta di testamento, risiede nel modo di voler raccontare una vicenda che, fondamentalmente, è solo un espediente. Le sequenze più incisive sono quelle in cui emerge l’interiorità inquieta del personaggio che oscilla tra ironia e riflessione sulla realtà e su sé stessi, elemento onnipresente nella filmografia di Moretti. Il dialogo tra i due giovani ragazzi al cinema che forse è la personificazione del primo incontro con Paola, e il regista che da adulto suggerisce le battute al giovane se stesso; le canzoni di Noemi e Luigi Tenco, Aretha Franklin e Franco Battiato in parallelo a frammenti rappresentanti le contraddizioni dell’essere adulti, il rimpianto di non aver vissuto una vita senza complicazioni. Passato e presente, dunque, si intrecciano nella mente di Giovanni/Moretti, invitando lo spettatore in sala a ridere insieme a lui come se ci fosse bisogno di semplicità. Non è male in fondo, probabilmente non serve essere pesanti con se stessi.

 

Un film che invita alla semplicità

Moretti
Frame del film “Il sol dell’avvenire”

La storia non si scrive con i sé, e chi l’ha detto? Cit. Giovanni

Con delicatezza, Moretti ci invita a ricordare che la storia, comprese le conseguenti sconfitte, non deve essere un peso insormontabile. Anzi, attraverso il dono dell’immaginazione possiamo liberarci! La scena più bella è proprio, forse, quella in cui a tavola i nuovi produttori coreani, la moglie, gli attori e il resto dei commensali si dedicano a immaginare il film in segno di gioia collettiva. La grande Storia non doveva per forza andare com’è andata.

Lo scopo dell’arte è quello di farci pensare a come le cose potrebbero andare diversamente, e nel caso del film di Moretti qualsiasi circostanza viene messa in discussione. E se il PCI avesse realizzato l’utopia di Marx ed Engels, la sinistra attuale risulterebbe ancora frammentata? Può darsi, meglio lasciare libera l’immaginazione.

Federico Ferrara

Aftersun: l’impronta indelebile dei ricordi

Un tenero e commovente dramma padre-figlia, che rimanda al tema doloroso della caducità degli attimi e del peso emotivo dei ricordi. Voto UVM: 5/5

 

Quella della fotografia è un’arte che ha il potere di immortalare degli istanti speciali della nostra vita e di fissarli nel tempo, per riuscire a testimoniare ciò che siamo stati e le esperienze importanti che abbiamo vissuto. Ripensare a momenti passati osservandone le foto, significa quindi poterne rivivere emozioni, colori e profumi, ed essere in grado di raccontarli anche a chi non li ha sperimentati in modo diretto.

E’ questo il concetto da cui parte la realizzazione di Aftersun, il recente film d’esordio della regista e sceneggiatrice scozzese Charlotte Wells, disponibile in Italia dal 5 gennaio sulla piattaforma di streaming Mubi e in alcuni cinema selezionati.

Ritrovata una sua vecchia foto scattata da bambina, durante una vacanza estiva con il padre, l’autrice ne trae ispirazione per dar vita al suo primo lungometraggio, presentato alla 75ª edizione del Festival di Cannes, e vincitore del Premio della Giuria French Touch.

La trama

Fatta eccezione per alcuni flashforward, la storia è ambientata in Turchia, in un’estate di fine anni ’90. La piccola ma perspicace Sophie (interpretata da un’esordiente Francesca Corio) parte da Edimburgo per trascorrere due settimane in compagnia del giovane padre separato Calum (interpretato da Paul Mescal, volto già noto per il ruolo nella celebre miniserie Normal People) in un piccolo resort turco di bassa qualità. Sin dai primi minuti della pellicola è evidente che il loro è un rapporto di complicità: i due prendono il sole, si tuffano in piscina e si divertono a giocare insieme a biliardo. Da un lato vi è un’undicenne dall’indole curiosa e vivace, sempre alla ricerca dell’approvazione del padre. Dall’altro un ragazzo appena trentunenne, dal temperamento molto più pacato e riservato, ma che cerca comunque a modo suo di adempiere all’importante e complicato ruolo di genitore.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Ma la struttura narrativa del film fa si che i personaggi si svelino lentamente da soli, e a poco a poco, senza forzare il ritmo, diventa sempre più chiaro il fatto che dietro il personaggio di Calum, in realtà, si celi un animo inquieto e malinconico, in preda a dei tormenti interiori dai quali prova a fuggire in silenzio, cercando rifugio nel rapporto con la figlia, con la quale sembra però non riuscire ad esprimere appieno le proprie emozioni.

La significativa raccolta di memorie

Le vicende dei giorni in Turchia sono documentate da Sophie attraverso una Handycam DV Sony, una videocamera digitale alla quale la bambina mostra sempre i suoi occhi sorridenti, mentre Calum viene spesso ripreso da una certa distanza, attraverso un vetro, sfuggente, o di spalle (come per simboleggiare la sua incapacità di essere decifrato).

L’intero film quindi sovrappone di continuo due piani narrativi: i filmini della vacanza e le scene vere e proprie, che rappresentano la ricostruzione di Sophie di quei momenti con suo padre. I nastri su cui registra l’intero soggiorno, le serviranno infatti da adulta, per poter rievocare tutte le sensazioni provate in quel periodo particolarmente sereno della sua infanzia, che purtroppo non tornerà mai più. Ma soprattutto, per quanto doloroso possa essere scavare tra i ricordi, questi la aiuteranno a trovare in essi molto più di quanto potesse cogliere in precedenza, e a comprendere meglio i motivi dietro i misteriosi comportamenti del padre.

Aftersun
Frame di ‘Aftersun’ (2022). Distribuzione: MUBI, A24

Un film dalla forte carica emotiva

Aftersun è un ritratto autentico e potente del rapporto tra genitori e figli, reso possibile grazie alla giovane rivelazione Francesca Corio e la strepitosa interpretazione di Paul Mescal, nei panni di una figura purtroppo mai abbastanza rappresentata: quella di un padre premuroso, ma al tempo stesso fragile ed insicuro, continuamente in lotta con sè stesso.

Tra le sequenze più toccanti ed emblematiche del film, una delle scene finali, in cui i due protagonisti, padre e figlia, si consumano in un tenero abbraccio danzando sulle note di Under Pressure dei Queen e David Bowie, canzone che rispecchia alla perfezione le battaglie “invisibili” affrontate da Calum, e l’ultimo ricordo di Sophie di quella parte della sua vita ormai passata.

This is our last danceThis is ourselves
Under pressure

Attraverso la tenera ma straziante storia del rapporto tra un padre e sua figlia, Aftersun è quindi un film che dimostra pienamente quanto la memoria possa rappresentare per noi un forte alleato, dal potere curativo, ed al contempo un terribile nemico, brutalmente doloroso. Vi sono infatti, nella vita di ognuno di noi, momenti che vorremmo non finissero mai. E quando purtroppo questi svaniscono, spesso ciò che rimane è soltanto la triste consapevolezza che non verranno mai più vissuti.

 

Giulia Giaimo

 

Parasite, Bong Joon-ho è da Oscar

Locandina del film – Fonte: ansa.it

Vincitore della palma d’oro al festival di Cannes 2019, con oltre cento milioni di dollari di incasso mondiale, il film sudcoreano è stato un successo commerciale, ma ha ricevuto anche il consenso della critica. Infatti, la pellicola è stata la 1ª in assoluto non in lingua inglese ad essere premiata come miglior film agli Oscar. Parasite si è inoltre aggiudicato altre 3 statuette: miglior film straniero, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.

È un film eclettico, una satira sociale, una commedia, un action movie, un film aperto come il cinema del regista Bong Joon-ho, che ha sempre spaziato tra i vari  generi cinematografici. Autore di bellissimi film come Memorie di un assassino, The Host e Snowpiercer, che nel 2013 fece parlare di possibili candidature agli Oscar.

La pellicola tratta del conflitto sociale tra poveri e ricchi, attraverso le vicende della famiglia dei Kim, poveri ma intelligenti, furbi e pericolosissimi e la famiglia dei Park, ricchi ma ingenui e sempliciotti. Entrambe le famiglie  sono composte da padre, madre e due figli, un maschio e una femmina.

Il regista, in modo brusco e incessante, rappresenta la condizione di povertà nella quale riversa la famiglia Kim, riprendendo in maniera grezza i bassifondi di Seul e gli alloggi seminterrati presenti, mostrandoci in particolare quello della povera famiglia, costretta a vivere di sussidio di disoccupazione. La pellicola subisce una svolta attraverso un escamotage narrativo, un Deus ex Machina, rappresentato da Min, il quale offre a Ki-woo, figlio della famiglia Kim, di impartire lezioni private di inglese al posto suo alla figlia primogenita della ricca famiglia Park.

 

Ki-woo e la figlia dei Park durante una lezione di inglese – Fonte: mymovies.it

Attraverso i movimenti sinuosi della sua camera, Bong Joon-ho mostra la differenza tra la bassa e l’alta Seul, composta da villette e abitazioni lussuose, poste tanto in alto da obbligare Ki-woo ad affrontare un percorso in salita che gli permetterà di raggiungere la fantasmagorica reggia della famiglia Park, che avrà un ruolo chiave durante tutto lo svolgimento della storia.

Il susseguirsi delle vicende porterà ad un attacco parassitario nei confronti della ricca famiglia dei Park, la quale verrà  astutamente raggirata dagli stratagemmi ingegnosi da parte dei Kim, che si dimostreranno più truffaldini  e menzogneri del Keyser Soze de I soliti sospetti di Bryan Singer, uno dei manipolatori più importanti della storia del cinema.

I Kim che recitano dei dialoghi – Fonte: cinemamonamouritalia.org

Tutti gli attori ci regalano delle magnifiche performance, calandosi perfettamente nei panni dei rispettivi personaggi, ma risulta doveroso evidenziare la magistrale interpretazione di  Song Kang-ho, Ki-Taek nel film e capofamiglia dei Kim, il quale era già presente nei tre film del regista sudcoreano precedentemente citati.

Da copione i protagonisti principali in questo capolavoro cinematografico sono otto, quattro per famiglia, però, quasi in maniera subordinata (ed è che qui stai il genio del regista), possiamo definirne un nono: la casa.

 La lussuosa casa dei Park – Fonte: iodonna.it

Ebbene sì, anche se non esplicitamente elencato, l’edificio dell’architetto Namgoong, rappresenta uno dei personaggi più importanti della storia, un edificio che dà l’idea del divario sociale, che a tratti, evidenziato dalla grande vastità della casa nella quale le camere sono disposte lontane l’una dalle altre, sottolinea la scarsa idea di famiglia unita che volevano rappresentare i Park.

Non possiamo infine non parlare della scelta musicale adottata dallo stesso regista, una scelta alquanto bizzarra ed a tratti ironica, della quale però vorremmo preservare l’identità, con la speranza di suscitare in voi  un po’ di curiosità che questo film realmente merita.

Vi lasciamo con una frase significativa pronunciata da Ki-Taek, che racchiude in sé la magnifica e dirompente energia di questo film: “Dobbiamo prendere il loro posto, i ricchi sono davvero fessi“.

Giuseppe Currenti, Davide Riganello