Siamo tutti “fate ignoranti”. Il significato della nuova serie di Ferzan Özpetek

La nuova serie tv conferma la genialità di Özpetek nel narrare il mistero dell’amore e della vita e ci fa sperare in una seconda stagione. Voto UVM: 4/5

 

«Perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene» affermava una saggia Monica Vitti ne L’eclisse (1962). Se ci pensate bene, quando baciamo o abbracciamo lo facciamo ad occhi chiusi. Possiamo conoscere perfettamente l’altro, vedere nitidamente il suo volto quando ne siamo innamorati? O il sentimento forse si nutre soprattutto sul nascere di quella necessaria ignoranza che serve a tenere in piedi l’illusione? Amore e conoscenza sembrano due binari che non corrono paralleli, ma tutt’al più qualche volta si scontrano in quelli che sono imprevisti incidenti di percorso, momenti rivelatori in cui apriamo gli occhi e scopriamo che chi ci sta accanto nasconde più segreti di quanti pensiamo.

Proprio in questo scontro, si incrociano Antonia (Cristiana Capotondi) e Michele (Eduardo Scarpetta), persone apparentemente molto diverse, due treni che deragliano in seguito alla morte di Massimo (Luca Argentero). Sono loro i protagonisti della serie tv Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, lanciata il 13 aprile su Disney Plus e remake dell’omonimo film che lanciò la carriera del regista italo-turco.

“Tutti abbiamo un segreto …”

Per chi non avesse visto il film del 2001 con Margherita Buy e Stefano Accorsi, tracciamo brevemente delle coordinate. Antonia e Massimo sono una coppia felicemente sposata da 15 anni che vive una comoda esistenza borghese in una villa con tanto di giardino sul lago. L’equilibrio idilliaco quanto monotono si rompe nel momento in cui Massimo muore e la moglie lo perderà due volte scoprendo che da qualche tempo il marito aveva una doppia vita e intratteneva una relazione addirittura con un uomo, Michele.

Mossa inizialmente dalla tipica curiosità masochista della donna tradita di scoprire sempre di più, Antonia si ritroverà a frequentare Michele. Si affezionerà così a lui e al suo gruppo di amici stravaganti, una vera e propria famiglia che di rito si riunisce nei pranzi domenicali, una “piccola comunità arcobaleno” che si difende dal mondo esterno andando orgogliosa della propria diversità.

Ma chi sono le “fate ignoranti”?

C’è ancora la stessa storia fuori dalle righe nella serie del 2022, riproposta fedelmente anche in alcuni dialoghi, nelle situazioni, negli interni e nelle atmosfere che compongono gli universi distanti di Antonia e Michele (la villa dove lei conduce un’esistenza ovattata è praticamente identica: stessi toni grigi, stesso arredamento geometrico). Ma c’è anche molto di più (o di meno, secondo qualche detrattore).

A partire dagli attori perfetti anche nei volti per i ruoli che incarnano: abbiamo i tratti da dama rinascimentale della Capotondi a racchiudere la purezza della moglie ingenua. E poi gli occhi sporgenti, quasi disturbanti di Scarpetta che mettono in discussione le certezze della protagonista, la verve di Carla Signoris, nei panni della madre quasi ingombrante nella sua frivola joie de vivre. Uno su tutti: Argentero, col tipico sorriso da ragazzo della porta accanto, solare e affascinante benché poco acculturato. Ma non finisce qui.

Özpetek, insieme a Gianluca Mazzella (regista di alcuni degli otto episodi), si prende stavolta tutto il tempo per dipingere nei minimi dettagli l’intero affresco di personaggi che circonda il triangolo Antonia- Michele – Massimo, le cosiddette “fate ignoranti”.

 Luce vs ombra. Serie tv e film a confronto

Perché Massimo non aveva solo un amante, “aveva una famiglia, un intero mondo”. E qui questo mondo, più che nel film, emerge in tutta la sua gioia ed esuberanza, che si manifesta nella solarità, nei colori caldi di quella tavola imbandita ogni domenica a festa, che contrasta invece con le tinte fredde (anche nel vestiario) di Antonia. Sparite sembrano le ombre della discriminazione, dell’Aids che aleggiavano sulla casa di Michele nel film del 2001 (un personaggio “tragico” come quello di Ernesto viene eliminato dalla sceneggiatura). C’è più  luce, il dramma lascia il posto a toni comici per narrare la magia di un gruppo di amici che si alimenta di condivisione, feste (e anche di pettegolezzi).

Lo spettatore ha il tempo di conoscere Serra (Serra Yilmaz), Vera (Lilith Primavera), Luisella (Paola Minaccioni) , Annamaria (una sottovalutata Ambra Angiolini) e tutti gli altri, di cogliere il senso di famiglia che li lega, anche in rapporto a Massimo che questa famiglia la vive. Qui un’altra differenza fondamentale col film: conosciamo Michele e gli altri ancor prima dell’incidente che sarà il preludio della scoperta di Antonia. La relazione di Michele e Massimo, la seconda vita di quest’ultimo qui non è clandestina, ma corre in parallelo a quella coniugale, ha la stessa dignità, lo stesso diritto d’esistenza.

La doppia vita di Massimo. Nella serie le due scene sono praticamente sincroniche.

Forse i tempi sono cambiati e adesso Özpetek può raccontare con più leggerezza un mondo quale quello LGBT che prima si nascondeva ai margini della società. O forse, andando più a fondo, ci accorgiamo che le storie di Antonia e Michele si sviluppano in parallelo perché entrambi sono “fate ignoranti” ( nel senso proprio del termine “ignorare”). Ad entrambi i punti di vista manca “qualcosa”.

Loro che pensavano di poter confinare Massimo nella galassia sicura del proprio sguardo, si trovano a scoprire invece che la persona che amiamo è sempre e comunque un universo sconosciuto, una stella che continua a brillare di luce propria, anche quando non stiamo a guardarla.

“Per quella parte di te che mi manca e che non potrò mai avere” (dalla dedica di Michele a Massimo, che Antonia trova dietro il quadro)

 

 Angelica Rocca

L’intarsio tra cinema e Sicilia al Taormina Film Fest

Lo scorso sabato è calato il sipario sulla 67esima edizione del Taormina Film Fest con la cerimonia di premiazione. Il Cariddi d’Oro (premio al miglior film) è stato assegnato al film Next Door di e con Daniel Brühl, che ha conquistato inoltre la Maschera di Polifemo come migliore attore. La Maschera di Polifemo per la categoria femminile è stata assegnata a Matilda De Angelis, per la sua impeccabile interpretazione nel film Atlas di Niccolò Castelli. Il Cariddi d’Argento è andato a Roberto De Feo e Paolo Strippoli, giovani registi di A classic horror story. Inoltre sono stati assegnati tre Taormina Arte Arwards, rispettivamente a Francesca Michielin, Anna Ferzetti e Ferzan Ozpetek.

Matilda De Angelis, vincitrice della Maschera di Polifemo come miglior attrice – Fonte: ciakmagazine.it

Oltre ai film in concorso, il grande protagonista del Festival è stato senza dubbio l’intarsio tra il cinema e la Sicilia; numerosi, infatti, sono stati gli appuntamenti e le proiezioni che hanno messo al centro questo profondo legame. Ripercorriamo insieme le tappe principali del viaggio attraverso questo prezioso intreccio.

Space Beyond

Apre la serie di proiezioni di “Cinema e Sicilia” -in collaborazione con Sicilia Film Commission e Fondazione Taormina Arte– il film-documentario Space Beyond (2020), dedicato all’astronauta siciliano Luca Parmitano. Diretto da Francesco Cannavà, Space Beyond è il racconto biografico della missione “Beyond” dell’ESA (European Space Agency), effettuata da Parmitano nelle vesti di colonnello pilota sperimentatore dell’Aeronautica militare e primo comandante italiano della Stazione Spaziale Internazionale.

Sei mesi di missione sulla ISS racchiusi in 82 minuti di film, con immagini inedite ed esclusive degli esperimenti scientifici svolti e delle attività extraveicolari effettuati durante la permanenza a bordo. “Il limite lo scegli tu, lo scegliamo noi come umanità come scienziati ed esploratori. Nel momento in cui lo scegliamo abbiamo un obiettivo da superare, poi sta a noi metterci tutti i mezzi necessari per poterlo superare. Per me Beyond, il termine “oltre”, è un contenitore e in un certo senso ci mettiamo dentro sia il limite sia il mezzo per superare questo limite” ha dichiarato Luca Parmitano.

Luca Parmitano – Fonte: ciakmagazine.it

Sulle tracce di Goethe in Sicilia

L’appuntamento successivo si è incentrato sul documentario Sulle tracce di Goethe in Sicilia (2020), del regista tedesco Peter Stein, che ha ripercorso le tappe del poeta connazionale attraverso l’occhio della telecamera. Il tema principale che merge dal diario di viaggio di Goethe è soprattutto la contraddizione tra la bellezza dell’Isola e le condizioni di vita della popolazione. Stein ha preso ispirazione proprio della bellezza dei paesaggi siciliani immortalati su un libro di fotografie; ha sottolineato inoltre di aver un profondo legame con la nostra terra, che lo ha premiato varie volte.

Peter Stein (a destra) durante le riprese – Fonte: ciakmagazine.it

Salviamo gli elefanti

Tre “corti cinematografici” -che affrontano il tema dell’integrazione- sono stati posti al centro di uno degli appuntamenti: stiamo parlando di La bellezza imperfetta (2019) di Davide Vigore, Scharifa di Fabrizio Sergi e Salviamo gli elefanti (2021) di Giovanna Bragna Sonnino. Quest’ultimo in particolare è stato proiettato in anteprima al festival e acclamato con una moltitudine di applausi da parte del suo primo pubblico.

Il corto, nonostante la breve durata, è denso di significato e rappresenta aspetti significativi della società siciliana. I due protagonisti sono Agata, donna ignorante e con una mentalità molto chiusa, e Orlando, bambino di origini italiane nato a Nairobi. Orlando è in vacanza con la sua famiglia e nella confusione del mercato del pesce si perde. Sarà Agata a proteggerlo e a portarlo con sé; i due sono molto diversi e questo porta a una impossibilità di incomprensione tanto verbale quanto culturale. Orlando ama gli animali, è un bambino molto intelligente, vive in una famiglia normale. Agata vive in un substrato sociale completamente diverso: parla prevalentemente in dialetto, non riuscendo a parlare bene l’italiano, è molto diffidente nei confronti degli animali; lavora come donna delle pulizie. Nonostante i contrasti iniziali, alla fine i due riusciranno ad imparare l’uno dall’altro.

Salviamo gli elefanti porta una certa innovazione nel mondo dei cortometraggi: racconta le vicende di una Catania povera, di una donna che, come molte altre, è invisibile nella società. Qui il tema delle differenze socio-culturali porta all’integrazione, alla comprensione del diverso: l’essere umano è sempre portato a temere il diverso, ma è proprio da esso che si andrà ad imparare e ad ampliare le proprie vedute.

Locandina di “Salviamo gli elefanti” – Fonte: ciakmagazine.it

Lo schermo a tre punte

Conclude il ciclo di incontri di “Cinema e Sicilia” l’opera Lo schermo a tre punte, del regista bagherese Giuseppe Tornatore, che ha dialogato con uno degli organizzatori del Festival -tramite la piattaforma online “Zoom”- prima della proiezione del film. Con lo stesso metodo della scena conclusiva del suo masterpiece Nuovo Cinema Paradiso, il Maestro ha unito diversi frame, tratti da oltre un centinaio di film legati alla cultura siciliana.

Attraverso la suddivisone in capitoli, Tornatore si è focalizzato sugli elementi comuni più presenti nei numerosi film visionati; vi è, così, un capitolo dedicato ai gesti, ai codici e al linguaggio tipici della sicilianità, uno dedicato alla Storia, uno alle carte geografiche dell’Isola, uno alle donne siciliane, e così via.

L’opera, dunque, non è altro che un’enciclopedia della cultura cinematografica siciliana, in continua evoluzione; proprio a causa di questa espansione, il regista considera il suo lavoro incompleto e ha ammesso che se dovesse aggiungere un nuovo capitolo lo dedicherebbe alle nuove generazioni.

Nonostante il lungometraggio sia datato risulta ancora funzionale ed irripetibile, un’intuizione geniale che esalta una cultura peculiare, bastarda, ricca e affascinante come quella siciliana.

Giuseppe Tornatore al Taormina Film Fest – Fonte: ciakmagazine.it

 

Sofia Ruello, Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

https://www.ciakmagazine.it/ciak-taormina/

Immagine in evidenza:

Acquerello ispirato al viaggio di Goethe in Sicilia – Fonte: ciakmagazie.it

 

Allacciate le cinture (2014) di Ferzan Ozpetek

Una storia d’amore raccontata in chiave moderna. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

Lecce, primi anni 2000.

Tre amici, Elena, Fabio e Silvia, lavorano in un bar del centro.

A sconvolgere la loro quotidianità è l’arrivo di Antonio, burbero meccanico palestrato dalle idee poco politically correct, con cui Silvia ha una relazione. Antonio non piace a nessuno, men che mai ad Elena, venticinquenne intelligente e di larghe vedute.

Tra i due tuttavia nasce qualcosa, prima basato solo sull’attrazione fisica, poi un sentimento più profondo.

Dieci anni dopo infatti Antonio è ancora a fianco di Elena; la coppia ha due bambini e procede tra alti e bassi: le continue scappatelle di lui e l’apparente indifferenza di lei che si dedica esclusivamente al lavoro trascurando anche la famiglia.

L’equilibrio si rompe quando Elena scopre di avere un tumore al seno: a sostenerla ci sono madre e zia e Fabio, l’amico di sempre.

Antonio invece innalza altri muri per proteggersi dal dolore.

 

 

Tuttavia la malattia di Elena sarà l’occasione per far riemergere parole non dette, sentimenti sopiti e una passione che in fondo non si era mai spenta.

A un primo sguardo, la decima pellicola di Ferzan Ozpetek non brilla certo di originalità per quanto riguarda dialoghi e trama.

Già lo slogan “Un grande amore non avrà mai fine” lascerebbe presagire la solita storiella melensa in cui c’è spazio solo per le vicende di due protagonisti, niente personaggi di contorno e nessun contesto di sfondo a rendere più pittoresco il tutto.

E invece non è così.

Come altri film del regista italo-turco, Allacciate le cinture può essere definito un film corale. Oltre a Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca),i classici opposti che per caso si conoscono e un po’ meno per caso si attraggono, spiccano personaggi quali quello di Egle Santini ( Paola Minaccioni), malata di cancro ai polmoni che la protagonista incontra in ospedale, la provocante parrucchiera Maricla ( Luisa Ranieri) e l’eccentrica zia di lei interpretata da una bravissima Elena Sofia Ricci.

Ozpetek come al solito cerca di dare voce un po’ ai drammi di tutti e di caratterizzare a tinte definite anche i personaggi secondari con le loro piccole fisse e follie quotidiane, abitudine ormai desueta anche nel panorama del cinema italiano.

Ma il vero tocco da maestro si rivela nel suo saper giocare col tempo.

Dilatato (come nel piano sequenza iniziale che insiste sulle gambe dei passanti sotto la pioggia) o contratto ( la narrazione a un certo punto salta un arco di ben dieci anni lasciando solo intendere gli sviluppi delle vicende dei protagonisti), non è mai il tempo a fare da padrone nella storia, ma è quest’ultima semmai e i suoi personaggi con le loro aspettative, gioie e dolori a dettarne la direzione.

Che è tutt’altro che lineare.

L’apice si raggiunge nella scena in cui Elena e Antonio tornano a mare, il luogo dove anni prima era scoppiata la passione.

 

 

Colpo di scena inaspettato: i piani temporali si intersecano e il racconto ritorna nuovamente alle vicende di dieci anni prima.

In Allacciate le cinture la memoria e il caso o, se si vuole azzardare, il destino mescolano le carte in tavola e passato e presente si confondono ad indicare che quando si tratta di sentimenti anche questi sono solo nomi convenzionali.

Forse anche la parola fine che Ozpetek, non a caso, non ci tiene a raccontare!

 

Angelica Rocca