Alberi in fiore

Il soffio del vento,
i teneri raggi di sole
che s’infiltrano nel cielo.
Nel cuore del verde prato,
bagnato dalla rugiada,
si trova un piccola foresta.
A un tratto una tempesta
si scatena nel silenzio.
Rami spezzati
da un albero in fiore.
Il fiore della vita,
di un futuro da costruire,
di un’anima rubata.
Agisce nell’ombra
quella spietata tempesta
che ruba i rami
da quei bellissimi
alberi in fiore.

 

Alda Sgroi

Sara Campanella: perché anche vivere ha un prezzo

Si chiamava Sara Campanella, aveva 22 anni, ed era tirocinante presso il Policlinico di Messina. Usciva da lezione, ignara che qualcun altro avesse già deciso come sarebbe finito il suo pomeriggio. È profondamente angosciante pensare che una ragazza della mia età non abbia più voce, che qualcun altro abbia deciso per lei. I suoi sogni, le sue paure, le sue speranze, tutto rimosso per mano della violenza che si è arrogata il diritto di scegliere al posto suo.

Questa tragedia non è solo un atto di follia individuale, ma un riflesso di una società che troppo spesso alimenta possessività e l’idea che l’amore debba essere conquistato, un mondo dove il controllo e il dominio spesso vengono scambiati per affetto. Nessuno dovrebbe mai temere che qualcun altro possa scrivere il proprio destino, eppure, troppo spesso, questa paura si tramuta in realtà.

Lui, l’assassino, si chiama Stefano Argentino, ed è il frutto di una società che fatica a distinguere l’emozione dall’ossessione, l’amore dal possesso e la gelosia, che è ormai sinonimo di qualcosa di incontrollabile. Il problema di fondo è pensare che sia proprio questa ad uccidere, mentre invece risiede chiaramente nell’incapacità di riconoscerla, di poterla gestire e di trasformarla in qualcosa di umano, senza lasciare che diventi un’arma.

Ignorare il bisogno di educare alle emozioni, di insegnare che il desiderio di controllo non è amore ma una distorsione di esso, è come voltare le spalle a un incendio credendo che si estinguerà da solo. Cresce così la paura della normalità di certi comportamenti, delle parole che minimizzano e giustificano, della società che preferisce voltarsi dall’altra parte, che si limita a condannare la violenza senza mai chiedersi davvero da dove nasca. È inutile insegnare a difendersi se prima non si insegna a non essere una minaccia.

In un mondo iperconnesso, la gelosia trova terreno fertile nel monitoraggio costante, nel bisogno morboso di sapere tutto, persino di possedere anche l’immagine digitale di una persona. Ma chi educa quindi a rispettare i confini anche online, a non scambiare la trasparenza con un diritto di controllo?

L’indifferenza e il silenzio sono complici di ogni tragedia. La morte di Sara Campanella, come quella di tante altre, è il drammatico risultato di un’educazione che troppo spesso ignora l’importanza di gestire le emozioni. Non si tratta di trasmettere conoscenze, ma di insegnare a riconoscere i propri limiti, a rispettare quelli degli altri e a gestire le emozioni in modo sano. Insegnare il valore del rispetto reciproco, dell’autocontrollo e della responsabilità, significa anche formare individui consapevoli, capaci di riconoscere i segnali di abuso, di gelosia tossica e di intervenire prima che si trasformino in violenza. Educare alla parità, alla comunicazione sana e all’empatia è fondamentale. Solo così possiamo prevenire tragiche conseguenze che nascono da fraintendimenti, insicurezze o desideri di dominio.

Sara Campanella era come me, come il ragazzo che siede di fronte a me, come chiunque legga queste parole. E oggi mi rifiuto di sentirmi fortunata per essere ancora viva, come se l’esistenza fosse un privilegio. Perché l’unico vero merito dovrebbe essere di vivere senza paura.

Asia Origlia

Sveglia, coscienza

Cara coscienza assopita,

è difficile scrivere, ancora una volta, di violenza di genere. Non perché manchino le parole, ma per l’inquietante consapevolezza che ogni lettera rischi di svanire come fumo.

Parlarne non è un atto di cortesia, né un esercizio di retorica. Non c’è spazio per la delicatezza, né per il buonsenso. È un gesto che lacera, che destabilizza. È un obbligo a confrontarti con la mostruosità del tuo torpore morale.

La violenza di genere non è un’astrazione, non è una cifra da relegare al margine di una pagina di giornale. È carne marchiata, è sangue che si coagula in silenzio. È una strage quotidiana che non conosce tregua.

E tu continui a guardare. Immobile. Impassibile. Indifferente.

Quante altre donne dovranno essere abbattute come bestie prima che tu smetta di dormire? Quanti nomi dovranno, ancora, essere cancellati dal respiro dell’esistenza perché un uomo si è arrogato il diritto di decidere, di possedere, di distruggere?

Ogni donna assassinata, ogni corpo lacerato sono una cicatrice che macchia la tua pace fatta di ipocrisia. È una sentenza che urla “complice” contro la tua inerzia.

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Fonte: pexels.com

Centinaia, migliaia, milioni di vite smembrate. Non sono numeri. Sono ossa frantumate, occhi svuotati, urla soffocate. Eppure, per te non sono che un sussurro irrilevante.

E no, non è normale. Non lo è mai stato. Ma continuiamo a vivere in una società che si nutre del marcio, che coccola il proprio disfacimento come un parassita vorace. Una società che si compiace nel giustificare l’abominio, con un linguaggio affilato e velenoso: “Non aveva denunciato”, “Non lo aveva lasciato”. Parole vuote, lame che incidono ferite già profonde. È sabbia gettata su piaghe aperte.

Di chi è la colpa? È della mano che uccide, certo. Ma è anche colpa tua, cara coscienza. Sì, proprio tua. La tua complicità è un sudario di silenzio, un manto di indifferenza che avvolge ogni crimine.

Ti nascondi dietro scuse patetiche, ti rifugi nell’illusione che non sia affar tuo. Ma sei tu ad alimentare il mostro. Sei tu a nutrirlo ogni volta che chiudi gli occhi, ogni volta che lasci che il sangue si rapprenda senza chiederti perché.

Adesso, però, ti guardo negli occhi. Senza indulgenza, senza concedere pietà.

Quante altre Giulia, Celeste, Patrizia, Roua, Sharon dovranno morire prima che tu ti svegli? Quanti altri corpi dovranno essere straziati prima che tu ti renda conto di essere complice di questa carneficina?

Il cambiamento non è un lusso, non è una concessione. È una rivoluzione. È lotta spietata contro ogni sguardo che si volta altrove, contro ogni parola che perpetua la tortura, contro ogni silenzio che alimenta il fuoco.

Allora, rispondi: quanto ancora? Quante lacrime dovranno ancora impregnare questa terra, quanti corpi dovranno essere ridotti in polvere prima che tu smetta di voltarti dall’altra parte?

Quanto sangue dovrà essere versato prima che tu, coscienza, decida di svegliarti e agire?

Giulia Tramontano, arriva la sentenza per il suo femminicidio

Il 25 novembre, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è arrivata la condanna all’ergastolo per Impagniatello.

Prima la scomparsa, poi la morte di Giulia

Il 27 maggio 2023 viene segnalata la scomparsa della giovane Giulia, ventinovenne di Senago incinta di 7 mesi. A denunciarne la scomparsa è il fidanzato e convivente di Giulia, il trentenne Alessandro Impagniatello. L’uomo racconta agli inquirenti di una lita avvenuta la sera prima della scomparsa e ipotizza un allontanamento volontario della giovane donna. La versione raccontata da Impagniatello non convince però gli inquirenti che iniziano a sospettare dell’uomo. Le indagini svelano subito la verità, Impagniatello ha una doppia vita e le tracce di sangue trovate nella sua auto fugano ogni dubbio. Dopo 4 giorni dalla scomparsa di Impagniatello confessa di aver ucciso la campagna Giulia.

Un caso brutale

Il caso sin da subito ebbe grande rilevanza mediatica non solo perché si trattava dell’ennesimo femminicidio ma, per i macabri particolari che emersero durante le indagini. Impagniatello aveva una doppia vita, oltra alla relazione con Giulia aveva un’altra relazione con una ventitreenne anch’essa rimasta incinta ma che scelse di abortire. Dal momento in cui Giulia gli comunica della gravidanza, Impagniatello tenta di provocarle un aborto dandole per mesi delle sostanze tossiche tra cui il veleno per topi. A scatenare definitivamente l’ira omicida è l’incontro tra Giulia e la madre di Impagniatello, avvenuto il 27 maggio, nel quale la ragazza venuta a conoscenza della doppia vita del fidanzato le racconta tutto. Impagniatello decide allora di uccidere Giulia con 37 coltellate, poi tenta più volte di dare fuoco al corpo, prova ad occultarlo per poi nasconderlo a poche centinaia di metri dalla loro casa.

La richiesta dell’accusa

Sin da subito l’accusa chiede il massimo della pena. Non ci sono dubbi sulla colpevolezza, c’è la confessione e ci sono tantissime aggravanti. È richiesto il giudizio immediato per omicidio volontario aggravato, interruzione non consensuale di gravidanza, occultamento di cadavere e crudeltà. Impagniatello viene sottoposto ad una perizia psichiatrica che ne accerta la totale capacità di intendere e di volere. Nel momento dell’omicidio è lucido,  lo dimostrano i tentativi di avvelenamento iniziati mesi prima, nel gennaio 2023.

Finalmente giustizia per Giulia

La sentenza emessa il 25 novembre accetta in toto la richiesta dell’accusa, fatta salvo la richiesta di aggravante per futili motivi li. La pena è l’ergastolo e 3 mesi di isolamento diurno per quello che è stato definito come un omicida capace di intendere e di volere con tratti di personalità narcisistici e psicopatici. All’ergastolo si aggiunge anche la condanna per interruzione di gravidanza non consensuale e occultamento di cadavere, imputazioni per le quali gli è stata inflitta un’ulteriore pena di 7 anni. Per la famiglia di Giulia la sentenza è solo un atto di giustizia e non di vendetta, il normale epilogo di una vicenda così tragica.

 

Francesco Pio Magazzù

 

Uccise la compagna in seguito ad un litigio, la Corte d’Appello dimezza la pena: ecco le motivazioni e i punti critici

Il 15 settembre scorso una sentenza della Corte d’Appello di Firenze ha stabilito uno sconto di pena di 13 anni rispetto alla sentenza di primo grado per Tun Naj Bustos, 32enne originario del Myanmar che il 24 novembre 2018 uccise la compagna di 21 anni, di origini cinesi, strangolandola in un ostello di Firenze in cui si trovavano in vacanza.

Un così repentino cambio di orientamento è stato motivato dai giudici d’appello sulla base di circostanze che renderebbero le attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti. In particolare: «Occorre valorizzare il profilo psicologico del comportamento dell’imputato nell’immediatezza del fatto», che, secondo le ricostruzioni, si sarebbe mostrato profondamente turbato dalla propria condotta già nei primi momenti successivi all’evento. La primissima reazione sarebbe stata, infatti, quella di chiamare i soccorsi e la polizia – un gesto, questo, che per i giudici d’appello dimostrerebbe la consapevolezza del disvalore della propria condotta da parte del giovane, diversamente da gesti di pentimento e scuse che, solitamente, tendono ad arrivare a distanza di tempo e solo a processo iniziato.

La sentenza di primo grado ed il successivo ribaltamento

Il 24 novembre 2018, Tun Naj Bustos uccideva la propria compagna (appena sposata) strangolandola nella camera di un ostello in seguito ad una lite: la vittima aveva mandato il compagno a chiedere una posticipazione del check-out, ma con risultati deludenti per la prima. Secondo la difesa, guidata dall’avvocato Francesco Stefani, si tratterebbe dell’ultima di una serie di sorprusi ed umiliazioni condotte dalla vittima nei confronti del suo cliente. Tuttavia, tali argomentazioni hanno trovato riscontro solo nelle parole dell’imputato. Un particolare motivo di frustrazione era quello della dipendenza economica di quest’ultimo dalla compagna, fatto ulteriore che si pone alla base della richiesta (avanzata dalla difesa) del riconoscimento di una circostanza attenuante della provocazione, tuttavia negata in entrambi i gradi di giudizio. E rimane fermo un punto fondamentale: nessuno costringeva il giovane alla convivenza con la vittima.

(fonte: lanazione.it)

In primo grado, svoltosi il 9 luglio 2020 con rito abbreviato (non più concesso per i casi di omicidio in seguito alla “Legge sul Codice Rosso” del 19 luglio 2019 n.69 – ma comunque applicato al caso di specie in ragione del principio del favor rei, ex art.2, comma 4, c.p.), la procura generale aveva richiesto una pena di 30 anni di reclusione per l’imputato. Poi il ribaltamento ed un primo sconto in grado d’Appello a 24 anni; infine a 16 anni. La Corte d’Appello avrebbe deciso di catalogare la componente psicologica dell’omicidio volontario in questione come dolo d’impeto, riconoscendone quindi il valore attenuante (una sorta di stato d’ira).

L’avvocato Stefani, pur ritenendosi soddisfatto del risultato, ha tuttavia annunciato il ricorso in Cassazione. Si precisa che, in media, la pena stabilita per omicidio volontario ammonta a 12,4 anni – laddove il Codice penale prevede un minimo di anni 21.

Profili di criticità della sentenza d’Appello

Una tale sentenza ha suscitato diverse reazioni negative da parte della pubblica opinione, che ritiene eccessivo lo sconto di pena operato dalla Corte di Firenze. L’ammontare della pena, tuttavia, è solo uno dei diversi profili di criticità apprezzabili in questo caso: bisogna partire da una considerazione principale, ossia la piena accettazione, da parte del reo, delle conseguenze delle proprie azioni. Tale condotta, pur meritando di essere tenuta in conto nella valutazione giuridica, è apparsa a molti come eccessivamente premiata, al punto da svilire la serietà del reato e la dignità della vittima.

Dall’altra parte ci si è chiesti, tuttavia, se 16 anni possano essere ritenuti “pochi” per una pena di reclusione.

(fonte: lanazione.it)

Un altro profilo di criticità è quello che riguarda il giudizio circa il dolo d’impeto: un orientamento giurisprudenziale affermato ritiene che, tra i vari requisiti, per la configurazione di questo tipo di elemento psicologico sia necessaria la sussistenza di un “fatto ingiusto altrui”, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale. E in ogni caso, secondo la Suprema Corte, l’attenuante in oggetto, pur non richiedendo i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, non sussiste ogni qualvolta la sproporzione fra il fatto ingiusto altrui e il reato commesso sia talmente grave e macroscopica da escludere o lo stato d’ira ovvero il nesso causale fra il fatto ingiusto e l’ira.

Il medesimo elemento psicologico è stato riconosciuto anche in un caso di omicidio scaturito da infedeltà coniugale nel quale il dolo d’impeto ha costituito risposta immediata ad uno stimolo esterno senza alcuna programmazione preventiva, per cui si è avuta una riduzione della pena in quanto l’assassino uccise per un impeto di rabbia, un’esplosione d’ira.

Ad oggi è fortemente messo in discussione dalla pubblica opinione il valore attenuante dello stato d’ira, in particolare nei casi di femminicidio. Alla base rimane sempre e comunque un problema di anacronismo tra l’evoluzione delle regole di convivenza sociale in un determinato momento storico e l’adattamento del diritto vivente a tale evoluzione.

A questo punto, non rimane che aspettare che sia la Cassazione a pronunciarsi circa l’eventualità di una revisione della pena oppure di una conferma dell’esito della sentenza.

Valeria Bonaccorso

Femminismo non è una cattiva parola

Ho una maglietta che dice “Femminismo non è una cattiva parola”. 
C’è stato un momento della mia vita in cui però l’ho pensato e come me, credo qualche altra ragazza. I ragazzi che incontravo, gli amici, anche qualche amica, quando mi apostrofavano “sei una femminista: è ovvio che dici così” “si seccherà perché è una femminista convinta” mi avevano gettata nello sconforto, quasi convincendomi di essere nel torto.
Non c’era cattiveria in loro, ma il dubbio si era fatto strada nella mia mente. Fortunatamente il periodo adolescenziale è durato pochissimo, i pensieri per me innaturali sono lontani e io sono felice delle convinzioni che si sono imposte e soprattutto di quelle nuove.

Le parole sono potenti, il bisogno umano di definire le cose fisiche e non è impellente, e le parole vengono utilizzare con accezioni differenti, nel caso di “femminista” intesa come “la donna arrabbiata”.
Abbiamo superato il periodo in cui per femminista era intesa una donna che rivendicava la parità fra i sessi e l’emancipazione della donna. Oggi l’ambito è molto più ampio, mantenerci radicati ad una definizione con il mondo che cambia quotidianamente è illusorio.
Io credo che questo sia il momento più bello per essere un/una femminista.
Siamo collegati da una necessità di cambiamento nella visione sociale dell’essere umano femminile e non solo.
Oggi si tratta di vederci come esseri umani e di essere trattati con la stessa dignità.

Il movimento “Women’s march” in USA ha avuto un fortissimo impatto mediatico e politico. Le donne in USA oggi si stanno presentando, in numeri mai visti, per le elezioni politiche che vanno dai seggi locali a quelli del senato.
Qui in Italia il movimento “Non una di meno” ha prodotto “Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere.” .
Laura Boldrini ha riempito la Camera di donne giorno 25 novembre per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Questi non devono essere eventi sporadici nel nostro paese, le Camere dovrebbero avere una percentuale maggiore di donne sedute. Donne competenti si intende, come d’altronde deve essere per gli uomini.
Rendermi conto che solo 12 anni fa è stato varato il dlgs. confluito poi nel Codice delle pari opportunità uomo donna mi ha infastidito e scoraggiata ma il cambiamento sta soffiando anche qui.

 

Quando ad ottobre 2017 si è scatenata la bufera Weinstein, ero scettica sull’effetto mediatico che avrebbe avuto in Italia ma subito è stato rimpiazzato da una forte rabbia per il modo in cui Asia Argento è stata trattata ed apostrofata.
Perché Asia Argento è una donna come tante, per alcuni indicata come fortunata sotto l’aspetto economico-sociale, ma è una donna in primis che ha subito quello che molte, moltissime altre italiane subiscono quotidianamente.
Mi ha fatto arrabbiare il fatto che alcune donne l’abbiano criticata e le sue colleghe non l’abbiano sostenuta come è successo invece con Rose McGowan, Annabella Sciorra, Rosanna Arquette (la lista è veramente lunga).
E se gli italiani storcono il naso perché si tratta di questioni “contaminate” dagli stranieri, ci sono le testimonianze di diverse donne che lavoravano per “Non è la Rai”  che a 16/17 anni si sono ritrovate sbattute contro una porta, usate come regalo per figli di politici, le agenzie che le prostituivano (perché questo facevano). Sapere che dietro certi ingegni c’erano alcune volte altre donne sdegna e irrita.
E coloro che si rifiutavano vedevano troncate le proprie carriere “hai ancora il rossetto? Non ti vedremo più cara.”.
Le donne dello spettacolo oggi sono i portavoce più potenti insieme ai politici.
In Italia è necessario che il dialogo sia quotidiano e forte, siamo un paese che ha memoria corta.
Asia Argento ha rotto il “glass ceiling” del silenzio in Italia una volta per tutte.

 

https://www.youtube.com/watch?v=VtUWs6muGzg

 

Io sono nata in una famiglia che non ha mai limitato le mie azioni perché femmina ma soprattutto sono cresciuta con una tribù di amiche che mi hanno sempre spalleggiato, se non fosse stato per loro alcune volte non avrei nemmeno provato esperienze.
Sono la mia forza e la mia continua sfida e rappresentano tutto quello che i legami fra donne significano.

Sono una privilegiata in questo paese e in questa città, me ne sono resa conto da troppo poco e questo mi fa arrabbiare ancora di più, per non essermi “svegliata” prima.
Il tempo per questa sonnolenza è scaduto.
Fin da piccole siamo abituate a far finta di non sentire i commenti e i fischi, di fare attenzione la sera tornando a casa, arriva poi l’età in cui bisogna far fronte alle avances fastidiose sul luogo di lavoro da parte dei capi e colleghi. Dal clima scolastico si viene catapultate in questo.
Certo gli abusi sessuali sono ben diversi da quelle che sono avances, ciò non toglie che alcune situazioni siano sgradevoli.
Un mondo al quale ci siamo abituate non vuol dire che sia giusto.

L’altro giorno con un’amica discutevamo del fatto che un ragazzo avesse detto ad un’altra amica, riferendosi al suo abbigliamento che , parafrasando, “si era vestita apposta per far avvicinare i maschi”.
Le ragazze si vestono in primis per sé e anche se il fine fosse altro ciò non giustifica l’altro genere ad arrogarsi il diritto di essere fastidioso ed insistente quando si mostra il disinteresse. Non ho mai visto in vita mia una ragazza insistere nei confronti di un ragazzo o dirgli che si era sistemato per attirare “le femmine”.
Sono sicura di non essere l’unica ragazza che quando mette una maglietta un po’ più scollata nota gli sguardi altrui, anche l’atteggiamento. Mi ha portato ad un istintivo senso di pudore che con difficoltà abbandono.
L’abbigliamento è espressione di sé, non un’autorizzazione per gli altri ad agire liberamente.

Noi ragazze non abbiamo la stessa libertà di espressione nel definire i nostri desideri e voglie per il nostro piacere come i ragazzi. Ragazzi abbastanza lungimiranti, si rifiutano di sentirmi parlare di certi argomenti, che sono invece centro di conversazione fra loro dello stesso sesso. Se ne parla solo dal loro punto di vista ed esigenze. È un limite per entrambi per differenti motivi.

L’anno scorso ho scoperto Alba De Céspedes e la sua corrispondenza con Natalia Ginzburg sul “pozzo” in cui le donne cascano. Dialogo di qualche decennio fa che mai come oggi mi sembra attuale:

“pensavo che gli uomini lo avrebbero letto distrattamente, o con la loro vena di ironia, senza intuire l’accorata disperazione e il disperato vigore che è nelle tue parole, e avrebbero avuto una ragione di più per non capire le donne e spingerle ancora più spesso nel pozzo. Ma poi ho pensato che gli uomini dovrebbero infine tentare di capire tutti i problemi delle donne; come noi, da soli, siamo sempre disposte a tentare di capire i loro. […] del resto – tu non lo dici, ma certo lo pensi – sono sempre gli uomini a spingerci nel pozzo; magari senza volerlo.
Ti è mai accaduto di cadere nel pozzo a causa di una donna? Escludi naturalmente le donne che potrebbero farci soffrire a causa di un uomo, e vedrai che, se vuoi essere sincera, devi rispondere di no. Le donne possono farci cadere nell’ira, nella cattiveria, nell’invidia, ma non potranno mai farci cadere nel pozzo.
Anzi, poiché quando siamo nel pozzo noi accogliamo tutta la sofferenza umana che è fatta , prevalentemente, dalla sofferenza delle donne, siamo benevole con loro, comprensive, affettuose.
Ogni donna è pronta ad accogliere e consolare un’altra donna che è caduta nel pozzo: anche se è una nemica […] uomini a spingerci nel pozzo. I figli pure sono uomini, e i fratelli, i padri; ed essi tutti con le loro parole, e più ancora con i loro silenzi, ci incoraggiano a cadere nel pozzo smemorante ove loro non possono raggiungerci e noi possiamo esser sole con noi stesse”

Ero totalmente ignorante di questa scrittrice italo-cubana e della sua vita incredibile. La persona che me l’ha fatta scoprire l’ha conosciuta grazie al corso di studi in Lettere e filosofia.
Perché in Italia il sistema scolastico non ci fa studiare queste fini penne e menti? Alle due citate possiamo aggiungere Goliarda Sapienza, Sibilla Aleramo e Giovanna Cecchi d’Amico, sceneggiatrice di moltissimi film (Il gattopardo, Ladri di biciclette, Bellissima, Rocco e i suoi fratelli giusto per nominarne un paio).
La scuola è il luogo dove ci formiamo culturalmente , è il luogo che avrà più influenza sulle nostre persone oltre la famiglia. È il luogo in cui si creano anche i legami di amicizia che ci si porterà dietro accomunando persone affini.
È qui che la conoscenza del pensiero femminile dovrebbe avere accesso, non solo all’università.
Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” notava proprio questa mancanza, con la storia inventata della sorella di Shakespeare.
È la cultura a fare la differenza nella percezione dell’altro.

Siamo il paese in cui la presidente della camera è una donna, di Emma Bonino, Concita De Gregorio, Dacia Maraini, Susanna Camusso ed Emma Mercegaglia, personalità notevoli nei diversi campi di espressione.
Ma siamo anche il paese di Lucia Annibali, Gessica Notaro, Serafina Strano, Sara Dipietrantonio e delle 84 donne uccise in 9 mesi, 8.480 denunce stalking, 3mila violenze sessuali nel 2017.

Il femminismo è solidarietà, accoglienza e supporto.
Gli slogan sono utili, per la chiarezza del messaggio, e le persone che si fanno portavoce ancora di più perché infondono coraggio.
Non siamo tutte Malala ma siamo donne e abbiamo il diritto di dire la nostra e fare il possibile. Anche gli uomini.
Si tratta della nostra crescita come popolo, “ci colpiamo noi mamme” mi ha detto una signora tempo fa. In parte, ci colpiamo noi figli se con il nostro intelletto e volontà non cambiamo questa condizione.
Il cambiamento non sarà immediato si agisce sempre per il futuro.
In questo flusso di parole spero troviate almeno una verità, affermazione a voi vicina che instilli in voi il desiderio del cambiamento e far comune questa battaglia.
Dialogo per raccogliere più opinioni possibili e conseguente azione per non scadere nella ostentazione di buoni propositi.

The Times They Are a-Changin’ non sono gli anni ’60, ma sono tempi di rivoluzione.

 

Arianna De Arcangelis

Femicide

scarpe-rosse-femminicidio“Perché questo titolo?” – chiederete.

Semplice, forse, immaginare che quello utilizzato sia un sostantivo simile a “femminicidio”.

Prima del 1801 non esisteva una parola che richiamasse l’uccisione della donna proprio in quanto donna; e a questo primo termine se ne approssimò un altro: feminicide.

Dopo il susseguirsi di definizioni, l’Italia del 2001 cominciò ad utilizzare la voce ormai tanto udita: femminicidio.

Mi piace adottare una definizione usata nel web per questa parola: “ È formata unendo insieme due parole, femmina e -cidio (uccisione) quindi, “uccisione di una donna” che di per sé non è una brutta parola, ma fa paura per il suo significato.

In effetti, è terrificante sapere che una donna ogni tre giorni è vittima di questa parola; è succube di una violenza inaudita, di varie forme, che si manifesta in maniera diversa su ogni donna.

Si presenta come una cicatrice sul volto o sul corpo di una donna, ma anche come quella profonda, che lede l’animo ferito dalle parole amare di chi le usa.

È quasi bizzarro, poi, credere o immaginare che esista una giustificazione a questi atti e che, oltretutto, questa sia “l’amore”.

Sì, “amore”: quel sentimento quasi spirituale, volto al bene di un’altra persona.

E allora come può un uomo dichiarare amore e praticare un vile atto su una donna? Com’è possibile questa assurda associazione o addirittura uguaglianza, fra amore e violenza?

Non è amore. È chiaro.

Ed ogni donna deve ribadirlo a se stessa, deve necessariamente capire che un uomo che ama non minaccia; un uomo che ama non lascia lividi; non insulta; non diventa uno stalker.

Non è amore, ma è ossessione, è perversa gelosia, è un malato senso di appartenenza, di possessione, insidi in un’oscura e vigliacca “persona” che si impossessa dell’essere altrui.

Che poi, cos’è la violenza?

La violenza non è altro che il mezzo più semplice a cui ricorrere, il mezzo dei più deboli, il più ingrato e triste.

La violenza è paura: una paura racchiusa tra i muri della propria casa; un terrore soffocato da urla fioche.

Ed è proprio nella vita domestica che si manifestano la maggior parte di atti del genere su una povera donna che si fida di un uomo che ama o che ha amato: è così che la questione diventa di dominio pubblico e non più un problema privato.

Ad ogni vita andata, ad ogni donna sfigurata, ad ogni animo spezzato, ci si chiede: come si può evitare tutto questo?

Parlare: mai stare in silenzio, mai giustificare; non esistono scusanti per dei gesti crudeli.

Sensibilizzare: è fondamentale educare alla conoscenza dei fatti e soprattutto al rispetto; non ricordare questi avvenimenti esclusivamente nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ma ogni singolo giorno.

 

Nell’angosciante fotografia della realtà, una donna su cinque è vittima di femminicidio; è bersaglio di ogni tipo di violenza sul corpo e/o sulla mente. Ognuna di loro aveva il suo nome, il suo lavoro, la sua famiglia, schiacciati da mani conosciute.

Non bendiamoci. Questo orrore è davanti ai nostri occhi.

Jessica Cardullo

Violenza: è l’ora di dire BASTA

 

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Imagine all the people, living life in peace

 

Se vi chiedessi: “quali sono i maggiori problemi esistenti nel mondo?”, voi cosa rispondereste? La fame, ovviamente, la povertà, i politici disonesti, la guerra, le malattie. Ma, secondo me, una delle più imponenti piaghe sociali è la violenza.

Noi siamo esseri umani e, come tali, siamo caratterizzati dal lume della ragione. Quel lume che si perde in alcune occasioni, quel lume perso che ci fa diventare aggressivi, cattivi, impetuosi. Quante volte si dice “è come se avesse perso il lume della ragione”?Scatta qualcosa, si perdono le inibizioni, i freni ed ecco che diventiamo feroci, che ci avvaliamo della violenza per imporci su altri esseri umani.

Sassari, Roma, Orlando, Santa Monica, Francia. Cosa accomuna questi cinque luoghi? Li accomuna il fatto che, nelle ultime ore degli ultimi giorni, sono stati sbattuti in prima pagina per atti di violenza. E così entriamo in campi molto delicati quali il femminicidio, l’omofobia, fino ad una delle più stupide motivazioni per cui ci si avvale di questa “arma”: il calcio. E poi, ancora: bullismo, terrorismo. Violenza psicologica, violenza fisica.

Siamo liberi di NON parlare, siamo liberi ma con dei limiti, siamo liberi dietro metaforiche sbarre. Gli uomini nascono liberi di poter vivere la propria vita come vogliono e, per mano di altri uomini, finiscono per non poterlo realmente fare.

In questi giorni sono ricominciate le campagne che dicono stop alla violenza sulle donne. Si legge sui giornali ”Sassari: ragazzo picchia la sua fidanzata, arrestato e rilasciato, torna da lei per vendicarsi a SPRANGATE o ”Roma: marito ammazza moglie perché non le ha sorriso quando lui desiderava”. Giorno dopo giorno si sentono storie di uomini che, imbestialiti da non si sa cosa, ammazzano una di noi. Una di noi: perché non importa se è una ragazza nata dall’altra parte del mondo, è una di noi, una sorella, una moglie, una figlia, un’amica. Sembrano storie così lontane da noi che non ci accorgiamo che, invece, sono così vicine. Oggi potrebbe toccare a me, solo perché mi sono fidata di dire “sì” a un caffè, solo perché ho detto “ti amo”, solo perché ho voluto costruire con te qualcosa.

Tutto questo, cento volte è stato detto a ognuna di noi, non è amore. E, se lo è, è un amore malato e bisogna dirlo, bisogna denunciarlo per salvarsi. Gli schiaffi, i pugni non sono amore. Questo NON È AMORE. Invece, per chissà quale motivo, quello che non viene reputato Amore (con la A maiuscola) è il sentimento che si instaura tra due persone dello stesso sesso. Due persone che si amano normalmente, senza schiaffi, senza coltelli, con qualche litigata fisiologica, se appartengono allo stesso sesso non sono normali. È contro natura. La sentite pure voi? Si chiama Omofobia.

Ed è così che ti ritrovi ucciso. Perché sei andato in un locale a festeggiare con il tuo ragazzo, con il tuo amore, a ballare, a divertirti e un pazzo entra e ti spara. E ti spara non perché, secondo alcune dichiarazioni, è facente parte dell’Isis (l’emblema contemporaneo del terrorismo e della violenza) ma perché ha visto due ragazzi omosessuali baciarsi e si è arrabbiato. Capite? Si è arrabbiato. Ah, ma non era l’unico: un uomo, diretto al Gay Pride di Los Angeles, è stato fermato, il 12 giugno scorso, a Santa Monica dove gli sono stati sequestrati fucili d’assalto ed esplosivi che, come da lui dichiarato, voleva utilizzare a quell’evento.

Ma se anche lo Sport, simbolo dell’unione tra i popoli e le persone, viene umiliato con notizie di tifosi che si picchiano tra di loro, dove arriveremo? Se anche questi Europei 2016, che dovrebbero rappresentare il mondo unito IN FRANCIA contro il terrorismo, vengono macchiati così, con queste disgustose notizie?

Il lume della ragione. Ma dove lo abbiamo lasciato, signori miei? Chi ci ha fatto credere che abbiamo il permesso di alzarci la mattina e andare a violare la libertà delle persone? Chi ci ha fatto credere che abbiamo il potere di giudicare qualcuno, di fargli del male se non è come noi o se non si comporta come vogliamo noi? Con quale sangue freddo riusciamo ad alzare le mani su un altro essere umano, a ucciderlo o a portarlo al suicidio?

Oggi è lunedì e io ho voluto iniziare la settimana con una parola: basta.

Adesso basta.

Elena Anna Andronico