Musicoterapia, un farmaco senza effetti collaterali

Chi al mondo non conosce la musica?

Siamo proiettati sin dalle prime percezioni sensoriali a sentire suoni, melodie, che ci accompagnano poi per tutta la vita. Infatti se da principio nell’Antica Grecia la musica viene intesa come prodotto dell’arte di ideare e produrre, oggi di sicuro è molto più che una semplice arte, è una costante, una compagna quotidiana.

Provando ad analizzare la tua ”giornata tipo” ti accorgerai che è una stabile presenza. Già la sveglia, la mattina, parte con una fastidiosa musichetta, il più delle volte. Ma anche con le pubblicità, o nei bar, discoteche, supermercati, saloni di bellezza, in macchina, in chiesa, palestre, perfino aspettando di parlare con un operatore telefonico, ciò che ti accompagna è la musica.

Cosa ti succede quando ascolti la musica?

Premesso che sentire ed ascoltare sono due azioni differenti (essendo la prima prettamente involontaria e l’ascoltare qualcosa di più attivo), il suono come onda meccanica giunge a livello uditivo e da qui a livello cerebrale.

Le parti del cervello coinvolte dagli stimoli sonori sono numerose. L’ ascolto di un brano musicale, può indurre degli effetti biologici su tutto il corpo e in particolare su:

-Frequenza cardiaca e pressione sanguigna: la velocità del ritmo musicale agisce sul ritmo cardiaco aumentandolo ascoltando musiche veloci mentre diminuendolo con quelle più lente, allentando tensioni corporee, l’ansia e le preoccupazioni. Come se il cuore volesse andare a tempo.
-Temperatura corporea: la musica ad alto volume può alzare la temperatura di qualche grado .
-Respirazione: ascoltare una musica veloce rende il respiro più dinamico mentre i ritmi più lenti provocano un respiro più profondo inducendo uno stato di rilassamento.
-Regolazione degli ormoni dello stress: l’ascolto di musiche rilassanti diminuisce il rilascio di ormoni dello stress come la secrezione di cortisolo; la musica inoltre può regolare il rilascio di ossitocina che regola lo stress, l’ansia e gli stati motivazionali affettivi.

Tutto ciò si esplica concretamente nel potere della musica di calmare, eccitare, concentrare e anche curare.

La storia della musica come terapia

La storia della musicoterapia inizia già dal ‘500. Il suo beneficio nell’ascoltarla, o dal crearne e riprodurne aveva già portato a pensarla come uno strumento terapeutico.
I primi passi concreti però li avremo solo dopo la Seconda Guerra Mondiale in America. Infatti negli ospedali, casualmente si vide quanto la musica giovasse ai pazienti, grazie ad alcuni musicisti che volontariamente vi si recavano per allietare le giornate dei veterani degenti. Da questo piccolo gesto di altruismo, nasce la consapevolezza di quanto fosse importante e quasi necessario questo strumento, ma anche di come prima ci volesse una preparazione preventiva.
La figura del musicoterapista come professionista si deve a tre importanti figure: Ira Althshuler, Willem van de Wall e E. Thayer Gaston, padri della musicoterapia. Al giorno d’oggi ci sono numerose associazioni professionali della musicoterapia, tra cui vale la pena citare l’American Music Therapy Association (AMTA), nata nel 1998, che è attualmente la più vasta associazione di musicoterapia del mondo.

Applicazioni della musicoterapia

La musica può essere considerata un fattore motivante per quei pazienti restii a sottoporsi alla psicoterapia o farmacoterapia;
Gli obiettivi principali della musicoterapia sono:
– ridurre le tensioni
– rimuovere le inibizioni
– facilitare la comunicazione
– stimolare l’attività sociale e individuale
– istaurare un processo che faciliti e favorisca la comunicazione e l’espressione delle emozioni

Demenze

La musicoterapia in questi pazienti si è dimostrata essere uno strumento di comunicazione con il paziente. Soprattutto nell’ambito della Alzheimer, alcuni studi hanno dimostrato ottimi risultati con miglioramenti della
-memoria a breve termine, l’ascolto di un brano conosciuto o a cui si è affettivamente legati può rievocare con molta precisione un episodio della vita;
-orientamento spazio temporale;
-tono d’umore;
-senso di identità;
-competenze espressive e relazional
i;
riduzione dei livelli di cortisolo, e con esso dello depressione, stress e delle compromissioni cognitive che possono scaturire da un incremento di questo ormone.

Terapia palliativa del dolore

Si tratta di programmi terapeutici attuati per lo più in pazienti oncologici in fase terminale. In alcuni studi condotti su persone affette da carcinoma epatico, i risultati sono stati sorprendenti: nei giorni in cui i pazienti effettuavano questa terapia, e soprattutto mentre la eseguivano, non avevano avuto bisogno di somministrazioni di antidolorifici come la morfina che erano soliti prendere nei giorni pregressi. 

Autismo

Nell’ambito dell’autismo la musicoterapia non solo migliora il comportamento, ma influisce anche sulla forza delle connessioni tra le aree cerebrali. In questa patologia c’è uno squilibrio tra le varie connessione neuronali, che sono accentuate. L’ipotesi è che le capacità di comunicazione sociale diminuirebbero a causa di tutta la sovra stimolazione sensoriale. Mi spiego meglio: immagina di parlare con qualcuno, mentre grida, in una stanza con luci molto forti percepite come flash. Quanto saresti in grado di relazionarti adeguatamente in questa situazione? Effettuando la RM durante la musicoterapia si è valutata una diminuzione delle connessioni tra le aree uditive e visive, che può portare a miglioramenti delle abilità sociali.  È possibile che diminuendo i sintomi sensoriali, le abilità sociali migliorino.

In conclusione anche se ad oggi la musicoterapia non è di certo così ampiamente utilizzata, si auspica che in un futuro possa essere maggiormente applicata essendo una metodica a basso costo, che può giovare a chiunque.
Vorrei inoltre proporti di guardare un bellissimo film proprio su questo argomento che si chiama ”La musica che non ti ho detto” e di dedicare sempre del tempo a te stesso, magari chiudendo gli occhi per un po’, dimenticando i tuoi problemi e
ascoltando un po’ di sana, buona musica.

Sofia Turturici

Bibliografia

https://americanamusic.org/node/495
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22743206/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/14689332/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26417751/
http://tesi.cab.unipd.it/51115/1/porcu.elisabetta.1048659.pdf
https://www.stateofmind.it/2018/06/musicoterapia-demenze/

Accordo vaccino Oxford-Pomezia: 400 milioni di dosi per la popolazione europea entro fine anno

In attesa dei risultati finali della sperimentazione, ormai alle soglie della fase II-III, l’Italia, insieme a Francia, Germania e Olanda, ha firmato un accordo con AstraZeneca che distribuirà il candidato vaccino elaborato dalla collaborazione Oxford-Pomezia.

L’annuncio è arrivato dalla pagina Facebook del ministro della Salute, Roberto Speranza che ha espresso molto entusiasmo per la potenziale cura, che in tempistiche così ridotte sembrava impossibile.

Il contratto con AstraZeneca, multinazionale svedese del settore farmacologico, prevede l’approvvigionamento di circa 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea.

La soluzione vaccinica potenziale nasce dagli studi dell’Università di Oxford , che coinvolgerà nella fase di sviluppo e produzione anche importanti realtà italiane.

Il vaccino sviluppato dallo Jenner Institute-Università di Oxford consiste in un adenovirus (il virus del raffreddore degli scimpanzé) svuotato del suo patrimonio genetico, quindi privato della capacità di infettare, e riempito della proteina Spike sintetizzata, cioè prodotta chimicamente in laboratorio. La Spike è indispensabile per il Sars-CoV-2 in quanto gli permette di entrare nella cellula umana. Il vaccino ha la funzione di stimolare nell’organismo attaccato dal Sars-CoV-2 la produzione di anticorpi contro la proteina e di prevenire la malattia. (fonte Corriere.it) 

L’impegno prevede che il percorso di sperimentazione, già in stato avanzato, si concluda in autunno con la distribuzione della prima tranche di dosi entro la fine del 2020.

Arriva dunque un primo promettente passo avanti per l’Italia e per l’Europa nella corsa al vaccino, unica risposta definitiva al Covid-19.

“All’Italia, che è stata la prima in Europa a conoscere da vicino questo virus, oggi è stato riconosciuto di essere tra i primi Paesi a dare una risposta adeguata. Dimostriamo che vogliamo essere in prima linea nella ricerca di un vaccino  e nelle terapie che allo stato attuale risultano essere più promettenti”, così ha commentato con la consueta pacatezza il Premier Conte.

Il candidato vaccino in questione, sperimentato sui macachi e già inoculato a volontari tra cui alcuni ricercatori, sarà testato in Brasile, oltre che in Inghilterra.

Il composto, al quale sta lavorando l’Università di Oxford in collaborazione con l’azienda Advent Irbm di Pomezia, coinvolge 5000 volontari sani nel Regno Unito, già selezionati, ed altrettanti nel paese sudamericano.

Allo Jenner Institute della Oxford University sono in corso i test al momento più avanzati in Europa.
Secondo il protocollo, la seconda e terza fase di sperimentazione prevedono la somministrazione ad un campione molto più ampio, per un totale di circa 10.000 volontari sani.

Dell’importanza di sviluppare uno o più vaccini per prevenire Covid-19 si sta parlando ormai da mesi; sarebbe sicuramente importante averne la disponibilità nel caso in cui dovesse arrivare la temuta seconda ondata.

I primi a ricevere il vaccino saranno i lavoratori della sanità e le persone a rischio, per età o perché colpite da certe patologie, e le forze dell’ordine.

Lo afferma il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi che in una intervista a Repubblica traccia la strategia per immunizzare il paese dopo l’annuncio dell’accordo con AstraZeneca per la produzione del vaccino.

La campagna di vaccinazione, infatti, verrà organizzata dal ministero della Salute e sarà gratuita, un po’ come succede con il vaccino antiinfluenzale che viene offerto alla categorie a rischio (over 65 e malati cronici).

Gli occhi preoccupati del mondo, e non solo, da mesi sono puntati su Oxford e sulla azienda AstraZeneca che nelle settimane scorse ha annunciato una capacità di produzione di 1 miliardo di dosi nel 2021 e che avrebbe avviato le prime consegne a Settembre, periodo nel quale sono attesi i risultati finali della fase III.

I primi a stipulare un accordo erano stati i britannici con la prelazione di 30 milioni di dosi; la compagnia aveva reso noto che stava lavorando ad accordi in parallelo con altri governi europei, per assicurare una ampia ed equa fornitura del vaccino nel mondo in risposta all’emergenza pandemica.

La società riconosce che il vaccino potrebbe anche non funzionare, ma che ha sicuramente contribuito nel progresso rapido del programma clinico e dell’avanzamento scientifico nella lotta al Covid-19.

L’Azienda ha fatto sapere che starebbe incrementando ulteriormente la sua capacità produttiva e che è aperta alla collaborazione con altre aziende al fine di rispettare l’impegno di sostenere l’accesso al vaccino senza alcun profitto durante la pandemia.

Grandi speranze scientifiche che nei prossimi mesi si potrebbero tradurre in importante realtà.

Antonio Mulone

Scoperto il primo farmaco specifico contro il Sars-CoV-2

Il Sars-CoV-2 ha sconvolto di punto in bianco la quotidianità del mondo, Stato per Stato e continente per continente. E se inizialmente le news che le varie testate giornalistiche riportavano erano poco rassicuranti ed i numeri delle casistiche erano neri come poche altre pandemie nella storia, adesso sono sempre di più i titoli che riportano notizie incoraggianti su diversi approcci terapeutici nella gestione della malattia. Ricerca che corre parallela a quella per un vaccino, indispensabile per garantire che, chi non sia stato fino ad ora contagiato, non lo sia nemmeno in futuro.

A che punto siamo

Fino ad ora le conoscenze sul SARS-CoV-2 sono aumentate esponenzialmente e di pari passo anche ai singoli approcci terapeutici. Avevamo già visto come primo baluardo l’uso del Tocilizumab, del Remdesevir, per poi passare all’eparina e concludere con una disamina di tutte le terapie sperimentali fino ad ora approvate in Italia. Tutti protocolli studiati (alcuni ancora in corso di studio) che hanno fatto ben sperare ed hanno dato risultati evidenti.

Prendere dei farmaci “in prestito” da altre patologie con le quali, la Covid-19, condivide il forte substrato immunogeno, ci ha permesso di attuare una resistenza attiva al virus e di limitare la mortalità entro certi range che altrimenti sarebbero stati di molto peggiori.

Poco però, fino a questo momento, si era riuscito a fare nella messa a punto di un farmaco specifico per il SARS-CoV-2.

La svolta

Negli scorsi giorni è stato raggiunto un nuovo traguardo, tra i più rilevanti, e cioè l’introduzione del primo anticorpo monoclonale umano altamente specifico per il Coronavirus. Si tratta un di un anticorpo prodotto artificialmente, che però presenta la stessa struttura e gli stessi meccanismi d’azione delle immunoglobuline (=anticorpi) prodotte fisiologicamente dai pazienti infetti, fondamento della recente terapia con il plasma.

Esemplificazione dell’interazione anticorpi (in viola) proteine spike del Coronavirus (in rosso). – Claudia Di Mento©

Il suo nome è 47D11 e potrebbe essere considerato il primo trattamento antivirale specifico per la Covid-19. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, conferma il lavoro condotto precedentemente dallo stesso autore Berend-Jan Bosch e dal suo team pubblicato su BioRxiv.

Per interferire con l’organismo umano, il virus richiede l’interazione di alcune proteine trimeriche di superficie, dette Spikes, con il recettore cellulare ACE2. La proteina Spike presenta una porzione S1, che si occupa del legame, ed una porzione S2 che si occupa della fusione della membrana del virus con la membrana cellulare dell’ospite.

In particolare è a carico della regione S1 che si trova il Receptor Binding Domain (RBD) che è il target dell’immunoglobulina artificiale. Bloccare questo sito, significa impedire il legame del SARS-CoV-2 e determinare l’impossibilità di quest’ultimo di infettare nuove cellule. Si tratta del primo risultato scientifico in grado di bloccare il virus all’opera.

In basso vediamo come i topi che presentano produzione anticorpale riescano ad inibire il legame della proteina spikes al recettore ACE2. Fonte:https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867420302622

Ma lo studio non si è limitato solo a questo. Gli esperti hanno infatti confrontato altri membri della famiglia Coronaviridae, in particolar modo SARS-CoV e MERS-CoV. Sappiamo che tra questi ed il nuovo SARS-CoV-2 esistono numerose analogie in determinate regioni geniche.

47D11 lega una regione che è altamente conservata (RBD), spiegando così la sua capacità di neutralizzare in modo crociato sia il SARS-CoV, che SARS-CoV-2. Si rende perciò possibile anche uno scopo terapeutico nei confronti della famosissima SARS del 2003. Per la MERS, invece, i risultati sono stati contrari.

Ma queste scoperte non dovrebbero stupire più di tanto, in quanto Berend Jan Bosch non è infatti nuovo al mondo della ricerca in questo campo, avendo già studiato da vicino la SARS ed avendo con sé un background di tutto rilievo. Che abbia trovato la via più rapida per risolvere il problema contemporaneo?

Si noti l’affinità di 47D11 con SARS-CoV e SARS-CoV-2, ma non con MERS-CoV. Fonte: https://www.nature.com/articles/s41467-020-16256-y

Conclusioni

La domanda che tutti si pongono è: è forse il primo passo concreto verso una cura specifica? Probabilmente sì. I test, eseguiti in atto solo su cellule in coltura, fanno ben sperare e l’utilizzo sull’uomo non sembra poi così lontano.

Ma il potenziale di 47D11 non si limita solo alla cura dei soggetti affetti, si stanno vagliando infatti anche le ipotesi che possa essere utilizzato per i tanto richiesti test sierologici, ma soprattutto che possa essere sfruttato per la messa a punto di un vaccino efficace. Trattandosi infatti di un anticorpo umano, riduce di molto eventuali rischi nel suo utilizzo e soprattutto i tempi di preparazione, che non tengono conto del passaggio da specie intermediarie, come ad esempio i topi nel caso degli anticorpi chimerici.

Insomma, sembrerebbe solo questione di tempo. Che si riescano a prendere due piccioni con una fava?

                                                                                                                            Claudia Di Mento

Scoperto farmaco contro il Coronavirus: i prossimi passi verso l’ufficialità

A pochi giorni dall’isolamento del Coronavirus (genere 2019-nCoV) ad opera del team di ricerca coordinato da Maria Rosaria Capobianchi dell’Ospedale Spallanzani di Roma, giungono altre buone notizie, questa volta dagli Stati Uniti, California. E’ un comunicato stampa dell’azienda biofarmaceutica Gilead Sciences a offrire nuove speranze nella lotta al coronavirus di Wuhan. In coordinamento con le autorità mediche cinesi è infatti stato possibile somministrare ad un piccolo numero di pazienti un farmaco antivirale sperimentale, il remdesivir. I risultati ottenuti sono promettenti.

Molecola di remdesivir

Il remdesivir aveva già mostrato attività in cavie animali infettate dai differenti generi di coronavirus responsabili delle epidemie di inizio millennio. Tra queste la SARS (sindrome respiratoria acuta grave) nel 2002 e la MERS (sindrome respiratoria mediorientale) nel 2012. Si tratta di un analogo nucleotidico: i nucleotidi sono le unità elementari che costituiscono il DNA. Il remdesivir viene incorporato nella catena di DNA virale al posto di un normale nucleotide e ne provoca il blocco della sintesi.

Il farmaco ha mostrato in vitro attività inibitoria sulla replicazione del virus 2019-nCoV ed in vivo ha ridotto la sintomatologia nei pazienti contagiati. Ne è stato autorizzato l’utilizzo compassionevole negli Stati Uniti. Tuttavia è necessaria una rapida programmazione di studi clinici (randomizzati controllati) per determinare la reale efficacia ed il profilo di sicurezza del farmaco. A tale scopo, al Friendship Hospital di Pechino sarà avviato uno studio placebo vs remdesivir su 270 pazienti con polmonite causata dal virus.

In questi attimi nei laboratori di tutto il mondo si sta studiando l’attività di numerosi tipi di molecole sulla replicazione del virus. E’ notizia di oggi (5 febbraio) che un gruppo di ricercatori cinesi guidati dalla professoressa Li Lanjuan della Zhejian University avrebbero identificato ulteriori due farmaci antivirali particolarmente efficaci contro 2019-nCoV: l’Abidol e il Duranavir. Si tratta però di sperimentazioni in vitro e pertanto le molecole necessitano di essere inserite in protocolli di ricerca di più lunga durata per valutare i reali effetti sui pazienti e scongiurare il rischio di reazioni collaterali. L’OMS infatti allarma: <<Non ci sono ancora terapie efficaci riconosciute contro 2019-nCoV>>.

Alla luce di queste considerazioni riveste ancora più importanza l’isolamento del virus allo Spallanzani di Roma. Difatti era già stato isolato il 10 gennaio a Wuhan, ma è di fondamentale importanza comprendere come il coronavirus si modifichi nel tempo per mettere in atto un’altra strategia nella lotta al patogeno: la formulazione di un vaccino.

Conoscendo la struttura del virus possiamo infatti individuare le proteine che lo costituiscono, comprendere se si adattano o si modificano nel tempo; sulla base di queste conoscenze identificare le proteine immunogene e disegnare su queste un vaccino. Piccole parti totalmente innocue di virus sono in grado di scatenare la risposta immunitaria dell’organismo umano.

Se in un secondo momento l’organismo entra in contatto col virus, il sistema immunitario sarà in grado di riconoscere quelle piccole proteine, attaccarle, neutralizzare il virus e prevenire l’infezione. Tuttavia anche in questo caso la formulazione di un vaccino sicuro richiederà mesi.

In attesa che la potenza tecnica della scienza porti alla luce un farmaco efficace, è auspicabile che i protocolli di igiene attuati dal OMS a livello globale favoriscano la riduzione dei contagi e, come conseguenza diretta, la circoscrizione ed il controllo dell’epidemia.

Mattia Porcino