Numeri ed evidenze scientifiche contro le fake dell’infodemia: un invito all’equilibrio

L’insegnamento principale che possiamo trarre dall’anno appena trascorso è che siamo tutti profondamente diversi, in maniera non sempre prevedibile e non immediatamente evidente.

Abbiamo appreso che la COVID può evolvere in modo completamente differente in diversi individui: da casi totalmente asintomatici fino alla necessità di ricovero, che in alcuni casi non viene superato. Il tentativo di giustificare tali differenze sulla base del sesso, dell’età o anche delle patologie concomitanti non è sempre sufficiente.

Basta pensare che due soggetti identici, come due gemelli omozigoti, possono sviluppare una malattia con severità diversa. Il New York Times riporta la storia di due gemelle americane, Kelly e Kimberly, infettate nello stesso contesto: la prima ha sviluppato solo sintomi moderati, mentre la seconda ha trascorso più di un mese in terapia intensiva.

Tanta diversità dipende quindi da caratteristiche complesse, che non sono scritte solo nel DNA, e che quindi sono impossibili da valutare a priori nella loro interezza.

Cosa può aiutarci di fronte a tanta complessità? Un contributo ci arriva dai numeri. Quantificare ciò che succede ci permette di sbagliare meno e di avere contezza di ciò che osserviamo. I numeri non mentono, ma vanno ben analizzati e contestualizzati. Se “maneggiati” in modo improprio possono trarre in inganno, facendo sovrastimare o, al contrario, sottostimare certi eventi. Vanno, dunque, consegnati in mano ad esperti, in grado di elaborarli ed interpretarli correttamente.

Lo scopo è quello di fornire delle evidenze, ovvero delle prove su cui la scienza si basa per prendere ogni decisione. In medicina ogni nuova evidenza può permettere di decidere se continuare ad usare un farmaco, se investire in un vaccino o se eseguire un esame diagnostico. Allo stesso tempo nuove evidenze possono rigettare vecchi approcci o scoraggiarne di nuovi.

La pandemia ci fornisce numerosi spunti che confermano il valore dei numeri, in un braccio di ferro tra la (disperata) necessità di trovare soluzioni e il poco tempo disponibile.

L’esempio di un tentativo che si è dovuto arrendere di fronte alle evidenze prende il nome di idrossiclorochina. Si tratta di un farmaco di cui si è abusato all’inizio della pandemia, e di cui inspiegabilmente, ancora oggi, si continua a parlare. È stato dimostrato che la molecola non riduce il numero dei decessi, ma genera solo effetti collaterali. Sembra paradossale che, in passato, si pensasse addirittura di assumere la sostanza a scopo preventivo. La percezione e l’ipotesi che il farmaco funzionasse sono state annientate dai numeri.

Un altro esempio, ancor più significativo, è quello del plasma iperimmune. Nelle fasi più drammatiche della pandemia quest’approccio venne presentato come quasi miracoloso. Televisioni e giornali non parlavano d’altro e contribuivano ad alimentare la percezione di aver trovato una soluzione definitiva alla malattia.

Gruppi di ricerca di vari Paesi, quindi, si sono impegnati per verificare se l’efficacia del plasma fosse una percezione o un’evidenza. Uno studio pubblicato su una rivista di riferimento del settore (NEJM), coerentemente con quanto osservato successivamente in altri studi, dimostra che il trattamento con plasma non determina differenze significative nella mortalità. Anche in questo caso fidarsi dei tempi della scienza avrebbe potuto evitare una contagiosa illusione generale.

Questa pandemia ci dimostra, invece, che gli approcci migliori sono quelli messi in atto solo dopo aver avuto prova della loro efficacia. Un esempio? I vaccini: nessuno avrebbe mai pensato di somministrarli senza dei numeri che ne giustificassero l’impiego. Come previsto dagli studi, nel “mondo reale” si sta verificando una riduzione delle infezioni negli ambienti ospedalieri. I Paesi più avanti nella campagna vaccinale si dirigono addirittura verso un’apparente “normalità”.

I vaccini stanno dimostrando la capacità di superare le profonde differenze che ci contraddistinguono e che determinano l’imprevedibile decorso della malattia. Si tratta di un intervento prezioso che può abbattere le diversità e costituire fronte comune nella lotta al virus.

La sospensione precauzionale (termine fondamentale) di quello prodotto da AstraZeneca, per quanto detto finora, va analizzata con giudizio.

Quando si parla di reazioni avverse il problema è stabilire un rapporto di causa-effetto e non solo un rapporto temporale: se dopo aver mangiato una mela ci si frattura un osso, il problema non sarà stato certamente la mela. Ogni singolo evento grave o fatale va comunque approfondito con la massima attenzione: non possiamo permetterci farmaci meno sicuri rispetto a quanto dichiarato. Allo stesso tempo, la sospensione del vaccino AstraZeneca potrebbe determinare una quantità maggiore di morti per la mancata vaccinazione rispetto a quanti ne sarebbero avvenuti per un potenziale effetto raro non ancora dimostrato.

Le esperienze vissute nell’ultimo anno permettono di essere d’accordo su una cosa: i numeri, se corretti e ben utilizzati, alla fine presentano il conto. Non lasciamoci disorientare da percezioni errate e diffidiamo da chi amplifica queste percezioni in maniera poco convincente. Attendiamo informazioni affidabili senza cadere in conclusioni affrettate.

Lasciamo fare alla scienza quello che sa fare meglio: raccogliere e analizzare i numeri per costruire delle evidenze che possano superare le diversità e condurre verso soluzioni condivise e sicure alla pandemia.

Antonino Micari

Prevenzione dei tumori: l’aspirina come “nuova” arma

Chi non ha mai usato o sentito parlare di aspirina? Parliamo di uno dei farmaci più utilizzati su scala mondiale, usato per le sue capacità analgesiche, antinfiammatorie ed antipiretiche. Da qualche anno si studia la possibilità di impiegare questo famoso farmaco per la gestione dei tumori e i risultati sembrano dare buone speranze per il futuro.

Continua a leggere “Prevenzione dei tumori: l’aspirina come “nuova” arma”

Reazioni avverse al vaccino per il covid, qual è la verità?

Che dall’inizio del 2020 ci sia stata una vera e propria corsa alla scoperta del vaccino per il SARS-cov-2, è sotto gli occhi di tutti.
Fin dai primi mesi dell’epidemia, la nostra rubrica si è occupata di informare i lettori sugli sviluppi relativi alla ricerca.
Ci sembra giusto, a ridosso dell’imminente arrivo delle dosi anche negli ambulatori italiani, fare chiarezza nel mare di informazioni fuorvianti che, purtroppo, a volte arrivano anche da persone “di scienza”. 

Partiamo dal principio: com’è composto il materiale genetico del SARS-cov-2?

Il nuovo coronavirus è un beta-coronavirus. Una volta infettata la cellula ospite, la utilizza per sintetizzare le proprie proteine.
Le proteine, a loro volta, replicano il genoma virale, in questo caso l’RNA a singolo filamento, e si assemblano in nuove particelle di virus. Praticamente il virus sfrutta la cellula ospite come una catena di montaggio per creare nuove copie di se stesso.
Nonostante ci siano ancora molti sostenitori di questa teoria, SARS-cov-2 non si integra nel genoma cellulare e non lo modifica, poiché non possiede una proteina fondamentale chiamata trascrittasi inversa.
La trascrittasi inversa trasforma l’RNA in DNA, ma è propria soltanto di alcuni retrovirus e batteri, che nulla hanno a che vedere con il nuovo coronavirus.
Questa proteina inoltre, è assente anche nelle cellule umane.

Quanti vaccini ci sono e come sono stati realizzati 

Al momento sono tre i vaccini candidati a condurre l’occidente fuori da questo periodo buio: quello della Pfizer, quello della Moderna e quello della Astrazeneca.
Tutti quanti hanno raggiunto la fase tre della sperimentazione (su un bacino di almeno 40000 volontari a testa) e sono dunque pronti, dopo le dovute autorizzazioni, ad essere immessi sul mercato. I vaccini Pfizer e Moderna utilizzano la tecnica ad mRNA, mentre Astrazeneca è il classico vaccino a vettore, ma l’antigene comune a tutti è sempre la proteina Spike del SARS-CoV-2.
Sui primi due sono nate molte perplessità, alcune fondate, altre assolutamente fuori da qualunque logica. Cercheremo quindi di spiegare in parole semplici come funzionano.

Cos’è la tecnologia a RNA messaggero?

L’mRNA contiene le istruzioni per la sintesi di nuove proteine.
Di solito trasporta le informazioni genetiche del DNA fino al citoplasma, dove queste sono usate per assemblare le proteine.
Un processo fondamentale, a cui l’organismo è abituato.
Una volta somministrato il vaccino, le cellule ricevono l’mRNA incapsulato in particelle lipidiche e questo viene utilizzato per replicare la suddetta proteina Spike.
Da sola essa è innocua, poiché manca tutto il resto del virus, ma è abbastanza per stimolare la risposta del sistema immunitario.
Successivamente, quando il soggetto incontrerà il SARS-cov-2, avrà già gli anticorpi per combatterlo prima che causi la malattia.
Questo processo di realizzazione è più veloce, più semplice e meno costoso di quello tradizionale, e potrà aprire la strada all’utilizzo degli mRNA anche nella cura di altre malattie.

Reazioni avverse ai vaccini: attenzione agli allarmismi

Tra i tanti dubbi che la pandemia ci ha lasciato, una cosa è certa: ha inasprito ancora di più le divergenze e i dissapori all’interno della comunità scientifica.
Alcuni hanno visto la malattia da coronavirus come un modo per guadagnare popolarità attraverso dichiarazioni discutibili.
Come sempre, invitiamo i nostri lettori a fare dei controlli incrociati sulle notizie, anche se sembrano arrivare da fonti illustri.
Ogni farmaco, ogni sostanza che viene somministrata non è esente da rischi, ma bisogna saper discernere tra ciò che è verosimile e ciò che non lo è.

Infertilità femminile

Ad oggi non esiste alcuna evidenza di una correlazione tra l’infertilità femminile e il vaccino per il SARS-cov-2 . L’idea si era diffusa a partire da un articolo, oggi disponibile solo in archivio, che ipotizzava la presenza di analogie tra la proteina Spike (usata come antigene nei tre vaccini) e la sincitina umana.
La sincitina è una proteina implicata nello sviluppo della placenta.
La preoccupazione era che ci potesse essere una risposta anomala del sistema immunitario contro di essa, scatenata dal vaccino.
Il punto, però, è che queste proteine non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra a livello biochimico.
Inoltre, se ci fosse un vero legame tra infertilità e cross reazione di Spike e
sincitina, questo dovrebbe avvenire anche con la malattia da coronavirus, ma così non è.

Risposta immunitaria eccessiva e modificazioni genetiche

Una reazione da amplificazione della risposta immunitaria era già stata ipotizzata, vista la natura stessa della patologia da coronavirus. I test clinici però non hanno mostrato questo effetto.
Sempre lo stesso articolo parlava di una sostanza presente nel vaccino, il polietilen-glicole, capace di scatenare una reazione autoimmune.
Il Peg, però, è presente in moltissimi farmaci e vaccini clinicamente approvati e, in egual modo a ogni sostanza esistente, può provocare reazioni allergiche in soggetti predisposti.
Se ci fossero reazioni allergiche frequenti a questo componente, sarebbero venute alla luce molto prima del suo utilizzo nel vaccino del SARS-cov-2. 

Tiriamo le somme

Perché alcune persone subiscono degli effetti collaterali?
Alcuni, come la febbre, sono dovuti alla stimolazione del sistema immunitario.
Per quanto riguarda quelli più gravi, possono essere causati da variazioni genetiche, o da una particolare predisposizione dell’individuo.
Altri ancora hanno un meccanismo non ben chiarito.
Sappiamo anche di non poter prevedere la presenza di effetti a lungo termine, ma questo è un rischio intrinseco a ogni vaccino, a ogni farmaco, se vogliamo.

Ci sentiamo però di dire, per rassicurare i lettori, che le segnalazioni di reazioni gravi durante i trial clinici sono state ben poche.
Inoltre, queste reazioni avvengono solitamente in tempi molto brevi a partire dalla somministrazione.
Sembra dunque improbabile che si verifichino problematiche future correlate al vaccino.
Non vi è alcuna volontà delle case farmaceutiche a mettere in commercio un prodotto nocivo, che potrebbe scatenare su scala mondiale una enorme richiesta di risarcimenti.
In ultimo, dalla scoperta dei vaccini in poi, la medicina ha compiuto dei balzi in avanti inimmaginabili in termini di sicurezza ed efficacia.
Ribadiamo, come sempre, l’invito ad informarsi solo da fonti attendibili e a mantener salda, o recuperare, la fiducia nella scienza.

Maria Elisa Nasso

Vaccini COVID-19: non solo Pfizer, ma necessari tempo e cautela

Immagine tratta da Società Italiana di Farmacologia

Una soluzione semplice ad un fenomeno così complesso, come la pandemia da SARS-nCOV-2, farebbe gola a molti. Il vaccino, talvolta figlio di un profondo scetticismo, ma fondamentale strumento della sanità pubblica moderna, potrebbe permettere di dimenticare un virus che non conosce confini o classi sociali. Ciò garantirebbe un pieno e completo ritorno alla normalità. Ma il vaccino non è affatto una soluzione semplice, al contrario di come si potrebbe pensare: infatti, dietro ogni formulazione farmaceutica, ci sono anni di tentativi e ricerca scientifica. Nonostante gli annunci positivi che si susseguono non si tratterà probabilmente neanche di una soluzione immediata, con buona pace di chi pensava di impostare un conto alla rovescia.

Ad ogni modo, mai come in questo periodo, l’attività di ricerca scientifica e farmaceutica sta convergendo verso lo stesso obiettivo: ovvero il trattamento e la prevenzione dell’infezione da parte del Coronavirus. Sono infatti in corso oltre 3000 studi per il trattamento e la gestione della malattia. Per quanto riguarda la prevenzione si contano undici vaccini in fase finale di sperimentazione e cerca 150 in fase di valutazione preclinica. Stupiscono in particolare gli sforzi che si stanno compiendo per rendere i percorsi di approvazione più rapidi, a fronte dei circa dieci anni normalmente richiesti affinché un farmaco venga messo in commercio.

Sviluppo di un farmaco: come si sta tentando di accelerare il percorso di approvazione

NEJM – Accelerating Development of SARS-CoV-2 Vaccines

Normalmente, come rappresentato nell’immagine, lo sviluppo, la sperimentazione, l’approvazione e la produzione in larga scala di un farmaco richiedono tempi difficilmente compatibili con una pandemia che può sconvolgere la società in tempi, invece, molto brevi. Lo sviluppo preclinico, ovvero quello che si fa in laboratorio, può richiedere, da solo, anni. A ciò si aggiunge lo studio del farmaco sull’uomo (che si articola in tre diverse fasi), l’approvazione da parte degli enti regolatori (FDA in America, EMA in Europa) e la produzione e distribuzione commerciale. Tutto ciò può richiedere normalmente anche più di dieci anni.

Come gestire quindi la pandemia da Coronavirus? Le parole chiave sono idee collaudate, sovrapposizione e anticipazione. Riguardo al vaccino, infatti, tutte le formulazioni si basano su un’idea di base già nota che permette di ridurre la durata della fase preclinica, come vedremo successivamente.

Lo sviluppo clinico, che vien effettuato sull’essere umano, è anch’esso più breve. A ciò si sovrappone, in caso di risultati incoraggianti, un inizio anticipato della produzione in larga scala che permetterà una distribuzione immediata dopo l’approvazione da parte degli enti regolatori. Questi ultimi, una volta conclusi gli studi, possono impiegare anche svariati mesi per approvare definitivamente la commercializzazione: è lecito attendersi che nel caso della pandemia COVID-19 anche tale fase risulterà molto più rapida.

Analizziamo le tappe che hanno condotto alcuni dei vaccini più promettenti ad essere molto vicini all’approvazione e alla successiva commercializzazione.

Moderna: un vaccino ad RNA per sconfiggere il Coronavirus

Uno dei vaccini giunti ad una fase molto avanzata di sperimentazione è quello di Moderna, azienda biotecnologica statunitense. Impegnata dal 2010 nello sviluppo di farmaci e successivamente, dal 2014, nella progettazione di vaccini. L’azienda basa la sua ricerca su particolari molecole. chiamate RNA messaggeri, che entrano all’interno delle singole cellule, rendendole capaci di esprimere delle proteine virali. Il sistema immunitario del paziente riconosce queste proteine , immunizzandosi anche nei confronti del virus.

La tecnologia utilizzata, in studio già da molti anni, ha permesso di ridurre la durata delle fasi precliniche. Dal prototipo prodotto a Febbraio, già a Luglio i primi risultati hanno evidenziato l’effetto positivo del vaccino nel controllare l’infezione in 24 esemplari di macaco rhesus, un primate non umano. Anche i primi risultati su esseri umani sani (fase 1) sono ottimistici, con una risposta immunitaria ottenuta in tutti i partecipanti ed effetti collaterali definiti come moderati o lievi (dolore nel sito di inoculo, mialgie, spossatezza, febbre). Non sono stati segnalati gravi effetti collaterali.

Ad Ottobre è stato completato il reclutamento di 30000 partecipanti per la terza e ultima fase di sperimentazione, i cui risultati preliminari sono attesi in un periodo prossimo. L’approvazione potrebbe avvenire entro la fine del 2020, con una campagna vaccinale che si svolgerebbe nel corso del 2021.

Ad ogni modo l’azienda non ha mai, in passato, ottenuto risultati importanti con la tecnologia ad RNA: il vaccino rappresenterebbe, infatti, il primo successo di Moderna. Le premesse ci sono tutte, attendiamo la conferma da parte dei dati preliminari.

Pfizer & BioNTech: altro vaccino a RNA dai risultati preliminari incoraggianti

Il progetto condiviso tra Pfizer, multinazionale farmaceutica, e BioNTech, azienda biotecnologica tedesca, si concretizza nel mese di Maggio. Nella prima fase clinica vengono messe alla prova due formulazioni contenti RNA messaggeri, sfruttando la stessa strategia biologica di Moderna. I primi risultati hanno identificato nella versione BNT162b2 del vaccino il principale candidato per le fasi successive della sperimentazione. Nel mese di Luglio è stato annunciata l’inizio della fase 3 dello studio clinico che prevedeva il reclutamento di 30.000 partecipanti, successivamente ampliati a 43.000. In seguito alla somministrazione di due dosi di vaccino, si sarebbe dovuto attendere che un numero statisticamente sufficiente di partecipanti si infettasse casualmente col virus per valutarne l’efficacia.

Nel mese di Settembre Pfizer annuncia che dei risultati preliminari significativi si sarebbero avuto entro il mese di Ottobre. L'(ex) presidente Trump sfrutta la notizia affermando che un vaccino sarebbe stato approvato entro il mese di Novembre. Affermazione presto smentita da uno dei responsabili dello studio.

Qualche giorno fa, l’8 Novembre, l’azienda pubblica un’analisi dei primi 94 casi di infezione, di cui soltanto nove su soggetti vaccinati, e 83 su non vaccinati. Questo porta l’efficacia di protezione al 90%, con un numero di casi significativo per presentare i risultati agli enti regolatori per un’iniziale valutazione. Gli effetti collaterali segnalati sono stati soltanto moderati o lievi (mal di testa, dolore al sito di inoculazione, mialgie, o febbre), senza nessun effetto collaterale grave.

Gi enti regolatori, in un periodo di tempo variabile ma auspicabilmente breve, valuteranno in maniera indipendente l’efficacia e il profilo di sicurezza del vaccino. Nel frattempo lo studio proseguirà (fino al 2022) per ottenere dati statisticamente significativi, cosa che potrebbe accadere in breve tempo (servono poco più di 150 infezioni). Il vaccino dovrebbe raggiungere la popolazione nel corso del 2021. L’accordo iniziale prevede una fornitura iniziale di 200 milioni di dosi per l’Unione Europea, 100 milioni per gli Stati Uniti e 120 milioni per il Giappone.

Sfortunatamente i vaccini ad mRNA tendono ad essere instabili, infatti dovrà essere conservato a -70 °C fino al momento prima dell’inoculazione. Questo potrebbe determinare dei problemi logistici, ma si stanno già cercando di costruire delle “catene del freddo” che possano garantire la distribuzione.

AstraZeneca e Università di Oxford: un virus ingegnerizzato che protegge dal Coronavirus

La scienza alla base di questo vaccino, come abbiamo visto già per altri, non è frutto di una scoperta recente ma risale a due decenni fa. Negli anni 2000 gli scienziati della Merck (altra multinazionale farmaceutica) lavoravano ad un vaccino basato su un virus di scimpanzé (nello specifico, un adenovirus). Il progetto fu abbandonato e ripreso proprio ad Oxford, dove fu brevettato allo scopo di sviluppare vaccini in futuro.

Dopo l’isolamento del Coronavirus gli scienziati dell’Università lavorarono fin da subito ottenendo un risultato chiamato ChAdOx1, candidato agli studi clinici. La strategia biologica prevede di rendere innocuo l’adenovirus e modificarlo aggiungendo dei “frammenti” di SARS-CoV-2 che stimolano il sistema immunitario del paziente a produrre una risposta antivirale.

L’università realizza trova la soluzione per lo sviluppo commerciale attraverso un accordo con l’azienda AstraZeneca. Nel mese di Maggio vengono pubblicati i risultati iniziali relativi alla somministrazione del vaccino su scimmie macaco rhesus che dimostrano l’efficacia nel prevenire la polmonite da SARS-CoV-2.

I dati su essere umano non tardano ad arrivare: nel mese di Luglio 2020 vengono pubblicati i risultati dello studio di fase 1/2 su 1077 partecipanti di cui la metà hanno ricevuto il vaccino. C’è la conferma di una risposta antivirale con lo sviluppo di anticorpi (molecole che legano il virus riducendone le capacità infettive) e anche di una risposta cellulare del sistema immunitario.

I risultati sono positivi anche per le persone più anziane, inclusi gli over 70. Questo dettaglio è di fondamentale importanza in quanto la risposta immunitaria è generalmente più facile da ottenere in soggetti giovani.

Lo studio di fase 3 è in corso in varie parti del mondo, con 30.000 partecipanti. Nel mese di Settembre l’azienda ha interrotto tutti i test relativi al vaccino per approfondire un potenziale effetto collaterale insorto in uno dei partecipanti. In studi clinici così estesi non è raro avere delle battute di arresto per effetti avversi. Tuttavia un comitato di scienziati indipendenti ha analizzato l’evento ed è emerso che il volontario aveva ricevuto il placebo. Nel mese di Ottobre tutti gli studi sono ripresi e in attesa dei primi risultati entro il mese di Dicembre.

Già a Giugno l’Italia, insieme a Francia, Germania e Olanda, ha firmato un accordo con AstraZeneca che garantirà 400 milioni di dosi da fornire gratuitamente ai cittadini.

Johnson & Johnson: l’unico vaccino in fase avanzata che prevede una sola dose

Anche la Johnson & Johnson, azienda farmaceutica statunitense, sfrutta un sistema simile a quello di AstraZeneca. Si tratta infatti di un adenovirus ingegnerizzato, il cui sviluppo iniziò già una decade fa da parte dei ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston.

Gli studi iniziali con singola dose su scimmie dimostrano l’immunogenicità del vaccino che garantisce una protezione quasi completa nei confronti dell’infezione polmonare da SARS-CoV-2.

I primi risultati nell’uomo sembrerebbero essere altrettanto promettenti, con una risposta immunitaria potenzialmente efficace già dopo due settimane dalla singola dose.

Nel mese di Luglio inizia la fase 3, che prevede 60.000 partecipanti. Il trial è stato momentaneamente sospeso nel mese di Ottobre e poi successivamente ripreso. L’Unione Europea ha recentemente siglato un accordo per assicurare fino a 400 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Una volta approvato il vaccino non otterremo “tutto e subito”

Approvare e commercializzare il vaccino non significherà comunque raggiungere e immunizzare tutta la popolazione in tempi brevi. I problemi sono vari: ci sono, per esempio, limiti logistici relativi alla capacità delle stesse aziende di produrre una sufficiente quantità di dosi in breve tempo. Anche la distribuzione potrebbe essere difficoltosa: basti pensare, come detto prima, alle formulazioni che devono essere mantenute a basse temperature per garantirne la stabilità.

Ci sono anche limiti di natura politica ed economica: non tutti gli stati avranno la capacità di assicurarsi il vaccino in tempi brevi. Inoltre, data per scontata l’efficacia, potrebbero crearsi delle zone nel pianeta in cui la popolazione non avrà la possibilità di essere vaccinata (Paesi più poveri o remoti) che potrebbero fungere da “incubatori naturali” del virus. L’iniziale fase di distribuzione sarà comunque probabilmente dedicata a soggetti fragili e agli addetti ai lavori. Ciò potrà garantire una riduzione della mortalità e dei ricoveri, e contenere il fenomeno dei contagi in ambito ospedaliero e sanitario.

Sarà da valutare anche la durata dell’immunizzazione. Il virus ha infatti un comportamento subdolo e sembrerebbe avere la capacità di reinfettare soggetti che hanno contratto la malattia precedentemente. La scienza dietro ai vaccini ha come obiettivo quello di garantire un’immunizzazione più duratura che possa proteggere almeno per tutta la stagione invernale. I soggetti che hanno ricevuto le dosi nelle prime fasi cliniche sono costantemente monitorati per ottenere dati temporali sull’immunità acquisita.

Altro limite potrebbe essere dettato anche dall’aderenza della popolazione alla campagna vaccinale. A Giugno l’Università Cattolica pubblica uno studio in cui si stima che il 41% della popolazione si dichiara poco o per niente propensa a ricevere una futura vaccinazione. Saranno necessarie campagne di sensibilizzazione al fine di ottenere percentuali di copertura sufficienti a limitare la circolazione del virus.

Sebbene la ricerca medica e farmaceutica sia riuscita a raggiungere traguardi impensabili in periodi di tempo così brevi ad oggi non è comunque possibile fornire date o scadenze certe. Il vaccino rischia di essere strumentalizzato economicamente e politicamente, ma una cosa è certa: soltanto una distribuzione equa che raggiunga l’intera popolazione lo renderà efficace. Nel frattempo, senza farsi troppe illusioni, seguiamo l’evoluzione del fenomeno che ci riserverà sicuramente delle sorprese positive.

Antonino Micari

Tutte le nuove terapie sperimentali approvate in Italia contro la COVID-19

Innumerevoli titoli sensazionalistici si sono susseguiti, su giornali e riviste non strettamente scientifiche, durante questa emergenza: dalle possibili panacee per tutti i mali alle cure più bizzarre, spesso risulta difficile orientarsi con cognizione di causa in questo labirinto di informazioni.

Oggi parliamo di tutte le novità in campo terapeutico e cerchiamo di comprendere quali potrebbero essere i farmaci più promettenti.

Sarilumab e siltuximab

Come ormai abbiamo imparato, la COVID-19 ha qualcosa in comune con l’artrite reumatoide (AR), patologia infiammatoria che colpisce le articolazioni. Già la scienza ha preso in prestito da questa malattia un farmaco, il tocilizumab, che già ha mostrato qualche risultato interessante, alcuni ancora non pubblicati, sopratutto nei pazienti gravi.

Se per il sarilumab ancora siamo agli albori, cosa ha spinto l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare studi a riguardo?

Entrambi (come potete notare anche dalla somiglianza dei nomi) sono anticorpi monoclonali: altro non sono che proteine prodotte in laboratorio, le quali legano specifiche molecole responsabili delle patologie delle quali stiamo parlando, in questo caso il recettore dell’interleuchina 6 (IL-6). Quest’ultima è una citochina (proteina prodotta in corso di infiammazione) che è molto rappresentata in pazienti affetti sia da AR che da COVID-19: per agire, l’IL-6 deve legare a sua volta il suo recettore, in modo tale da innescare processi che portano al proseguire dell’infiammazione e del danno a tessuti.

Immagine che mostra come il Kevzara (nome commerciale del sarilumab) lega il recettore dell’IL-6 (m IL-6R e sIL-6R) impedendo l’azione della stessa – Fonte:kevzarahcp.com

Questo aumento ingente delle citochine si verificherebbe soprattutto nei pazienti più gravi, che ad oggi devono pertanto affidarsi a farmaci in sperimentazione.

Attualmente sono in corso due studi: uno pilota su un piccolo numero di pazienti e senza confronto con altre terapie, e uno molto più ampio (AMMURAVID) nel quale saranno confrontati ben 7 diversi protocolli terapeutici. Tra questi spunta anche il siltuximab, che agisce direttamente contro l’IL-6.

L’ormai assodata intuizione sulla correlazione alto grado di infiammazione-gravità della COVID19 fa ben sperare: oltre – chiaramente – al meccanismo comune con l’ormai noto Tocilizumab.

Baricitinib

Altro farmaco in prestito dall’artrite reumatoide. Senza scendere troppo nei dettagli, questa volta il meccanismo è un po’ diverso: innanzitutto il farmaco è somministrabile anche per bocca (i precedenti sono utilizzati endovena); inoltre, agisce dopo che il legame molecola-recettore è già avvenuto, bloccando questa volta piccole proteine (JAK), sempre coinvolte nella sintesi delle citochine infiammatorie.

Il vantaggio potrebbe risiedere nella maggiore maneggevolezza; inoltre, se i precedenti si focalizzano solo su IL-6 e il suo recettore, le proteine JAK si trovano coinvolte in molti altri meccanismi che causano infiammazione, nonché (come abbiamo imparato) il peggioramento del paziente. Una sorta di effetto multiplo che potrebbe risultare più efficace.

Vari meccanismi d’azione del Baricitinib (ed altre molecole simili) – Fonte: Lancet

Ma c’è di più. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, questo farmaco agirebbe anche su un altro fronte: l’ingresso del virus nella cellula. Come è ormai noto, la porta di ingresso del virus è il recettore ACE2: l’entrata del virus è tuttavia possibile solo se interviene anche un’altra proteina (AAK1) la cui funzione è inibita dal baricitinib.

Insomma, un’intuizione non da poco che, se si dimostrerà efficace, agirà su più fronti rispetto ad altri farmaci attualmente in possesso. Non a caso, l’Aifa ha autorizzato due studi, dei quali uno è il già citato AMMURAVID.

Selinexor

Questa volta cambiamo tipologia di farmaco: il selinexor è stato recentemente approvato negli USA nella terapia di casi molto resistenti di mieloma multiplo, tumore di interesse ematologico (ovvero che coinvolge cellule sanguigne, nello specifico le plasmacellule). L’approvazione è stata addirittura accelerata, in quanto questi pazienti non rispondono ad altre terapie e il farmaco si è dimostrato abbastanza efficace.

Ma cosa hanno in comune un’infezione virale ed un tumore?

Sembrerebbe strano tentare di utilizzare lo stesso farmaco, ma il selinexor induce la morte cellulare (apoptosi) delle cellule tumorali, così come potrebbe indurla nelle cellule infettate dal virus. Qualche cenno al meccanismo: anche qui abbiamo una doppia azione, mediata dall’inibizione di un processo chiamato “esportazione nucleare“; questa è svolta, tra le altre proteine, dall’esportina 1. 

Schematica descrizione dell’azione  antitumorale del selinexor: in questo caso, le proteine “bloccate” sono quelle che promuovono la crescita e sopravvivenza delle cellule tumorali

Quanto le proteine implicate nell’infiammazione, tanto quelle virali hanno bisogno dell’esportina 1 per svolgere la loro funzione correttamente. Da questo dato, è stato impostato uno studio che coinvolge 40 centri a livello internazionale.

Piccola nota sull’AMMURAVID: tutti i farmaci testati saranno associati alla terapia standard (idrossiclorochina) e confrontati non solo tra loro, ma anche con l’uso della sola idrossiclorochina stessa. Per questo motivo, lo studio promosso dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, potrebbe fornire informazioni molto interessanti per focalizzare la ricerca sulle cure realmente migliori rispetto ad altre, selezionando il farmaco più efficace.

Nell’attesa che questi studi dimostrino – come ci auguriamo – l’efficacia di nuove terapie, una cosa è certa: la scienza non si ferma, nemmeno di fronte ad un virus e ad una malattia totalmente nuovi.

Quello che possiamo fare attualmente, essendo il vaccino un’opzione più tardiva, è affinare al meglio la strategia terapeutica, grazie a due elementi fondamentali: l’intuito e le conferme inequivocabili dei dati scientifici.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/sperimentazioni-cliniche-covid-19

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jmv.25964

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7137985/

Modafinil, la smart drug degli studenti universitari

Chi non ha mai desiderato di non sentire la fatica?
Rimanere sveglio e concentrato sui libri è il sogno segreto di ogni studente, soprattutto in questo mondo frenetico che richiede standard di qualità sempre più alti.
Tutti in corso, tutti con la media del trenta, senza tener conto delle difficoltà che i ragazzi incontrano nella vita di tutti i giorni.
Senza tener conto dei loro sentimenti.
I nostri giovani sono stressati, alla disperata ricerca di quella voglia di studiare, di quella scintilla che però sembra non arrivare mai.
E se esistesse un farmaco capace di aumentare le capacità cognitive?

Il Modafinil

Modafinil è il nome di un farmaco promotore della veglia, utilizzato nel trattamento di sonnolenza diurna e narcolessia.
Aumenta lo stato di veglia, le prestazioni lavorative e la creatività, in modo simile alla caffeina, ma con un meccanismo diverso.
Tuttavia il Modafinil non può compensare la perdita di sonno e i suoi effetti debilitanti sul fisico.
Nei soggetti con sclerosi multipla può anche agire sul tono dell’umore, migliorandolo.
A seconda della dose può durare in media dalle 4 alle 8 ore.
Uno studio del 2015 dimostrava che tale farmaco migliora l’apprendimento nelle attività complesse senza troppi effetti collaterali.
Aumenta inoltre la plasticità del pensiero e la capacità del soggetto di associare concetti diversi.

E rispetto ad altri farmaci?

Sembra che il Modafinil presenti un profilo di sicurezza più alto rispetto ad altre molecole, come l’Adderall.
Quest’ultimo è utilizzato nel trattamento dell’ADHD e secondo i dati raccolti non solo è meno efficace, ma dà anche molti più effetti indesiderati oltre al rischio di assuefazione.
Anche rispetto ad altri componenti della stessa famiglia, come l’Adrafinil, il più “vecchio” tra questi, il Modafinil ha delle prestazioni migliori.

Consigli sull’assunzione

Essendo un neurostimolante, il farmaco può dare tolleranza, cioè una riduzione dell’efficacia in seguito ad assunzione giornaliera.
Si raccomanda quindi di assumerlo non più di tre volte a settimana e di non superare i 200 mg, per evitare ripercussioni sulla salute. Meglio non fare la fine di Icaro!
Bisogna tenere a mente che si parla comunque di farmaci che agiscono sul sistema nervoso, il cui delicato equilibrio deve essere rispettato.

È possibile acquistarlo?

In Italia è necessaria la ricetta per poter acquistare il Modafinil.
La maggior parte di coloro che ne fanno uso, però, lo acquista online da aziende europee, aggirando di fatto questa legge.
Ci sono anche dei composti alternativi, legali nel nostro paese, con azione simile ma meno efficaci (Fladrafinil e Adrafinil) che possono essere delle valide alternative.
In ogni caso, l’utilizzo del Modafinil si sta espandendo sempre di più sia tra gli studenti che tra i lavoratori e questo trend continuerà verosimilmente ad aumentare.
Si spera dunque che con il crescere dei numeri non ci siano casi di effetti avversi negli anni a venire.

                 Maria Elisa Nasso

Emicrania, malattia sociale: nuovi farmaci, nuove frontiere verso una medicina di precisione.

L’emicrania è un disordine neurobiologico primario di notevole impatto sociale ed economico. Fa parte delle cefalee primarie, insorge senza una causa organica chiaramente identificabile, nessuna lesione strutturale a livello cerebrale,  alla base una disfunzione di sistemi e circuiti neurotrasmettitoriali.

 

L’emicrania è un disturbo neurovascolare dovuto alla sensibilizzazione del nervo trigemino (V nervo cranico); il quale causa rilascio di sostanze proinfiammatorie che agiscono a livello vascolare. Queste provocano vasodilatazione nella circolazione intracranica, con i conseguenti sintomi associati.

Si tratta di una patologia molto frequente, infatti, chi ne soffre costituisce il 14% della popolazione mondiale, all’incirca un miliardo di persone. Ben 4 milioni di persone nella nostra nazione hanno almeno cinque episodi di emicrania al mese. Nell’ultimo anno è nato il primo registro Nazionale per l’emicrania, una banca dati per censire i pazienti affetti da questa patologia sottostimata e poco riconosciuta.

Il dolore è altamente invalidante, può perdurare per giorni accompagnandosi a nausea, vomito, fotofobia (fastidio per la luce) e per i rumori o suoni (fonofobia) e anche odori (osmofobia). Talvolta può presentarsi con “aura” preceduto da disturbi visivi o sensoriali, per cui il soggetto è costretto a stare al buio e in silenzio.

Colpisce soggetti tra i 25-55 anni, nel pieno della propria vita produttiva, influenzando l’attività lavorativa, sociale e personale. Può cronicizzare e accompagnare buona parte della vita il paziente. Le donne ne sono maggiormente affette, fattori predisponenti sono gli sbalzi ormonali.

Quando supera le 4 giornate di cefalea al mese bisogna rivolgersi al medico.

Nuovi anticorpi monoclonali e il loro meccanismo d’azione

In passato si affidava il compito ad antidolorifici per migliorare la qualità di vita del paziente o ad altri farmaci come i triptani agenti sulla serotonina. Oggi invece, non si agisce sul dolore ma sui meccanismi che sono alla base dello sviluppo dell’emicrania.

I nuovi  farmaci sono anticorpi monoclonali, hanno come bersaglio molecolare il neuropeptide correlato al gene della Calcitonina (Cgrp), o sul suo recettore. Tale neuropeptide è un vasodilatatore presente in maggiore quantità negli emicranici, responsabile della percezione del dolore. Fa percepire dolorosi stimoli che normalmente non lo sarebbero.

Gli anticorpi monoclonali sono indicati per le forme di emicrania più grave, quelle con una frequenza mensile superiore a quattro episodi.

Basta effettuare una semplice iniezione mensile sottocutanea, in modo da evitare la comparsa delle crisi ed il ricorso continuo ad antidolorifici.

I Risultati si sono dimostrati sicuri ed efficaci nella prevenzione e  nel trattamento acuto e cronico.

Al momento già disponibile una molecola chiamata Erenumab; altre due dovrebbero essere messe in commercio entro la fine del 2019, con possibilità di passare ad un’iniezione ogni tre mesi.

Vi è un apertura a nuove frontiere si parla sempre più di medicina di precisione.


Nuove speranze fornite anche dai farmaci “nuovi gepanti” (antagonisti del recettore Cgrp ) come Atogepant, che bloccano l’attacco acuto emicranico. Sono piccole molecole assunte per via orale, le quali aprono la possibilità di un trattamento immediato e al bisogno una maggiore adesione del paziente alla terapia a lungo termine, il paziente non deve recarsi in ospedale per la terapia.

I nuovi gepanti non causano vasocostrizione quindi potrebbero essere prescritti ai pazienti con problemi circolatori e vascolari, a differenza dei triptani che presentano controindicazioni in questa categoria di pazienti.

Inoltre sembrano non avere il potenziale di causare problemi al fegato, come alcune delle precedenti piccole molecole. Gli studi clinici su precedenti gepanti, come il telcagepant, erano stati interrotti a causa di problemi di tossicità epatica.

Il limite risiede nell’alto costo di queste nuove terapie.

La rimborsabilità è in fase di negoziazione con l’Aifa ed prevista per il secondo semestre 2019.

Consigli trattamento per paziente emicranico.

Professor Paolo Martelletti, Presidente SISC(Società Italiana per lo Studio delle Cefalee), Professore presso La Sapienza di Roma.

 

I suggerimenti dal Professor Paolo Martelletti, Presidente della Società Italiana per lo Studio delle Cefalee (SISC) sono:

Rispettare il ritmo sonno veglia e l‘assunzione regolare del cibo, mai saltare i pasti e mantenere adeguata idratazione.

Non assumere sostanza diretta o indiretta contenente alcolici perché può aggravare sia l’ emicrania che le cefalee a grappolo.

L’assunzione di caffeina e estro-progestinici può peggiorarla.

Evitare il continuo abuso di farmaci antidolorifici, molto spesso autoprescritti.

Essere consci che solo una adeguata prevenzione e un adeguato trattamento può arrestare la cronicizzazione e ridurre l’intensità e la frequenza, il numero degli attacchi.

Daniela Cannistrà