Twice – Alle spalle del nuovo mondo

   – Capitolo 1

 

Dalle fogne in cui stavamo non ne sarebbe uscito mentalmente vivo neanche un pazzo.

Gargan portava le casse di birra alla vecchia locanda, lamentandosi come al solito del cattivo odore che aleggiava quella mattina fra le alte pareti di roccia che ospitavano alla loro base la città di Larvaria.
Io dietro di lui, portando un’altra cassa di legno, ascoltavo ridendo le sue invettive contro la vita, contro i soldi che mancavano sempre e contro Becero, il proprietario della locanda.
Era un ragazzo muscoloso Gargan, alto e dai capelli nero corvino che scendevano con due ciuffi sulle spalle e corti sulla fronte.
«Maledetto sia questo posto» borbottava «Che io muoia oggi stesso: non resterò per sempre qui a portare birra a quei cinque ubriaconi dei Follester che frequentano questo buco merdoso di Becero».
Già, parole davvero strane per uno di Larvaria, che al massimo può aspirare a non lavorare per strada.
La città di Larvaria era l’ultimo insediamento abitato prima del Grande deserto di Yalon, frequentata dai più svariati uomini di frontiera; se volevi andare oltre il deserto, dove ci stavano le grandi città dell’ovest, allora dovevi necessariamente passare da qui.
Larvaria è posizionata sull’uscio interno di una gigantesca caverna che la protegge anche dalle furiose tempeste del deserto.
Il problema, però, è proprio questo: le continue tempeste portano in questa città uomini provenienti dal deserto e molti di loro sono mercenari senza scrupoli provenienti dall’ovest.
Questi individui nel tempo si sono fatti sempre di più e hanno ridotto Larvaria a quello che è adesso: un buco pieno di criminali, barboni e altra gente poco raccomandabile.
Anche se la situazione non è delle più ottimali, la vita per i poveri qui è tranquilla ma difficile a causa della carenza di lavoro “onesto”.
È proprio così che ritorniamo a parlare di me e di Gargan, due ragazzi con rispettivamente 16 e 18 anni che sono fortunati ad avere un lavoro come garzoni alla locanda più frequentata di Larvaria: “Il bicchiere di legno” del signor Becero, uno degli individui più ripugnanti che questa città abbia mai visto.
«Wilo» era il nomignolo con cui mi chiamava Gargan «È arrivata qualche lettera da tuo zio oggi?» mi chiedeva mentre sistemavamo alcune casse di liquori nel magazzino della locanda.
«No, Gar, non è arrivato niente neanche oggi».
«Inizio a pensare che quel tuo zio non esista e che tu mi abbia preso per il culo» mi disse con aria rassegnata.
«Ehi, non dare la colpa a me! Te l’ho detto che non avrebbe funzionato ma tu hai voluto mandargli comunque la lettera» dissi voltandomi verso di lui con le mani imbronciate sui fianchi.
Gargan posò l’ultima cassa ai piedi di un grande scaffale in quercia e si sedette sopra di essa:
«Lo so, scusami…» si massaggiò gli occhi «È che non mi capacito di come il mondo ci abbia confinato qui con tutto quello che c’è da vedere lì fuori».
«Non disperarti» gli dissi io mentre avvicinavo la mia mano alla sua spalla «Qui abbiamo una casa e un lavoro che ci permette di mangiare e di bere».
«Qualche spicciolo e un pezzo di pollo avanzato dalle cucine ti sembra una vita dignitosa?» disse mentre si alzò di scatto dalla cassa «Io voglio guadagnare una fortuna nei grandi mercati dell’ovest, vivere in una lussuosa casa sulla collina più bella di questo mondo e sposare un’elfa alta e dai capelli scuri» urlò esaltato alzando il manico di scopa al cielo che stava di fianco a lui.
«Gar, abbiamo fatto questo discorso migliaia di volte» lo guardai dispiaciuto «Non succederà mai nulla di simile, siamo relegati a questo posto; e poi cosa farai una volta fuori da Larvaria? Non avremmo cibo, bevande…».
«Di quello non ti devi preoccupare, Wilo! Potremmo rubare qualcosa dalla locanda ogni giorno e-».
Nel momento in cui spiccò un salto dalla cassa su cui si era salito per tenere quel discorso rivoluzionario, Becero fece la sua comparsa dalla porta alla nostra sinistra:
«Brutte teste di cane ingrate!» sbraitò contro di noi «Io vi pago per mettere in ordine il mio magazzino e servire i miei clienti, non per oziare seduti sulla mia merce! Idioti!»
Inutile dire che scattammo sull’attenti, spaventati dall’ipotesi che potessimo perdere il lavoro; era un’opzione molto probabile dato che metà di Larvaria avrebbe ucciso per avere dei posti di lavoro come i nostri e per di più sotto la protezione di uno come Becero.
«Ci scusi, signor Becero» disse Gargan ingoiando un rospo dallo spavento «Stavamo riprendendo un attimo fiato, non accadrà più glielo assicuro».
Becero, leccandosi con la lingua uno dei tanti denti marci e corrotti dal tabacco, si avvicinò a noi con fare minaccioso e mi prese dal colletto della casacca:
«Sarà meglio per voi che righiate dritto, figli di nessuno, o vi ridarò in pasto alla strada» disse mentre mi dava uno spintone e il mio sedere toccava terra.
Andò via chiudendo con forza la porta alle sue spalle.
Gargan mi aiutò immediatamente:
«Stai bene Wilo?»
«Sto bene Gar, tranquillo» risposi massaggiandomi le natiche.
«Quel vecchio bastardo un giorno la pagherà cara per come ci tratta».
«Su dai, non dovevamo oziare; passa oltre questa volta».
Gargan mi guardò negli occhi:
«Non reggo più, Wilo…»
«Invece dobbiamo reggere insieme questa situazione. Becero maltratta chiunque, non solo noi» lo confortai.
Dopo che dissi ciò, riprese il suo lavoro in silenzio fino a notte, quando la luna scomparve alla base delle gigantesche stalattiti pendenti dalle labbra superiori dell’uscio della caverna.

Era passata la mezzanotte e il nostro turno di lavoro giornaliero giungeva finalmente al termine.
«Gar, ricorda di prendere la paga dal signor Becero prima di uscire mentre io vado a cercare un passaggio» dissi guardandolo dalla lontana oscurità del magazzino.
«Sì, non temere».
Decisi allora di andare in strada per cercare qualche commerciante che stesse tornando verso il nostro distretto, con l’intenzione di chiedere un passaggio ed evitare lo squallore dei quartieri notturni.
«Ehi, Wilord» qualcuno gridò alle mie spalle mentre uscivo dalla porta sul retro della locanda.
Mi voltai.
Davanti a me un mezz’uomo dai capelli biondi e una pipa di colore scuro in bocca: era Raldo, il ragazzo che si occupava del turno di notte alla locanda.
«Ancora non hai smesso di fumare quella pipa lercia, Raldo?» chiesi sorridendo.
«E mai finirò» rispose «È sempre meno lercia di molta gente del posto, questo è poco ma sicuro».
Ridemmo insieme.
«Il vecchio è sempre di malumore?» mi chiese Raldo portando alla sua pipa altro tabacco da ardere.
«Come sempre, anzi guarda, oggi meno del solito. Ci ha sgridato soltanto una volta».
«Cosa?! Una sola?! Becero si sta rammollendo» alzò le spalle e tirò una fumata «Beh, prima tira le cuoia meglio è; ci sarà solo sporcizia in meno».
Raldo era probabilmente una delle poche persone sane di mente di Larvaria e di cui io e Gargan ci potessimo fidare ciecamente.
Lo conoscevamo sin da piccoli, fu lui che si prese cura di noi per un breve periodo dopo che i nostri genitori morirono; molte volte abbiamo chiesto di sdebitarci ma non ha mai voluto nulla in cambio, neanche una maledettissima pinta di birra.
Era una brava persona e meritava tutto il nostro rispetto.
«Conosco quello sguardo Wilord».
«Che sguardo?»
«Gargan ti ha ancora chiesto di lasciare Larvaria, vero?» chiese come se stesse leggendo un libro aperto.
«Già…» risposi abbassando la testa verso le mie scarpe logore.
«Sai, non dovresti prendertela con lui» tirò un altro boccata dalla pipa «In un posto come questo sognare è un privilegio raro; Gargan è sempre stato un sognatore, non togliergli questo dono».
Innalzai il viso al cielo color pietra che avevo sopra la testa e pensai:
Ho davvero sbagliato con Gar? Non voglio dargli false speranze però…
«Beh Wilord, io inizierei il mio turno» disse mentre gettava per terra la cenere della pipa «È stato bello poter scambiare due parole su Gargan con te».
«Anche per me Raldo; se hai bisogno di qualsiasi cosa sai dove abitiamo».
Lui sorrise e si diresse verso la porta alla mia destra.
Il vicolo in cui ci trovavamo era buio ma le luci provenienti dalla strada alla fine del cunicolo illuminavano quanto bastava per riconoscere i bordi degli elementi presenti intorno a noi: immondizia, lerciume, pezzi di casse sfondate da chissà chi e la vecchia insegna della locanda accanto all’uscita sul retro.
Quando Raldo aprì la porta però, un fortissimo urlo c’investì:
«AAAAH! ALL’ASSASSINO! HANNO UCCISO IL VECCHIO BECERO».
Inutile dire che sia io che Raldo entrammo di corsa e ci dirigemmo verso la sala principale della locanda per poi svoltare verso la camera del vecchio.
I clienti seduti ai tavoli scostarono la testa all’indietro, cercando di capire cosa fosse successo senza lasciare le loro bevande sul tavolo; probabilmente per paura che qualcuno gliele rubasse.
Arrivammo sul luogo dell’accaduto: Greta, la sguattera umana gridava tenendosi la bocca con una mano e cercando di trattenere il vomito.
Io e Raldo la scostammo dall’uscio e guardammo all’interno della stanza.
Il corpo di Becero giaceva per terra cosparso da fori che sembravano essere quelli dello stesso pugnale che giaceva in mezzo ai suoi occhi senza vita.
«Che diamine è successo?!» disse Raldo rivolgendosi a Greta.
«Non lo so, davvero» rispose singhiozzando «Stavo pulendo il bancone e mentre asciugavo sono incappata in una moneta d’argento. Volevo portarla a Becero ma l’ho ritrovato così».
Raldo parlava con Greta chiedendogli ogni dettaglio mentre io mi guardavo intorno in cerca di Gargan.
Ad un tratto un pensiero terribile mi assalì la mente: “Non può essere, non può proprio essere” dissi continuando a girare su me stesso.
Un uomo con una folta barba, calvo e con una cicatrice sulla guancia, ad un tratto si alzò dal suo tavolo portandosi appresso il suo boccale di birra:
«E così è morto il vecchio Becero» disse sporgendosi dalla porta e richiamando la nostra attenzione continuò «Beh, parlerò senza mezzi termini: se qualcuno di voi è o conosce il responsabile parli adesso e sarà trattato con i guanti d’oro, altrimenti lo scopriremo e se la vedrà coi Rapaci».
All’udire di quel nome il mio sangue, quello di Raldo e di Greta gelò all’istante.

Umberto Spaticchia

Shakespeare era davvero messinese? Molto rumore… per nulla

William Shakespeare

Dietro le absidi del Duomo, in largo San Giacomo, una epigrafe riporta alcuni versi di una commedia di uno dei più importanti drammaturghi della letteratura inglese e internazionale: William Shakespeare. La commedia, “Molto rumore per nulla”, ha una trama intricata piena di colpi di scena e il tema amoroso la rende forse una delle più fortunate del suo genere; ma soprattutto, ha la caratteristica di essere ambientata proprio a Messina. 

Fino a qui, si dirà, nulla di strano; del resto, sono parecchie le opere del drammaturgo inglese ambientate in Italia. Un particolare, questo, che nel corso degli anni ha stuzzicato la curiosità di parecchi studiosi: alcuni dei quali, pronti a sostenere che il grande drammaturgo non fosse originario del paesino inglese di Stratford upon Avon, come vogliono le biografie più accreditate, ma addirittura italiano. E, fra le tante città “candidate” per aver dato i natali a cotanto poeta e letterato, udite udite, c’è anche Messina.

Shakespeare era messinese, sostiene qualcuno; e la notizia ghiotta non è certo passata inosservata all’opinione pubblica, tanto che diversi anni fa il Comune di Messina arrivò persino a nominare Shakespeare “cittadino onorario”. Ma sarà vero? Su cosa si basano queste teorie?

Andiamo con ordine. Come già detto, le teorie sulle origini messinesi del Bardo si inseriscono nel solco dell’acceso dibattito sulla paternità delle opere di Shakespeare. In sintesi, secondo alcuni ricercatori William Shakespeare, attore e drammaturgo proveniente da una famiglia di artigiani non particolarmente abbienti, dal piccolo paese di Stratford upon Avon, per come ci viene descritto dalle biografie tradizionali, non avrebbe mai potuto avere la cultura sufficiente della quale fa mostra nelle opere che gli sono attribuite. Da qui, tutta una serie di ipotesi sulla sua reale identità: chi dice che il cognome Shake-speare, “Scuoti-lancia”, fosse uno pseudonimo; chi ancora che si trattasse di un prestanome. E, a questo proposito, esiste una sconfinata letteratura che propone un altrettanto sconfinato elenco di personaggi che potrebbero avere scritto le opere a lui attribuite: e fra questi, troviamo anche il nome di un italiano, Giovanni Florio, e del padre di lui, Michelangelo Florio.

Tale Giovanni Florio, o John Florio, fu un importante intellettuale e traduttore di origini italiane, contemporaneo di Shakespeare, e autore di numerose traduzioni in inglese di opere letterarie e filosofiche. Suo padre, Michelangelo, era un esule fiorentino di religione calvinista, costretto a vagare per molti anni in giro per l’Italia e infine a rifugiarsi in Inghilterra, per via delle persecuzioni religiose. Il primo a sollevare l’ipotesi Florio come reale identità di William Shakespeare fu il giornalista Santi Paladino, che nel 1927 in un articolo sull’argomento sostenne che dietro lo pseudonimo di William Shakespeare si celasse Michelangelo Florio. Questi sarebbe stato autore delle opere teatrali durante il suo soggiorno in Inghilterra, e si sarebbe ispirato, per “Molto rumore per nulla”, a una commedia omonima in dialetto siciliano, “Tantu trafficu pi’ nenti”, che Florio avrebbe conosciuto a Messina e il cui testo sarebbe andato perduto. I limiti di questa teoria furono subito evidenti: oltre a non esserci, alla prova dei fatti, nessuna evidenza dirimente a supporto di questa speculazione e neanche dell’esistenza stessa di questa opera, Michelangelo Florio sarebbe nato nel 1515 e le tracce della sua esistenza si perdono intorno al 1565, mentre la nascita di Shakespeare è datata al 1564. Lo stesso Paladino, qualche anno dopo, corresse il tiro e Shakespeare, nella sua nuova ipotesi, divenne non più uno pseudonimo ma un prestanome, attore di Stratford, che avrebbe curato la pubblicazione delle opere di Michelangelo Florio con l’aiuto del figlio Giovanni. 

Qualche decennio dopo, negli anni ’50, l’ipotesi Florio viene ripresa da uno scrittore lombardo, Carlo Villa; Villa riprende la prima tesi di Paladino, quella dello pseudonimo, e aggiunge un dettaglio: Michelangelo Florio avrebbe assunto lo pseudonimo di William Shakespeare traducendo il cognome della madre, Giuditta Crollalanza. Anche stavolta, però, non viene citato nessun documento attendibile a favore di questa tesi.

La teoria delle origini messinesi si innesta su questa stessa falsariga. Proviene dalla penna di Martino Juvara, professore di italiano ispicese in pensione, che nel 2002 diede alle stampe un suo saggio sulle origini siciliane di Shakespeare. La versione di Juvara appare sostanzialmente come un mix vagamente confusionario delle tesi precedenti. Il nome Shakespeare sarebbe lo pseudonimo di Michelangelo Florio; non però il Michelangelo Florio nato a Firenze e padre di John Florio, ma un suo omonimo nato a Messina nel 1564, di origini palermitane, figlio di Giovanni Florio e Guglielmina Crollalanza.

Tale Michelangelo Florio, come il suo omonimo fiorentino, avrebbe dovuto affrontare numerose peregrinazioni perché ricercato dalla Santa Inquisizione per via di idee eretiche; finisce col rifugiarsi in Inghilterra, presso un cugino inglese della madre (Shakespeare), che gli assegna il nome del figlio scomparso prematuramente, cioè, appunto, “William Shakespeare”. Grandi assenti, ancora una volta, le prove documentarie; a supporto della tesi, solo una serie di suggestioni e coincidenze assortite.

Insomma, alla fine dei conti, quella di Shakespeare messinese si rivela essere poco più che una ipotesi romanzesca, una speculazione; o, per dirla con le sue stesse parole, molto rumore… per nulla. 

Gianpaolo Basile

Image credits: GFDL, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2274219