Stalker: lo specchio della nostra anima

 

"Stalker" di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia
“Stalker” di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia   – Voto UVM: 5/5

Ispirato vagamente dal romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli  Strugackij, Stalker risulta essere il film anti-fantascientifico per eccellenza: imbastendo un lungometraggio  pacato, riflessivo ed esistenzialista, Andrej Tarkovskij ci regala un’alternativa di stampo sovietico al cinema sci-fi americano, imbottito di azione e spesso magniloquente.

Prodotto dalla Mosfil’m (1979) e distribuito in Italia dalla C.I.D.I.F., è attualmente disponibile su Youtube integralmente sia in lingua originale con i sottotitoli in inglese, sia nella versione doppiata in italiano.

Lo scrittore di Stalker
“Lo scrittore” (Anatolij Solonicyn). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

LA TRAMA

In un imprecisato luogo dell’est Europa, un intellettuale ed uno scienziato decidono di avventurarsi in un sito protetto e difeso dall’esercito, la cosiddetta “Zona”, poiché si pensa che al suo interno ci sia una “Stanza” miracolosa che ha il potere di realizzare il desiderio di chiunque entri al suo interno: si rivolgono dunque, ad uno “stalker”, ovvero un’esperto della “Zona” che durante il film li aiuterà a superare le insidie e le trappole sovrannaturali che costituiscono il pericolo principale della suddetta area.

UNA FANTASCIENZA ATIPICA

Uno dei principi narrativi più attenzionati e misinterpretato da registi e sceneggiatori nell’ultimo secolo, è la cosiddetta “Pistola di Cechov”; il drammaturgo russo sovente consigliava ai propri allievi di eliminare dai loro lavori qualsiasi elemento futile ai fini della narrazione, riassumendo il concetto nell’iconica frase: «Non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà. È sbagliato fare promesse che non si vuole mantenere.»

Questo è ciò che contraddistingue Stalker da qualsiasi altro film fantascientifico: Tarkovskij ci promette una pellicola frenetica, nella quale i nostri protagonisti dovranno superare eroicamente le insidie nascoste nella pericolosa “Zona”, ed alla fine ottenere il loro meritato premio, come nei più classici dei romanzi o poemi epici.

Eppure le promesse non vengono mantenute; l’unica scena movimentata è la fuga dalle forze armate (che assomiglia più ad una partita a scacchi che ad un vero inseguimento) e i personaggi sono accomunati da un’aura di miserevolezza che si amplifica ad ogni estenuante lamentela, ad ogni insicurezza che viene rivelata man mano che i tre si addentrano nella “Zona” (ed è in questo che forse Stalker si avvicina maggiormente ad un’opera di Cechov).

lo stalker di "Stalker"
Lo “Stalker” (Aleksandr Kajdanovskij). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

IL MIRACOLO DELLA “ZONA”

L’ambientazione di Stalker è una stupenda metafora che riassume già nei primi minuti ciò che diventerà palese solo nelle battute finali: Tarkovskij descrive una realtà sospesa nel tempo, fatiscente ed immersa in uno stato catatonico, che il regista ci restituisce magistralmente impiegando uno sciatto seppiato (ricordando visivamente il cinema espressionista tedesco dei primi anni ’20) che infetta l’inquadratura come un virus, sottolineando lo stato di estrema apatia di ogni essere umano che vediamo a schermo.

È solamente grazie ai paesaggi pittoreschi della “Zona” (un misto di Russia, Estonia e Tagikistan) che la pellicola riacquista il colore e riesce ad esprimere le sue piene potenzialità: nonostante la sua natura soprannaturale, essa non è altro che la personificazione della vita stessa.

D’altronde è lo stesso Tarkovskij ad affermare stizzito di aver fatto di tutto per rendere palese questo concetto; coloro che entrano nella zona spesso non si rendono conto di cosa stia veramente accadendo, possono proseguire con un incosciente moto rettilineo uniforme verso la meta e non trovare alcun pericolo, oppure farsi sopraffare dalle paranoie,  perdersi e vagare all’infinito per poi scoprire di aver semplicemente girato in tondo per tutto il tempo.

 

La prova del "Tritacarne" in Stalker
La prova più insidiosa, il “Tritacarne”. “Stalker” di Andrej Tarkovskij.

I VIAGGIATORI

Ciascuno dei tre protagonisti rappresenta una visione diversa della realtà, spesso conflittuale l’una con l’altra. Il regista, inoltre, evita volontariamente di rivelare i loro nomi per rendere più universali i concetti che esprimeranno durante la pellicola; essi non sono soltanto degli individui, bensì degli archetipi.

Lo scrittore è un intellettuale disilluso da tutto, fatto a pezzi ed incattivito dalla società che lui stesso ancora cerca ardentemente di impressionare; ciò che cerca è l’ispirazione, ma non sa neanche lui di cosa sia composta, né tantomeno come si trovi. Il suo viaggio appare più come un costante tentativo di suicidio, un barattare la propria vita nella speranza di poter trovare finalmente l’appagamento, anche nella morte.

Il professore è uno scienziato scettico, fermamente convinto che la ragione sia la risposta a tutto e che la scienza sia la panacea per tutti i mali; infatti anch’egli intraprende il viaggio con un impreciso obiettivo, ma l’esperienza della “Zona” lo cambierà radicalmente.

                                                                                        E LO STAKER

Lo stalker è la rappresentazione di un fedele appassionato, devoto visceralmente alla “Zona”: per lui non c’è altro, nel momento stesso in cui ritorna al mondo esterno si sente svuotato del suo vero senso nella vita.

Egli istruisce i suoi due compagni nelle vie della “Zona”, esattamente come il suo maestro (il famigerato “Porcospino”) aveva fatto con lui; la sua conoscenza dei segreti della “Zona” si manifesta nei piccoli gesti, quasi dei riti che egli compie per evitare le trappole, per trovare la strada corretta, persino per ingraziarsi la buona volontà della “Zona”, come se fosse un dio che li giudica costantemente.

Egli non ha mai espresso il suo desiderio, conscio dell’avvertimento del suo maestro: sarebbe come spiegare un trucco di magia dopo averlo eseguito, o rivelare il mistero di Dio ad un fedele. Ecco perché viene definito “stalker”: si limita ad osservare e a traghettare gli altri verso qualcosa che non potrà mai raggiungere, e in questo trova la propria felicità.

Aurelio Mittoro

La Cosa: fantascienza paranoica e guerra fredda

Parthenope
Il ritratto di una società violenta e psicotica in uno dei film horror-fantascientifici più iconici di sempre: “La Cosa”. Voto UVM: 5/5

La Cosa è indubbiamente uno tra i cult cinematografici più discussi di sempre: remake di La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks (1951), fu eclissato dal roboante successo della fantascienza sciatta e buonista di E.T. l’extra-terrestre in quel novembre del 1982 ma riuscì, nel tempo, a farsi strada nel cuore degli appassionati grazie ad una sceneggiatura semplice ma ricca di colpi di scena, degli effetti visivi straordinari per l’epoca e tutt’ora mozzafiato, nonché La magistrale colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi elementi, coadiuvati da una regia politica e visionaria del maestro John Carpenter, delineano una pellicola ricca d’azione ma con tempi dilatatissimi, orrorifica e disgustosa ma al tempo stesso leggera e grottesca, fantascientifica nella sua atmosfera e nel suo iconico villain ma terribilmente concreta ed impressionista nelle sue dinamiche e nella critica contro una società americana violenta, paranoica e menefreghista.

LA TRAMA

Il film si apre con l’inseguimento di un cane da parte di due ricercatori norvegesi a bordo di un elicottero. I due sembrano più che determinati a sopprimere la bestia in fuga, la quale trova rifugio nella base americana U.S. Outpost #31, ma la cattiva sorte fa si che il pilota rimanga coinvolto nell’esplosione dell’elicottero, causata dal lancio maldestro di una granata, e che l’altro ricercatore non riesca a spiegare la gravità della situazione ai suoi colleghi statunitensi, per via della barriera linguistica che li separa: nel picco massimo di tensione, il norvegese colpisce erroneamente uno degli americani e la situazione degenera in una sparatoria. Ucciso il pazzo straniero dal comandante Garry (Donald Moffat), la crew dovrà affrontare una minaccia ultraterrena, che sembra infettare ed assumere le sembianze di ciò che tocca, e che loro stessi hanno lasciato entrare…

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

LA DECOSTRUZIONE DELL’EROE

Nonostante le varie personalità del gruppo siano ben delineate ed ampiamente caratterizzate, tra i 12 membri della squadra di ricercatori spicca immediatamente quella di R.J. MacReady (Kurt Russel), per via del suo carisma prorompente ed anche grazie ad una certa spavalderia.

La messa in scena suggerirebbe il più banale dei protagonisti valorosi e puri di cuore, eppure già nei primi minuti del film MacReady perde a scacchi contro un computer e lo accusa di aver barato, per poi annegare i suoi circuiti nel Whiskey; ciò che all’apparenza potrebbe sembrare il classico eroe da film d’azione americano, sicuro di sé e sempre pronto a salvare la situazione, Carpenter lo trasforma lentamente in una macchietta arrogante, cocciuta e violenta, perennemente confusa ed incapace di accettare la sconfitta.

UNA REGIA FUNZIONALE ED INNOVATIVA

Le sue abilità registiche, Carpenter, le aveva già messe in mostra in svariate pellicole, passando dai classici horror slasher come Halloween – La notte delle streghe a film d’azione ritmati alla 1997: Fuga da New York, eppure non aveva ancora sfoggiato una tale creatività e polivalenza come in questo film: il regista statunitense dà voce a tutte le sue influenze accostando momenti di body horror puro a dialoghi freschi e cadenzati, alternando scene d’azione con un montaggio serrato ad inquadrature fredde e serafiche (e per questo inquietanti), il tutto mantenendo il ritmo sempre costante ed oscillando continuamente tra il destabilizzante ed il grottesco.

Di grande aiuto furono gli interventi di Robert Bottin, un artigiano degli effetti speciali analogici che contribuì ad ideare ed a realizzare la “cosa” nelle sue varie e spaventose forme.

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

GLI ANNI ’80 E LA VISIONE DI CARPENTER

Negli anni ’80 del secolo scorso la guerra fredda era ormai agli sgoccioli, e gli U.S. spalancavano le porte al cosiddetto “Edonismo Reaganiano“, un decennio segnato dal consumismo dilagante, nonché una vacua ricerca dell’appariscenza e della spensieratezza nettamente in contrasto con le lotte politiche e il clima di terrore che avevano segnato gli ani passati: i cittadini americani rigettarono l’impegno collettivo atto a migliorare la società e si rinchiusero nella loro sfera privata, perseguendo unicamente la propria felicità personale.

Carpenter coglie perfettamente questo clima di disinteresse apatico e disillusione politica, e lo trasforma nel suo film in una crescente diffidenza tra i membri della crew, alle prese con una minaccia che potrebbe tranquillamente assumere le sembianze dell’uomo con cui hai condiviso la stanza fino a ieri; la fiducia reciproca viene meno, la cooperazione diventa impossibile ed è così che l’uomo è costretto a regredire allo stato di bestia.

IL FINALE

La Cosa
Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

Del resto è la natura stessa della “cosa” a rappresentare una minaccia ideologica per gli americani: il timore di essere assimilati ad un essere senza identità, che può diventare la tua identica copia in tutto e per tutto è indubbiamente terrificante, ma nella cultura dell’io tale prospettiva scardina completamente ogni certezza che abbiamo su ciò che siamo effettivamente.

Nel film risulta impossibile distinguere un organismo originale da uno assimilato, ed in alcuni momenti sembra che neanche quest’ultimo si renda conto di essere ospite della “cosa” fino a quando essa non si palesa. Il culmine viene raggiunto nel finale, quando gli ultimi superstiti si incontrano dopo aver fatto esplodere la base: la minaccia sembra svanita, eppure la tensione è al suo picco; non vi è un minimo segno di empatia, solo due esseri umani pronti a morire da soli pur di non dialogare l’uno con l’altro. 

 

di Aurelio Mittoro

Matrix Resurrections: un sequel che divide il pubblico

Film che promette bene, ma si perde col passare dei minuti. Da “Matrix” ci si aspettava di più – Voto UVM: 2/5

 

Dopo circa 18 anni dalla conclusione della trilogia, Matrix ritorna sul grande schermo con un sequel/reboot atteso dai migliaia di fan della saga.

Matrix Resurrections, questo è il nome della pellicola disponibile nelle sale cinematografiche dal 1° gennaio. Il film vede protagonisti nuovamente i personaggi di Neo e Trinity, sempre interpretati da Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Presenti anche altri personaggi centrali della trilogia, come Morpheus e l’ agente Smith, in questo caso però impersonati da attori differenti (rispettivamente Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff).

La regia è stata affidata stavolta alla sola Lana Wachowski, che ha curato anche la sceneggiatura.

Neo e Trinity

Molti dubbi aleggiavano sul successo e sulla validità di un sequel del genere: le vicende si erano ormai concluse in Matrix Revolutions, un seguito sembrava abbastanza forzato. In sintesi, Matrix Resurrections sembrava il classico tentativo di fare incassi sfruttando un brand di successo. Tuttavia l’uscita dei trailer aveva riacceso l’entusiasmo e la curiosità tra i fan e non solo.

Prime impressioni: quei difetti che balzano all’occhio

La trama di base non è male: Neo si ritrova ancora intrappolato in Matrix facendo i conti con il suo passato che riemerge. Diversi sono i cambiamenti che avvengono all’interno di questo mondo (il che è più che legittimo). Il problema è lo sviluppo: il film infatti va a perdersi col passare dei minuti risultando non molto interessante.

Alcuni personaggi risultano spenti, altri si vedono poco e finiscono per avere ruoli secondari, altri ancora risultano delle macchiette che definirei “fastidiose”.

Il finale poi mi sembra troppo affrettato – nonostante il film arrivi quasi alle 2 ore e 20 – con molte situazioni che non vengono spiegate in maniera adeguata. Abbiamo pur sempre a che fare con della fantascienza, ma qui le forzature sembrano essere troppe e alcuni avvenimenti risultano incoerenti con i film precedenti, classico difetto dei sequel e motivo per cui difficilmente riescono bene.

Morpheus in una scena del film

In più la storia sembra priva di spunti filosofici interessanti: troviamo solamente argomenti già affrontati e quest’aspetto la depotenzia molto. Vengono riprese le tematiche della scelta e del libero arbitrio, ma il discorso si era già esaurito nei capitoli precedenti: questa appare solo una ripetizione. Perciò complessivamente ho trovato il film piuttosto vuoto: da Matrix si pretende qualcosa in più.

Metacinema e altre note di merito

Il film si pone, però, come una critica spietata verso la situazione cinematografica attuale: da una parte ci sono gli spettatori, affezionati a determinati prodotti, e dall’altra l’esigenza delle case di produzione di adattarsi a queste richieste per riuscire a vendere. Ciò che traspare è un intento da parte della regista di prendere in giro questo sistema, come possiamo notare nella prima parte della pellicola.

Lana Wachowski sembrerebbe girare e scrivere questo sequel quasi di controvoglia, costretta dalle esigenze di mercato della Warner. Tuttavia, quello che ne viene fuori sono alcuni siparietti metacinematografici di alto livello, che ironizzano sul film stesso.

Sembrerebbe esserci stata una presa di coscienza da parte della regista che, consapevole di aver già tirato fuori il meglio dal brand, decide comunque di realizzare questo quarto capitolo, adottando di proposito certe soluzioni infelici, ma offrendo all’industria ciò che vuole.

Forse il cinema, come ogni forma d’arte contemporanea – per usare un termine proprio del film – si trova davvero intrappolato in un loop, in cui si ritorna sempre a proporre il classico “usato sicuro”, qualcosa di già visto (non a caso uno dei temi affrontati in questo Matrix è quello del déjà-vu).

Fonte: Zimbio.com – Carrie Anne Moss, Lana Wachowski e Keanu Reeves alla première del film

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la regia è stata curata magistralmente, la CGI ben utilizzata e le scene d’azione non dispiacciono, anche se a volte confusionarie e comunque al di sotto di quelle viste nei film precedenti.

Presenti anche molte citazioni e riferimenti alla trilogia: puro fan-service verso gli appassionati che però non guasta, anzi è ben realizzato e rientra tra le note più positive.

Un Matrix diverso?

È molto difficile valutare questa pellicola: se si dovesse considerare una parodia voluta contro il sistema dello sfruttamento estenuante dei brand cinematografici, allora il giudizio sarebbe ottimo. Se si dovesse considerare, invece, esclusivamente come sequel della trilogia allora lo reputerei insufficiente.

Matrix Resurrections può convincere come film a sé stante, ma, posto in confronto con i capitoli precedenti della saga, rivela la sua vacuità.

In sostanza è un Matrix diverso, lontano dai canoni e dalle atmosfere dei primi film. Ma forse questo cambiamento è stato voluto e ci si dovrebbe focalizzare non tanto sulla trama, ma sul messaggio che la regista vuole dare.

È vero che si può trovare sempre qualcosa da raccontare: le storie potenzialmente non finiscono mai, ma ad un certo punto diventano ridondanti, rischiando di cadere nella mediocrità.

 

Sebastiano Morabito

Dune: un’epopea fantascientifica

Dune, pellicola fantascientifica in grande stile, sugli schermi italiani dal 16 settembre, delude – in parte – le aspettative della comunità cinefila internazionale. Film visivamente bellissimo: effetti speciali molto curati e spettacolari, ma scarno l’approfondimento dei personaggi che animano lo storytelling.

Il regista canadese Villeneuve (autore di tredici lungometraggi), in un film di 2 ore e 36 minuti, preferisce infatti dare spazio alle immagini con riprese di paesaggi, inquadrature magniloquenti e riferimenti artistici.

Dune si ispira alla serie omonima di romanzi dello scrittore americano Frank Herbert: un pilastro della letteratura fantascientifica che ha visto un precedente tentativo sul grande schermo nel 1984 ad opera del regista Lynch.

La trama

Siamo nel 26.000 d.C, anno più anno meno: l’umanità ha ormai colonizzato l’universo conosciuto. I viaggi interstellari sono resi possibili grazie all’avanzamento tecnologico e al “melange“, una spezia (unica nel suo genere) che si trova sul pianeta desertico di Dune. La spezia è un potentissimo propellente ed ha effetti psicoattivi sugli umani.

L’universo di Dune è governato da un sistema semi-feudale, con a capo un imperatore, ma in realtà il potere è gestito dietro le quinte dall’organizzazione “Bene Gesserit”, un ordine monastico-iniziatico di sole donne. L’ordine politico sembra molto simile al Sacro Romano Impero o all’Impero Ottomano, con a capo un imperatore-sultano che teme di essere detronizzato e provoca guerre fra le casate.

I vassalli dell’imperatore governano interi pianeti o settori. Nel film conosciamo la saggia e potente casata degli Atreides, a cui l’imperatore decide di affidare il pianeta Arrakis. Appartiene all’antica casata di chiare origini greche il giovane protagonista Paul (Timothée Chalamet), figlio del duca Leto (Oscar Isaac).

Oscar Isaac nei panni del duca Leto. Fonte: Warner Bros.

Il controllo di questo pianeta deserto è stato revocato dal monarca alla casata antagonista degli Harkonnen, uomini dalla pelle chiarissima, una casata brutale e violenta differente dalla prima che fa capo al malvagio e sadico Barone Vladimir Harkonnen (Shellan Sharsgard).

Il duca Leto, più che alla spezia, è tuttavia interessato a stringere un’alleanza con i “fremen”, popolazione autoctona di Dune, famosa per le sue doti guerriere. I nuovi governanti dovranno comunque occuparsi della raccolta della spezia su un pianeta dal clima inospitale, abitato dai vermi del deserto: animali simili a giganteschi lombrichi lunghi 300 metri.

Soltanto dopo poche settimane dall’insediamento, il barone attaccherà la famiglia rivale per riprendere il controllo del pianeta e per motivi di pura rivalità. Da qui iniziano le peripezie del protagonista Paul che tenta di salvare la propria vita sul pianeta Dune.

Pregi e difetti

rappresenatazione del pianeta deserto di Arrakis con le sue due lune
Un’immagine del pianeta deserto di Arrakis. Fonte: Warner Bros.

Le bellissime e ammalianti immagini del deserto e delle battaglie cercano di sopperire alla sceneggiatura povera e alla mancanza di approfondimento di tutti i personaggi in una pellicola a metà strada tra l’azione e la fotografia politica. Il regista vuole raccontare la complessa struttura – non solo di un mondo – ma di un intero universo con un film che vuole essere preparatorio per i successivi.

La trama si scioglie molto, troppo lentamente: il film sarebbe potuto durare anche meno per affascinare e catturare di più l’attenzione dello spettatore.

Gli attori sono tutti eccezionali nell’interpretazione, la fotografia eccellente, artistica e Dune è comunque un film che merita di essere visto dagli appassionati del genere anche solo per gli effetti speciali, le musiche e le scene di battaglia . Non è un flop per quanto riguarda gli incassi, non è un flop dal punto di vista della la qualità, ma la speranza in un sequel con maggiore dinamismo e un approfondimento dei  personaggi renderebbe sicuramente un’eventuale saga più appassionante e intensa.

Fonte: comingsoon.it

Marco Prestipino

Neuralink, l’interfaccia uomo-macchina sempre più vicina

  • Sembra di parlare di qualcosa di futuristico o di fantascienza

Ma in realtà il 28 agosto 2020 è stata presentata la demo di Neuralink, con dati scientifici alla mano. 

Il prodotto è stato testato su 3 simpatici maialini, umoristicamente chiamati “Cypork”, i quali godono tutti e 3 di perfetta salute. 

In un maialino usato come controllo non è stato installato Neuralink, in un altro è stato installato e rimosso dopo 2 mesi, dimostrando che è possibile rimuovere il dispositivo dal cervello senza alcun danno, nel terzo maialino Neuralink è ancora in funzione, mostrando le potenzialità di cui dispone. 

Ma cos’è Neuralink?

Neuralink è un dispositivo dotato di microchip ed elettrodi, in grado di far comunicare ed interagire un cervello con un computer, ideato e finanziato dall’imprenditore Elon Musk, CEO di Tesla e Space X, che sta facendo molto parlare si sè ultimamente.

Cosa propone di trattare Elon Musk con Neuralink? 

  • Danni cerebrali, dati da ictus, incidenti ecc 
  • Danni alla spina dorsale
  • Deficit sensoriali (cecità, sordità ecc)
  • Malattie neuro degenerative parkinson
  • Perdite di memoria
  • Malattie psichiatriche come ansia e depressione

 

Dati alla mano, cosa abbiamo? 

Il Neuralink attuale è un impianto invisibile intracranico, con 1024 elettrodi (gli attuali dispositivi arrivano ad una ventina di elettrodi) talmente fini che la loro installazione non produce sanguinamento. 

È installabile in day hospital, senza bisogno di anestesia generale e in una sola ora, traguardo grande rispetto gli attuali dispositivi medici di elettrostimolazione intracranica. 

 Inoltre è stato creato un robot chirurgico ad hoc per l’installazione del dispositivo, per aiutare i chirurghi consentendo pure meno eventuali errori.  

Permette contemporaneamente di “leggere” gli Spikes (la scarica elettrica ndr) dei neuroni, e di “scrivere” ovvero mandare Spikes ai neuroni a propria volta. 

 Grazie ai software odierni è possibile modulare gli spikes affinché si attivi solamente il gruppo  di neuroni che si desidera attivare. 

Attualmente è installabile solo nella corteccia cerebrale e nel midollo, ma presto sarà installabile pure in profondità, consentendo una migliore gestione del sistema limbico. 

Nei maialini c’è la dimostrazione pratica di cosa è in grado di fare, come per esempio andare a predire gli Spikes corretti da mandare al midollo perché si esegua una camminata su tapis roulant, con differenze minime rispetto agli spikes fisiologici. 

Elon, ha dichiarato che sarà possibile installare pure più di un dispositivo nella stessa persona. 

Il dispositivo si ricarica wireless la notte, avendo una durata di una intera giornata con una carica. 

 Attualmente è stata fatta la richiesta formale alla FDA (Food and Drugs Amministration) per i test sull’uomo, necessita ancora di qualche test animale e poi verrà approvato. 

L’azienda cerca altro personale (attualmente sono in cento) per sviluppare più velocemente l’uso sull’uomo e in larga scala. 

In conclusione, che dire? 

Che siamo davvero nel terzo millennio e si vede. 

Con questo dispositivo, qualora funzionasse pure sull’uomo (le premesse sono ottime), sarà possibile riportare ad una vita normale milioni di persone con varie disabilità, dai paraplegici ai non vedenti. 

Sarà possibile comunicare, qualora lo si “acconsenta” con altre persone i nostri veri pensieri in tempo reale, con un linguaggio non più verbale ma neurale, riuscendo ad esprimere davvero agli altri le nostre idee, le nostre emozioni. 

Si potranno vivere nuove esperienze in campo di gaming, musica, films e altre attività video ludiche. 

Potremo addirittura implementare i normali sensi arrivando ad avere una “super vista” o altro ancora. 

E, ancora più importante secondo il CEO Elon Musk, potremmo competere con le AI (Artificial Intelligence) che rischiano ben presto di superarci.  

Ovviamente non dimentichiamo che uno strumento del genere aprirà nuovi ed importanti dibattiti d’Etica:

Saremo noi o sarà il computer a pensare quello che stiamo pensando?

Non si rischia forse di oltrepassare il confine di ciò che significa “essere umani”?

Fortunatamente prima di provare a dare una risposta a queste domande, dovremo aspettare qalche altro anno, ma c’è da dire che stiamo vivendo in un’era meravigliosa, le differenze tra il futuro che immaginavamo e la realtà sono sempre più sottili. 

Siamo gli stessi artefici, consapevoli, della nostra evoluzione. 

What a beautiful time to be alive  

Roberto Palazzolo

Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=sr8hzF3j2fo&feature=youtu.be&fbclid=IwAR0efnGp4slqkxVwwddrwlUe9-5Wcfh-q5WjUUtnWJd1xHVLQJMTetwJzEs  

Conferenza di Elon Musk del 28/08/2020 

 

#iorestoacasa: Guida di sopravvivenza pt.4

Un libro al giorno toglie il virus di torno, almeno così diremmo oggi!

Milioni di volte abbiamo sentito dire che con la lettura si possono esplorare altri mondi, percorrere nuove avventure nel passato, nel presente e nel futuro, stando però comodamente sdraiati sul letto o sul divano con il nostro pigiama.

Proprio in questi giorni possiamo mettere in atto quello che ci è stato detto per anni per spronarci a leggere quando preferivamo scorazzare per le strade.

Ecco a voi dei consigli di lettura per fare fronte serenamente a questa quarantena ogni giorno della settimana.

Lunedì: Suite Francese- Iréne Némirovsky

Il testo si compone di due parti pubblicate postume nel 2004. L’intenzione della scrittrice era quella di inserirle in una pentalogia di romanzi racchiusi nella cornice di un’unica opera che avrebbe narrato la guerra in tutte le sue sfaccettature.

Ci pervengono in Suite Francese le parti Tempesta di giugno e Dolce. La prima si incentra sulle vicende e peripezie di personaggi appartenenti a svariate classi sociali della Francia alla presa con la fuga (dato che in questo momento si parla molto di esodi vari) dalle città che stanno per essere bombardate dai tedeschi. Dolce invece narra la storia d’amore tra una donna francese e un soldato delle truppe tedesche in piena seconda Guerra mondiale.

Fonte: Adelphi Edizioni

Martedì: Io sono Dio- Giorgio Faletti

Ad abbattere il tedio di questa quarantena, che per il momento non sembra avere fine, non può mancare un noir. Dalla penna di Giorgio Faletti viene fuori un romanzo accattivante ambientato nel distretto di Manhattan.

La protagonista è una giovane investigatrice che cercherà di scoprire cosa si cela dietro sporadici attentati che stanno affliggendo la città di New York. Potrebbe sembrare “una trama scontata da solito thriller”, ma seguendo le vicende della nostra protagonista, ben presto vi accorgerete che il romanzo divorerà subito la vostra attenzione alleviando la noia di queste giornate.

Fonte: Specialissimo

Mercoledì: Oltre l’inverno – Isabel Allende

Questa volta Isabel Allende ci propone un testo a metà strada tra i romanzi rosa e i gialli, come è solita fare. Oltre l’inverno narra le vicende di due professori universitari a Brooklyn, Lucía Maraz e Richard Bowmaster, le cui vite si incrociano improvvisamente con quelle di Evelyn Ortega, una ragazza immigrata illegalmente negli Usa dopo esser scappata dal Guatemala.

Tutte e tre i personaggi presentano un passato tormentato. In particolar modo Lucía, che da giovane ha conosciuto la dittatura cilena ed Evelyn, vissuta in un villaggio in cui la violenza e i disordini sociali scandivano la quotidianità. Le persecuzioni etniche e le dittature militari, vissute dalla Allende in persona, anche in questo romanzo sono quegli eventi reali che fanno da cornice a personaggi di pura fantasia dell’autrice.

Fonte: PicClick

Giovedì: Nessuno si salva da solo- Margaret Mazzantini

Un flashback che ripercorre la vita di coppia di Delia e Gaetano durante una cena tra i due, un romanzo sentimentale quindi. La Mazzantini ci propone, in uno dei suoi lavori più fortunati anche a livello cinematografico, la storia di una coppia alle prese con la separazione e con il decidere le sorti dei due figli piccoli. Non si allontana l’autrice da quello che è il vissuto e le problematiche di molte relazioni in crisi, ma sicuramente il messaggio di speranza lasciato riesce a far scorgere al lettore un barlume di positività.

Fonte: Librando e viaggiando

Venerdì: Un mese con Montalbano- Andrea Camilleri

Montalbano, ovvero l’esperimento meglio riuscito di letteratura poliziesca nazionale e – perché no – anche internazionale contemporanea potremmo dire. Camilleri ci propone qui trenta racconti con protagonista il famoso commissario di Vigata che dovrà risolvere i suoi casi e trovare i colpevoli. Tra ironia, sicilianità, giallo e macchiette di paese, sicuramente abbiamo tra le mani un testo che può diventare un’ottima distrazione in queste giornate.

Fonte: Goodreads

Sabato: Ciclo delle Fondazioni – Isaac Asimov

Non avremmo potuto dimenticare i tanti appassionati di fantascienza: vi suggeriamo non un solo romanzo, ma un intero ciclo di ben 7 libri di uno degli scrittori che più ha fatto la fortuna del genere, nella certezza che abbiate parecchio tempo a disposizione.

In realtà, la storia scorre rapidissima: Asimov riesce a trasporre tematiche universali in un tempo senza confini – quello della narrazione – mediante l’utilizzo dell’affascinante sfondo futuristico.

Fonte: Mondadori

Come variano le dinamiche di potere? Quanto peso ha e quale contributo dà la scienza alla nostra civiltà?

Poco importa se si parla di pianeti e non di nazioni, di principi e non di Premier, questi interrogativi ci sembrano quanto mai attuali. L’intera opera affronta un vasto arco temporale, senza mai essere dispersiva: dalla fondazione alla caduta di un impero galattico, dalla civiltà alla barbarie, senza dimenticare i tentativi di impedire un corso degli eventi che appare inevitabile.

Un must per gli amanti del genere e non!

Domenica: Dal big bang ai buchi neri (Breve storia del tempo) – Stephen Hawking

Dalla fantascienza alla scienza: il compianto astrofisico ha lasciato in eredità non solo un esempio di resilienza (del quale vi abbiamo parlato poco tempo fa) ma anche brillanti teorie scientifiche.

Punto di forza della narrazione è l’accessibilità a ogni lettore, di quello che di fatto è un libro puramente divulgativo.

Fonte: ibs.it

Lasciamoci coinvolgere allora dalle grandi domande che da sempre l’uomo si pone, dall’origine alla fine dell’universo fino alla natura del tempo stesso; ma, sopratutto, dalle risposte che Hawking ha provato a darci.

 

Speriamo che i nostri consigli siano utili ad “evadere restando comunque sempre a casa!

 Ilenia Rocca ed Emanuele Chiara

WALL•E: dieci anni di modernità

Ci sono momenti nella vita in cui si ha voglia di tornare bambini e non solo nel periodo natalizio. Questa mia “voglia di ringiovanire” è stata agevolata dal servizio di streaming più famoso in Italia (quello che inizia per N, per intenderci), che ha inserito nel suo vasto catalogo una piccola perla della Pixar e della Disney: WALL•E.

Ammetto che non lo avevo ancora visto, ma volevo assolutamente farlo, ed ho colto l’occasione. La mia recensione, quindi, non sarà un’analisi tecnica su un film che ha ormai 10 anni, del quale hanno parlato tantissime testate e critici ai tempi; ma l’opinione di una ragazza di 30 anni (mi piace definirmi ragazza ancora, perché no) che lo ha visto per la prima volta, con un bagaglio di esperienze sicuramente diverso rispetto a una “me” più giovincella.

La regia e la fotografia, oltre che l’animazione, sono veramente ben studiate e costruite; le ho apprezzate davvero tanto, ma il mio commento sarà “più di pancia”.

Il futuro distopico che il film ci sbatte letteralmente in faccia è qualcosa di devastante, catastrofico. Cumuli di spazzatura e città fantasma. Eppure i primi 10 minuti di film sono un concentrato di tenerezza e simpatia. Ci viene presentato questo robottino-compattatore, unico superstite del pianeta Terra, insieme a un piccolo insetto. Un robot particolare WALL•E, curioso, indagatore, che prova anche paura, sensibile, che discerne tra le cose che possono essere ancora utili o gli piacciono. Come una videocassetta con il musical Hello Dolly, che lui ama molto ed allo stesso tempo lo mette di fronte la realtà della sua solitudine concreta.

Questa condizione, però, cambia quando sbarca sul pianeta EVE.

Lei è molto più “moderna” di lui, ma il nostro simpatico e dolce robot cercherà in tutti i modi comunicare con lei e farà di tutto per aiutarla. E’ molto carina questa contrapposizione tra ipertecnologia e oggetti in disuso. Lo stesso WALL•E, per quanto automa, è un “oggetto” vecchio, ma è unico e ricco di personalità.

Questo amore tra “macchine” che, diversamente dal solito, non sono affatto antropomorfe, è di una delicatezza disarmante. Tutto quello che succede nel film dimostra quanto le macchine siano più umane degli uomini stessi. Gli umani, quelli che il pianeta lo hanno distrutto e abbandonato e, peggio ancora, rintronati dalla tecnologia, hanno rovinato loro stessi.

Dieci anni e i temi sono sempre attuali: la natura e il pianeta annientato dalla scelleratezza dell’essere umano, una compagnia multimilionaria che decide sulle sorti dell’intera popolazione, i soldi e il potere. Forse questa cosa dovrebbe farci un po’ riflettere.

Quello che deve farci ancora di più riflettere sono i sentimenti e le azioni positive nel lungometraggio: il coraggio, non solo dei robot, l’amicizia, l’altruismo, insomma tutte quelle cose di cui i film Disney sono colmi solitamente.

Non mi sento, però, di classificare WALL•E come un classico d’animazione qualunque, sarebbe un peccato. Mi ha colpito, mi ha toccato il cuore sin dai primi minuti, anche se per i primi 30 minuti non c’è nemmeno una parola; ma i gesti valgono più di mille parole, si dice. E sono contentissima di averlo visto da “adulta”, perché si colgono molte cose. Consiglio, quindi, a chi non lo ha visto di farlo e a chi lo ha visto, dieci anni fa, di rifarlo, perché lo scoprirete più moderno e attuale di quanto potreste immaginare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Z0D5UQr08Co

Saveria Serena Foti

Orphan Black: molto più di una semplice serie TV

Vincitrice di numerosi premi e acclamata dalla critica, Orphan Black è una serie fantascientifica televisiva canadese trasmessa dal 30 Marzo 2013 su Space in Canada e su BBC America negli Stati Uniti. E’ ideata da Graeme Manson e John Fawcett ed è composta da cinque stagioni. L’attrice che svolge il ruolo principale è Tatiana Maslany che, grazie al suo talento, è riuscita ad ottenere un Emmy e due Critics’ Choice Award. La sceneggiatura ruota attorno alla vita di Sarah Manning, una ragazza orfana con alle spalle una carriera da criminale. Dopo aver assistito, alla stazione, al suicidio di una donna identica a lei, Beth Childs, la protagonista decide di rubarle l’identità con l’obiettivo di garantire un futuro migliore a se stessa, a sua figlia Kira e al suo fratello adottivo Felix. E’ proprio da questo momento che la vita di Sarah cambia drasticamente: scopre infatti di essere una delle centinaia di cloni sparsi per il mondo, creati tramite il Progetto Leda. Come se non bastasse, qualcuno sta anche cercando di uccidere sia lei, sia gli altri cloni. Decisa ad indagare, Sarah è pronta a rischiare la propria vita per salvare i suoi familiari e i nuovi cloni (primi fra tutti Alison Hendrix e Cosima Niehaus) che conoscerà man mano che la serie andrà avanti.

Orphan Black è molto più di una semplice serie TV: caratterizzata dalla presenza di una forte e determinata donna come protagonista, oltre a regalare sorrisi e pianti a chi la guarda, permette allo spettatore di porsi delle domande a livello etico, sollevando questioni anche sugli effetti morali che la clonazione causa su un essere umano. La clonazione umana è infatti uno degli argomenti più importanti trattati dall’etica: è giusto o meno clonare un individuo? Chi sono gli uomini per manipolare il DNA a loro piacimento? Orphan Black cerca di rispondere a queste domande, soffermandosi su quanto faccia male ad una persona che ha sempre vissuto la sua vita tranquillamente scoprire che in realtà è solo frutto di qualche esperimento genetico. La serie non si ferma a far conoscere solo il dolore psicologico che l’individuo prova, ma mostra anche come la clonazione umana porti con sé il rischio di malattie. Malattie che molto spesso conducono alla morte dei soggetti clonati e che i protagonisti della serie cercano di combattere. Orphan Black è una serie tv molto interessante anche a livello scientifico, in quanto tratta di argomenti come la composizione del DNA, il genoma, le cellule staminali, che potrebbero non esser noti a tutti. Nonostante sia solo una serie tv di fantascienza, tra i personaggi e lo spettatore si crea un legame molto forte.

I “cloni’’ vengono considerati prima di tutto come singoli individui, persone con sentimenti, interessi e idee diverse gli uni dagli altri: c’è chi è eterosessuale, chi omosessuale e chi transessuale, c’è chi ama la scienza e c’è chi fa il detective. Insomma, se vi siete persi questa fantastica serie tv e avete voglia di recuperarla, questo è il momento giusto. Le cinque stagioni di Orphan Black, terminata nel 2017, sono disponibili in streaming su Netflix. Per apprezzare al meglio il talento dell’attrice, Tatiana Maslany, è consigliata la visione della serie tv in lingua originale.

E voi cosa ne pensate? Vi siete già innamorati di Orphan Black? No? Cosa aspettate? Correte!

https://www.youtube.com/watch?v=d0ck4HrY0ec

 

Beatrice Galati

Arrival: un nuovo tipo di fantascienza adatta a tutti

arrival-poster-venezuelaMisteriosi oggetti spuntano in dodici luoghi intorno al pianeta. Gli alieni , che sembrano delle grandi piovre miste a ragni con sette dita , però non invadono né devastano si cerca di capire cosa vogliono.

Viene ingaggiata dal governo americano una squadra di eccellenze capitanata dalla professoressa Louise Banks , esperta linguista, e il fisico Ian Donnelly che diverrà un fedele ed affiatato compagno di lavoro.
La comunicazione fra alieni e umani è possibile scoprirà la professoressa Banks.

E’ un film di fantascienza , tratto dal libro “Story of your life” di Ted Chiang, ma innovativo : c’è tanta scienza ma anche filosofia e linguistica. 

Gli alieni comunicano con un linguaggio che non dipende da una percezione lineare del tempo che la Banks riesce a decifrare, ma per capire il motivo della presenza degli alieni sulla Terra deve concepire il tempo come gli extraterrestri.
Ecco una caratteristica che non si è mai vista fino ad ora in un film di fantascienza : l’empatia e una grande prontezza nel gestire le emozioni, tratti tipicamente non eroici. 

Nessuna necessità di sparatorie o utilizzo di bombe per la Banks solo la sua abilità di comunicare con gli alieni e le persone che non si capiscono fra loro è l’unico modo di salvare il pianeta.

Le scene dentro la nave aliena sono incantevoli e la stanza in cui c’è il primo incontro ravvicinato con gli alieni sembra un palcoscenico , con una enorme lastra di vetro illuminata e queste due giganti figure eptapodi.

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L’interpretazione di Amy Adams (American Hustle, The Fighter, Di nuovo in gioco) è sublime, Villaneuve ha giocato moltissimo con i primi piani dell’attrice , la quale ha dato prova della sua grande espressività anche nelle scene di silenzio. Le ha fruttato una nomination Golden Globe come miglior attrice drammatica e , come sostiene buona parte della stampa internazionale, c’è odore di nomination agli Oscar.
Bravo anche Jeremy Renner che ha dismesso i panni dell’avenger Occhi di falco o del macho violento.
Nonostante l’utilizzo di pochi spazi non c’è un senso di oppressione.

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Villaneuve ha creato un film universale fatto per piacere agli amanti della fantascienza (un po’ annacquata ) che ci da un messaggio bello e puro quanto il viso della Adams quando interagisce con gli alieni : ascolto e comprensione del diverso da noi.
Concilia le esigenze di tutte le tipologie di pubblico.

NB: Villaneuve è il regista di Blade runner 2049 con Ryan Gosling protagonista, se le premesse sono queste si prospetta un ottimo sequel.

Arianna De Arcangelis

Death note: uno sguardo al mondo degli Anime!

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Insoddisfazione, noia, disgusto, verso un mondo distrutto dalla criminalità e dalle ingiustizie: sono questi i sentimenti che dominano l’animo di Light Yagami. Bello, desiderato da tutte le ragazze e il miglior studente della scuola, eppure per nulla contento della sua vita, tanto perfetta quanto vuota. Ben presto, la svolta: un quaderno nero con la scritta “Death Note”. Uno scherzo? Una trovata geniale?  Chissà, nel dubbio Light lo raccoglie ed è così che fa la conoscenza di Ryuk, uno shinigami (dio della morte) che, animato dalla stessa noia del protagonista, ha deciso di far cadere il suo quaderno sulla terra per divertirsi. Un po’ per curiosità, un po’ per mettersi alla prova, Light quindi decide di usare il quaderno della morte per scrivere i nomi dei più grandi criminali del Giappone; di cui deve necessariamente conoscere il nome ed il volto.

Pian piano imparerà a usare sempre meglio questo strumento, sperimenterà nuove regole riguardo le condizioni e le modalità dei suoi omicidi. Quella che inizialmente doveva essere una piccola missione, ovvero ripulire il mondo dai criminali, diventa per Light una vera e propria impresa. Solo lui può eliminare il male dal mondo, solo lui può essere giudice delle ingiustizie, tanto da arrivare a credersi una sorta di divinità.

Tuttavia, il suo lavoro è ostacolato prima dall’intervento della polizia Giapponese, poi dall’istituzione di una squadra speciale incaricata di indicare su Kira (“assassino”, soprannome assunto da Light), di cui fa parte anche il suo stesso padre, Soichiro Yagami, sovrintendente della polizia giapponese ed Elle, giovane detective dalle strabilianti capacità. Proprio Elle si rivela essere l’immagine speculare di Light. Entrambi eccessivamente intelligenti, sicuri di sé, ciascuno con un proprio senso della giustizia ma con un obiettivo comune: battere l’altro per portare avanti il proprio ideale. Light per divenire il giustiziere di questo mondo malato, Elle per combattere proprio ciò che lui giudica il sommo male.

Sarà una lotta assolutamente pari, con colpi bassi, acute rivelazioni e sorprese da parte di entrambi. “Death note” è una serie interessante, complessa oserei dire, perché sdogana il classico concetto di bene e male, di giusto e sbagliato. Riesce a tenere con il fiato sospeso a ogni puntata, nonostante le scene d’azione siano quasi inesistenti, in quanto sono proprio le elucubrazioni, le macchinazioni e l’introspezione psicologica dei protagonisti che tengono le fila della trama e che ci portano a capire ed a immedesimarci nei loro pensieri, fino a giustificare o addirittura a supportare le loro decisioni, non sempre edificabili.

E voi, da che parte state?

Edvige Attivissimo