Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società

Lunedì 1 aprile 2019. Ore 15:40. Auditorium del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina. L’associazione Must, ha dato vita ad un incontro intitolato “Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società”, in occasione dei 20 anni dalla scomparsa del famoso cantautore.

Durante l’incontro sono intervenuti il professore Giorgio Forni, ricercatore universitario, il professore di comunicazione e giornalismo Francesco Pira e il professore Marcello Mento, giornalista della Gazzetta del Sud. Ai partecipanti sono stati riconosciuti 0,25 CFU.

Nel corso del convegno sono state analizzate le canzoni di De André come vere e proprie poesie del Novecento italiano, un’indagine concentrata sull’umanità dell’autore e dei testi, sui temi e i sentimenti più forti: la necessità dell’amore, l’incombenza della morte, la ricerca di Dio.

La musica leggera italiana, dal principio sino ad ora, ha conosciuto trasformazioni perenni, metamorfosi, innovazioni del linguaggio, dei contenuti e dei destinatari. Come ogni arte è specchio di informazioni sull’uomo.

L’esordio di Fabrizio De André come cantante coincide con un periodo di palpabile fermento nel mondo della musica e nella società italiana. A questa fase di rinnovamento egli partecipa attivamente, muovendo la sua personale ricerca in direzione di nuovi contenuti e nuove forme. La finalità di De André e di altri cantautori è accompagnare alla musica una maggiore profondità testuale, una varietà di argomenti “alti” e “altri” rispetto alla tradizione canzonettistica del paese. Ne consegue la necessità di conformare alle nuove e più impegnate tematiche un linguaggio e una forma adatta a sostenerne lo slancio.
Nell’ascoltare le canzoni del cantante genovese ci si accorge immediatamente della cura che la scelta di ogni parola ha richiesto. Come nella poesia ogni termine occupa un suo posto specifico, per contenuti, musicalità, esigenze metriche o stilistiche, allo stesso modo, nelle canzoni di De André, la parola impiegata colma tutto lo spazio a sua disposizione e ha un’assolutezza che la fa apparire come insostituibile.

Fabrizio De André era maniacale, perfezionista e puntiglioso, capace di stare per giorni interi a cercare la parola giusta da incastrare in un verso, ma era anche un grande compositore musicale, oltre che attento ricercatore di musica antica e popolare. Spicca la perfetta fusione fra una melodia leggera anche se drammatica, e un testo che dietro alla poesia, volutamente ingenua. Uno degli stratagemmi musicali utilizzati dal compositore durante la prima parte della sua carriera era l’alternanza tra la tonalità di La minore e quella di Do minore. L’ascoltatore, nei testi di Faber – così soprannominato per la sua passione per le matite colorate –  si immerge completamente. Il cantautore spesso si appropria di stili, sonorità o addirittura di melodie, prese in prestito dalla sua memoria.

L’ultima grande fonte di influenza, una tra quelle che maggiormente hanno caratterizzato il suo stile musicale, è stata la musica etnica. Molteplici sono state le influenze folcloristiche nella musica del Maestro, partendo dalle influenze del bacino mediterraneo, ad esempio con l’utilizzo del classico giro armonico della tarantella napoletana o come il dialetto genovese  che riesce a fare da base ad una straordinaria serie di influenze musicali mediterranee, che vengono dalla Catalogna, attraverso la Sardegna e si spingono fino al medio oriente, per poi risalire in Grecia ed arrivare a lambire i Balcani.

Vent’anni fa, l’11 gennaio 1999, se ne andava Fabrizio De Andrè. Ci resta la sua buona novella, chissà se qualcosa l’abbiamo imparata interrogandoci su come avrebbe cantato questo nostro tempo.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Neovisionismo “I paesaggi dell’Anima”: vernissage in memoria di Flavia Rosa

Sabato 30 marzo 2019. Messina. Via Enzo Geraci 27. Art Gallery Fadibè. Una galleria d’arte, un atelier, uno spazio espositivo, sorto negli stessi locali dell’ex libreria Colosi, nel pieno centro cittadino, composto da tre stanze, ha ospitato ed ospiterà, sino al 6 aprile 2019, circa un centinaio di opere di Fabio di Bella, in arte Fadibè, docente di Pittura, e, 22 tarocchi provenienti da alcuni talenti emergenti di una prima liceo dell’I.I.S. E. Basile.

Il vernissage di arte moderna, a sfondo benefico, è stato ideato e realizzato da Bruno Barlassina, giovanissimo architetto, in ricordo della madre: Flavia Rosa, scomparsa di recente. Prezioso l’aiuto di Donatella Salerno – Donatella è un’amica di famiglia, senza la sua collaborazione oggi non saremmo qui –  come afferma lo stesso Bruno.

“Mia madre ha sempre fatto beneficenza. Una volta che è venuta a mancare, sentivo la necessità di ricordarla, di seguire i suoi passi, di star dietro le sue orme. Sentivo di poterle stare vicino facendo qualcosa che le avrebbe fatto piacere e che avrebbe procurato del bene alla comunità. L’idea nasce da due fattori scatenanti: in primis sono un architetto e sono un grandissimo appassionato di arte. Infatti ho sempre avuto il cruccio di organizzare un vernissage. Così ho riunito due dei miei più grandi desideri. Il progetto, chiaramente, non è nato dal nulla ma ha radici profonde un anno, ammetto che non è stato affatto semplice: ho riscontrato molteplici difficoltà, tra richieste di concessioni e problemi burocratici.”

La kermesse è stata organizzata a sostegno dell’Associazione “Walking together”, che promuove un’iniziativa di raccolta fondi a favore dell’Anoalite Hospital di Mungbere, R.D. Congo, che si occupa dello sviluppo dei mezzi di prevenzione del cancro alla mammella.

La gente accorsa durante l’inaugurazione è il chiaro sintomo di una città affamata di cultura e sensibile ad un tema così delicato. Una città che ultimamente è sempre più cosciente e attiva verso argomenti di tale portata. Lo dimostra la partecipazione numerosa. Circa un centianio gli avventori che si sono recati nella piccola pinacoteca complimentadosi e contribuendo all’iniziativa.

Le opere esposte, fuori dagli schemi convenzionali, riprendono tutte il manifesto che Fabio di Bella ha lanciato alla Camera di Commercio nel 2016: Neovisionismo-Sacro contemporaneo. Come spiega lo stesso artista:

“Neovisionismo-Sacro contemporaneo: va interpretato alla lettera, cioè, la visione del sacro nel nostro contemporaneo, che in questo momento, cammina in largo e in lungo senza avere una giusta direzione. È un mio modo di vedere, che nasce dalla mia intimità. Oggi la gente sta perdendo il contatto reale con ciò che è il sacro. Vorrei far capire con le mie opere che il sacro è insito nell’essere umano. Non ha un volto. Sacro in quanto umano. La riconoscenza di una dimensione sacra, di un qualcosa attraverso cui si può vedere oltre per arrivare alla profonda natura delle cose.”

Gabriella Parasiliti Collazzo

Fiera delle Carriere Internazionali: opportunità di stage e lavoro per gli studenti UniMe

La città di Roma, nella splendida cornice dell’Hotel Sheraton Parco de Medici, ospiterà l’11 ed il 12 marzo la Fiera delle Carriere Internazionali, ormai alla sua 10ª edizione. Si tratta di un Expo aperto al pubblico sul tema “Giovani – lavoro e internazionalità”: 60 mila i giovani che avranno la possibilità di visitare più di 200 espositori ed interfacciarsi con i rappresentanti delle migliori Università e Business School, sia italiane che straniere. La Fiera, promossa da “Giovani nel mondo”, si colloca all’interno dell’omonimo Festival e sarà aperta al pubblico per 2 dei 4 giorni dedicati al Festival; la manifestazione è finalizzata a favorire l’incontro tra studenti di svariata provenienza e istituzioni che offrono lavoro, stage, formazione, e incoraggiare la partecipazione a sessioni di recruiting e workshop pratici su come condurre una ricerca di lavoro internazionale. Le testimonianze di chi vi ha partecipato descrivono l’evento come un’occasione unica per mettersi alla prova ed applicare fruttuosamente le conoscenze acquisite durante il percorso di studi: un’Olimpiade in cui la sana competizione tra partecipanti provenienti da tutto il mondo, con background e culture diverse, stimola e promuove una crescita personale e professionale. La Fiera delle Carriere Internazionali è un’esperienza motivante e rivelatrice, una palestra attraverso cui prepararsi alle sfide lavorative di lungo respiro, nel contesto globale. L’Università di Messina, da anni partner, promuove con salda convinzione l’opportunità di approccio al competitivo ma affascinante mondo delle carriere internazionali, nella direzione dell’unificazione e dell’integrazione tra le diverse nazioni.
All’interno dello spazio espositivo saranno presenti un’Area formazione e un’Area lavoro, che consentiranno ai presenti di reperire le informazioni utili per avviare stage o tirocini in aziende, istituzioni internazionali o ONG, grazie a incontri diretti con esperti del settore.

L’evento è aperto a studenti UniMe, laureati, dottorandi o studenti iscritti a master di 1° o 2° livello, che intendono intraprendere un percorso formativo o lavorativo all’estero. La partecipazione è a numero chiuso ed è, pertanto, necessaria l’iscrizione, del tutto gratuita, tramite apposito form.
E tu cosa aspetti? Iscriviti subito al Festival delle Carriere Internazionali e vivi anche tu un’esperienza indimenticabile!

Maggiori info: http://www.internationalcareersfestival.org

Form di iscrizione: https://giovaninelmondo.typeform.com/to/rcLNIW

Mariachiara Villari

Sulla nostra pelle: a Messina il film-evento su Stefano Cucchi

È agghiacciante pensare a quanto male immotivato venga giornalmente perpetuato dagli esseri umani a danno di altri esseri umani, ma è ancor più tremendo riflettere sulle modalità con cui questa inflizione di dolore venga concepita dalla collettività circostante. In un’atmosfera di apatia generale, il danneggiamento fisico e morale viene spesso meccanicamente inglobato in quella spirale di noncuranza e indifferenza a cui ormai l’intera società sembra essersi assuefatta. E proprio per combattere questo mostro crudele che è l’indifferenza, l’Università di Messina ha deciso di prendere parte all’iniziativa che ormai da qualche mese anima le città italiane: la proiezione del film Netflix di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle, gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi”. L’evento, a cura delle docenti Paola di Mauro e Domenica Bruni, presentato dal Cospecs e dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus, si è svolto martedì 20 novembre 2018 presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive Psicologiche Pedagogiche e degli Studi culturali dell’Università di Messina. Moltissimi sono stati gli studenti universitari coinvolti, tra i circa 200 spettatori presenti. L’iniziativa infatti, come precisa il Direttore del Cospecs Pietro Perconti, si pone innanzitutto come occasione educativa per discutere non esclusivamente di un fatto di attualità, ma di un intero sistema evidentemente imperfetto. Si sono confrontati con il pubblico i relatori Stefania Mazzone, insegnante di Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, Pierpaolo Montalto, avvocato penalista e Pietro Saitta, docente di Sociologia del Cospecs.

La proiezione del film è stata preceduta dalla visione di un breve video, inviato dall’attore Alessandro Borghi, che nel film interpreta Stefano in una maniera giudicata impeccabile dagli stessi famigliari. Borghi non nasconde la grande soddisfazione provata nel lavorare per questo film, afferma emozionato: “Dico grazie alla famiglia Cucchi per essersi fidata di me, per avermi permesso di interpretare Stefano.” Famiglia che ha tratto dal film, uscito lo scorso 12 settembre 2018 e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la forza di continuare strenuamente quella lotta iniziata ben nove anni fa e volta a restituire  verità e dignità all’uomo Stefano Cucchi, vittima di quella che la prof.ssa Mazzone ha definito “società carcerata”, dominata dal proibizionismo e dall’assoluto monopolio della violenza da parte dei più forti a danno dei più deboli. Da un tale contesto, che si riflette in misura ristretta nel meccanismo carcerario, nessuno di noi può dirsi escluso, né come vittima, né come carnefice. In questa dimensione di sopraffazione emerge chiaramente la volontà, insita in ogni uomo, di abusare ingiustamente del proprio potere, simboleggiato da una divisa che perde inevitabilmente di valore se di essa si abusa. È quanto testimonia il caso Cucchi che purtroppo, come ricorda l’avvocato Montalto, non rappresenta un’eccezione nell’odierno panorama giudiziario, ma una “drammatica regola”.

da sin. Di Mauro, Mazzone, Montalto, Saitta

Tutto ha inizio il 15 ottobre 2009, quando il ragioniere romano Stefano Cucchi, dopo essere stato fermato dai carabinieri, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, 3 confezioni di cocaina e una pasticca di un medicinale per l’epilessia di cui soffriva. Dopo sette giorni di custodia cautelare, trascorsi tra il carcere Regina Coeli di Roma e il reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore. Già dalla mattina dell’udienza immediatamente successiva all’arresto Stefano presenta evidenti segni di percosse sul viso, mostra di avere difficoltà a camminare, ha un respiro affannato, presenta malessere e dolori evidenti dovuti alla rottura in due punti della colonna vertebrale. Nei successivi sei giorni di agonia Stefano entra in contatto con 150 pubblici ufficiali, ma tutti sembrano preoccuparsi più di se stessi che delle condizioni del ragazzo. Come sottolinea il prof. Saitta, la storia di Cucchi diviene in tal senso “storia di consegna”, in cui ognuno sembra curarsi esclusivamente dell’atto immediatamente precedente a quello in cui Stefano viene posto sotto nuova custodia. Tuttavia, nessuno sembra andare oltre quel gretto sostrato di pregiudizi che impedisce di vedere l’uomo Stefano, debole, spaventato e bisognoso di aiuto che urla silenziosamente nel tentativo, purtroppo fallimentare, di sovrastare il Cucchi carcerato. Tutto questo è il risultato di un “processo di disumanizzazione della relazione”, dettato dal dominio incontrastato della “violenza strutturale” operata da parte dell’intera società a danno della vittima Stefano. Essa, come spiega il prof. Saitta, è quel tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita perché prodotta dall’organizzazione sociale stessa. Tale definizione non giustifica tuttavia l’assenza di carnefici, quasi come se si volesse attribuire ogni responsabilità all’astratto paradigma sociale vigente. Al contrario, come chiarisce l’avvocato Montalto, “il responsabile della morte di Stefano è lo Stato”, rivelatosi incapace di custodire un cittadino nel momento in cui questo viene posto sotto la sua tutela. Ma la verità, così evidente agli occhi di tutti e contestualmente tanto celata, è stata confessata solo lo scorso 11 ottobre, dopo nove anni  di estenuante lotta condotta dalla famiglia Cucchi, a cui non sono state risparmiate pesanti critiche, insulti, diffamazioni. È stato il carabiniere Francesco Tedesco a confessare quanto accaduto la notte del 15 ottobre nella caserma di Roma Casilina, dove Stefano era stato condotto immediatamente dopo l’arresto. Il pestaggio è avvenuto ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, imputati insieme a Tedesco per omicidio preterintenzionale. Il contenuto della deposizione, spaventosamente agghiacciante nella sua veridicità, è stato letto dalla docente Paola Di Mauro:

«Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. […] Io spinsi via Di Bernardo, ma prima che potessi intervenire D’Alessandro colpì Cucchi con un calcio in faccia (o in testa) mentre era sdraiato in terra».

La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che non sarebbe eccessivo definire l’Antigone dei tempi moderni, ha definito questa testimonianza il tassello mancante in grado di sgretolare quel muro di indifferenza costruito fino a quel momento dagli assassini di Stefano. Il film di Alessio Cremonini sembra conferire ancor più vigore a quel vento distruttivo che sta irruentemente intaccando questa fortificazione di omertà. Tale possibilità è offerta dalla spiazzante ma veritiera brutalità che caratterizza la pellicola definita da un esponente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus “vera, basata interamente sugli atti processuali”, ma soprattutto in grado di far emergere “la solitudine e la paura provate da Stefano e, dall’altro lato, l’indifferenza altrui”.

Questo film turba lo spettatore, lo destabilizza totalmente, lo colpisce con la stessa violenza usata contro Stefano. Durante la visione è impossibile non avvertire su di sé la crudeltà delle botte, l’impassibilità degli sguardi, la pressoché costante assenza di cura nei confronti di un essere umano privato della propria dignità. È impossibile, cioè, non avvertire sulla propria pelle ciò che Stefano ha provato e subito in ben sei giorni di agonia, condensati negli intensissimi 200 minuti che Alessio Cremonini e Alessandro Borghi ci regalano. Ma la sensazione di ossa rotte, la rabbia mista ad impotenza e il senso di colpa non devono sparire immediatamente dopo la visione del film, come si disperdessero nuovamente in quell’usuale noncuranza quotidiana. È necessario ricordare che, purtroppo, questo film è la trasposizione cinematografica di una triste realtà. È necessario assumere su di sé la consapevolezza che la pelle di Stefano è anche la nostra pelle, che la sua morte è la morte di ognuno di noi, che il lutto della famiglia Cucchi è un nostro lutto. Ogni singolo spettatore non può fare altro che provare la dovuta indignazione nel constatare che Stefano, ancor prima che dalle botte, è stato ucciso dall’omertà, da quel devastante silenzio avente in sé la carica distruttiva di un esplosione. È evidente allora che questo tragico epilogo non è stato conseguenza di eventi casuali o di giustificabile superficialità, bensì della volontà di rimanere sordi e mostrarsi cechi dinnanzi all’animalesco esercizio della violenza. Perché anche di essere indifferenti si è sempre pienamente responsabili.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2018

Giusy Mantarro

La VI edizione della Piazza dell’Arte.

Anche quest’anno sulla  Scalinata del Rettorato dell’Università di Messina si è svolta “Piazza dell’Arte”.

La manifestazione  tanto attesa dal pubblico universitario e non, è giunta alla sua VI edizione e ha raddoppiato gli appuntamenti.
Per la prima volta infatti l’evento si è svolto in due giorni, 9 e 10 Maggio.
Organizzata dall’associazione Morgana in collaborazione con la Consulta Provinciale degli studenti di Messina, l’Università degli Studi di Messina, l’Ersu Messina e quest’anno anche con il Liceo Artistico Basile.
Mercoledì 9 Maggio sono stati proprio gli studenti del Basile i protagonisti della manifestazione, che sono stati impegnati in varie performance artistiche.

Nella giornata successiva, il rettorato ha iniziato a riempirsi fin dal pomeriggio grazie all’organizzazione di laboratori di scrittura, esposizioni fotografiche, corsi di danza, il tutto come sempre accompagnato da tanta musica.
Musica e spettacoli si sono prolungati fino a notte fonda, quando la serata si è poi conclusa con la premiazione del concorso fotografico.

Doppio appuntamento e doppio successo quindi per questa sesta edizione di uno degli eventi più attesi dalla comunità messinese.
La scalinata, brulicante di gente, era immersa in un’atmosfera festosa, circondata da musica, luci e ovviamente tanta arte.

Presente anche Radio UniVersoMe che ha preso parte all’evento documentando in diretta l’intero svolgersi della manifestazione.

 

Piazza dell’Arte attira ogni anno sempre più pubblico, diventando ormai un simbolo dell’Università di Messina e un punto di riferimento per gli studenti e per i tanti artisti emergenti che ogni anno si riuniscono qui.

Non resta quindi che aspettare il prossimo anno e sperare in un prosieguo!

 

Benedetta Sisinni