Parlamento UE, approvato il Fit-for-55: dal 2035 niente più automobili a benzina e diesel

In attesa della discussione in Commissione e Consiglio per l’approvazione definitiva, il Parlamento UE ha votato sul pacchetto Fit-for-55: dal 2035 sarà possibile la vendita di soli veicoli green.

Il Parlamento Europeo ha votato a favore dello stop ai motori a combustibili fossili dal 2035 -Fonte:dmove.it

Lo stop alla vendita di auto e veicoli commerciali leggeri a benzina, diesel e con motori a combustione interna a partire dal 2035 punta ad attuare il piano di azione per contrastare il cambiamento climatico. La misura, facente parte del pacchetto Fit-for-55, insieme ad altre tredici iniziative si pone come obiettivo la riduzione entro il 2030 delle emissioni di CO2 dell’Unione Europea del 55%. Mentre si auspica il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050.

L’approvazione del Parlamento Europeo

Il progetto di legge approvato con 339 voti favorevoli, 249 contrari e 24 astensioni mira ad agire in modo radicale per contrastare le emissioni. L’Unione Europea, infatti, è sul podio delle produttrici mondiali di CO2, stanziandosi alla terza posizione. Il divieto di vendita di veicoli a combustione interna, o endotermici, agisce sul settore dei trasporti responsabile di circa un quarto di emissioni totali.

L’emendamento però, per divenire definitivo, dovrà essere negoziato con il Consiglio dell’Unione Europea nei prossimi mesi. Il blocco dunque non è ancora definitivo.

Il “cuore” del Fit-for-55

L’intero piano ruota attorno al rilancio dell’Emissions Trading Systems (ETS) nato nel 2004 e che ancora oggi vanta una notevole incidenza, in quanto è uno dei più importanti mercati di emissioni del mondo.

Se negli anni ha subito diversi stop, oggi l’ETS ha imposto un limite alle emissioni di circa 11 mila centrali energetiche e industrie in tutta Europa, creando altresì un mercato di scambi di quote di emissioni. Ciò che si intende fare è permettere alle industrie che inquinano maggiormente di comprare quote da quelle che inquinano di meno. Si rispetta sempre il limite interno totale prestabilito, che va via via a ridursi.

Fit-for-55 -Fonte:socialistsanddemocrats.eu

Il pregiudizio affiliato all’ETS come “insuccesso” negli ultimi anni vede invece la volontà di rilancio della Commissione attraverso un ampliamento del suo campo di azione. Questo permetterebbe un’inclusione totale delle emissioni dell’Unione, inglobando anche il settore dei trasporti e del riscaldamento.

A fianco dell’ETS è stato inoltre introdotto il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM): un sistema che obbligherà le aziende internazionali, che influiscono maggiormente sull’inquinamento, a pagare le emissioni da loro prodotte se intendono immettere merce nel mercato europeo.

Il CBAM in realtà appare più come un dazio imposto al fine di proteggere tutte le imprese europee che devono sostenere ingenti costi per sostenere i giusti requisiti richiesti dall’Unione. Tale operazione serve come filtro per contrastare una concorrenza sleale.

Il dettaglio della misura approvata in Parlamento

Il piano della riduzione di emissioni avrà come obiettivo ridurre le emissioni medie:

  • delle auto del 55% entro il 2030 e del 100% entro il 2035;
  • dei furgoni del 50% entro il 2030 e del 100% entro il 2035.

Ciò significa che a partire dal 2035 le nuove immatricolazioni dovranno produrre zero emissioni di CO2, mentre i veicoli già immatricolati potranno circolare fino a fine vita.

Fit-for-55, il Parlamento Europeo vota il blocco di benzina e diesel dal 2035 -Fonte:motorbox.com

Dunque sia il settore automobilistico che il trasporto su strada conterà dal 2035 motori 100% elettrici o ad idrogeno. È prevista altresì una deroga “Salva Ferrari” che permetterà alle imprese di nicchie, con una produzione annua dalle 1000 alle 10 mila unità, di applicare la normativa dal 2036. L’obiettivo tenta di tutelare la motor valley dell’Emilia-Romagna, ed in particolare le aziende come Ferrari e Lamborghini.

Le spinte del Fit-for-55

Il piano Fit-for-55 al fine di garantire e rendere effettivamente possibile la produzione e la vendita di auto elettriche e ad idrogeno ha fissato diversi obiettivi:

  • Espansione della capacità di ricarica in linea attraverso le vendite di auto a emissioni zero con installazione a intervalli regolari di punti di ricarica sulle principali autostrade;
  • Installazione di punti di ricarica in parcheggi sicuri e protetti nelle principali città e agglomerati posti sulla rete di trasporto trans-europea;
  • Innalzamento delle imposte sui carburanti e diminuzione di quelle sull’elettricità.
Stop alle auto a benzina e diesel in Europa dal 2035 -Fonte:agi.it

Sebbene la strada da percorre sia ancora lunga, si attende un via libera pro-forma, dell’Eurocamera e Consiglio entro l’autunno. Con il rigetto da parte del Parlamento della “scappatoia” per i carburanti sintetici nelle automobili, cioè una soluzione green (E-fuels) lanciata dall’industria dei combustibili fossili al fine di prolungare la vendita di nuovi motori a combustione, il legislativo europeo ha posto un freno alla nascita di nuove combustioni sintetiche, ancora più nocive per l’ambiente. Lo stop, in aggiunta, favorisce il benessere ambientale ed un taglio agli eccessivi costi di soluzioni “falsamente green”.

Giovanna Sgarlata

Sistema EPI: arriva una piattaforma unificata di pagamenti per l’Europa

Negli ultimi giorni l’acronimo EPI o PEPSI ha dominato la scena europea. Il sistema unificato di pagamento europeo, definito appunto EPI – European Payments Initiative o PEPSI – PanEuropean Payment System Initiative, è un progetto proposto dalla Commissione UE e dalla BCE e promosso da 16 banche continentali di cinque Paesi, ovvero Francia, Germania, Spagna, Belgio e Paesi Bassi per creare una nuova piattaforma unificata di pagamenti. Tra le banche che hanno dato il sì al sistema spiccano gruppi bancari di rilievo, tra cui BNP Paribas, BBVA, Crédit Agricole, Deutsche Bank, Societé Générale, Unicredit (solo con la controllata tedesca), e molte altre. L’EPI entro il 2022 farà quasi sicuramente concorrenza a Visa, Mastercard, Google Pay, Alipay, Paypal, e altri sistemi di pagamento ampiamente diffusi.

Tra i nomi non figura l’Intesa Sanpaolo, l’UBI Banca e il Banco BPM, seduti inizialmente al tavolo dei lavori ma poi intenzionati ad allontanarsi dal progetto. Tra le motivazioni, soprattutto per Intesa Sanpaolo, non è ben vista la prevalenza di un’impostazione obsoleta di pagamento e l’influenza quasi soffocante della Germania. Si vorrebbe preferire, invece, il modello italiano del Pagobancomat (che consente effettuare operazioni di pagamento presso tutti gli esercizi commerciali convenzionati), non voluto però per il progetto EPI. Inoltre, il sistema EPI era stato inizialmente ideato con una struttura per fare bonifici istantanei in grado di superare il sistema di carte di credito (con uno schema c.d. Sct Inst) , ma ha poi incluso un progetto di carta collegato a Mastercard, quindi quasi del tutto lontano da una matrice totalmente europea.

La BCE, comunque, si mostra con un grande sorriso dopo la notizia, affermando che l’obiettivo dell’EPI sia:

offrire una soluzione di pagamento digitale che possa essere utilizzata ovunque in Europa, […] e che sostituisca il panorama ancora frammentato che esiste attualmente”.

Il Covid-19 ha, infatti, accentuato la necessità di concretizzare l’idea.

Posto in essere come soluzione di pagamento paneuropea unificata, tra i servizi offerti fornirebbe carte di pagamento per consumatori e commercianti in tutta Europa, un portafoglio digitale (wallet) – che permette ad un individuo attraverso l’uso di dispositivi elettronici come computer o smartphone di eseguire transazioni online o in un negozio fisico -, bonifici istantanei e invio e ricezione di pagamenti tramite messaggi.

Si potrebbe pensare addirittura di arrivare a coprire il 60% di pagamenti elettronici in Europa, seppur siano previsioni fin troppo ottimistiche.

E’ un sistema del tutto nuovo?

No, già nel 2011 le banche all’interno dell’UE avevano pensato a un sistema simile, chiamato Monnet. Fu abbandonato nel tempo a causa dei contrasti politici.

Quale sarà la reazione dell’Italia?

Sembrerebbe un sistema che possa accelerare un processo di costruzione di una visione unica in Europa dal punto di vista finanziario. L’Italia si troverebbe coinvolta nel sistema una volta approvato e reso operativo tra tutti i Paesi membri.

Già dal 1 luglio la nostra penisola ha visto alcune modifiche nel sistema di pagamenti bancari, vietando a chiunque nel territorio di pagare in contanti per una somma superiore a 2000 euro. Provvedimento sicuramente utile per incentivare pagamenti con carte e bancomat, potrebbe garantire in futuro anche alle piccole imprese degli incentivi per pagamenti digitali. Prima di questo provvedimento il tetto massimo di pagamento in contanti era 3000 euro, adesso quindi inferiore, ma potrebbe scendere fino ad un massimo di 1000 euro dal 1° gennaio 2022.

Saranno questi provvedimenti a garantire una circolazione rapida e sicura di ricchezza nel sistema europeo? L’Europa e l’Italia si troveranno pronti a privilegiare questi nuovi sistemi di pagamento? A queste domande, ad oggi, è difficile rispondere, seppur l’obiettivo comune degli Stati membri sia orientato al progresso anche in campo economico-finanziario e questi strumenti potrebbero costituire una valida risposta.

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Rossana Arcano

Recovery fund: c’è l’accordo UE. E l’Italia porta a casa una vittoria

Settimane fa scrivevamo, in riferimento al Recovery Fund:

Il progetto […] è ancora lontano dall’essere totalmente definito nella sua interezza, ma l’opinione comune dei Paesi è potersi rialzare grazie a strumenti solidi e duraturi in un’ottica di lungo periodo.”

Il fondo di recupero tanto dibattuto dai Paesi europei fin dai primi devastanti passi del Covid-19 è arrivato al verdetto finale. Dopo giorni di trattative al tavolo del Consiglio europeo, all’alba di martedì 21 luglio è stato siglato l’accordo sul Recovery Fund. Il sorgere del sole di una calda giornata d’estate ha visto 67 pagine di cifre, dichiarazioni e condizioni per i Paesi interessati.

Il presidente del Consiglio Europeo Michel e la presidente della Commissione europea von der Leyen hanno tenuto una conferenza stampa dopo l’intesa, ponendo un accento particolare all’importanza storica dell’accordo raggiunto. Questo sarà ratificato dai vari Paesi con una nuova clausola d’indebitamento della Commissione, e sarà approvato dal Parlamento europeo.

Si parla di Next Generation EU o Recovery Fund da 750 miliardi di euro, utilizzati per aiutare gli Stati colpiti dalla crisi economica del Coronavirus. Era una cifra già enunciata dal vertice UE mesi fa, ma finalmente la cifra è stata definita con certezza: di questo ammontare, ben 390 miliardi saranno erogati a fondo perduto e 360 miliardi prenderanno la forma di prestiti. Inoltre, il bilancio per i prossimi 7 anni avrà un valore di 1074 miliardi di euro.

Per la prima volta i Paesi membri danno mandato alla Commissione UE di indebitarsi a loro nome per somme consistenti.

Qual è il verdetto per l’Italia?

L’Italia vede un sorriso stampato sullo stivale: nonostante l’incertezza del premier Conte sull’esito positivo delle trattative per il nostro Paese, all’Italia spetteranno 209 miliardi di euro, distribuiti tra 82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti.

I Paesi “frugali” (Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia), che volevano limitare il denaro a fondo perduto, hanno dovuto accettare un compromesso a favore dei Paesi in ginocchio, tra cui l’Italia.

Infatti, i sussidi non ammonteranno a 500 miliardi, ma a 390 miliardi. I prestiti invece aumentano da 250 a 360. La nuova proporzione è soprattutto volta a soddisfare i leader più influenti che volevano limitare i contributi a fondo perduto.

Per ottenere il loro accordo vi è stato anche un forte aumento (in alcuni casi un raddoppio) dello sconto di cui godono in primi quattro paesi appena elencati.Si è notato, tra l’altro, un cammino comune percorso da Francia e Germania, testimoniato anche dalle parole del leader francese Macron:

Abbiamo adottato un massiccio piano a favore della ripresa: un prestito in comune per rispondere alla crisi in modo unito e investire nel nostro futuro. Non l’abbiamo mai fatto!”

Come verrà finanziato il Recovery Fund?

Si parla per la prima volta, in modo concreto, di condivisione del debito. La Commissione UE può emettere titoli comuni sui mercati finanziari. Gli Stati membri non erogheranno denaro, ma dovranno garantire che nel caso di necessità sosterranno titoli per un certo ammontare. Per il rimborso si pensa alla creazione di nuove tasse europee.

Il Recovery Fund distribuirà risorse tra il 2021 e il 2023, svolgendo il suo compito fino al 2026, per aprire poi le porte al rimborso del denaro preso a prestito dal 2027.

Non mancano, però, delle condizionalità (tanto nominate in ambito di MES ma, a quanto pare, poco contrastate in riferimento al Recovery Fund). Innanzitutto, la Commissione europea dovrà presentare entro il Consiglio europeo di ottobre le sue raccomandazioni ai governi sul potenziamento dell’efficienza nell’approvazione ed esecuzione di lavori pubblici. Sicuramente è un campanello d’allarme verso l’Italia, maggior beneficiario del Recovery ma allo stesso tempo con un alto livello di inefficienza amministrativa: non è possibile ignorare le decisioni europee, pena il congelamento dei finanziamenti.

Il Paese che vorrà richiedere fondi, dovrà presentare un piano di ripresa e di resilienza coerente con obiettivi di varia natura, ad esempio difesa del clima e digitalizzazione, oltre ovviamente al rispetto delle raccomandazioni della Commissione. Per l’Italia, in particolare, si richiede amministrazione e giustizia civile più efficienti. La Commissione UE dovrà, entro due mesi, approvare o respingere il progetto presentato.

Per ciò che riguarda l’approvazione degli esborsi delle tranche del Recovery fund, la Commissione chiede l’opinione del Comitato economico e finanziario. Se un Paese non autorizza l’esborso, può chiedere che il versamento sia sospeso fino a quando si pronuncerà il Consiglio europeo, con un tempo di discussione massimo di tre mesi. La decisione finale, però, spetta alla Commissione UE.

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Marco Amato

Rossana Arcano

La Banca Centrale Europea, la “mamma” delle banche d’Europa

Spesso i media parlano di politica fiscale e politica monetaria, di emissione di moneta, di finanziamento del deficit, e così via. Sapevate che il Governo non può stampare moneta? E sapevate che, in quanto membri dell’UE, il sistema monetario italiano è tutelato e vigilato da un organismo sovranazionale, chiamato Banca Centrale Europea? Vediamolo insieme.

E’ necessario fare innanzitutto una chiara distinzione tra le due forme di politica citate:

  • La politica fiscale è attuata dal Governo, e comprende interventi tramite la spesa pubblica, i trasferimenti (=a favore di famiglie e imprese per scopi sociali o produttivi, es. contributi sociali, assegni familiari, pensioni, incentivi alla produzione) e il prelievo fiscale (=imposte);
  • La politica monetaria è attuata dalla Banca Centrale, in Europa dalla Banca Centrale Europea, ed è attuata tramite l’offerta monetaria (=banalmente, lo stock di moneta inserito nel sistema economico) e il tasso d’interesse.

Cos’è la BCE?

La Banca Centrale Europea, abbreviato BCE, è la banca centrale adottata dai 19 Stati membri dell’Unione Europea che hanno aderito all’euro come moneta comune. 

La Banca Centrale Europea e le banche centrali nazionali, insieme, costituiscono l’Eurosistema, il sistema di banche centrali dell’area euro. 

Qual è l’obiettivo della BCE?

Facendo riferimento all’articolo 105 del trattato di Maastricht, che nel 1992 sancì in modo ufficiale la nascita dell’UE, dopo i primi passi mossi fin dal 1951, il principale obiettivo dell’Eurosistema è mantenere la stabilità dei prezzi, ossia salvaguardare il valore dell’euro. Infatti, l’art. 105 recita:

L’obiettivo principale del SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali) è il mantenimento della stabilità dei prezzi.

La BCE è libera di svolgere le proprie funzioni?

La BCE è un’istituzione politicamente indipendente, e con ciò si concilia il raggiungimento dell’obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi. Nel caso vi sia una dipendenza politica da parte della banca centrale, più precisamente una “dominanza fiscale” sulla politica monetaria, i governi potrebbero ricorrere al finanziamento monetario del disavanzo (= combattere il disavanzo di bilancio – uscite > entrate – con l’emissione di nuova moneta) con maggiore frequenza e questo potrebbe causare un alto livello d’inflazione. 

L’indipendenza politica è sancita dall’articolo 104 del trattato di Maastricht e dall’articolo 7 dello statuto del SEBC.  

Riportando l’art. 104:

È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della BCE…alle amministrazioni statali […] o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle Banche centrali nazionali.

Nessun governo o ente pubblico può, quindi, influenzare la BCE o le Banche Centrali Nazionali che fanno parte dell’Eurosistema e convincerle a modificare il proprio comportamento in modo da favorirle nell’attuazione della politica monetaria. 

Ad ogni modo, l’indipendenza per la BCE comporta anche degli oneri (=costi), in termini di necessità di trasparenza e in riferimento anche all’enorme peso delle responsabilità delle proprie azioni e strategie.

Cos’è il SEBC?

Il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) è composto dal governatore della BCE e dai governatori delle banche centrali di tutti i paesi membri dell’UE. L’Eurosistema, invece, è parte del Sistema Europeo delle Banche Centrali, poiché è formato dal governatore della BCE e dai governatori delle Banche Centrali dei paesi che hanno adottato l’euro come moneta legale (attualmente 19 paesi).

Nonostante il SEBC sia un sistema più ampio, l’Eurosistema è quello fondamentale e importante ai fini della politica monetaria.

Per raggiungere l’obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi, l’Eurosistema formula le proprie decisioni di politica monetaria su due approcci analitici complementari detti “due pilastri”: l’analisi monetaria e l’analisi economica.

L’implementazione delle decisioni relativa alla politica monetaria avviene attraverso gli strumenti di cui si avvale l’eurosistema. Questi strumenti sono:

  • operazioni di mercato aperto  (=acquisto/vendita titoli di Stato);
  • operazioni su iniziativa della controparte (standing facilities) (finalizzate a iniettare o assorbire liquidità nel mercato monetario);
  • riserva obbligatoria (percentuale dei depositi bancari per legge tenuta sotto forma di contanti o di attività facilmente liquidabili).

 

Quali sono gli organi direttivi della BCE?

Gli organi decisionali della BCE sono il Consiglio direttivo, il Comitato esecutivo e il Consiglio Generale. Nel dettaglio:

  • Il Consiglio direttivo stabilisce la politica monetaria dell’Eurozona e fissa i tassi d’interesse applicabili ai prestiti erogati alle varie banche;
  • il Comitato esecutivo attua la politica monetaria, gestisce affari, riunioni del Consiglio direttivo ed esercita i poteri delegati da questi ultimi;
  • il Consiglio generale ha funzioni consultive e di coordinamento e preparatorie per un eventuale allargamento dell’Eurozona.

Vi è poi il Presidente della BCE, che rappresenta la banca nelle riunioni interne ed internazionali. Attualmente, ricopre la carica Christine Lagarde prendendo il posto dal 1° novembre 2019 di Mario Draghi. Lagarde era precedentemente ministra dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego in Francia, poi direttrice del Fondo monetario internazionale.

La BCE è quindi la madre delle banche nazionali appartenenti all’Eurozona, che vigila sul loro operato e fornisce gli strumenti finanziari con le opportune cautele e misure di regolamentazione. La moneta non si distribuisce senza un chiaro criterio, ma questo è un’altra analisi che spiegheremo presto.

 

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Marco Amato

Rossana Arcano

Recovery Fund. Ecco cos’è e perché è la chiave dell’intesa UE

Dopo aver parlato nelle settimane precedenti di PEPP e di MES e SURE, adesso è necessario analizzare il Recovery Fund, data l’importanza di effettuare degli investimenti pubblici oculati che permettano una crescita futura del sistema e una sostenibilità del debito pubblico, a fronte del basso tasso d’interesse che dovremo riconoscere in questi anni grazie agli interventi della BCE.

Spesso discusso dai media da quando, lo scorso aprile, il Presidente del Consiglio Conte aveva definito il Recovery Fund come “una parte essenziale nella trattativa con l’UE”, il 27 maggio sono state delineate le basi di questa forma di sostegno economico. La Commissione Europea, con a capo Ursula von der Leyen, ha infatti dato voce ad una proposta da 750 miliardi di euro.

Cos’è il Recovery Fund?

Così come suggerisce il termine stesso, il Recovery Fund è un fondo di recupero per arginare l’impatto devastante del Covid-19, posto a sostegno dei Paesi maggiormente colpiti.

Ancor prima della proposta UE alcuni Paesi, tra cui Francia e Germania, avevano avanzato una prima proposta sul fondo di recupero, prevedendo concessione di denaro a fondo perduto, cioè denaro da non restituire, interessi a parte.

Tuttavia, per i Paesi più solidi dell’UE, tra cui Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, ma anche dalla stessa Commissione, il recovery fund non avrebbe dovuto prendere le sembianze di contributi a fondo perduto ma di finanziamenti. Questo perché, altrimenti, si creerebbe un rischio di “debito perpetuo” europeo.

Infatti, è stato designato come un fondo con il compito di emettere Recovery Bond, con la garanzia del bilancio UE 2021-2027 che proprio per questa occasione aumenterà la propria portata, cioè verranno inserite delle imposte comunitarie come la carbon tax e la web tax per raccogliere maggiori risorse. Si tratta di condividere il rischio guardando il futuro, senza mutualizzare il debito passato.

Com’è finanziato?

Il Recovery Fund riceve i fondi grazie ad una raccolta di liquidità data dall’emissione di Recovery Bond. Una volta ricevute le risorse, queste sono distribuite agli Stati membri. I 750 miliardi di euro saranno suddivisi in 500 miliardi di sovvenzioni e 250 miliardi di finanziamenti, all’Italia dovrebbe spettare il 22,5% di queste risorse poiché è uno dei paesi più colpiti dalla crisi Covid. In termini numerici, all’Italia spetteranno 172 miliardi di euro di cui 90 in prestiti e 82 in sovvenzioni.

Come abbiamo visto la scorsa settimana, MES e SURE sono interventi a breve termine, poiché il loro utilizzo dovrebbe essere quello di potenziare le strutture sanitarie e di erogare i sussidi di disoccupazione per i lavoratori che maggiormente soffrono la crisi. Il Recovery Fund, invece, al contrario di Mes e Sure, guarda più a lungo termine. Infatti, il Recovery Plan che bisogna presentare per ottenere tali fondi deve prevedere un progetto di importanti investimenti in infrastrutture, innovazione e ricerca.

In termini semplici, se l’Italia decidesse di spendere questi fondi in una nuova Quota 100 – ovvero in pensionamenti anticipati – non potrebbe accedervi. Questi fondi devono essere spesi per investimenti che stimolino fortemente la crescita economica, investimenti in infrastrutture, potenziamento del sistema d’istruzione; pensate se ci fossero delle autostrade nuove e senza interruzioni, significherebbe non solo maggiore sicurezza ma anche più facilità e tempi brevi nel trasporto di merci e persone.

Perché è così importate stimolare una costante crescita economica?

Dopo aver esaminato il quadro completo, è possibile addentrarsi in un’analisi più specifica. Da sempre si parla del problema del debito pubblico italiano, come ben sappiamo elevatissimo, con la possibilità di raggiungere quasi il 160% del PIL a seguito di questa crisi. Ma l’importante, secondo gli economisti, non è il livello del debito pubblico sul PIL, quindi il numeratore, ma la sua tendenza, cioè se questo numero tende a diminuire o ad aumentare ancora; da cosa vediamo questa tendenza? Dalla differenza tra il tasso d’interesse pagato sul debito e la crescita del PIL.

Il progetto del Recovery Fund è ancora lontano dall’essere totalmente definito nella sua interezza, ma l’opinione comune dei Paesi è potersi rialzare grazie a strumenti solidi e duraturi in un’ottica di lungo periodo.

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Rossana Arcano
Marco Amato

 

MES e SURE. Ecco cosa sono, come funzionano e le criticità che hanno fatto discutere

Dopo aver discusso nel dettaglio la scorsa settimana le caratteristiche dell’intervento effettuato dalla BCE in risposta alla crisi causata dal Covid-19, la linea temporale degli interventi posti in essere dalle istituzioni europee suggerisce come passi successivi il SURE e il MES.

Il 2 aprile Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha annunciato ai microfoni lo strumento SURE (“Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency”), appunto, letteralmente, “supporto per mitigare i rischi di disoccupazione dovuti all’emergenza”.

Considerato come uno strumento con carattere temporaneo, dovrebbe terminare alla conclusione dell’anno 2022, con una dotazione per il periodo considerato di 100 miliardi di euro.

Come funziona?

E’ prevista la creazione di un fondo ad hoc di cui i paesi europei saranno i “soci” e verseranno una garanzia di €25 miliardi; la quota della garanzia versata da un Paese sarà proporzionale alla percentuale del suo PIL rispetto a quello dell’UE – ad esempio l’Italia verserà il 13% di questi 25 miliardi.
Lo stesso fondo, che poggia le sue basi sulla garanzia dei paesi europei, emetterà dei bond per raccogliere i 100 miliardi necessari alla propria capitalizzazione che verranno prestati agli stati che ne presenteranno richiesta.

Invece, il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è un’organizzazione intergovernativa, istituito grazie alle modifiche apportate al Trattato di Lisbona dal consiglio UE nel marzo 2011. Predisposto ad un’entrata in vigore nel 2013, questa fu anticipata al 2012 a causa della crisi dei debiti sovrani.

Normalmente il MES, anche Fondo Salva-Stati, presta denaro ai Paesi che non riescono più a finanziarsi sul mercato emettendo bond, poiché i mercati finanziari nutrono scarsa fiducia sulla loro solidità economica (come già accaduto alla Grecia). Il prestito può essere effettuato attraverso una delle due linee di credito (precauzionale o rafforzata) e può comportare delle condizionalità, concordate attraverso un Memorandum d’intesa.

Nel 2017 era stata proposta una riforma del MES, ma dopo tante riprese la riforma è stata rimandata causa COVID-19.

Il 9 aprile scorso è stato proposto il Pandemic Crisis Support, una linea di credito speciale, in cui i paesi possono richiedere somme fino al 2% del proprio PIL (per l’Italia sarebbero fino a 36 miliardi), con la condizione che i fondi siano utilizzati solo per finanziamenti diretti o indiretti dei costi sanitari dovuti alla crisi Covid-19. Questi fondi potranno essere richiesti fino al 2022 e nessuno Stato è obbligato a richiedere il prestito, ma è assolutamente libero di scegliere se attivarlo e quanto richiedere.

Il modo con cui il MES reperirà i fondi da prestare ai paesi che ne faranno richiesta sarà lo stesso utilizzato dal fondo SURE, emettendo dei propri bond.

I due strumenti appaiono carichi di supporto per fronteggiare la crisi Covid-19 che ha messo in ginocchio i Paesi dell’Eurozona, tuttavia, al loro interno, presentano degli aspetti da analizzare con cura.

Le critiche

In riferimento al MES, la principale critica rilevata è stato l’accordo approvato nell’Eurogruppo di aprile, quando il Consiglio europeo ha proposto come requisito per accedere al fondo senza condizioni, avendo così opportunità di accesso al credito, l’obbligo di utilizzare le risorse ottenute per finanziare le spese sanitarie (mascherine, guanti, respiratori, dispositivi medici, personale, etc.).

Qualche settimana fa Paolo Savona, presidente della CONSOB, ha dato il suo parere riguardo il MES:

Il nodo cruciale è il rapporto tra debito pubblico e Pil: se il rapporto salirà nelle dimensioni previste, il mercato reagirà. Così come reagiranno i cosiddetti Paesi frugali”.

In riferimento a questo, ci sono degli aspetti che non possono essere sottovalutati: tra le tante critiche, una di queste è mossa dai vertici politici italiani: la dotazione è insufficiente, insieme al vincolo di destinazione della spesa, questi risultano essere, infatti, dei paletti alla libera decisione.

Riguardo lo SURE, quali potrebbero essere gli effetti per il futuro date le criticità? Tra queste vi è una probabile insufficienza di capacità finanziaria per rispondere all’emergenza e, anche qui, si parla sempre di prestiti da dover rimborsare. In più, ancora non è stata data piena operatività al sistema: si dovrà aspettare a lungo?

Tuttavia, secondo il professore Carlo Cottarelli, utilizzando questi strumenti, in particolare il MES, “il risparmio sarebbe 9 volte più grande (per 10 anni) di quanto avverrebbe col taglio dei parlamentari, tanto voluto da chi non vuole il MES“.

Nonostante gli accesi dibattiti tra le leadership politiche d’Europa, questi, tra i tanti strumenti eretti nell’area Euro, risultano essere la corda a cui i Paesi in difficoltà si aggrappano, speranzosi che l’Europa possa rivelarsi così come si presentò alla sua nascita: garante e promotrice di continuità allo sviluppo dei Paesi.

Contenuto in collaborazione con Starting Finance:

Marco Amato
Rossana Arcano

Brexit, Londra nel caos

A poco più di un mese dalla Brexit il quadro socio-politico sembra essere sempre più complicato.

In un ultimo disperato tentativo di salvare il divorzio Ue-Regno Unito, Theresa May ha inviato una nuova delegazione di negoziatori in Europa.

Il tutto mentre a Londra alcuni ministri hanno dato il via ad una vera e propria protesta per scongiurare l’ipotesi di una Brexit “no deal”, temuta dal Parlamento, dalla sterlina inglese e dal mercato immobiliare, come ha precisato la Bank of England.

D’altronde, a meno di due mesi dal 29 marzo, lo scenario di mancato accordo appare sempre più probabile.

I tempi stringono, tra qualche giorno infatti, si terrà l’attesa votazione sull’accordo Brexit, confermata dalla stessa Theresa May, che la scorsa settimana aveva chiesto più tempo ribadendo: “Se non sarà raggiunta prima un’intesa, farò una dichiarazione in Parlamento il 26 febbraio e il 27 si terrà il voto significativo sull’accordo”.

I membri del gabinetto che si oppongono a una separazione senza accordo affronteranno la May a viso aperto questa settimana.

I ministri, tra cui il segretario alle finanze Amber Rudd, il segretario agli affari Greg Clark e il segretario alla giustizia David Gauke, diranno alla premier che il Parlamento potrebbe costringerla a cercare un’estensione dei colloqui sulla Brexit con l’obiettivo di evitare danni economici imponenti.

L’opzione no deal potrebbe diventare uno stratagemma negoziale per spaventare l’Ue.

Per tentare di convincere l’Unione Europea ad avanzare nuove concessioni, col fine ultimo di salvare il suo accordo sulla Brexit, la May ha inviato in tutta Europa alcuni dei ministri più coinvolti nel processo di divorzio burocratico.

Il segretario degli affari esteri, Jeremy Hunt, volerà a Berlino, Bruxelles e Copenaghen; mentre il Segretario per la Brexit, Steve Barclay, continuerà a dialogare con il negoziatore europeo Michel Barnier.

La Prime Minister britannica, invece, incontrerà il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker questa settimana e cercherà di parlare con i leader dei restanti Paesi nei giorni successivi.

L’incertezza delle prospettive socio-economiche attanaglia la Gran Bretagna, che nella sua soria, mai aveva vissuto momenti così dinamici ed imprevedibili.

Chissà se la reazione del popolo britannico sarà ancora una volta elegante e garbata come storia e costumi impongono, o se questa volta l’ansia e la paura prevarranno.

Antonio Mulone