Sara Campanella: perché anche vivere ha un prezzo

Si chiamava Sara Campanella, aveva 22 anni, ed era tirocinante presso il Policlinico di Messina. Usciva da lezione, ignara che qualcun altro avesse già deciso come sarebbe finito il suo pomeriggio. È profondamente angosciante pensare che una ragazza della mia età non abbia più voce, che qualcun altro abbia deciso per lei. I suoi sogni, le sue paure, le sue speranze, tutto rimosso per mano della violenza che si è arrogata il diritto di scegliere al posto suo.

Questa tragedia non è solo un atto di follia individuale, ma un riflesso di una società che troppo spesso alimenta possessività e l’idea che l’amore debba essere conquistato, un mondo dove il controllo e il dominio spesso vengono scambiati per affetto. Nessuno dovrebbe mai temere che qualcun altro possa scrivere il proprio destino, eppure, troppo spesso, questa paura si tramuta in realtà.

Lui, l’assassino, si chiama Stefano Argentino, ed è il frutto di una società che fatica a distinguere l’emozione dall’ossessione, l’amore dal possesso e la gelosia, che è ormai sinonimo di qualcosa di incontrollabile. Il problema di fondo è pensare che sia proprio questa ad uccidere, mentre invece risiede chiaramente nell’incapacità di riconoscerla, di poterla gestire e di trasformarla in qualcosa di umano, senza lasciare che diventi un’arma.

Ignorare il bisogno di educare alle emozioni, di insegnare che il desiderio di controllo non è amore ma una distorsione di esso, è come voltare le spalle a un incendio credendo che si estinguerà da solo. Cresce così la paura della normalità di certi comportamenti, delle parole che minimizzano e giustificano, della società che preferisce voltarsi dall’altra parte, che si limita a condannare la violenza senza mai chiedersi davvero da dove nasca. È inutile insegnare a difendersi se prima non si insegna a non essere una minaccia.

In un mondo iperconnesso, la gelosia trova terreno fertile nel monitoraggio costante, nel bisogno morboso di sapere tutto, persino di possedere anche l’immagine digitale di una persona. Ma chi educa quindi a rispettare i confini anche online, a non scambiare la trasparenza con un diritto di controllo?

L’indifferenza e il silenzio sono complici di ogni tragedia. La morte di Sara Campanella, come quella di tante altre, è il drammatico risultato di un’educazione che troppo spesso ignora l’importanza di gestire le emozioni. Non si tratta di trasmettere conoscenze, ma di insegnare a riconoscere i propri limiti, a rispettare quelli degli altri e a gestire le emozioni in modo sano. Insegnare il valore del rispetto reciproco, dell’autocontrollo e della responsabilità, significa anche formare individui consapevoli, capaci di riconoscere i segnali di abuso, di gelosia tossica e di intervenire prima che si trasformino in violenza. Educare alla parità, alla comunicazione sana e all’empatia è fondamentale. Solo così possiamo prevenire tragiche conseguenze che nascono da fraintendimenti, insicurezze o desideri di dominio.

Sara Campanella era come me, come il ragazzo che siede di fronte a me, come chiunque legga queste parole. E oggi mi rifiuto di sentirmi fortunata per essere ancora viva, come se l’esistenza fosse un privilegio. Perché l’unico vero merito dovrebbe essere di vivere senza paura.

Asia Origlia