La mia “favola storta” e il lieto fine che sono stata capace di costruire

C’era una volta un’universitaria

 Ho sempre amato le favole: “Cappuccetto rosso”, “La Bella Addormentata”, “Cenerentola”, ma quella che mi ha più illuso è stata sicuramente “La favolosa vita di un’universitaria”. Diciamo che non è propriamente adatta per i bambini; di solito gli adulti iniziano a raccontartela quando hai più o meno sedici anni, solo che a questa ci credi (perché sei fomentata dal trilione di serie tv ambientante nei college americani). Nella maggior parte dei casi questo “e vissero felici e contenti” esiste davvero nella vita reale, fatta eccezione per chi come me ha iniziato a frequentare l’università nel 2019 e adesso sta per laurearsi. Noi matricole di quell’anno non lo abbiamo vissuto il lieto “inizio”, siamo stati catapultati nella versione aggiornata al 2020 della “favola”. Non c’è neanche stato il tempo perché passasse la paura dei primi esami universitari che una pandemia globale ci ha relegati in casa. Totalmente alienati dalle lezioni online, tra un circuito per gli addominali e un impasto per la pizza ci siamo imposti di studiare e andare avanti, pensando che, forse in seguito, saremmo riusciti a viverla anche noi quella “favolosa vita universitaria”. Settembre 2020: nuovo anno, nuove restrizioni, un po’ meno speranza. Il nostro Paese si faceva spazio tra una vasta gamma di colori e noi studenti vivevamo però in una scala di grigi. Dopo l’ennesimo picco di contagi, il grigio è scomparso, vedevo solo nero. Mi stavo perdendo una favola che mi spettava di diritto, allora ho deciso di riscriverla cogliendo l’occasione di partire in Erasmus. Ho vissuto per sei mesi una storia diversa da quella che mi aspettavo, parallela e alternativa. La “sliding doors” della “favolosa vita di un’universitaria”. Il mio periodo in Spagna più che la “reconquista” di abitudini da studentessa è stato lo “spin off” dell’estate dopo la maturità: bellissimo ma pur sempre differente. Andavo a “scuola”: la mattina in classe, il pomeriggio i compiti. Niente. La favola non iniziava! Poi, al rientro, il dipartimento in ristrutturazione mi ha fatto diventare ospite nella mia stessa università. Una matricola attempata che sta per laurearsi… altrove, seguendo le lezioni con una modalità mista che rende i colleghi icone evanescenti del mio laptop. Niente in questa favola sembra andare come dovrebbe, tra un “c’era una volta” mancato e un “vissero felici e contenti” solo promesso.

Eppure: ci sono tanti “eppure” in questa favola un po’ storta. Eppure, se fosse stata una di quelle favole in ordine, avrei perso più tempo ad organizzare lo studio da sola dopo il liceo. Eppure non avrei macinato tutti i libri che mi hanno permesso di essere in corso con le materie. Eppure non avrei saputo intrecciare rapporti con persone fisicamente lontane. Eppure, senza questa “ingiusta detenzione” da pandemia, forse mai e poi mai mi sarei imbarcata sul transatlantico Erasmus, perché non ne avrei sentito il bisogno, e a questa favola sarebbe comunque mancato un pezzo.

È vero che l’isolamento forzato ti toglie il sostegno del gruppo e quel cameratismo che spinge e tira. Eppure, con tutte le difficoltà del caso, questa situazione un po’ anomala mi ha costretto a contare sulle mie forze, a verificare da sola la mia preparazione, a supportarmi nelle decisioni da prendere senza confronto coi miei pari e, infine, a fidarmi di me e delle mie capacità. Ho toccato con mano i miei limiti e i miei momenti di sconforto, ma la mano non ha tremato quando finalmente ho potuto aprire la porta e uscire.

In questa favola storta non c’è una strega cattiva, è una di quelle in cui eroe e antagonista coincidono: la forza maturata all’interno di quella solitudine è stata l’espediente eroico che mi ha consentito di essere creativa e produttiva, nonostante mi sentissi fuori da quel mondo che mi ero immaginata.  La principessa si è salvata da sola ed è scesa dalla torre con le sue stesse trecce.

Aprile 2022: entro in un dipartimento non mio e mi stupisco di vedere gente intorno, mi sembra un sogno interagire con i miei colleghi e con i professori, scambiare chiacchiere e informazioni tra un caffè e l’altro… un sogno ad occhi aperti!

Adesso sto preparando la tesi, inizio a dare un’occhiata al mondo del lavoro; insomma sto temperando la matita per disegnare il bozzetto del mio futuro. Questo tempo, seppure vissuto in maniera inusuale, imprevedibile, inaspettata, è trascorso, e non invano. Ha lasciato le cicatrici della pandemia ma anche le medaglie dei traguardi. Ha investito indistintamente tutti e in particolare quelli che, come me, erano allo start di una gara fondamentale. Ma in un modo o nell’altro al traguardo ci sono arrivata. Sulle mie gambe, con le mie forze, con le trecce di Raperonzolo e col cavallo bianco di ogni principe che si rispetti. Perché in questa favola un po’ storta, che mi sono raccontata da sola, c’è una sola morale: il “vissero felici e contenti” l’ho scritto da me.

* Articolo pubblicato il 28/04/22 all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud.

                                                                                                                     Sofia Ruello

Sindrome da Natale precoce e l’altra faccia della festività più attesa dell’anno

Molti sarebbero d’accordo con Cremonini che canta: “Dalle ultime ricerche di mercato si evince che la gioia è ancora tutta da inventare”. Secondo la scienza invece la felicità alberga nel cuore di chi si dedica agli addobbi natalizi con un po’ di anticipo. Sembra quindi che questa esigenza non sia dettata dalla voglia di battere tutti sul tempo sorprendendo con la decorazione più originale. La riflessione che sto per proporvi ha avuto inizio dalla constatazione di un fatto. Durante le ultime settimane di novembre, mentre mi aggiro per le vie di Messina, osservo le prime lucine tipiche di Natale ad ornamento di case e negozi. Continuando a passeggiare, riesco a scorgere la presenza di un albero di Natale attraverso la finestra di un appartamento che dà sulla strada. Lo stesso scenario. Ogni anno. Io, già di mio cinica e poco incline ai festeggiamenti, reagisco d’impulso indignata ed esprimo il mio disappunto, perché tutta quest’aria di festa precoce contribuisce a rincarare la mia già elevata dose di ansia. Senza voler limitare la libertà di nessuno…per quale motivo non si può semplicemente aspettare l’8 dicembre come da tradizione? Io, che se detenessi il potere di controllare il tempo lo fermerei o porterei indietro le lancette, non ho nessuna voglia di anticiparlo senza godermi la giusta attesa.

Comunque, una volta passato lo sfogo, torno sui miei passi e mi fermo a riflettere: mi convinco che dietro a questa tendenza di anno in anno sempre più comune, che prendo l’iniziativa di rinominare scherzosamente “sindrome da Natale precoce”, ci siano dei motivi ben più profondi da capire. Effettivamente, faccio alcune ricerche e trovo delle informazioni interessanti che riporto qui di seguito. Scopro che secondo un team di psicologi, se rientrate tra quelle persone che avevano già allestito albero e presepe qualche settimana prima di dicembre, significa che siete più felici degli altri. Non mi accontento di questa spiegazione un po’ fine a sé stessa, pertanto decido di approfondire e leggere ulteriormente. Traggo le seguenti conclusioni: stando agli studi di esperti psicoterapisti, impegnare la mente nella predisposizione degli addobbi natalizi ci distoglie dai problemi quotidiani e dallo stress, risveglia il “fanciullino” che è in noi e fa rinascere la nostalgia di un’infanzia spensierata che si desidera ripristinare. Ultimo effetto, ma non meno importante, sarebbe quello che le decorazioni appese fuori dalle porte degli appartamenti, nei balconi, e nei pianerottoli, migliorerebbero i rapporti con il vicinato e renderebbero più simpatici.

Per quanto io possa riporre estrema fiducia nella scienza, mi sento di dissentire da queste affermazioni, soprattutto dall’ultima, consegnando un’analisi dal mio punto di vista sociale e culturale un po’ diversa. Una versione che potrebbe sembrare forse troppo scettica, ma in cui tanti altri potrebbero riconoscersi, frutto di esperienze personali e collettive. Parto dal fatto che nonostante negli anni la mia famiglia abbia sempre esposto i festoni natalizi dietro la porta di casa, i signori condòmini del mio bizzarro e singolare palazzo che non rivolgevano il saluto prima di Natale, hanno proseguito a non farlo. La cosa più eclatante però è stata trovare, una volta rientrati a casa dopo un’uscita, le foglie della stella di Natale (che era esposta nel pianerottolo di casa) staccate dai rami e sparse sullo zerbino di casa. A quanto pare, più che aver suscitato simpatia, abbiamo favorito un atto di sfregio immotivato.

Una tesi che vorrei rielaborare da un’altra prospettiva è quella relativa all’equivalenza “persona che addobba in anticipo = persona felice”. Io non credo che si voglia comunicare proprio questo. Semmai, è simbolo di quanto bisogno ci sia di riacquistare serenità, che si finisce con il ricercarla in lucine e festoni, quasi fosse una soluzione terapeutica che finalmente, dopo un anno di frenesia, di monotona quotidianità e di dispiaceri, ci riporta alla realtà, intensificando i legami affettivi e familiari. Il problema però è che si tratta di un’illusione effimera e fugace, circoscritta alle vacanze natalizie destinate a finire nei primi di gennaio. Quest’inno alla gioia inoltre mette molto a disagio quelle persone che invece non riescono a manifestare queste stesse emozioni intrise di ottimismo in questo magico periodo dell’anno, perché si ritrovano a fare i conti con dei bilanci non necessariamente positivi per tutti, sui mesi passati. Ci si ricorda di quanto costruito, ma anche di ciò che si è perso. Se si vive soli e lontani da casa, Natale non è più lo stesso. In tempi di crisi, c’è chi non ha neanche la fortuna di sedersi a un cenone a mangiare come penseremmo fosse normale e scontato per tutti.

Secondo il pensiero di molti, a Natale la felicità dovrebbe essere contagiosa. I musoni e le facce malinconiche non sono ben accetti, quasi fosse una colpa. Eppure, esiste un fenomeno definito “Christmas Blues” che designa quelle persone investite da una sempre più diffusa tristezza che coincide con il clima di festività. Sono gli stessi amici o parenti che magari fingono di stare bene o di fare i regali di Natale con piacere. Io sono pro Christmas Blues e non biasimo chi si rispecchia in questo stato d’animo. “It’s okay not to be okay”. Che ben venga il dolore, se può diventare fonte di rinascita e di nuove consapevolezze, così come dovrebbe essere uno dei veri sensi del Natale.

Altra piaga poi sono i regali: ormai si sa, pubblicizzare il Natale è diventato anche uno scopo commerciale. I doni di Natale, se proprio dovete farli, fateli carichi di valore affettivo. Meglio così che privi di qualsiasi significato. Quelli fatti forzatamente vengono percepiti, sempre, e non vengono apprezzati già dal momento dello scarto. E poi, fate regali piccoli, che l’unica cosa grande che in varie forme desideriamo ma che non si può comprare, è la felicità, quella autentica però, non artificiale frutto di temporanei addobbi.

Il Natale insomma mette un po’ tutti a dura prova; è una ricorrenza controversa che spacca la società in due parti: chi lo ama e chi lo odia. In quest’ultima categoria di persone rientrano coloro che temono e ripudiano le tavolate. I momenti in cui le famiglie si riuniscono non solo possono riaccendere vecchi rancori e accentuare le attuali tensioni, ma spesso si tramutano in una serie di interrogatori da cui sembra una sfida uscirne vivi: “Ma il fidanzatino?” oppure “Quando ti laurei?” o ancora “Quando ti sposi?”, per finire con “Quando fate un figlio?”, e altre varie domande invadenti.

Effetti collaterali del Natale a parte, resta sicuramente una festività ricca di simbolismo e di spiritualità, da trascorrere con le persone che amiamo, senza obblighi o ansie. Concediamocelo almeno per due settimane. Facciamo una pausa, prendiamo un bel respiro, e ricominciamo a vivere, magari meglio di prima, la vita che desideriamo per il nostro bene, perseguendo i nostri sogni. Solo questo potrà ridonarci gioia. Questo è il mio augurio per voi lettori, studenti e non. Anche se a tratti posso essere risultata pessimista, in realtà il mio intento è di essere solo realista, con uno sguardo più fedele della realtà che possa raccontare l’altro lato delle feste, quello più scomodo e velato, troppo poco dibattuto.

 

Giusy Boccalatte

Foto di: Giulia Greco

Tempo d’estate, tempo per riflessioni e ringraziamenti

 

Partiamo da questo: non mi piace fare i bilanci, i conti in tasca. Tuttavia oggi nel mio ruolo mi tocca. Ma andiamo per ordine.

Lo scorso novembre sono entrato nel mio secondo anno da Direttore Generale del progetto, e nel giro di qualche settimana ho dovuto affrontare la prima difficoltà della nuova stagione: le dimissioni del Direttore Informatico Gaetano Bongiovanni.

Già Segretario generale, il Bongiovanni in arte Bonjo, si era distinto per le sue doti nel ramo amministrativo ed in quello informatico. Compagno di mille battaglie (molte tra di noi a tavola) è stato fondamentale per la riuscita del mio primo anno nel nuovo ruolo. Non di meno il Bonjo è diventato un caro amico, per questo la notizia della sua partenza per un adeguato impiego, non ha potuto che rendermi felice.

Ora però c’era da ristrutturare la Unit Informatica & Social media management, ormai capitanata da Ivan e Serena. Ivan Brancati era più che idoneo per rimpiazzare Bonjo come Segretario generale, così ho iniziato a tempestarlo di telefonate. Grazie al suo impegno molti lavori sono stati portati a termine ed oggi abbiamo il nostro dominio, e le nostre statistiche, con ancora tanto da aggiungere al nostro ventaglio.

Altro uomo fondamentale della nostra annata è il Direttore Radio Vincenzo Romeo. Reggino di nascita ma vero cittadino dello stretto, Cecio dopo una stagione trascorsa come speaker radio eredita il comando dell’allegra brigata, ormai non più tanto allegra. Di fatti recupera solo i superstiti non ancora laureati, portando con se non pochi dubbi sulla riuscita dell’opera. Di Vincenzo fin ora si erano viste solo le doti da speaker ed il suo attaccamento al progetto. Sin dal principio si dimostra meticoloso nell’organizzare, dotato di visione nei progetti a lungo raggio, ma sopratutto puntuale nel portare a termine tutte le scadenze che gli si presentavano davanti. Insomma un vero purosangue. In poco tempo ha messo su un gruppo di speaker strepitoso che si è tolto una soddisfazione dopo l’altra.

In questo gruppo però c’era un altro diamante grezzo, un ragazzo alto e magro, un po’ “sdillico”, al secolo Giorgio Muzzupappa. Si narra che il suo cognome sia stato sbagliato centinaia di volte nelle varie trascrizioni, tanto da essere un anagramma dell’eponimo di partenza. Per brevità chiamato Muzzu da due anni nel gruppo radio, viene eletto tra i Direttori Giornale in tarda primavera ed è subito propulsivo. Gli viene affidata la rubrica più complicata per questo progetto qual è “Attualità” : un successo. Ogni giorno viene trattato il tema più caldo del momento dai vari autori, coordinati dal Muzzu che “ne mastica”.

In questo melenso editoriale sarebbe doveroso parlare di tutti coloro i quali hanno lavorato in questo lungo anno, a partire da tutti i membri del direttivo quali Giulia, Selina, Arianna, Eulalia e Jessica, passando per la redazione intera, arrivando a chi ha rivestito ruoli di responsabilità senza essere nominato a sufficienza come Gianpaolo e Serena. Oggi però ho voluto ritagliare questo spazio speciale a quelle persone che presto concluderanno il loro percorso universitario, di cui certamente UniVersoMe sentirà molto la mancanza.

Un ultimo saluto lo faccio alle scaramucce, agli amori nati, a quelli che già c’erano, al nostro primo Workshop, al nostro primo Festival Nazionale delle Radio Universitarie, al nostro video proiettato alla Cerimonia di consegna dei Diplomi di Laurea. Un saluto a tutti i redattori e direttori che permettono che tutto questo accada e sussista, un augurio di buone vacanze a tutti i nostri lettori ed ascoltatori, che sicuramente a settembre saranno molti di più. Una buona estate e mi raccomando, teniamoci in contatto.

Alessio Gugliotta

Alla ricerca dell’aggravante perduta (?)

Nei giorni appena passati ho potuto notare che in molti durante il dì svolgono la propria vita in tranquillità ed in totale anonimato, mentre di notte si trasformano in impavidi difensori della giustizia, un po’ come Batman e Superman. Li definirei i “giuristi 2.0”. Si, si, avete idea di quanti “laureati” in giurisprudenza vagano per le strade del nostro bel Paese? Anche se lo scherzo sarcastico si presta divinamente per tutta la faccenda che vi racconterò, premetto che il mio scopo è principalmente di informare in maniera più oggettiva possibile, tenendo parziale la mia opinione – nonostante il tipo di articolo la richieda -, al fine di chiarire perché la giustizia italiana è giunta a tale decisione.

Si sa, il diritto non è certo un mondo facilmente comprensibile, due filoni sono in eterno conflitto tra loro (rari i casi in cui dottrina e giurisprudenza sono concordi) ed il lavoro interpretativo è sempre più oscuro ed articolato. Il caso che ha creato polveroni e fioccanti opinioni è la recente sentenza della terza sezione di giurisdizione penale della Corte di Cassazione: con il numero 32462 depositata il 16 Luglio scorso, i giudici hanno ordinato un nuovo processo per rivedere al ribasso le condanne stabilite in appello contro due uomini di cinquant’anni, accusati di stupro di gruppo contro una ragazza. I giudici hanno stabilito che la vittima era ubriaca e gli stupratori hanno approfittato delle infermità della vittima per avere un rapporto forzato privo di consenso della parte lesa. Se queste sono le parole che avete letto su molte testate nell’ultima settimana, è giustificato (e facile) attaccare la scelta dei giudici.

Ma, si è giunti fino al grado di Cassazione, perché la donna aveva assunto volontariamente l’alcol, e nel fare ricorso si è notato che per legge, alla pena dei due stupratori, non può essere aggiunta alcuna aggravante.

Procedendo con ordine: i fatti risalgono al lontano 2009. I protagonisti sono due uomini ed una ragazza, i quali avevano banchettato insieme con qualche bottiglia in più. La sfortunata fanciulla, al posto di essere aiutata viste le condizioni psicofisiche alterate, è stata condotta in camera da letto per subire una violenza da parte dei due uomini. Dopo qualche ora la giovane si è diretta al pronto soccorso descrivendo quanto appena accaduto. Nel 2011 i due uomini erano stati assolti in primo grado da un giudice di Brescia, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile (si evince infatti dalla sentenza e dalla testimonianza, che la giovane confondeva gli avvenimenti, omettendo ed aggiungendo svariate volte i fatti). Successivamente, nel gennaio del 2017, la corte di Appello di Torino aveva considerato in modo diverso il referto del pronto soccorso, che parlava di segni di resistenza, e aveva condannato i due uomini a tre anni applicando anche l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». La difesa dei due imputati aveva presentato ricorso sostenendo che non c’era stata violenza da parte loro né riduzione a uno stato di inferiorità, dato che la ragazza aveva bevuto volontariamente. La Cassazione ha ora confermato la responsabilità dei due uomini nello stupro, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante.

“Ragioni letterali, ovvero l’utilizzo della locuzione “con l’uso”, e sistematiche, essendo previste uguali circostanze soltanto in relazione ad altre fattispecie di reato che contemplano tra i loro elementi costitutivi la violenza o minaccia (artt. 339, 395, 393, 629 e 585 c.p.), impongono, infatti, di ritenere che il mezzo descritto debba essere imposto contro la volontà della persona offesa e, dunque, che la sostanza deve essere assunta a seguito di un comportamento violento o minaccioso dell’agente. Non integra quindi gli estremi dell’aggravante l’assunzione volontaria di sostanze alcoliche da parte della vittima.” – Sentenza della Corte

Perché si parla di aggravante e della sua mancata sussistenza?

Innanzitutto l’aggravante nel diritto penale la ritroviamo nell’art. 61 del codice penale, in cui sono elencate le circostanze aggravanti comuni, circostanze che – appunto – aggravano il reato commesso dal colpevole. Vi sono anche le aggravanti speciali, che si applicano caso per caso. Ed è questo il punto sul quale si sono soffermati molti critici, poiché ogni caso va valutato nelle sue circostanze specifiche, che non sempre sono uguali tra di loro. In ogni caso, la corte non ha stabilito che l’ubriachezza volontaria fosse stata un’attenuante, ma che se una donna che ha bevuto subisce una violenza, l’aggravante sussiste quando lo stato di invalidità è stato provocato dal colpevole del reato. La Cassazione non ha teorizzato che lo stupro non si è verificato: la violenza sessuale è stata riconosciuta, non è stato riconosciuto l’aggravante che modifica la pena dei colpevoli.

Chiariti tutti i dubbi, le opinioni possono essere presentate, sicuramente con la consapevolezza dell’argomento. La paura che può sorgere, nell’ipotesi in cui dovesse ripresentarsi un caso simile, è che la sentenza della Cassazione possa valere come precedente – il che non significa che la pronuncia fa legge, ma ha un peso rilevante, e può essere citata davanti ad un giudice – e che quindi l’aggravante come non sussiste adesso, potrebbe non farlo successivamente. Ma questo non significa che il dito va puntato alla Corte perché è stata “ingiusta” e l’indignazione deve dilagare come una fake news su Facebook.

Al Corriere della Sera, la penalista Caterina Malavenda non ha messo in discussione la legittimità della decisione della Cassazione, ed ha spiegato: «Certo, ora la Corte di Appello dovrà rivalutare tutto e, in particolare, capire chi ha fatto bere la vittima e perché. Tu puoi bere senza rendertene conto se c’è qualcuno che ti riempie continuamente il bicchiere. Ma perché lo sta facendo?». Infatti, a prescindere dalla giurisdizione e dalle scelte prese secondo procedimenti ben precisi e nel rispetto delle norme, la questione va spostata su un altro piano, in un ambito che ancora non è diventato concreto e sostanziale. La violenza ed il consenso sono discussioni fortemente avanzate in questo periodo, non solo a livello nazionale ma anche europeo, in cui il fulcro è il consenso esplicito, per cui dire “sì” significa “sì”, e che tutto il resto, compreso il silenzio, significa “no”. Il consenso esplicito offre infatti, secondo molte, più protezione, soprattutto a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente il proprio consenso (per paura, per alterazione del proprio stato psicofisico, le circostanze sono tante).

Che questo possa essere uno spunto per rivedere o migliorare tutte quelle norme volte a condannare la violenza sessuale? Che la nostra burocrazia sia famosa in tutto il globo per la sua particolare lentezza e minuziosa ricerca, è assodato, ma forse dovremmo valutare molti più casi e le rispettive conseguenze per poter assicurare una tutela completa dell’individuo (sempre nel rispetto del nostro diritto). Come recentemente in Spagna (che segue il modello tedesco e svedese), in cui è stata approvata la proposta che vede la vittima esprimere il proprio consenso esplicito affinchè il rapporto sessuale venga considerato tale, altrimenti è una violenza a tutti gli effetti.

Prescindendo dal genere, la violenza sessuale è un atto vile che deve essere concretizzato nell’immaginario comune: cioè, bisogna avere consapevolezza del reato infimo che rappresenta, tanto da non volerci nemmeno scherzare, per esempio. Non è piacevole quando dite “era troppo bon*, l’avrei stuprat*” o “vieni, vieni ti faccio divertire io”, non siete simpatici, non è divertente, non si dicono certe espressioni per scherzare. Sarò troppo rigida, ma è così di cattivo gusto, che riuscite a trasmettere amarezza e sconforto in chi vi ascolta, e peggio è quando vi si regge la battuta. Ridere è bello, ma c’è così tanto su cui scherzare, perché proprio così?

 

 

Giulia Greco