Messina Glaciale: il ritorno della Neve

15941827_10211535316008158_849274161_nTutti muniti di berretti di lana, guanti, sciarponi, plaid e chi più ne ha più ne metta. Siamo passati dai selfie in spiaggia il 25 dicembre, che manco alle Canarie, dove sfottiamo i nordici sbattendo sui social i nostri +20° anche d’inverno, a rinchiuderci in casa con i termosifoni ‘’a palla’’.

Altro che bianco natale, bianca befana: porterà via pure le feste ma ha lasciato pure mezzo metro di neve. Il 6 pomeriggio siamo usciti stupefatti e incantati che, per quanto mi riguarda, mi sembrava fossimo tornati indietro di 15 giorni e jingle bells jingle bells.

Non solo il Sud, ma tutta l’Italia, che questo anno ha visto un clima abbasta mite, è stata investita da un freddo glaciale. Freddo dato da una perturbazione proveniente dalla Siberia, accompagnata da un vento freddo che fa percepire meno gradi rispetto a quelli reali.

Da un lato c’è l’arrivo di aria gelida dal Nord Europa, dall’altro però, secondo gli esperti, a influire potrebbe essere l’aumento dei gas serra nell’atmosfera. L’inquinamento insomma potrebbe causare eventi climatici estremi: dal caldo afoso (come quello che ha contraddistinto il 2016) alle ondate di freddo improvvise.

Noi tutti, dal canto nostro, ci siamo riversati sulle strade a fare pupazzi di neve, selfie, boomerang, arricchire le Instagram Stories, fare Snap su Snapchat come se non ci fosse un domani, ignari e felici. E, soprattutto, essere accuratamente e immediatamente presi in giro dai polentoni (che li vorrei vedere se arrivasse il nostro mare da loro).

Se avete alzato il naso e guardato il cielo, tra l’altro, avete potuto notare un banco fitto di nuvole grigio biancastre: questo è un fenomeno particolare detto “Tirreno sea effect snow”. Scorrendo sopra le tiepide acque del basso Tirreno l’aria gelida, d’estrazione artica continentale, è la causa che dà vita a questa peculiare manifestazione. Si sviluppano questi imponenti annuvolamenti cumuliformi carichi di rovesci e temporali, che possono assumere carattere nevoso fino a bassissima quota. Queste dense nubi bianche sono all’origine delle nevicate che durante il periodo invernale, a volte, colpiscono la Sicilia settentrionale e la stessa città di Messina.

E, per quanto è stato bello uscire e scatenare i nostri lati da fashion bloggers, disagi ce ne sono stati e anche parecchi: dalla chiusura dell’autostrada fino ad alcuni quartieri in centro città.

Impreparati o preparati? Ovviamente la risposta definitiva non la sapremo mai. Certo è che, al solito, ci distinguiamo per la confusione e il panico che sopraggiunge appena veniamo colpiti da qualcosa di anomalo. Per quanto in questo caso, sembrerebbe, non sia una questione di impreparazione. La Regione, preparata, infatti, non è riuscita, semplicemente, a contrastare appieno la situazione.

Così, tra un allarme meteo e l’altro, c’è stata la chiusura delle autostrade (fino all’uscita di Rometta direzione Palermo, fino ad Acireale e Giarre direzione Catania), ma anche del tratto fino a Dinnammare che ha reso impraticabile il raggiungimento del Centro Neurolesi. In tilt anche alcuni treni, servizi pullman e traghetti, specialmente per le Eolie, trovatesi quindi completamente isolate.

Tutti ne stiamo, dopo l’eccitazione iniziale, risentendo, ‘’intrappolati’’ in casa. All’eccitazione è subentrata la frustrazione. Se non fosse che noi un tetto sulla testa lo abbiamo: le zone dei terremotati sono quelle di cui maggiormente la protezione civile si sta occupando, cercando di aiutare gli accampati il meglio possibile.

Ancora, i senza tetto. Il sindaco Accorinti ha disposto, per l’emergenza freddo, l’apertura di Palazzo Zanca di modo da ospitare tutti i clochard e le persone in difficoltà e proteggerle dal freddo. Grazie Sindaco: sono dovuti scappare 8 morti, letteralmente dal freddo, in tutta Italia, perché qualcuno facesse qualcosa. Touché.

A parte tutto questo, come per il caldo, anche il freddo ha le sue regole: esattamente come le pubblicità estive in cui dicono ‘’bisogna idratarsi molto ed evitare le ore più calde’’, ora al telegiornale consigliano cosa fare e cosa non fare.

Non fare attività fisica all’aperto senza il giusto abbigliamento, idratare la pelle e non mollare il nonnino di 95 anni su un lago ghiacciato che poi scivola e si rompe il femore. Comunque, Corriere della Sera docet, sembrerebbe che il freddo aiuta a prendere meglio le decisioni complesse (penso valga solo per il sesso femminile, comunque. Se già voi maschietti avete difficoltà normalmente, figuratevi se vi si congela là sotto).

Inoltre si diventa meno concilianti e ci si sente più soli (stesso discorso di su, però mi sa che questa volta vale di più per noi ragazze. Fan Alert: spero per voi che non ci capitano le-nostre-cose insieme a un’altra bella nevica).

15941547_10211535316048159_1266268732_nSiamo realisti: in ogni caso a noi non rimane che, in questo periodo, la sessione invernale. Quindi, molto probabilmente, ci rivediamo in primavera. I nostri consigli? Serie tv, libri, radio UniVersoMe per rimanere collegati con il mondo e, al diavolo l’inverno, termosifone e pigiama is the new uscire il sabato sera!

Elena Anna Andronico

Dicembre: è ora di tirare le somme

 

image1Gli articoli a fine anno risultano spesso molto importanti. Sopratutto se articoli di opinione, a chi importa della tua opinione quando sei una studentessa che non studia giornalismo e non aspira ad essere giornalista professionista?

E quindi un grande, immenso, gigante punto interrogativo. Che cosa tratto? Come lo tratto? Avrò scritto bene? Ha un senso? È scontato? Ho provato a dare delle risposte a queste domande, ho pensato “se me le pongo, tanto vale provare a rispondere”, come ad un esame ti autoconvinci di essere preparato. La conclusione è che ho deciso che avrei dovuto scrivere quello che mi frullava in testa, riguardo le mie sensazioni in questo periodo dell’anno.

Dicembre è un mese particolare: fa più freddo, gli esami, le feste si avvicinano, gli esami, il buio pesto già alle 17.00, gli esami, la fine dell’anno, gli esami, le costanti domande “siamo già a dicembre?” e “che faccio a capodanno?”. Ma sopratutto ti ritrovi a pensare a come si è svolto quest’anno di vita, e ti chiedi come sarà quello successivo…i pensieri aumentano sempre a Dicembre. L’altro giorno ho letto un compito che dava uno psicologo ai suoi lettori: che cosa prevedi che succederà nella tua vita nel 2017? In che direzione stai andando?

Sulla base delle risposte a queste domande si possono suddividere le persone in tre categorie:

-I pessimisti che già incorniciano il loro 2017 con didascalia “MAI NA GIOIA”, assorbiti dall’ansia vedono il peggio in tutto, e in loro stessi

-Gli ottimisti che, al contrario, già immaginano campi di fiori ed unicorni nel loro florido futuro

-I realisti i quali vivono il momento, “alla giornata”, senza porsi grandi obiettivi, valutando giorno per giorno quello che gli accade, vivendo però, a volte, in maniera eccessivamente neutrale

E se invece dimenticassimo le categorizzazioni e pensassimo che tutti siamo tremendamente, inesorabilmente uguali e, chi in un modo, chi nell’altro, cerca la propria serenità?

Gli anni che abbiamo vissuto fino ad adesso dobbiamo sempre considerarli e vederli con occhi critici, analizzare ciò che vogliamo migliorare delle nostre abitudini ,capire se la nostra quotidianità è quella che ci appartiene, fare nostre le buone vibrazioni che fino ad adesso abbiamo ricevuto ed offrirne altrettante. Continuiamo a nasconderci dietro un dito, senza tener conto di come abbiamo vissuto l’anno appena passato, con le gioie ed i dolori, con le varie incazzature ed i “non ce la posso fare”, con le risate e le incomprensioni. Il gesto più umile e nobile che possiamo compiere è imparare da noi stessi: ascoltarci fino ad esaudire i desideri del nostro spirito.

Non nego di aver provato a rispondere (consapevole del fatto che tutto in fondo è incerto), e mi sono venute in mente altre due domande che non mi ero mai posta concretamente: come voglio vivere la mia vita? Che sensazioni voglio provare per trovare la serenità?

 

P.S.: dopo aver risposto a queste domande me ne verranno altre?

 

Giulia Greco

Referendum: perchè detesto parlare di politica

Dicono che il primo editoriale, un po’ come il primo amore, non si scordi mai. E devo ammettere che a me è andata davvero di lusso, come si suol dire, dato che i turni concordati col resto della redazione hanno fatto si che mi toccasse come primo editoriale questo di oggi, 6 dicembre 2016, un periodo denso di avvenimenti importanti, dopo che l’esito di un importante referendum costituzionale e le successive dimissioni del premier Renzi hanno aperto le porte a una quanto mai caotica crisi di governo.

E quindi l’angioletto sulla mia spalla, con tanto di aureola e cetra dorata (chi di voi ha visto Le Follie dell’Imperatore capirà e si commuoverà con me ricordando quei tempi spensierati) proprio adesso che scrivo mi dice “Gianpaolo, ora prendi, ti informi, ti spulci le opinioni di cui i giornali sono pieni, ti improvvisi analista politico e ti spari un bel pezzo in cui fai il punto della situazione; ci piazzi un bel po’ di frasi fatte, del tipo ‘una vittoria per la democraziaoppure ‘il Paese è nel caos!’, così ti senti in pace con te stesso e col mondo e aggiungi un altro inutile mattone alla interminabile catasta di stupidaggini che sono state dette e verranno dette, in questi giorni e in quelli a venire“. E controvoglia potrei anche dargli ragione, solo che la cosa mi scoccia da morire e preferisco, per oggi, stare a sentire il mio diavoletto custode (ovviamente con tutina rossa, corna e forcone) che mi intima di farmi i fatti miei, promettendo in cambio la prospettiva di una vita ultracentenaria, come garantisce il ben noto proverbio. Ma qualcosa dovrò pur scriverla in questo editoriale: pertanto decido, per una volta, di fare la voce fuori dal coro e di incentrare il mio editoriale sul perché non voglio parlare di politica.

Prima che una delle tante voci del coro se la prenda con me e inizi a tormentarmi con i classici e triti slogan della cittadinanza impegnata (“ah, ma così passi un messaggio sbagliato! Ah, ma il voto è un diritto e dovere del cittadino e va esercitato sempre e comunque! Ah, ma allora sei anche tu un qualunquista!“) premetto doverosamente che a votare ci sono andato. Il punto è che l’ho fatto, come ormai spesso mi succede quando leggo notizie di attualità, con una sensazione come di dolore gravante in zona epigastrica (insomma, un peso sullo stomaco, anche se forse è colpa del reflusso). Che poi, guarda caso, alla gente interessi che tu vada a votare solo perché potenzialmente potresti votare quello che votano loro, è forse uno dei tanti motivi di questa sensazione di peso, ma non l’unico. Aggiungerei anche che ho votato non tanto per questioni di appartenenza politica o pregiudizi ma perché criticamente convinto della validità della mia scelta avendo esaminato attentamente le possibili alternative. Mi guardo bene dal farlo, però, perché so fin troppo bene che 1) a nessuno interessa delle mie capacità di analisi critica e 2) se andassi a chiedere a chiunque in base a cosa ha votato, chiunque mi risponderebbe così, e non c’è bisogno di essere esperti in psicologia cognitiva per sapere che, per uno dei tanti tiri mancini che il nostro cervello bastardo ci gioca, la nostra scelta ci appare, tendenzialmente, sempre come la più giusta e la più logica, solo per il fatto precipuo che essa è la nostra.

Arriviamo (finalmente) al dunque, alle ragioni del mio peso sullo stomaco. Tutte queste interminabili filippiche sono dovute al fatto che il recente referendum si è dimostrato, nei toni e nelle posizioni delle varie parti politiche tanto del fronte del Si quanto di quello del No, l’ennesimo trionfo del paradosso, della contraddizione e della fallacia logica. A cominciare dal PD di Renzi, che fino a qualche anno fa si atteggiava a difensore supremo dell’integrità della Costituzione tanto da porre la questione persino nel proprio statuto (quando la Costituzione voleva cambiarla il nemico Berlusconi…!) e che adesso ne ha proposto quella che sarebbe stata una delle modifiche più estensive della storia della Repubblica. Per poi arrivare al fronte del No e ai suoi controversi supporti da parte delle estreme destre, che fino a ieri inneggiavano al Duce e oggi si fanno vanto di aver difeso la Costituzione (si, proprio la Costituzione, avete presente quella cosa brutta voluta dai socialisti dopo la Liberazione?) dalla “svolta autoritaria” voluta dal premier Renzi: segno che le dittature e i regimi autoritari piacciono, purché a comandare ci sia chi piace a noi. Una battaglia politica condita di retorica populista da entrambe le parti, col fronte del Si a tappezzarci le città di specchietti per allodole facendo leva sul di desiderio di cambiamento (“Vuoi fare qualcosa per cambiare le cose? Vota SI”: avrete ragione voi, ma cambiare in meglio o in peggio?) e quello del No a fomentare i più bassi sentimenti di risentimento e insoddisfazione verso la classe dirigente, ovviamente con una inevitabile spolverata di complottismi d’annata (“Vota NO contro il sistema, contro i politici corrotti, contro le banche internazionali, la massoneria, i rettiliani che ci vogliono pecorelle inermi ai loro oscuri disegni di dominio”), passando ovviamente per promesse inattuabili (alcune francamente ai limiti del ridicolo) e prospettive apocalittiche nel caso di vittoria dell’avversario. Una campagna referendaria condotta insomma puramente sull’onda del sentimento, “di pancia”, senza che i media dedicassero spazio (salvo rare lodevoli eccezioni) alla sola cosa che potesse orientare un voto corretto e consapevole: il dibattito critico, razionale, sui pro e i contro del voto, in una parola l’informazione.

Unica nota di speranza, l’affluenza ai seggi: altissima, quasi del 70%. Evidentemente un briciolo di passione politica, nel popolo italiano, è rimasto. Ma la domanda inquietante a questo punto è: dopo un simile sovracitato sfoggio di slogan insignificanti, demagogia sfacciata e fallacie logiche assortite abbondantemente profuse da ambo i lati, durante questa campagna referendaria, di quale politica possiamo fidarci, di quale politica possiamo tornare ad appassionarci?

 

Gianpaolo Basile 

immagine in evidenza: Giuseppe Lami/ANSA

Moonlight: un film da non perdere

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Negli ultimi anni l’industria cinematografica e televisiva ha avuto come tema ricorrente la questione di genere e la comunità LGBT. Pochi film però sono stati così delicatamente incisivi e toccanti come “Moonlight”, film di apertura dei festival di Telluride e Roma di quest’anno, è stato proiettato anche al NYFF, al TIFF e al BFI di Londra.

Seconda opera di Berry Jenkins racconta la vita di un ragazzino di colore nei bassifondi di Miami e l’accettazione della sua sessualità.

Strutturato in tre capitoli, per tre fasce di età, denominati col nome con cui Chiron si fa chiamare o viene chiamato. Da piccolo Chiron attira l’attenzione di uno spacciatore (interpretato da Mahershala Ali il cui nome non vi dirà nulla ma che avete visto in molti film e tv series fra cui House of cards nei panni di Remy Danton, l’avvocato che diventa capo dello staff di Underwood) che , insieme alla moglie (la cantante Janelle Monae) lo accoglie in casa, e sopperisce alla figura paterna.

I bulli che lo perseguitano fin da piccolo lo faranno diventare un’ altra persona da adulto. O forse sarà una semplice corazza. Chiron è una persona taciturna, quasi muto, sensibilissimo e timido. Il mare dietro quello sguardo profondissimo. La spiaggia e il mare: i luoghi in cui è libero di essere se stesso.

E’ un film necessario per l’America dopo la strage di Orlando e per gli spettatori di tutto il mondo, perché racconta la battaglia interiore ed esteriore di un ragazzo di colore , sessualità e bullismo. Delicato e prorompente, non scade mai nel cliché. Jenkins ha una visione unica e mai vista fino ad ora , permette agli spettatori di riflettere sulle ferite visibili ed invisibili dell’altro, argomento che probabilmente non aveva mai sfiorato la loro mente.

Insomma è un’opera da non perdere.

Arianna De Arcangelis

UniMe e la Notte Bianca: eravamo veramente connessi?

Giorno 14 ottobre c.m., si è svolto l’evento ‘’Notte Bianca dello Sport Universitario’’ presso la Cittadella Universitaria di Messina. L’evento è stato organizzato dal Cus Unime, con l’aiuto di molti studenti volontari che hanno aderito all’iniziativa. Quest’ultimo è stato creato dagli studenti per gli studenti, con il supporto da parte della nostra Università.

La manifestazione ha ricevuto molte adesioni, in quanto era caratterizzata da varie attività alle quali poteva partecipare chiunque. Infatti, oltre ai tornei sportivi ai quali aderivano i vari studenti, sono state tenute diverse discipline che tutti potevano provare. A sera inoltrata si è concluso il mega-evento con la partecipazione straordinaria di Luca Dirisio in concerto.
Ovviamente, essendo noi la Voce dell’Università, abbiamo partecipato con grande entusiasmo. Radio UniVersoMe si è presentata presso la Cittadella alle 16:30, pronta per trasmettere in diretta la radiocronaca dell’evento. Però (c’è sempre un però), non tutto fila sempre liscio come l’olio. Quali disavventure hanno dovuto affrontare questa volta i nostri piccoli grandi eroi?

Il cuore del problema sta nel fatto che spesso diamo le cose per scontate. Come l’acqua, il fuoco, l’elettricità e, nel nostro secolo, il Wi-Fi o, comunque, la rete internet. Cosa è questa grande invenzione dell’uomo? La possibilità di essere sempre connessi tra noi, ma, a quanto si è visto, a volte ci si ritrova isolati.

Cosa c’entrano gli speakers di Radio UniVersoMe in tutto questo? Che, loro malgrado, per quanto dovevano iniziare il loro lavoro alle ore 17:30 e finirlo alle 22:30, questo, purtroppo, non è potuto avvenire. Infatti, come molti di voi avranno potuto notare, il programma è potuto partire solamente alle 19:30 ed è, inoltre, finito all’incirca alle 21:30. Questo a causa del fatto che la grande risorsa del World Wide Web è venuta a mancare (e ci uniamo in cordoglio, porgendo le nostre condoglianze) senza che noi ne fossimo al corrente.
L’antico vaso andava portato in salvo, cita una famosa pubblicità. Nel nostro caso, la contemporanea trasmissione andava portata in salvo. C’è stato un momento in cui tutti ci guardavamo con l’espressione da pesci rossi, abbastanza perplessi, senza sapere cosa dire o fare. E, di certo, l’uragano di contorno non aiutava gli animi.

14708100_1193265657415322_5006445178957147403_nAd un certo punto la scena era questa: noi che guardavamo i ragazzi dell’organizzazione e loro che guardavano noi. Dopo i primi momenti di disperazione, i prodi guerrieri, hanno cercato le più svariate soluzioni: sono stati chiamati vari gestori telefonici, l’Università stessa, vari negozi di informatica, il Papa, Barack Obama e, infine, anche il cavallo che trottava nei dintorni (per la dimostrazione dell’attività equestre), ma niente. Nessuno che ci avesse forniti di una gioia. Un classico.

I nostri soldati non si sono arresi, o meglio, hanno ricevuto la grazia divina. Dio, Homer Simpson, Spongebob o chi per lui, ha inviato un angelo dal cielo che ci ha forniti di un telefono privato provvisto di Gb in grado di sostenere la diretta radio. Ore 19:30: siamo, finalmente, in onda!

Tale angelo, non sappiamo chi fosse, purtroppo, nella confusione e nello sconforto, il suo nome non è stato pervenuto. Comunque, ci teniamo a ringraziarla pubblicamente.
Ancora oggi, non riusciamo a dare una spiegazione a quanto avvenuto. L’Università ci ha creati, sostenuti e voluti come voce di sé stessa e noi abbiamo fin da subito accolto con entusiasmo l’incarico assegnatoci. Il problema è proprio questo: come possiamo assolvere questo compito senza i mezzi base necessari? Di certo gli studenti che hanno partecipato all’organizzazione dell’evento, o tanto meno noi, hanno i poteri magici.

Se l’Università è gli studenti, gli stessi studenti devono avere i mezzi validi per rendere valido l’Ateneo.
Certi che è stato un caso isolato e facilmente, alla fine, marginato e risolto, non possiamo non riportarlo. Essendo la ‘’famosa’’ Voce dell’Università, è corretto riportare non solo quanto di bello c’è ma anche i disagi che a volte si presentano.

Ci teniamo a sottolineare che il nostro rammarico non deve essere interpretato come una diffamazione nei confronti dell’Ateneo ma perché, al contrario, tanto è l’amore nei suoi confronti quanto è ampio, appunto, il nostro dispiacere. Dispiacere dato dal fatto che l’Unime, purtroppo si perde in un bicchier d’acqua. Fermo restando che, se deve esserci questo bicchiere, almeno che sia di Vodka.

Il nostro auspicio è che, dal momento che ‘’l’unione fa la forza’’, tutti insieme cercheremo di puntare più sulla qualità che sulla quantità.

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Elena Anna Andronico
Giulia Greco

Non ce ne facciate una colpa


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Che i giovani siano una risorsa importante non lo scopriamo certo oggi, o almeno non noi.
È infatti un argomento quanto mai d’attualità il fenomeno migratorio che vede giovani di tutte le età abbandonare il Belpaese in favore di realtà molto più solide, sicure, e con una prospettiva ben migliore di quella italiana.
In parole spicciole, stiamo parlando della tanto decantata “fuga di cervelli” ormai sempre più sulla bocca di politici e giornalisti, all’ordine del giorno di talk show ed indagini statistiche, oggetto di libri e film.

La questione periodicamente balza agli onori della cronaca per differenti motivi: talvolta per screditare i giovani che vanno via disprezzando il proprio Paese, quasi a far loro una colpa della propria scelta di cercare altrove quello che non trovano nel paese che ha dato loro i natali; talvolta per criticare sterilmente lo Stato, dando adito al miglior luogo comune secondo cui l’Italia altro non sia che un paese vecchio (lungi da me dire che non è vero, salve rare e preziose eccezioni), tuttavia senza mai aprire un serio dibattito su cosa sia meglio per i ragazzi ormai sul piede di partenza.

Spesso, invece, sembra quasi che ci si vanti del fatto che i giovani italiani non riescano a trovare fortuna a casa propria; è il caso di tutta quella serie di trafiletti di giornale che leggete una volta a settimana sui quotidiani nazionali: “Giovane ricercatrice italiana trova la cura contro malattia X. La dottoressa, scartata dagli ospedali italiani, è stata valorizzata all’estero dove è considerata un luminare della ricerca scientifica”.
Questo, sempre in riferimento alla seconda alternativa che si trova alla fuga dei giovani: incolpare lo Stato, incassare la vittoria esterna, far cadere tutto nel dimenticatoio, cercare la prossima fonte di indignazione generale.
Tolto che ci sono tanti giovani che riescono ad affermarsi e a migliorare il proprio paese, l’articolo si ripropone di analizzare chi invece non ha avuto, non ha, o non avrà questa fortuna.

Ho sentito tante opinioni in merito alla questione, forse la più curiosa l’avrete trovata anche voi sui social: “Se il trasferimento di Gonzalo Higuaìn alla Juventus è stato più oneroso dei costi della ricerca scientifica italiana, questo riflette il paese in cui viviamo”. Wow, d’impatto. Grazie a Dio lo Stato non finanzia le società calcistiche, l’indignazione sarebbe stata la medesima? In parte, come sempre.

Nelle ultime settimane, tuttavia, se il tema è tornato in auge, è per le parole di Raffaele Cantone.
Il magistrato italiano, Presidente dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione), due settimane fa era presente al convegno nazionale dei responsabili amministrativi delle università, tenutosi a Firenze, dove ha espresso la propria preoccupazione in merito alla fuga dei cervelli italiana, a suo dire condizionata dalla corruzione che imperversa negli atenei del Belpaese.
Lo stesso Cantone, nel medesimo appuntamento, si è soffermato sul caso dell’Ateneo di Bari, dove per mantenere la parentopoli, vi è stato il caso dell’istituzione di una cattedra di diritto pubblico in una facoltà letteraria, e al contempo quella di storia greca in una facoltà giuridica, così, giusto per trovare l’escamotage giusto e far contenti tutti.

Anche l’opinione pubblica ha spesso espresso contrarietà per le procedure dei concorsi: sono infatti innumerevoli gli scandali che concernono i test di medicina (il nostro editoriale a riguardo: https://www.universome.unime.it/editoriale/gutta-cavat-lapidem.html); e vari concorsi banditi dalle università italiane che già conoscono il futuro, fortunato, vincitore.

Tuttavia, i motivi che spingono i giovani ad abbandonare l’Italia sono tanti, ed è difficile trovare una specifica causa scatenante.
Parentopoli, scandali nelle università, concorsi truccati, sono solo un piccolo (grande) tassello in un puzzle infinito.

La Fondazione Migrantes, nell’annuale rapporto “Italiani nel mondo”, ha potuto constatare quanto sia aumentata la percentuale di italiani che hanno lasciato il paese: +3,7% in un anno, per quasi 5 milioni di residenti all’estero. Come se tutta la Sicilia si fosse trasferita, per intenderci.

Le ragioni, come già detto, sono innumerevoli: piccoli imprenditori che non hanno modo di sviluppare un’idea in Italia, studenti stanchi di strapagare i propri Atenei a fronte di preparazioni e servizi sotto la media e di un job placement pressoché inesistente, la difficoltà di lavorare per potersi mantenere gli studi, l’ambizione.

L’ambizione forse è il motivo più importante. Ce l’hanno detto in tutti i modi, a volte ce lo consigliano i nostri stessi professori e familiari: se hai ambizioni importanti, devi andar via da qua e trovare chi davvero possa valorizzarti.
Luogo comune che però affonda le radici in un fondo di verità: l’esempio dell’Inghilterra, in cui vi è una grandissima percentuale di studenti lavoratori, dovrebbe essere d’insegnamento a tutti, soprattutto a noi.
Non solo: università che investono sui ragazzi, che danno la possibilità anche ai meno abbienti di poter accedere ai più disparati corsi di laurea ed aspirare ad un titolo di studio realmente spendibile, con una serie di finanziamenti e di prestiti.
E questo è solo uno dei tanti casi elencabili in Europa e nel mondo.

Non è un luogo comune né tantomeno una lamentela senza senso: l’Italia, purtroppo, non è un paese per giovani.
Cercatene la soluzione, continuate ad analizzare dati sterili e senza voce, continuate ad incolpare i sistemi che più vi fanno comodo. Fatelo, ma non ce ne facciate una colpa.

Alessio Micalizzi

Aspetto e intanto…voto Pannella e canto

“Sembra che aboliranno il proibizionismo. Cosa farà?”
“Andrò a bere un bicchiere!”.
Recitava così una delle scene de “Gli Intoccabili”, quasi trent’anni fa.
Benvenuti nel Paese del proibizionismo, della facciata, degli sprechi, della menzogna, della cattiva informazione. Benvenuti in Italia, signori miei.
25 luglio, una data come un’altra. Un po’ meno per chi ha fatto di una semplice idea una proposta di legge, rendendo un tabù l’argomento del giorno, e provando a fare la storia di uno dei paesi più introversi (e controversi, ovviamente) del Mondo.
Si chiama Benedetto della Vedova, ex radicale appartenente al gruppo misto, sottosegretario agli Esteri.
Alla proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis hanno aderito circa 220 parlamentari appartenenti alle più disparate forze politiche: circa 90 direttamente dal Pd, mentre non sono mancati esponenti di Sinistra Italiana, M5S, di Forza Italia, Gal, Scelta Civica, Socialisti ed altri del Gruppo Misto.
Osserviamo, però, i punti salienti della proposta:
Consumo e detenzione: i maggiorenni potranno detenere fino a 15 grammi di marijuana in casa, mentre al di fuori dell’abitazione potranno essere detenuti un massimo di 5 grammi. L’uso sarà consentito solo ed esclusivamente ai maggiorenni e la detenzione per i minorenni sarà punita con le attuali leggi sulla droga;
Coltivazione: sarà possibile coltivare la marijuana a casa, fino ad un massimo di 5 piante per appartamento. Ovviamente, non sarà possibile venderla;

Luoghi pubblici: non sarà possibile consumare hashish né marijuana in “luoghi pubblici, aperti al pubblico e negli ambienti di lavoro, pubblici e privati. Sarà possibile fumare solo in spazi privati, sia al chiuso, che all’aperto”;
Guida: previste le medesime leggi che riguardano l’alcol alla guida;
Cannabis social club: si potranno costituire dei gruppi per la coltivazione della cannabis in forma di associazione, ma l’associazione in questione non potrà avere fini di lucro. Questi club saranno costruiti sul modello spagnolo e prevedono un massimo di 50 associati, che potranno coltivare fino a 5 piante ciascuno. Dell’associazione potranno far parte solo i maggiorenni residenti in Italia e la coltivazione potrà avvenire trascorsi i 30 giorni dalla comunicazione all’ufficio regionale dei Monopoli competente per territorio;
Cannabis terapeutica: dall’entrata in vigore della legge sarà lecito, e molto più semplice, potersi curare con la marijuana;
Destinazione delle risorse finanziarie: Il 5% dei proventi della legalizzazione saranno destinati a finanziare progetti del Fondo nazionale per la lotta alla droga.
Dal 15 luglio 2015 al 25 luglio 2016: c’è voluto poco più di un anno per poter vedere approdare in Parlamento la discussione, e la successiva votazione.
In realtà però la votazione potrebbe non effettuarsi nella giornata di domani, visto il forte ostruzionismo operato dalle diverse forze politiche: quasi 2000 gli emendamenti, (ben 1300 operati da Area Popolare, guidata dalla strenua resistenza di Alfano), che intendono annullare diversi articoli della proposta di legge, fino ad eliminarla. Fortemente contrarie anche le posizioni di Lega Nord e Fratelli d’Italia.
Con ogni probabilità infatti la votazione slitterà a settembre, situazione analoga a quella delle Unioni Civili: al tempo vi furono circa 6000 emendamenti.

Intanto diversi personaggi hanno già detto la loro in merito, fortissima l’opposizione del Ministro alla Sanità, Beatrice Lorenzin: “Noi diciamo no e questa deve essere l’occasione per mettere al centro dell’agenda italiana la lotta alle dipendenze: alcol, droga, gioco. Non possiamo parlare dei giovani e poi abbandonarli, alcol e droga sono una piaga in questo momento”.
Dall’altra parte, parla Roberto Saviano: “La repressione ha fallito. È tempo che Parlamento e politici italiani prendano posizione a favore di questa legge e lo facciano con fermezza. Basta con le questioni di principio: è con i dati alla mano che bisogna lavorare per indebolire le mafie. I 1.300 emendamenti presentati da Area popolare e il silenzio, su questo, del presidente del consiglio dimostrano, ancora una volta, come la politica non riesca a liberarsi da quella zavorra che ha un nome preciso: e si chiama ricerca del consenso”.

Farlo, sì, ma attuando una vera e propria rivoluzione culturale: già in Uruguay, Colorado e tanti altri Stati del Mondo il consumo, in seguito alla depenalizzazione, è diminuito sensibilmente.
Ad ogni modo, il dibattito continua ad impazzare sui social, per le strade, sui giornali.
Si è presentata un’occasione importantissima: poter finalmente togliere le droghe leggere dalle strade, vietarne l’accesso ai minorenni, diminuire la criminalità, togliere alla mafia i maggiori introiti con cui finanzia le proprie opere criminali.
Non solo: ogni anno una quantità spropositata di soldi, energie, risorse umane (in termini di forze dell’ordine), vengono impiegate per combattere le droghe leggere. Soldi, energie e risorse umane che potrebbero essere investite in qualcosa di più utile. Non so: lotta alla mafia? Sembra troppo facile così: magari chiedetelo ad Alfano che con il suo impeccabile operato ha già debellato la piaga mafiosa. Per maggiori informazioni, consultare i suoi tweet.
Vi sono tanti pro, tanti contro: i Paesi Bassi ci hanno dimostrato più di tutti che il modello, sulla base di 16 milioni di abitanti, è vincente.
Ricollegandoci all’incipit del pezzo, chissà che una volta finito il proibizionismo, saranno proprio coloro i quali erano contrari a “farsi un bicchiere”?

Alessio Micalizzi

E se Pokemon Go fosse fatto per l’Università?

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Avevo circa 10 anni, non di più. Me ne stavo nel sedile posteriore della macchina dei miei nonni, tutto stretto accanto al finestrino, schiacciato dai bagagli residui e da mia zia durante un viaggio Messina – Torino, passando per tratti dello stivale che “Autostrade per l’Italia” proprio scansate, e l’unica gioia, con 40 gradi fuori e 30 dentro, era il mio game boy color, o meglio, la cassetta che ci stava dentro. Quel Pokemon Diamante mi aveva fatto imprecare, festeggiare, piangere per la rabbia e divertire. Quello schermo senza luce interna mi costringeva a giocare e poi fermarmi nelle gallerie, in quell’auto, oppure a mettere in pausa quando sapevo che le batterie stavano ormai per esaurirsi. Se 10 anni fa mi avessero detto: “tra un po’ di tempo potrai giocare con i Pokemon dallo stesso apparecchio con cui telefoni”, avrei risposto, con la mia solita eleganza, “Siii dumani”, essendo proprietario di un modesto Motorola Turtle modello “carbone”, per farlo funzionare era necessario proprio incendiarlo.
Ragazzi, mi sono dovuto ricredere. Non solo adesso i Pokemon stanno nel mio smartphone, ma per catturarli non giro più per Lavandonia o Biancavilla, ma per il corso Cavour, via Garibaldi, il bagno di casa mia, il balcone e spio il vicino perchè c’era Zubat e della privacy onestamente chi se ne frega.
Pokemon Go è ufficialmente una droga, ci si mette con il cellulare puntato, gambe in spalle e si parte (i più eccentrici mettono anche il cappello al contrario che proprio Ash Ketchum chi?!): per catturarli tutti, ma davvero tutti, adesso si viaggia per palestre che sono luoghi reali, si portano i propri animali in centri ricovero adatti (ma perchè la mappa mi segna la statua di Padre Pio sulla circonvallazione come punto di cura?).
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C’è solo un problema: “Claudio ma me la vuoi dare una soddisfazione in questa vita infame e ti prendi sta laurea?”. C’è questo problema, la frase di mia madre che mi gira spesso in testa quando mi perdo ore con questi giochi. Dovrei dare esami, studiare ed invece no, cerco di unire l’utile al dilettevole, e mentre ripeto a casa giro con il telefono acceso e provo a vedere che trovo (Rattata vicino al tappeto vuol dirmi qualcosa o è solo coincidenza?) o in biblioteca o nei bar, mentre leggo, dove ho trovato un Pikachu nella granita fragola (ma che cazz) e un Magikarp nel gelato di un tizio che mi stava accanto (onestamente il cono mi sembrava di un aspetto strano, tipo lilla, forse un Pokemon così inutile si trovava in un gusto del genere perchè, sinceramente, lilla è una minchiata di gusto). Comunque, io propongo un compromesso: perchè non fare Pokemon Go anche con il mondo accademico? 
Seriamente, cioè, parliamone, immaginiamo che io cammini per via Palermo e trovi un appello regalato dell’esame di privato, mi metterei a catturarlo anche se avessi una gamba sola. Se passeggiando sulla litoranea vedessi un cfu selvatico i rapporti sociali finirebbero, prenderlo è l’unica cosa che conta. Girovagando per il viale San Martino, se mi spuntasse davanti un blocco di appunto di dottrine politiche, datemi una masterball che vi cambio anche il trattato di Maastricht così, no look, come fece Pirlo nel 2006. Non ne parliamo se poi nella via Tommaso Cannizzaro, a buffo, spuntasse un riassunto del libro di 1000 e più pagine quando mancano solo 10 giorni all’esame, lì inutile dirvelo, già ho preso i contatti per vendere il rene ed avere una pokeball infallibile.
Non si scherza, fate Pokemon Go con l’università, lo propongo davvero, altro che boom di donwload, saremmo tutti costantemente collegati. Il server down sarebbero un problema, ci toccherebbe studiare, ma insomma, l’importante, nella vita, è essere Charizard al momento giusto e mai, dico mai, Magikarp nel gusto lilla. Ora vado, il capo-palestra della Fiera di Messina ha certe responsabilità, quando divento quello del dipartimento di Scienze Politiche vi chiamo, anche se la vedo dura. Altro che acchiappali tutti, accettali tutti (i 18) è il mio nuovo motto. Dopo aver catturato Alakazam.
Claudio PaneBianco

Gutta cavat lapidem

2 luglio 2013: un buffo omino grassoccio e sbarbato, dopo cinque anni di agonie (ma anche di gioie, non facciamola proprio tragica) si diploma. Il tutto al Liceo classico, dove apprende l’amore per gli studi umanistici. Non lo fa con il massimo (anzi, tutt’altro), ma ormai è proiettato avanti, vuole lasciarsi alle spalle quanto di sbagliato ha commesso, e portare avanti invece quel buono che è maturato negli anni.

agosto 2013: il buffo omino, che nel frattempo si è goduto la prima estate in libertà, decide di iscriversi al corso di laurea in giornalismo, sua grande passione (in realtà voleva fare il comico, ma non ditelo a nessuno).  Dopo aver passato in rassegna tutta l’offerta formativa del suo futuro Ateneo, apprende con non poche perplessità che il corso è a numero chiuso.
Sì, numero chiuso, la parola che aveva sentito nominare per anni da tanti suoi amici, incerti del proprio futuro, “Tutta colpa di quel maledetto numero chiuso, almeno mi facessero provare..”, dicevano. La condicio sine qua non per lo svolgimento del test, era un numero di iscritti superiore ai 60: sotto quel numero sarebbero entrati tutti i richiedenti.

5 settembre 2013: il buffo omino visita per la prima volta il suo futuro Dipartimento, vede luoghi, ragazzi, professori, che da quel giorno avrebbero fatto parte della sua vita futura.
Torniamo a quel famigerato test: ci credereste se vi dicessi che si iscrissero 59 persone e se ne presentarono 55? Sono sicuro di no, ma è davvero andata così. Il buffo omino allora potè avere accesso al corso di giornalismo.

Vi ho raccontato questa piccola storia per spiegarvi quanto poco credo nel numero chiuso. Quel giorno, in quell’aula, mancava un ragazzo che stava provando un test per fisioterapia. Quello studente, poi, entrò a giornalismo e si rivelò forse il più brillante del corso. Non chiedetemi cosa c’entri, ma ci pensate se si fossero iscritti 61 ragazzi e lui fosse rimasto fuori, per un misero, ridicolo, numero?

Sono anni che tanti ragazzi vivono nell’incertezza, la stessa scena si ripresenta puntuale ogni estate: “Dove ti iscriverai?”-“Boh, se entro lì bene, altrimenti ripiegherò su altro..”.
No, nessuno merita di dover ripiegare, nessuno merita di vedere un foglio davanti a sé con su scritto: “Non Ammesso”. Non la ridurrei a una mera questione di principio, è che ci vorrebbe un dibattito sempre acceso, sempre vivo sulla questione.

In questo senso, l’Amministrazione dell’Ateneo messinese ha fatto passi da gigante: negli ultimi anni sono stati aboliti tantissimi accessi a numero chiuso, in favore di un libero accesso.
Magari vi strapperà un sorriso sentirlo, ma sapete che proprio l’anno dopo l’episodio appena raccontato, venne abolito il numero chiuso in quel corso di laurea?

Un recentissimo passo in avanti è stato fatto proprio una settimana fa: una proposta del Prorettore alla Didattica, Prof. Pietro Perconti, al Senato Accademico, il tutto nel mese di Febbraio. La proposta chiedeva l’analisi dei test per i alcuni corsi di laurea ad accesso programmato. Detto fatto, pochi mesi dopo arriva il verdetto: viene abolito l’accesso locale programmato ai seguenti corsi di laurea:
– L11 & L12 Lingue, letterature straniere e Tecniche della Mediazione Linguistica;
L18 Economia Aziendale;
– L-18 Management d’Impresa;
L22 Scienze motorie, sport e salute;
– L24 Scienze e tecniche psicologiche;
– L33 Banca e Finanza;
– LM-6 Biologia;
– LM-51 Psicologia;
–  LM-67 Scienze e tecniche delle attività motorie preventive e adattate;
LM-85 Scienze Pedagogiche.

Encomiabile, senza dubbio, la scelta dell’Università di operare nel senso giusto, di abolire accessi programmati, che non hanno una vera e propria utilità. Pian piano, infatti, l’Amministrazione si sta attrezzando per “liberare” i corsi di laurea del nostro Ateneo. Gutta cavat lapidem, mi verrebbe da dire. Ma quando verrà scavata interamente la roccia?

Mi piacerebbe un giorno poter scrivere dell’abolizione del peggiore di tutti, del più infondato, di quello strutturato nel peggior modo. Non c’è bisogno che vi dica di cosa stia parlando, vi basti sapere che è su base Nazionale.
Studenti che già al Liceo iniziano ad essere derubati, a tirar fuori ingenti somme di denaro per imparare nozioni di Chimica, Fisica, Biologia e quant’altro, che nel migliore dei casi li aiuterà nel famigerato test di medicina.
Che poi, sono anni che non ne sentiamo parlare un gran bene. Tra chi entra perché deve entrare (plichi sospetti et similia), chi ormai si è dovuto arrendere alla triste parola ricorso, la situazione è sempre più brutta. Da tutte le parti, anche a detta di chi accede, arriva sempre la stessa affermazione: il test di medicina non è un test adatto. Non lo è per mille motivazioni.

A parte i cenni storici che ci vedono avversi ai modelli francesi (9 luglio 2006, quasi 10 anni, pensate un po’..), ci troviamo in una situazione in cui il nostro Paese non mette gli studenti in condizione di provare ad affermarsi, anzi, preferisce piazzare davanti a loro dei muri altissimi.
Il sistema francese, incredibilmente adatto per quanto mi riguarda, prevede l’ingresso al primo anno di tutti gli iscritti, con un maxi-esame di sbarramento alla fine del primo anno.

Perché non l’abbiamo già adottato da diversi anni? Semplice: perché il criterio base di questo sistema è la meritocrazia.

Alessio Micalizzi

Un MAV all’improvviso

Chi trova un amico (teoricamente) trova un tesoro. Un detto cosi inflazionato che spesso e volentieri lo associamo erroneamente a relazioni che con l’amicizia non hanno nulla a che fare. A parte che ultimamente l’unico vero amico, quello che ti segue ovunque, che non ti molla mai e soprattutto che ti dice sempre le cose come stanno è il tanto caro libro di testo. In periodo di Sessione Estiva (non per il clima naturalmente, visto che fino a qualche giorno fa il simpatico messinese-tipo voleva ritirare fuori il piumino) c’è cosi poco tempo per rilassarsi, pensare ad altro, spammare qualcosa su Facebook per sentirsi intelligenti (vorrei ma non posto). Ad ogni modo a distrarci un po’ sono arrivati i tanto agognati Europei di Calcio, seguiti con grande partecipazione sulle scale del Rettorato: censuriamo ovviamente il lancio omicida di birre (simpatico si, ma occhio alla mira) e la luce del proiettore dietro lo schermo che, siamo convinti, abbia causato qualche problema visivo per alcuni giorni ai malcapitati, il sottoscritto in primis. Per fortuna oltre alla nostra Nazionale, volata agli Ottavi di Finale da prima in classifica, a renderci più allegri è arrivato il Cda, che qualche giorno fa ha ridotto la tassa di conguaglio della principesca percentuale del 6%. Ma guarda un po’, che gentile concessione: tenendo conto del servizio offerto agli studenti, sbottonarsi un po’ di piu male non avrebbe fatto. Cosi scopriamo il motivo per il quale il Sole24Ore ci posiziona al 32esimo posto per “giudizio dei laureandi su corsi di studio”. Forse l’immagine che meglio di qualsiasi parola può esprimere questo paradosso è l’imponente mole di residuati informatici e non, ammassati sul retro della Sede Centrale. Roba da far piangere Steve Jobs, Renzo Piano, Madre Teresa e Green Peace al completo. Nessuno nega (e noi a maggior ragione) che la riduzione sia comunque un beneficio per gli studenti, ma chiedere uno sforzo maggiore all’istituzione accademica non è reato, anzi, è un suggerimento di cui fare tesoro. E se si vuole, proprio noi siamo i primi a dare l’esempio: mentre dal sotterraneo dei locali ex SUS (ora Scienze Politiche e Giuridiche) è emersa una quantità abnorme di spazzatura rimasta li a marcire da anni e finalmente smaltita qualche settimana fa, nel plesso accanto sono state aperte le nuove aule studio. Poca roba si dirà, ma ad aiutare gli operai sono stati innanzitutto gli studenti, che si sono occupati della sistemazione dei tavoli e della pulizia delle stanze, lavoro per il quale c’è gente pagata, perché era prima di tutto “loro” interesse creare uno spazio vivibile per la vita universitaria. Siamo sicuri che gli studenti, “questi” studenti, meritino solo il 6% in meno di tasse? Noi lanciamo dei sassi, moniti e osservazioni, molto umilmente, sperando di vedere qualcosa di più. Qui ci starebbe il detto “la speranza è l’ultima a morire”, ma noi preferiamo il termine “fiducia”.
Non si può non chiudere questo Editoriale salutando e ringraziando il nostro Paolino da Londra (altro che Mentana e Damilano) che ci ha offerto uno spaccato originale della situazione post-Brexit, con il Regno Unito che saluta (pare ancora senza rimpianti) e se ne va per i fatti suoi (ce ne faremo una ragione). Probabilmente è stata fatta l’Europa ma non gli Europei. Se è stata una ossa sbagliata, se la pagheranno solo loro o la pagheremo tutti, solo il tempo lo dirà, cosi come il tempo ci saprà dire se lo studente è ancora al centro dell’Università, e non un suo antiquato accessorio.
Shalom!

 

graduation hat with euro money