Le relazioni e l’ignoto che è l’altro

Metti un venerdì sera due amiche un gin tonic e un negroni…

Scenda di Seinfeld (da sinistra Julia Louis-Dreyfus, Jerry Seinfeld, Michael Richards e Jason Alexander)

Ci siamo ritrovate a parlare delle relazioni.
Nello specifico di quelle amorose, la nostra visione non è più quella di quando avevamo diciott’anni, ma nemmeno quella di un anno fa. Crescendo e smussando la nostra personalità , le esigenze cambiano, inevitabilmente.
Tornata a casa ho ripensato alla discussione e alle relazioni, ne abbiamo di carattere diverso, che necessitano approcci differenti, ma c’è un comune denominatore: la convivenza.
Nel suo etimo vuol dire “vivere con” , penso a due partner, coinquilini, sposi. Ma anche dividere la propria vita con qualcuno, un amico.
Enfatizzando, potrebbe anche voler indicare il poter contare sull’altro.

Negli anni ho imparato che la convivenza è innanzitutto rispetto dell’altro, delle sue idee, e confronto.
La distanza che mi separa dall’altro, la sua unicità , è una strada percorribile con la gentilezza e l’affabilità. Ma è anche una scommessa.
Le barriere sono fisiche, anche involontariamente, la vista agisce da filtro: un paio di occhiali, dei tatuaggi, il modo di vestire influenzano il proprio giudizio. Vedere e guardare concetti distanti fra loro.
Non deve intimorire la vertigine che l’abisso dell’altro significa, anzi è proprio questa adrenalina che si trasforma in “ponte” verso l’altro.
Divenire il prossimo di qualcuno significa accettare questa affascinante differenza, anche quando è irritante o scomoda.
La unicità dell’altro non ha bisogno di imporsi deve solo poter liberamente essere e quando trova nello sguardo dell’altro quell’intesa, gli corre incontro.
E’ nell’universo della diversità che si gioca la gratuità degli affetti.

“Pugili” di Vittoria Abramo

Ed è qui che un pensiero un po’ più scomodo si è fatto spazio nella mia mente: forse che trascorriamo la vita in questa condizione, che l’unicità dell’altro ci diventi indispensabile quanto la nostra?
E’ una idea di fratellanza. Niente di deprimente pensando alla “dipendenze” dall’altro, benché ci siano relazioni di questo tipo.
Siamo tutti uguali, sono le vite che viviamo , la cultura , le varie sovrastrutture che ci rendono diversi, fondamentalmente siamo esseri semplici.
Abitudini secolari portano tutt’oggi a combattere per diritti che sono connaturati all’essere esseri umani.

La diversità è l’essenza della nostra razza. E’ questo il punto.
Ognuno ha un proprio proposito nella vita, la barriera più alta e dura da abbattere è non voler ammettere che non c’è una persona superiore all’altra, un modus vivendi migliore di un altro.
L’unico vuoto che ci separa è non conoscerci l’un l’altro. Una volta ogni tanto dovremmo gettarci nelle braccia dello sconosciuto.

In conclusione credo che rimescolando i colori ed educando il nostro sguardo alle altrui sfumature un giorno sapremo coglierne la bellezza. Anche quando, nella imprevedibilità dell’altro, ci appariranno assurde combinazioni.

Arianna De Arcangelis

Disturbi da social

Facebook, Instagram, Snapchat e chi più ne usa, più ne metta: storie momentanee, di vita quotidiana, la vita reale che diventa virtuale… o viceversa?

Con la testa abbassata, ora, si attraversa la strada, si pranza, si discute con gli amici; la ‘’storia ’’ in discoteca e il selfie a casa, al mare (sembra quasi di cantare la canzone di Rovazzi ) sono un must e, attenzione, non solo fra i più giovani ma anche fra i celebri cinquantenni che iniziano dalle sette del mattino a postare i loro ‘’ buongiornissimo ’’ , per poi terminare la sera con il loro dolce ed immancabile messaggio della buonanotte.

Ma ancora più degli antipatici asociali nella vita reale e sociali in quella virtuale, sono i disturbi che causano questi nuovi portali, che ormai rappresentano una vera e propria dipendenza per tutti.

Dalle ricerche di alcuni team universitari, infatti, è stato affermato che i social network possano portare ad essere tristi e depressi, trascinando gli utenti che li utilizzano in vortici di ansia. Una delle ultime indagini condotte è quella dell’Università di Glasgow, che ha analizzato un campione di circa quattrocento ragazzi compresi nella fascia d’età che va dagli undici ai diciassette anni, osservandone il comportamento giornaliero e notturno sui social. Cosa è venuto a galla? Chi li utilizza più frequentemente è maggiormente predisposto a sviluppare affezioni come stati di insonnia, ansia e depressione.

Ma da cosa dipende effettivamente lo svilupparsi di patologie relative all’utilizzo di queste piattaforme virtuali? Sembra quasi semplice trovare una risposta: come nella vita reale, anche in quella virtuale, possono esistere fenomeni di emarginazione ed indifferenza, così come una prodigalità di popolarità. La pubblicazione di un post, infatti, riscontra una reazione da parte di quelli che sono gli ‘’amici ’’ del web che, dopo la divulgazione, possono apprezzare e commentare ciò che viene pubblicato; potrebbe anche succedere, però, di non riscontrare alcun ‘’successo’’, nonostante l’ingente quantità di followers che si ha. E così chi cerca di socializzare in questo mondo, finisce con il languire nell’attesa di un feedback positivo.

Accanto alla depressione da ‘’impopolarità ’’, emerge anche un disturbo narcisistico della personalità legato alla vetrina dei social: ogni giorno, miliardi di persone pubblicano foto e innalzano il proprio ego ad ogni like.

E se nel lontano 1968, Andy Warhol ha parlato di ‘’quarto d’ora di fama’’, adesso sosterrebbe una celebrità continua, un flusso di narcisisti bulimici di attenzione altrui.

La lunga lista dei malesseri da ambienti virtuali, si arricchisce, poi, con il rischio di anoressia per le donne. Uno studio condotto dalla ricercatrice A. Carter ha preso in esame tremila ragazze tra i dodici ed i ventinove anni, che usano abitualmente i social: è emerso che queste risultano non contente del proprio fisico rispetto alle coetanee; risultato che rivela la tendenza a sviluppare forme depressive e disturbi alimentari o, addirittura, anche a fare sport in maniera compulsiva nel tentativo di migliorare la propria forma fisica.

L’incremento di questi disturbi è indice, dunque, di allarme: urge un avere e propria disintossicazione dai social che si appropriano delle menti e dell’armonia di un qualsiasi essere umano.

Inconsciamente, ci si ritrova a ricercare notorietà, approvazione; si brama sempre di più l’elogio altrui, quando l’unico encomio, l’assoluto apprezzamento, dovrebbe venire prima da se stessi.

La sfera virtuale non è la vita reale, è solo una piattaforma in cui si cerca di apparire senza alcun valore: riflettiamo prima di diventare una vittima della nostra era tecnologica.

Jessica Cardullo

CUS fermo al palo

Non va oltre lo 0-0 un buon Cus Unime in una delle trasferte più impegnative del campionato di Terza Categoria di Messina. Dinnanzi a una calorosa cornice di pubblico, a Gaggi (ME), alle 16,00 di sabato 1 aprile, il Sig. Garzo dà il via alla diciottesima giornata che vede affrontarsi Kaggi e Cus Unime.

Primo tempo: primi 45 minuti caratterizzati da tanta intensità a centrocampo ed equilibrio. Entrambe le compagini appaiono concentrate e determinate nell’attenzione sin dall’inizio. Il Kaggi prova a fare qualcosa in più del Cus Unime nella prima mezz’ora, ma senza mai riuscire a impensierire alcuna volta l’estremo difensore ospite. Nell’ultimo quarto d’ora della prima frazione di gara il Cus va vicino al vantaggio prima con Vinci che viene fermato sul più bello negli ultimi dieci metri dopo una prodigiosa serpentina e poi con Papale su punizione dal limite, ma la palla termina fuori, per pochi centimetri sopra la traversa.

Secondo tempo: il copione non cambia, anzi è praticamente lo stesso. Il Cus detta i tempi di gioco e il Kaggi prova qualche ripartenza, ma nessuna delle due squadre riesce a concretizzare le azioni create, merito soprattutto di un’elevata attenzione dei reparti difensivi.

Tuttavia il Cus ha da rammaricare con la sfortuna le più nitide occasioni; ci prova prima Creazzo dalla sinistra, ma il suo mancino viene salvato sulla linea da un difensore del Kaggi con un colpo di testa quasi d’istinto. La più grande palla-gol della partita capita sul destro di Di Bella, il bomber universitario, infatti, si procura un interessante calcio di punizione ai limiti dell’area di rigore avversaria e s’incarica lui stesso della battuta, ma il suo missile terra-aria centra in pieno il palo per poi spegnersi sul fondo.

Dopo le rituali sostituzioni e 4 minuti di recupero, arriva il triplice fischio arbitrale. Un pari che non serve a nessuna delle due squadre, ma che forse è il risultato più giusto.

Importante prova di carattere della squadra di Mister Smedile, che in qualche modo ha ben figurato dopo lo scivolone interno dello scorso match. Questa volta a mancare è stata la fortuna e non la prestazione dei giocatori in campo.

Così il Cus muove leggermente la classifica nelle zone alte della classifica, visto che tutte le altre squadre che stanno in testa non hanno disputato le rispettive gare a causa dell’impraticabilità dei terreni di gioco vittime del maltempo.

Domenica prossima, al Bonanno, alle ore 12,00, il Cus Unime ospiterà lo Stromboli, ultima partita prima della lunga sosta di tre settimane.

FORMAZIONE CUS (4-5-1): 1 Zito; 2 Rodà, 4 Iacopino, 5 Monterosso, 3 Insana; 11 Papale, 7 Vinci, 6 Fiorello, 8 Lombardo, 10 Creazzo; 9 Di Bella.

Panchina: 12 Faranda, 13 Costa, 14 Smedile, 15 Cardella, 16 Tiano, 17 Oliva, 18 Russo.

Allenatore: Smedile.

CLASSIFICA:

Ludica Lipari* 34

Cus Unime 33

Sc Sicilia* 33

Real Zancle 33

Arci Grazia 31

Fasport 29

Kaggi 25

Casalvecchio* 24

Stromboli* 23

Città di Antillo 13

Cariddi* 11

Malfa* 10

*una partita in meno

PAGELLE:

Zito 6: Dalle sue parti circolano pochi pericoli, quei palloni che arrivano nel suo territorio li disinnesca senza grossi problemi. Giornata tutto sommato tranquilla nella quale si fa notare per degli occhiali da vista bizzarri. RAY CHARLES

Roda 6: Il solito GMR che gioca senza fronzoli. Dalle sue parti si soffre poco ma difficilmente riparte l’azione in maniera pulita. Leggermente appannato nella ripresa dove soffre leggermente di più ma nel compenso una prestazione sufficiente. SOLDATINO

Iacopino 6.5: Non la sua migliore prestazione e ad essere sinceri qualche buco lo fa anche, ma giocare con una caviglia delle dimensioni di una noce di cocco è un alibi più che sacrosanta. SURVIVOR

Monterosso 7: Migliore in campo in assoluto, gioca con ordine al centro della difesa sbagliando praticamente nulla. Forse siamo arrivati ad una certezza, il suo nuovo ruolo è quello di libero vecchio stampo. BEPPE BERGOMI

Insana 6.5: Un moto perpetuo a sinistra. A inizio partita il mister gli raccomanda di contenere gli avversari dal suo lato e Pipo non se lo fa dire due volte. Tutti gli attacchi avversari si sbattono contro un muro, talvolta potrebbe osare anche di più in sovrapposizione ma per il resto una partita da incorniciare. PICCOLO GRANDE PIPO

Creazzo 6+:Grande, grandissima corsa ma talvolta un po confusionario. Nel primo tempo è sicuramente il più pericoloso del Cus con le sue sgroppate che mettono in apprensione la retroguardia avversaria. In riserva nella ripresa dove commette qualche errore prima del cambio. STREMATO

Papale 5.5: Per caratteristiche potrebbe essere un’arma devastante, anche grazie alle praterie che i suoi avversari lasciano sulla sua corsia. Papo però si limita al compitino quando forse avrebbe potuto osare un po’ di più. Alterna momenti in cui sembra in partita ad altri in cui scompare. SVOGLIATO

Fiorello 6.5: Dopo uno stop di tanti mesi, rieccolo al centro del campo. Paga ogni tanto la condizione fisica approssimativa, commettendo qualche errore (anche gravi) di lucidità ma è quello che dà ordine in mezzo al campo in un primo tempo in cui il Cus sembra padrone. Crollo giustificato nella ripresa prima del cambio. BENTORNATO APU

Lombardo 6-: Gioca un buonissimo primo tempo, con spunti interessanti quando si fa vedere tra le linee. Pecca di cattiveria negli ultimi 20 metri con qualche tiro degno dello 0-0 finale. Anche per lui crollo fisico nella ripresa. PIEDI DI BAMBOLA

Vinci 6.5: Anche per lui rientro dopo uno stop forzato. Primo tempo di ottimo livello con inserimenti costanti e grande grinta. Poco cattivo sotto porta in una circostanza che poteva dare il vantaggio ai cussini. Nonostante il calo fisico comprensibile è tra i pochi che conferma la buona prestazione nel secondo tempo. BENTORNATO MANU

Di Bella 6.5: Atteso a Gaggi come il tacchino nel giorno del ringraziamento, Fafo disputa una partita coraggiosa. Picchiato dal primo minuto, non si risparmia mai ed è sempre pronto a dettare il passaggio ai compagni nonostante i continui falli dei centrali difensivi. Grida vendetta quel palo preso su punizione che avrebbe ammutolito tutta Gaggi. NO FEAR

Tiano 6-: Sostituisce Fiorello ma fatica a trovare la posizione in campo con conseguente sofferenza in fase di non possesso. Periodo un po’ di appannamento, ha bisogno di ritrovare un pizzico di tranquillità. CICLO MESTRUALE

Oliva 6: Entrato forse troppo tardi per dare una mano a Fausto lì davanti, non incide come dovrebbe e non riesce a dare la scossa sperata.

Mister Smedile 6: Le idee ci sono ma un po’ la sfortuna (vedi forfait di Iamonte) e un po’ la settimana storta, finiscono per portare un pareggio a casa che sa più di beffa. TARANTOLATO

Mirko Burrascano 

Eppur si smuove…

Dopo quasi dieci anni, alla Casa dello Studente partiranno i lavori di adeguamento alle normative post terremoto dell’Aquila, che ne avevano decretato la chiusura nel 2008. Non appena terminate le festività pasquali, il presidente dell’ERSU Messina Fabio D’amore incontrerà gli operai a cui sono stati assegnati i lavori. Si stima che questi porteranno a termine la messa in sicurezza e l’adeguamento in 8 mesi.

Nella centralissima via Cesare Battisti, ad appena 350 metri dalla facoltà di Giurisprudenza, si erge la Casa dello Studente, una struttura di quattro piani che conta 240 posti letto ripartiti in 120 stanze doppie. Nel 1927 il Comune di Messina delibera e concede all’Università il terreno della Maddalena per la costruzione di un dormitorio universitario. L’ingegnere Salvadore, per conto del Rettore Rizzo, in pochi anni progetta e costruisce una struttura di tre piani sul terreno dove prima sorgeva l’Orto della Maddalena, luogo di interesse storico nei moti antiborbonici.

S.A.R. il Duca di Genova alla casa dello studente con i “Goliardi”

Visitata anche da Sua Altezza reale il Duca di Genova nel 1939, la Casa dello Studente diviene punto di aggregazione del corpo studentesco, e negli anni oltre i comuni lavori di ristrutturazione, si contano anche importanti ammodernamenti. Nel 1973 viene ristruttura tutta la casa, costruito il 3° piano aggiunti altri posti letto, biblioteca, sala per riunioni e due nuove mense efficienti e moderne. Il Rettore era Pugliatti e pensando sempre agli studenti, specialmente ai fuori sede, si utilizzano alcune delle stanze per creare un Centro Medico completo di laboratori di analisi cliniche, di oculistica, di radiografia e di medicina generale, con medici della facoltà di medicina. Questi servizi, gratuiti per tutti gli studenti, furono affidati al Prof. Diego Cuzzocrea, che ne fu il Direttore per anni.

 

Purtroppo negli anni questi fasti vanno scemando fino alla chiusura nel 2008 per inagibilità, passando per i traffici illeciti segnalati nelle dichiarazioni riportate dal procuratore Croce nella sua relazione sull’andamento del fenomeno mafioso a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90, secondo cui la Casa dello Studente di Messina veniva utilizzata come deposito dalle associazioni mafiose e «la pistola era cosa normale come la penna stilografica».

 

Dunque chiusa dal 2008, potrebbe tornare ad aprire nei primi mesi del 2018. Con il denaro recuperato saranno anche acquistati gli arredi interni andati distrutti in questi anni. Insomma, nel dormitorio dove molti volevano collocare il secondo Palagiustizia, c’è stata anche una lunga occupazione da parte del Collettivo Unime e del Teatro Pinelli occupato, i cui effetti sugli interni della struttura sollevarono non poche polemiche.

“Che questa possa essere la volta buona”, forse l’unico auspicio che come studenti siamo portati a dire, in un momento in cui più che mai si riscontra quel bisogno di sentirsi presi in considerazione nella realtà locale. Una realtà questa che troppo spesso emargina coloro i quali, destreggiandosi tra un esame e l’altro, sperano un giorno di affermarsi come professionisti e classe dirigente di questa ed altre città.

Foto crimea-sicilia.it

Alessio Gugliotta

Mi sento un po’ l’apprendista stregone

E’ dura, non è semplice. Avere 21 anni, intendo. Gli acciacchi si fanno sentire, non riesco più a giocare due partite di calcetto nella stessa settimana, se starnutisco 4 volte di fila già mi vedo protagonista del prossimo funerale dentro la chiesa di San Luca e se salgo gli scalini a due a due mi ci vuole un trapianto di cuore arrivato in cima (e si parla di superare un piano). Non ho l’età, potrei dire, ma non la sento neanche addosso. Studio, ed a volte lavoro, e già mi basta per arrivare ko al venerdì, per poi passare un weekend da brivido tra tisana al finocchio (anche allo zenzero se mi sento ispirato) e biscotti pronto per una carrellata davanti Netflix.

Anche se a dire il vero, così vecchio non sono mai stato, o meglio, non mi ci sono mai sentito ai tempi della scuola, per intenderci, quando credevo che avere 20 anni e seguenti, anche avere 18 anni per dirla tutta, significasse una sola cosa: indipendenza economica. Si ero uno di quelli che appena terminato il liceo si vedeva con il portafogli non dico gonfio ma comunque mediamente pieno, capace di gestire le spese e magari ricamarci anche sopra. Quando ero adolescente mi chiedevo come fosse possibile che amici di 19, 20 o più anni prendessero uno stipendio di 500 o 600 euro e arrivassero a dire “non mi è rimasto un soldo sto mese”. Conseguito il diploma presi di faccia la realtà, nel senso, proprio sul muso. Per iscrivermi all’università la mia famiglia strinse la cinghia per pagare iscrizione, tasse e libri. Decisi quindi di dare una mano e risposi ad un annuncio. “Cercasi apprendista in azienda di smistamento prodotti farmaceutici per controllo ordini”, in sostanza, volevano qualcuno che spuntasse la lista di controllo di ogni carico di medicine arrivato in città per portarli poi nei vari esercizi. Mandato il mio curriculum ricevetti secca una risposta “cerchiamo un’apprendista ma vorremmo avesse almeno fatto una minima esperienza”.

Certo, “cercasi auto massimo km 150.000 però la volevamo più bassa di 150.000 quindi la tua non me la compro”, ma allora che scrivi 150.000 km? Presi atto del tutto e cominciai a studiare all’università per poi finire a lavorare nel campo in cui mi sentivo più a mio agio: il giornalismo. Era facile. “Vorrei scrivere per voi”, si, e la paga? “Non posso retribuirti se non hai il tesserino”. Tu volere cammello? E allora ti tocca lavorare sodo, gratis, per poi essere assunto, per poi essere pagato poco e poi continuare a pagare tu per prendere un altro tesserino, per diventare professionista e proporti ai giornali per una retribuzione sana che al mercato mio padre comprò. Il giornalismo diventò un hobby e passai a fare il blogger per un sito che pagava “a provvigione”: più visualizzazioni più soldi, ma senza un minimo di 12000 occhi puntati sul mio articolo, non scattava il pagamento. Iniziai, non avevo niente da perdere, ma non sbarcai mai effettivamente, riuscivo a fare bei numeri, ma per la misera paga di 1,50 € al mese, vista la concorrenza. Lavorai anche per un sito dove era possibile mettere in vendita ciò che si scriveva ma dove non vi era pubblicità (toccava informare gli acquirenti attraverso messaggi privati) ed i diritti d’autore sparivano nel momento in cui tutto veniva messo online: io scrivo per te, tu lo compri, ci metti il tuo nome e mi paghi. Anche lì, per le difficoltà di gestione (avevo 19 anni), non si cavava un ragno dal buco.

Arrivato a 20 anni mi capitò addirittura, lungo il cammino, di vendere entrate nelle discoteche ma a Messina, specialmente, tutti PR, dj, fotografi e modelle, quindi capite quanto il campo economico fosse già pieno di avventori. Rimediavo il mio pass, qualche drink ma finiva lì. Ho anche indossato le cuffie di un call center ma anche qui si, c’è un fisso, ma senza vendere almeno un tot di contratti telefonici non c’è lo stipendio, e già far spendere un euro alle persone è complicato, figuriamoci proporre pacchetti da 10 o 15 € per le schede telefoniche. Quest’estate ho iniziato a lavorare per un ditta di trasporti, un impiego massacrante visto il caldo torrido di luglio, ma per fortuna mediamente remunerativo, l’intesa poi terminò per tagli al personale, nonostante la paga non fosse chissà cosa (a due cifre ed uno 0, e no, la mezza piotta non la si raggiungeva). Sono poi finito a fare il cameriere ma anche lì, tra impegni universitari ed altri impieghi finì per mollare, o meglio, finì per essere costretto a mollare. I curriculum che ho inviato non li ho più contati, ma la risposta non è mai stata tanto differente da quella sopra. “Cercavamo una figura come lei, se solo avesse avuto più esperienza”, “Purtroppo cerchiamo qualcuno da formare ma che già sia un po’ formato, mi spiego? (no fratello stai a pezzi)” e via dicendo. La verità è che Messina in particolar modo, ma in generale questo paese, non è affatto un paese per giovani, i fratelli Coen qui avrebbero avuto qualche problema con il titolo del loro film (chi capisce la citazione è evidentemente disoccupato perché ha tempo di guardare film tipo all day all night).

E allora che ho fatto, niente, mi sono adattato, sto facendo la mia esperienza: con 37 di febbre sono ko, al quarto starnuto mi si stacca il bypass, prendo l’ascensore per fare un piano, le partite di calcetto le commento da fuori il prato e, soprattutto, se cerco di costruirmi un curriculum mi viene risposto che sono troppo giovane. Ho deciso, comincio a fare esperienza così, diventando vecchio, stando sul divano, rimanendo ad invecchiare in una nazione che su di me non ci ha scommesso mai, che su di voi non ci ha scommesso mai, che ci rinchiude in bandi che richiedono peculiarità che non tutti possono avere (perché non tutti possono permettersele) o che ci vuole attivi ma a provvigione, che ci vuole apprendisti ma con esperienza. Non so voi, ma io l’unico apprendista a cui somiglio è l’apprendista stregone, tanto spaventato da ciò che può fare che è sempre convinto che non sia abbastanza e, per questo, rinuncia a tutto, muove le scope a caso e spera che qualcosa accada. Vi lascio, che a 21 anni stare troppo al computer mi fa bruciare gli occhi da morire.

Claudio Panebianco

Quando la vita virtuale sovrasta la vita reale

Quando una scommessa, un gioco, si trasformano in una tragedia mortale, l’animo umano come realmente reagisce? Sicuramente una parola frulla nelle menti di tutti: perchè? O siamo troppo grandi per comprenderlo, o troppo cinici per dispiacerci. L’8 marzo scorso si è consumata una tragedia a cui ancora difficilmente si riesce a dare una risposta razionale. È successo in Calabria, tre ragazzini di 13 anni hanno ben deciso di attraversare la linea ferroviaria del treno, intorno alle 18.30, per raggiungere più velocemente via spiaggia il centro cittadino del comune limitrofo; lì ad uno dei tre è balenata la fantastica ed ammirevole idea di voler scommettere su chi riuscisse a fare un “selfie” il più possibile vicino al treno che proseguiva la sua corsa. Si può ben dedurre che qualcosa andò storto: due si sono salvati scansandosi in tempo dalle rotaie, mentre uno di loro è morto sul colpo.

Il gruppetto dei tre adolescenti è un clichè: ci sono il capo banda (l’ideatore della prova), il suo “tirapiedi” e la vittima che è sempre il bravo ragazzo, con qualche problema in famiglia che cerca di affrontare, ma viene trascinato per, azzarderei a dire, spirito di sopravvivenza. Tutti direte “un classico”. E perché è proprio un classico? Le dinamiche di questa vicenda si sarebbero potute riproporre anche 100 anni fa, un po’ come nella fiaba di Pinocchio. Peccato che le fiabe hanno il loro “e vissero felici e contenti”.

Si sa che è indole dell’uomo voler appartenere ad un gruppo, per sentirsi accettato, essere utile a qualcosa, per trovare il proprio posto nel mondo. Poi c’è chi per carattere lo crea il “gruppo” e chi invece deve superare delle prove per poterne far parte. I riti di iniziazione a gruppi sociali erano già presenti nell’antica Grecia, e nel corso della storia ogni cultura, ogni popolo, ha adottato i propri, rendendoli parte integrante ognuno della propria identità. Questo atteggiamento non è cambiato fino ad adesso: in ogni piccola formazione che si viene a creare in un contesto (ad esempio il nucleo della classe nel contesto scolastico), affinchè si possa far parte di esso, bisogna superare delle prove, bisogna dimostrare qualcosa a qualcuno che non ha la facoltà di poter giudicare e decidere. “E si la scuola è una giungla, però non si scorda, comunque a 16 anni è una merda” cantavano gli Articolo 31 anni or sono. Che siano 16, 13, 9, o 20 anni per sopravvivere e crearsi dei bei ricordi bisogna sacrificare se stessi. Certamente, ogni età ha i propri parametri di valutazione, a 13 anni non si pensa come quando si hanno 20 anni, e per questo motivo bisogna valutare ogni aspetto della vicenda.

Kiev, Ukraine – October 17, 2012 – A logotype collection of well-known social media brand’s printed on paper. Include Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Vimeo, Flickr, Myspace, Tumblr, Livejournal, Foursquare and more other logos.

Raccogliendo qualche opinione ho notato che molti mi hanno risposto “ben gli sta”, “è una tragedia, ma è stato stupido”. Rispetto il pensiero di tutti, e combatto affinchè tutti possano esprimere la propria opinione, ma ammetto che certi commenti mi hanno infastidita, perché, parlando, mi sono resa conto che nessuno si è soffermato sul reale problema che ha caratterizzato questa vicenda: lo scopo di mostrare qualcosa ad un gruppo che è molto più grande di noi, il social network. Ormai con le varie piattaforme le notizie, le informazioni, girano alla velocità della luce, qualsiasi cosa diventa virale acquisendo notorietà e vana gloria. Tutto ciò porta ad una brodaglia di opinioni che influenzano notevolmente la crescita di ogni essere umano: dalle 2000 che sembrano ragazze degli anni ’90, agli over 40 con i loro “buongiornissimo!1!! kaffè?”. Il fenomeno social invade la sfera umana di ognuno di noi, e tende ad azzerare il singolo pensiero, la fonte basilare per cui siamo diversi da ogni altro essere vivente, massificandoci per agire nello stesso modo, per raggiungere gli stessi scopi, legandoci con catene invisibili.

Nella prima fase adolescenziale è difficile non sentirsi dipendenti dai giudizi altrui, dal volere altrui, anche e soprattutto contro la propria volontà e contro i principi che sono stati (o dovrebbero essere stati) insegnati ed impartiti dai genitori. In questa triste vicenda la colpa è di tutti e di nessuno. Siamo tutti colpevoli tirando la pietra e nascondendo la mano; tutti noi che sfruttiamo in modo errato l’immenso potere della comunicazione, tanto da spingerci a non valutare il reale pericolo. Il rischio più grande che corriamo è mettere da parte noi stessi.

 

Giulia Greco

Immagine in evidenza: Giulia Greco

Dal Doodle di Google alla Giornata dei Giusti: scopriamo insieme il 6 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

Il problema non è fare la cosa giusta. È sapere quale sia la cosa giusta.

(Lyndon Baines Johnson)

 

Esistono ben 1052 siti in tutto il mondo considerati Patrimonio dell’Umanità (secondo l’UNESCO). Tra questi, uno, oggi 6 marzo 2017, viene ricordato dal Doodle di Google: Il Parco Nazionale di Komodo.

Con un piccolo test, il doodle, mette alla prova le nostre conoscenze riguardo, per l’appunto, un animale molto particolare: il Komodo.

I Draghi di Komodo sono delle lucertole originarie dell’Indonesia e sono cento volte più grandi delle lucertole più piccole che esistono: possono raggiungere i tre metri di lunghezza e hanno una coda lunga tanto quanto il corpo.

Oggi, 37 anni fa, fu inaugurato il parco che ospita, appunto, questi antichi animali e li protegge. Ma non illudetevi: sono antipatici, un po’ aggressivi e mangiano cadaveri. Insomma, non esattamente tra le specie più simpatiche del regno animale.

6 Marzo 2017. Tra due giorni, l’8 marzo (ndr), è la festa della donna. Il 4 marzo è stato il compleanno di Lucio Dalla. Il primo del mese il suo anniversario di morte.

Ogni giorno c’è un santo, un onomastico, un compleanno, un anniversario o una ricorrenza.

6 Marzo 2017. Vorrei che l’abbiate, per sempre, ben impressa in mente questa data. Correva il 10 maggio del 2012 quando, essa, divenne importante. Il 10 maggio 2012 il Parlamento Europeo ha approvato, con 388 firme, la proposta di Gariwo di istituire, il 6 marzo, una Giornata europea dedicata ai Giusti per tutti i genocidi. Dal 6 marzo 2013 celebriamo quindi l’esempio dei Giusti per diffondere ovunque i valori della responsabilità, della tolleranza, della solidarietà.

Le persone Giuste, umane. Chi sono i Giusti? Sono quelle persone che, nonostante il momento storico che stanno vivendo, si ribellano in nome della giustizia. È dedicata a quelle persone che hanno combattuto contro le ingiustizie, ingiustizie dettate dalla religione, dalla politica, dall’essere umano che non sempre sa rispettare gli altri esseri umani.

Sono quelle persone che non hanno seguito la massa solo perché fosse più sicuro farlo, che hanno deciso di proteggere i più deboli, anche al costo delle loro stesse vite.

Gariwo: è l’acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide, l’ONLUS che ha proposto ed ha ottenuto questa giornata. Ha sede a Milano e riconosce collaborazioni internazionali.

Dal 1999 lavora per far conoscere i Giusti: pensano che la memoria del Bene sia un potente strumento educativo e serva a prevenire genocidi e crimini contro l’Umanità.

Come si muovono? Bonificando e creando parchi, che loro stessi chiamano i Giardini dei Giusti.

Ogni anno, dal 2012, la Giornata dei Giusti esalta un tema che abbia sempre, come obiettivo principale, quello di spronare tutti noi ad affiancare la giustizia, anche se può fare paura, anche andando contro agli ideali della massa.

Quest’anno, 2017, il tema scelto per la cerimonia, al Monte Stella, è: “I Giusti del dialogo: l’incontro delle diversità per superare l’odio”. Tantissime figure parteciperanno alla riunione mondiale che verterà intorno ad esso.

Figure che, probabilmente, la maggior parte di noi, io stessa, disconosceva fino a questo momento: Raif Badawi, ad esempio, un blogger saudita condannato a mille frustate e arrestato per aver espresso le sue idee di laicità dello stato, per essersi ribellato all’idea di Religione che gli stati musulmani impongono.

E, ancora, Lassana Bathily, giovane ragazzo nero, originario del Mali, che ha salvato gli Ebrei durante l’attacco al supermercato Kasher, mettendosi contro i terroristi Islamici, rischiando la sua stessa vita. Pinar Selek, sociologa turca (e queste, QUESTE, sono le donne da cui dovremmo prendere esempio e che dovremmo festeggiare l’8 marzo) attivista per la pace e i diritti umani, che fu arrestata solo perché dichiara a gran voce che tutti, TUTTI, siamo uguali a questo mondo. Mohamed Naceur, guida turistica che ha salvato gli italiani al Bardo.

Ogni regione, città, nazione può, a proprio modo e libertà (soprattutto), celebrare la Giornata dei Giusti: in Sicilia, la città di Palermo è attiva a riguardo, con manifestazioni in tutto il territorio. Ancora, l’Università di Catania. Agrigento: L’Accademia di Studi Mediterranei di Agrigento, in collaborazione con il Parco Valle dei Templi di Agrigento, con la Prefettura di Agrigento, l’Ufficio Scolastico Provinciale di Agrigento, celebrerà la “Giornata Europea dei Giusti”, al Teatro “Pirandello” e nella Valle dei Templi.

E noi? Siamo dei Giusti, o vogliamo ricordarli? Vogliamo rendere partecipe il nostro territorio messinese, le nostre scuole, la nostra università, di questa giornata? Vogliamo fare parte dei Giusti?

Perché, sinceramente, ci comportiamo da tali? Possiamo dire di essere dei bravi esseri umani?

È facile essere buoni. Difficile è essere giusti.

Elena Anna Andronico

L’assoluta felicità

Charles-Eugène-Plourde-Se-non-trovi-la-felicità

Nel momento in cui mi chiedo quale sia la risposta alla quotidiana domanda “cos’è la felicità?” , la prima parola che riesco a scovare è, probabilmente, “utopia”; se poi, cerco nel fondo del mare di definizioni – errate o incomplete che siano – che la mia mente associa alla parola felicità, forse la accosterei ad un momento, ad un’emozione o, addirittura, ad una persona.

Altrettanto spesso, mi ritrovo ad accontentarmi della risposta quasi rapida e inevitabilmente superficiale che mi do.

Ma per il resto del tempo, nei momenti in cui non mi pongo questo interrogativo, qual è la risposta?

Tra i metafisici, coltivare la virtù più elevata era il gradino da salire per raggiungere l’ambita ed elevata eudaimonia – letteralmente, lo spirito buono o più comunemente, la felicità.

Nietzsche, d’altro canto, proporrebbe la teoria della felicità come forza vitale e lottatrice; come colei che non limita la libertà ed afferma il suo essere, senza ricadere nell’effimera condizione di pigrizia e di staticità.

È forse, quindi, il più cospicuo di un modello concettuale o è una figura da imitare?

Soffermandomi sul sorriso di un bambino che gioca, sulla mia famiglia che scherza a tavola o su un mio collega che si laurea, ogni teoria viene sbaragliata dal concetto dell’attimo.

Ritorno, allora, a trovare una soluzione diversa ad un quesito apparentemente insulso.

Ma se la felicità è un attimo, è fallace: un momento è lì e la vedi con gli occhi; la tocchi con gli angoli di bocca rivolti verso il cielo.

E per ognuno, la felicità è un istante diverso, è soggettiva.

Dunque, non solo è l’illusione di un momento ma ricade nella propria realizzazione – o per meglio dire – nelle scelte.

Ci sono.

La felicità è capire cosa vogliamo che, di per sé, rappresenta uno stato relativo di gioia e che raggiunge il suo stato assoluto nel momento in cui si ottiene quello che ci si prefissa come un obiettivo.

Magari, per quella ragazza che sta sorridendo davanti ad uno schermo di un cellulare, l’apice sarà un bacio; per quell’uomo che è stato appena licenziato, sarà un posto di lavoro; per quella donna con il pancione, sarà tenere tra le braccia la sua piccola creatura.

E dopo aver raggiunto questa vetta, cosa c’è?

Poi c’è un’altra felicità, un altro obiettivo o, piuttosto, un nuovo sogno.

Riassumendo, collegando, cercando fra i miei pensieri la risposta a “che cos’è la felicità?” credo sia questa: la felicità è un sogno, fugace ma continuo.

Jessica Cardullo

L’influenza del divo

lucas-senza-maglietta-uomini-e-donne-trono-classico-gossipDivo: Cantante o attore di teatro, del cinema, del varietà, o campione sportivo di grande popolarità.

Con il termine divo ci riferiamo più frequentemente a quelle persone che incarnano gli ideali della società contemporanea, sempre più disposta a spersonalizzarsi, a massificarsi. Anche grazie ai media ed internet ormai, nascono e muoiono sempre più velocemente simboli e bisogni creati a nostro uso e consumo. Una societas la nostra, piena di bisogni quantomeno superflui ed eroi inutili. Si è passati dall’ammirare i divi del cinema che a loro modo incarnano valori di patriottismo, amore, giustizia, coscienza civile, a i nuovi personaggi creati dalla stampa, dalla radio, dalla TV e dai social network. Protagonisti questi, di una curiosa strategia di vendita del colosso commerciale di turno.

Vi sono certamente molteplici tecniche per dare vita ad un pinocchio qualsiasi, però la più ripetuta è certamente questa: si crea un personaggio, si dà corpo ad un mito, lo si usa per imporre gusti e ideali. Non è importante a che ambito appartenga, in quanto questa tecnica può essere applicata in senso trasversale. Facciamo un esempio: il “cantante rap” che si fa sponsorizzare da una qualunque società e ne pubblicizza i prodotti, innesca un mimetismo che lascia poco spazio all’espressione della personalità del singolo individuo. Si assiste poi ad una serie di suddivisioni in gruppi della società, gruppi formati dai sostenitori di un divo e di un altro, magari a lui contrapposto, così chi non fa parte di questi talvolta viene escluso e trascurato dai suoi stessi coetanei.

Mi viene in mente la diatriba fra Fedez e J-Ax da una parte, e Marracash e Gue Pequeno dall’altra, dove un penoso battibeccare a colpi di storie su Instagram ha dato vita alla solita guerra tra fan, dove però ad uscirne sconfitto è un altro protagonista: la musica. Ritorna questo mantra della superficialità dove tutto si misura sulla base di “quanto ho guadagnato”, “quanto vendo io e quanto vendi tu” (che poi bisognerebbe parlare quando i platino si assegnavano per le vendite e non per gli streaming Spotify e le views su Youtube ma lasciamo perdere), e si perde così il senso del fare musica, specialmente il senso del Rap, dove tutto spesso partiva da un disagio che si esprimeva in metrica e si comunicava negli ambienti intrisi di questo malessere. Questi invece si scaccolano alle sfilate di Moschino e poi si invidiano i dischi d’oro.

Ora emulare, non è solo una tendenza dell’essere umano, ma è realmente un bisogno. I bambini assorbono dal mondo esterno le regole che lo governano ancor prima di vedersi impartire una lezione, iniziano attraverso l’emulazione, una possibilità di apprendimento supportata da un apparato neuronale dedito solo a questo. Purtroppo non è un problema che il divo si pone quello di essere un esempio per gli altri, specialmente per i giovani.

Quindi alla fine del giro di giostra, in una società dove il quarto ed il quinto potere spesso creano dei miti che non traducono grandi ideali bensì futili bisogni, ci ritroviamo pieni di giovani e giovanissimi che volano basso (o meglio sguazzano nella bassezza) perché non sono in grado di affermarsi come individui. Preferiscono mettersi in coda, assomigliare in tutto al vicino, senza preoccuparsi di dimostrare le loro reali capacità e peculiarità, negandosi così la possibilità di operare per il progresso sociale, civile e culturale. Negandosi così la possibilità di scendere in piazza emulando i cittadini rumeni insorti nei giorni scorsi per l’approvazione delle leggi che depenalizzavano il reato di corruzione. Negandosi la possibilità di protestare e proporre soluzioni al problema della disoccupazione giovanile. Riportiamo al centro di tutto la curiosità, per la cultura, per il sapere. Riportiamo al centro di tutto l’amore per la propria cultura e per il proprio sapere. Che sia anche un movimento d’orgoglio dei più giovani, per smentire coloro i quali definiscono queste generazioni come quelle che: “vivono nel galleggiamento del presente, tra lo smartphone e lo spritz”.

Alessio Gugliotta

“Appello si, appello no, se famo du spaghi”

71gu332b-NL._SX355_C’è da chiedersi: poteva essere tutto evitato? Poteva andare diversamente? Ogni azione che compiamo ci porta, in modo irrimediabile, ad una serie di eventi che poi formano il quadro generale di una qualsiasi situazione attualmente vissuta, ma prima, cambiando qualche passaggio, era possibile variare il finale? Lasciando stare roba come l’effetto farfalla, il non incrociare i flussi e mai fare viaggi nel tempo da soli ma sempre in gruppo, è davvero possibile risalire alle cause effettive del nostro presente?

Me lo sono chiesto quando per la prima volta mi sono interfacciato con la spinosa questione dell’appello di marzo a giurisprudenza che da giorni ormai, più di una settimana, occupa le pagine telematiche dei social. Dove sta il disagio? Dove sta la verità? Probabilmente non sono quesiti a cui effettivamente si può rispondere, considerando le due campane (ragazzi ed amministrazione centrale). Due domande, però, giornalisticamente parlando, è lecito farsele. La storia non parte mica adesso, neanche da settembre scorso, siamo nel 2015 circa e si vota per il calendario unificato. In senato infatti dirigenza e portavoce degli studenti sistemano nuovamente l’assetto degli esami da collocare nei mesi dell’anno accademico, considerando lo svolgimento delle lezioni e le tempistiche delle prove, oltre che il carico di studi e la preparazione necessaria.

Un lavoro che alla fine vede l’accettazione del piano d’esami come lo conosciamo oggi, suddiviso per facoltà e con una media di due appelli per sessione, invernale, estiva, primaverile ed autunnale, con qualche piccola concessione per gli studenti fuori corso. In senato, quel giorno, ovviamente, anche le rappresentanze studentesche, che pongono il loro “placet” sul progetto (secondo il verbale, su 5 senatori 3 erano favorevoli, uno astenuto e uno contrario). Da qui in poi è il caos, il provvedimento scatena il panico tra le associazioni e si arriva alla richiesta dei giovani di giurisprudenza: due date a marzo che possano essere collocate in due venerdì del mese, così da non ostacolare il lavoro dei docenti in aula. Dopo un sit–in e vari incontri però la linea è sempre la stessa: nulla si farà, almeno per ora. Nei prossimi giorni gli studenti avranno un altro colloquio con Perconti, prorettore alla didattica, per cercare nuovamente di mediare. Ci vorrà quindi tempo, ancora, e la scena è decisamente incrinata.

Un appello in più a marzo sarebbe una possibilità davvero tangibile per i ragazzi di smaltire il carico di studi su più livelli, ma l’amministrazione non vede di buon occhio lo spostamento di lezioni e l’allargamento della sessione perché, come dichiarato dallo stesso rettore Navarra, “il calendario didattico è ampio”. Si sfonda quindi una porta aperta o si cerca solo una vetrina universitaria? Armando Falliti e Alessandro Salvo, rappresentanti di giurisprudenza, ai microfoni di radio UniVersoMe hanno spiegato come non ci sia nessuna passerella, anzi, una vera e propria battaglia aperta per i diritti degli studenti. Secondo la dirigenza UniMe, invece, la richiesta è ingiustificata.

La domanda però reale, lasciando stare gli altri quesiti, è: il problema sta a monte? De Vero, direttore del dipartimento di giurisprudenza, ha certamente un ruolo fondamentale all’interno della vicenda, ma va considerata la scelta sbagliata dei ragazzi in senato. Perché non prevedere lo spazio limitato per gli studenti sotto esami? Perché votare un calendario che si sapeva, perché era prevedibile, non avrebbe soddisfatto le matricole? Perché quindi non lottare più in senato e meno in piazza, ai tempi, per delle date che fossero pregnanti o per un’elasticità maggiore per un inserimento di esami straordinari? Hanno realmente risposto tutti, rettore, prorettore, direttore di dipartimento, rappresentanti degli studenti ma dall’ambiente senatorio tutto tace. Insomma, è finita a mangiata comunitaria, dove “vogliamo l’appello, e si, ci mettiamo tutti insieme a chiederlo”, ma perché allora non farla prima, questa mangiata comunitaria, ed evitare adesso di apparecchiare? Che poi, alla fine, una bella mangiata è stata fatta ed il conto lo hanno pagato gli altri. Chi vuole intendere intenda, chi non comprende si prenoti all’appello di febbraio, che poi se ne parla a giugno.

Claudio Panebianco