Il sapore della magrezza

Anoressica. Ci si sente un’etichetta sotto questo sostantivo. Una nomea del proprio corpo colmo di assenza, di quella mancanza di sapore.
Che tipo di sapore? Il sapore del cibo, quello che ormai ha solo il gusto delle calorie; ma quanti altri tipi di sapori è l’anoressia? È quel tipo di sapore che manca verso l’amore, verso la vita; è mancanza di appetito nei confronti del mondo. E’ un’assenza che si fa presenza in ogni momento della giornata, in ogni sentimento, in ogni emozione, in ogni sorriso scarno che stenta a mostrarsi.

L’anoressia viene classificata come un disturbo alimentare, che porta ad un vero e proprio disgusto e rigetto del cibo; ma la vera e propria affezione, la vera malattia, è quella mentale, in cui al rifiuto del mangiare, sintomo principale, si aggiungono altri disturbi somatici e psichici.

Cosa c’è, quindi, dietro questo (esclusivamente apparente) malessere alimentare? Si cela un carattere insicuro, fragile, che si lascia trasportare dalla fermezza e dalla durezza dell’anoressia; come un tarlo che si impone, con il suo orgoglio, contro il nemico più grande di ogni persona: se stessi. Si diventa spietati contro sé e ci si continua a ripetere: DEVO dimagrire, DEVO pesare di meno, DEVO ”navigare” dentro i miei jeans, DEVO lasciare qualcosa nel piatto. E’ tutta una questioni di doveri, ma verso chi? Verso quella malattia nervosa ed assillante che non si vergogna nel farci desiderare un corpo ”tutt’ossa”, che non si fa problemi nel rimanere impassibile di fronte chi cerca di aiutare. Perché? Perché cedere alla ”carità” altrui sarebbe come perdere il controllo e per un’anoressica, perdere il controllo, significa mangiare una briciola di pane in più rispetto a quanto mentalmente stabilito.

E la perdita del controllo è vista come una sconfitta contro se stessi.
Il controllo è tutto: la gestione del peso diventa un modo per concedersi il sintomo, perché anche una volta raggiunto il numero tanto agognato, la malattia impone di andarne al di sotto, essere sempre al risparmio di calorie, energia.
Senza alcun preavviso, diventa il peso il vero conduttore dell’umore, del benessere, dell’autostima.

Il desiderio di sparire prende forma in un non-corpo e tenta di svuotare la propria persona di ogni altra forma di ambizione e di piacere, facendo del dolore l’unica sensazione rimasta; quel dolore che ti prende quando ti guardi allo specchio e non sei quello che vorresti, quando vedi ancora troppa carne, quando le tue mani ancora non si toccano accerchiando la coscia, quando il mondo prende sapore solo se sei abbastanza magra.

L’anoressia diventa un vortice di incertezze e di solitudine, in cui il giudizio della gente fa paura, talmente tanto da non riuscire a chiedere aiuto anche se vorresti: le persone sono pronte a parlare, a commentare, ad accusarti perché ”potevi reagire diversamente” o a sminuire il problema con frasi del tipo ”mangia e risolvi tutto”, o ti offrono del cibo, che tu proprio in quel momento vorresti solo scomparisse, come te, che ti senti ferita ed infantile davanti ad un problema che ti sei creata da sola.

A questo punto credi così tanto di avere il controllo, da non renderti conto che l’anoressia non si fa controllare. Sì, perché diventa una gabbia in cui si conoscono a memoria le proteine, i carboidrati, i grassi di ogni singolo alimento. E’ questo il sapore della magrezza: una sfida continua contro se stessi, il rifiuto di anche un solo morso di mela, ogni lacrima versata quando ci si sbricia per sbaglio allo specchio.

L’anoressia ti scava dentro, trasforma la tua vita in un ammasso di ansia fra le ore dei pasti, in una conta continua fra calorie e ore che scorrono senza perdere un grammo.
L’anoressia è una malattia estrema, è una dipendenza da cui ci si può liberare chiedendo aiuto, senza timore, liberandosi dagli schemi rigidi che ci si impone, scoprendo le stampelle sane di cui avvalersi, la ricomposizione di relazioni umane vere e prendendosi cura di sé ogni giorno.

Jessica Cardullo

L’avvelenato

“Se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni…” cantava Francesco Guccini in una delle sue canzoni più taglienti, una sorta di rigurgito di insoddisfazioni e delusioni, tanto da meritarsi il titolo di “L’avvelenata”. Non so per quale preciso nesso associativo mi vengono in mente proprio le più violente rime del Francescone nazionale mentre oggi (anzi, ieri), 6 novembre 2017, mi trovo in una piovosa notte autunnale, accoccolato nel mio letto col pc sulle ginocchia a buttar giù, rigorosamente all’ultimo momento, le righe di un editoriale che finora non ho avuto il tempo di scrivere (anzi, diciamocela tutta, che proprio non ho voglia di scrivere) e che tu oggi (anzi, domani, 7 novembre, o quando sarà) stai leggendo. Forse perché ieri sera tornando a casa in macchina era questa una delle canzoni che cantavo a squarciagola, o forse perché anch’io, tutto sommato, mi sento insoddisfatto, e non so bene di cosa.

Forse della giornata uggiosa, del trauma del risveglio mattutino e del rientro alla routine quotidiana e universitaria dopo una piacevolissima ma ahimè troppo breve vacanza. Forse del fatto che mi è toccato di scrivere questo editoriale proprio oggi a ridosso delle elezioni regionali e ci si aspetterebbe che ne parli, mentre invece non ne ho proprio voglia. O forse del dibattito politico stesso, che pur dovendo essere in teoria un momento costruttivo di dialogo e confronto sociale riesce spesso a tirare fuori il lato peggiore delle persone che vi partecipano e di cui ascolto i pareri e leggo i commenti sui social media.

Forse, mi dico tra me e me, sono insoddisfatto perché oggi uno dei collaboratori della nostra unit di Cultura locale, in preda allo sconforto, aveva deciso di non scrivere più di Messina, città sorda e che non merita; e perché, anche se alla fine con gli altri del gruppo di redazione siamo riusciti a farlo ricredere, e pur non condividendo del tutto le sue posizioni, nella sua ferita aperta ho letto per un attimo le mille ferite aperte di chiunque abbia un ideale e lo veda lentamente inabissarsi travolto dalle onde degli eventi.

Forse, a rendermi insoddisfatto è la mia momentanea mancanza di ispirazione; o forse l’incapacità di tollerarla quando in realtà fa parte dei regolari alti e bassi di chiunque si diletti in qualsiasi attività creativa. Forse sono insoddisfatto del taglio troppo intimistico e patetico che sto dando a questo editoriale, se così vogliamo continuare a chiamarlo: proprio io che tendenzialmente odio chi scrivendo si lamenta un po’ di tutto e un po’ di niente, magari alla ricerca di facili immedesimazioni da parte dei lettori per raccattare qualche visualizzazione in più. Forse, addirittura, a insoddisfarmi è la mia stessa insoddisfazione, e il fatto che stia perdendo il mio tempo in lamentele così vacue solo per il vezzo un po’ esibizionistico di mostrarmi nudo di fronte a una (spero non troppo folta) platea di sconosciuti, io che ho una casa, degli amici, qualcuno che mi ama, quando c’è gente che sta molto peggio di me e ha ben più motivo di me di lamentarsi e meno spazio per far leggere le proprie lamentele agli altri.

E mentre scrivo e mi rendo conto che quello che doveva essere un editoriale poco ispirato è diventato un editoriale “avvelenato”, un fiume informe e liquido di dubbi, una sorta di blues autunnale un po’ stantio e un po’ stonato, mi rendo conto che via via che scrivo l’insoddisfazione inizia a diradarsi, come le nuvole dal cielo ormai scuro: e ti ringrazio, vi ringrazio, Lettori (spero non siate troppi però), per aver preso parte vostro malgrado a questo gioco terapeutico, oltre a chiedervi di perdonarmelo, se potete, di dimenticarvelo, insomma di passarmi per buono questo piccolo capriccio del quale, sincerissimamente, un po’ mi vergogno, se penso che, tutto sommato, è solo un modo come un altro di sbarazzarmi di un editoriale che non mi va di scrivere.

Lentamente, la mia mente scorre e arriva all’ ultima strofa della canzone: “se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso…”

Gianpaolo Basile

Mira Rai: correre ed indipendenza.

Ci sono storie che sembrano trame di film e invece sono realtà.
Ci sono storie che vanno raccontate perché, in tempi così, possono trasmettere fiducia nelle proprie capacità e nel seguire i sogni.

Sono incappata nella storia di Mira Rai per caso, è una fra le trail runner più forti al mondo, quest’anno National Geographic l’ha nominata Adventurer of the Year”.
Nasce a Bhojpur una cittadina della parte orientale del Nepal, a dodici anni smette di frequentare la scuola per occuparsi della casa, del bestiame e percorre chilometri e chilometri fra le montagne, come racconta lei in un’intervista Ho sempre camminato a lungo, per ore, spesso a stomaco vuoto, a piedi nudi e sola, anche soltanto per andare a prendere l’acqua o il riso al mercato”.

Non vuole piegarsi alla società fortemente patriarcale nepalese così a quattordici anni si unisce ai ribelli maoisti, impara il karate (è cintura nera) e il suo maestro la spinge verso la corsa.
L’accordo fra governo nepalese e maoisti era stato firmato nel 2006, Mira vive l’esperienza dei ribelli lontano dalla guerra civile, vive la parte degli addestramenti fisici e mentali.
Fino ad allora non aveva idea di cosa fosse lo sport: è instillata in lei la determinazione di superare qualsiasi ostacolo.

Due anni dopo tornata nel suo villaggio e partecipa alla sua prima gara la “Kathmandu West Valley Rim 50”. È l’unica donna, nevica e non ha equipaggiamento tecnico: si impone su tutti.

Caso volle che giunga in Italia tramite un’altra runner italiana, inizia ad allenarsi sulle Dolomiti e partecipa sia alla “Sellaronda Trail Race” che al “Trail degli eroi” arrivando sempre prima.
Il passo, o la falcata, è breve e si qualifica per le World Series dell’International Skyrunning Federation” in Australia, ad Hong Kong e in Norvegia e se avete capito l’andazzo: arriva sempre sul podio.

Il corridore, il maratoneta è una figura intrigante, più di ogni altro sportivo, si spinge al limite delle proprie capacità e sente come propria necessità quella di correre.
Murakami descrive finemente l’intreccio fra corsa e le emozioni che si provano. La necessità.
Mira Rai ha iniziato a correre per necessità, per sopravvivenza, la causalità degli eventi l’ha portata ad essere una corridora “con i piedi al sicuro in scarpe comode” per citarla.

Nel 2016 si è infortunata al legamento crociato anteriore e ciò l’ha portata a prendersi una pausa dalla corsa, in questo periodo ha deciso di organizzare la prima gara di trail nel suo paese di origine.
Mira ha 27 anni e un viso luminoso e uno sguardo profondo, tramite lo sport vuole liberare le nepalesi dalla prigionia della società patriarcale, insegnare che esiste un mondo diverso di vivere, stracciare il tendone che copre gli animi delle bambine.

Lo fa, con la determinazione (permettetemi il gioco di parole) di “mirare sempre più in alto”.

 

Arianna De Arcangelis

 

nda: ripresasi dall’infortunio ha partecipato alla Ben Nevis Ultra in Scozia lo scorso settembre, è arrivata prima stabilendo il nuovo record di percorso. E che ve lo dico a fa.

L’UniVerso che cercavo dentro ME

 

Che fatica, amici miei. Scrivere questo articolo è una cosa difficilissima. Sarò sincera con voi: solo il dovermi mettere davanti a questa pagina di Word è stato un parto. È da almeno 2 mesi che so che lo devo fare, che non volevo ridurmi all’ultimo, che rimando ‘’a domani’’.

Oggi non posso. Oggi è l’ultimo giorno a mia disposizione in quanto ‘’domani’’ è il tempo durante il quale voi mi state leggendo. L’articolo è pubblicato. Fine.

Fine.

Sapete, tra tutti i corsi universitari il mio è davvero particolare. Non sono 3, non sono 5, sono 6 anni. Sei anni sono tantissimi. È così strano pensare che tra 4 giorni il traguardo sarà stato raggiunto. The End.

Non giriamo troppo intorno, quindi. Sono qua per porvi i miei saluti, il mio arrivederci.

Questo progetto è entrato nella mia vita nel 2015. Non dimenticherò facilmente la prima volta in quello che è diventato il nostro ufficio. Non mi dimenticherò facilmente quel colloquio: ero l’unica ragazza, in mezzo ad un branco di ragazzi! Non solo: ero l’unica ragazza che scriveva per gioco, per distrazione, sicuramente non per mestiere.

Eppure, dopo quel primo “che ci faccio qui?”, tutto ha iniziato ad andare in maniera assolutamente naturale. Fin dalla prima riunione c’è stata passione ma anche tanto divertimento. Immaginateci: noi 8, in un’aula X, che non sapevamo assolutamente cosa stavamo facendo. Man mano, però, in quella confusione, sono uscite fuori le prime idee, le prime bozze di scalette e poi le scalette vere e proprie, i primi format, le prime categorie.

E poi, lui: il nome. UniVersoMe. Non potrò mai dimenticare quando Gugliotta lo ha scritto sulla lavagna, spiegandoci il gioco di parole, il significato che c’era dietro.

Io, Alessio, Paolo, Bonjo, Daniele, Valerio e Salvo lo abbiamo approvato fin dal primo momento. Università verso Me. Me, Messina. Me, cioè io. Me stesso. E sicuramente, questo universo, non solo è arrivato fin da me, ma è diventato parte di me, ha preso una parte di me.

Questo nostro progetto è stato il motivo per cui, lo dirò sempre, non ho più fatto la domanda di trasferimento. È stato il motivo per cui ho deciso di dare una seconda possibilità a questa università e a questa città, scoprendo che ci sono tantissimi ragazzi che si spaccano il culo (scusate il francesismo) per questa nostra Messina, completamente abbandonata a sé stessa.

Sono cresciuta, insieme ad UniVersoMe: ho imparato la diplomazia, il sacrificio, i compressi, il gioco di squadra. Ho imparato a contenere meglio la rabbia quando sei frustata, perché le cose vanno male, perché la gente non recepisce… Chissà per quale motivo.

UniVersoMe è un percorso che consiglio ad ognuno di voi: è una palestra per il futuro, per i futuri speakers, per i futuri giornalisti, per chi vuole trovare degli amici che lo saranno per sempre. Certo, un po’ di censura bisogna metterla in conto, ma ne vale la pena. E, anche quando verrete criticati, perché la verità fa male e non tutti la accettano, potrete dire che Voi, la Voce dell’Università, avete portato a galla i problemi che ci sono, per aiutare l’università stessa. Non vi crederanno? Non fa niente. L’importante è credere nei propri ideali.

Ed è quello che ho fatto io. Ho creduto e portato avanti i miei ideali fino alla fine, sono stata, anche io, la voce (sgarbata e acida, direi) dell’università. Ed oggi, con questo punto finale, non posso fare altro che esserne fiera.

Arrivederci, UniVersoMe.

Grazie per ogni singolo articolo scritto, corretto, pubblicato; per ogni editoriale con cui ho potuto esprimere la mia scrittura, per le mie amate rubriche di Tempo Libero, Abbatti lo Stereotipo, Recensioni e Scienze&Ricerca.

Ciao, a tutti i miei colleghi, compagni, amici.

A Micalizzi, la nostra carotina autistica, il nostro primo referente generale, l’amico con cui ho passato un anno intero a piangere sui malloppi che ci trascinavamo in biblioteca quando andavamo a “studiare”.

A Giorgino, Bonjo, Pragma, Valerio, Barba; i miei ragazzi, la squadra migliore che potessi desiderare. Ognuno di loro, in un modo diverso ma assolutamente perfetto, mi hanno fatta sentire a casa, protetta e coccolata (questa unica piccola donnina) e, soprattutto, mai inferiore a loro. Loro sono stati la mia spalla su cui piangere, il mio mandare a fanculo le persone e rimetterle in riga senza contestare, gli amici che tutt’ora sono con me, che tra 4 giorni saranno con me in uno dei giorni più importanti.

A Gugliotta, il nuovo referente, che si ammazza giorno e notte per aumentare il livello (e che c’è Super Mario Bros?) della piattaforma nelle sue varie componenti, accettando il cambiamento a cui essa può e deve andare incontro ma senza mai mancare di rispetto a nessuno dei membri che ne fanno parte o agli ideali su cui è stata fondata. Lo fa per quanto il tempo, ed io ne so qualcosa, sia poco. Perché UniVersoMe è anche questo: tanto tempo da ‘’perdere’’, con il piacere di ‘’perderlo’’.

Noi 8: il consiglio fondatore. Questi sette stronzi qua sopra citati, credetemi, non ho parole per ringraziarli abbastanza per ciò che ho provato e che non dimenticherò mai. Per aver creato, insieme, chissà per quale assurdo motivo, un qualcosa per cui, qualsiasi sarà la sua storia, andrò per sempre fiera.

Ai nuovi ragazzi, il nuovo consiglio: Jessica, Arianna, Gianpaolo, Vincenzo e a chi prenderà il mio posto. È stato un piacere vedere come quella passione, che era stampata sulla faccia di noi “vecchi” (nerd), esiste anche nel cuore (e sulla faccia) di qualcun altro. E con certezza posso dire, non solo di aver trovato anche in loro degli amici ed una squadra, che faranno un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare sempre più alto.

A Claudio, referente radio, con cui, come cane e gatto, mi sono acchiappata svariate volte in scontri creativi (a dir poco) ma sicuramente costruttivi. Che dire, lui ha già lasciato il posto ai giovani, ma senza noi due, possiamo dirlo senza alcuna modestia, Radio UniVersoMe non sarebbe stata il canale di successo quale è.

A Giulia, referente grafica, che, vabbè, è diventata una sorella con cui condivido il sonno, i sogni, lo sport ed i nostri mondi un po’ sbilenchi ma così strapieni di… Oddio, di cose troppo complicate ma assolutamente stupende. Attraverso i suoi occhi, guarda dentro l’obiettivo della macchina fotografica e fa vedere il mondo come mai riuscireste a rappresentarvelo. Con la professionalità che poche persone hanno, io la ringrazio perché ha conquistato la mia stima ed il mio rispetto fino, addirittura, una parte del mio cuore.

A tutti i ragazzi della Radio (che ho già salutato un mesetto fa durante la mia ultima puntata), a tutti i ragazzi della Redazione, a chi si occupa dei Social con una puntualità disarmante, a chi arriva e se ne va, a chi arriva e rimane. Grazie a tutti.

E grazie a voi: che nel vostro piccolo mi avete letta ed ascoltata. Grazie se vi ho fatto ridere, se vi ho fatto commuovere, se vi ho fatto incazzare, se mi sono fatta odiare o apprezzare. Grazie perché siete voi le persone per cui abbiamo lavorato ogni giorno e siete il più grande premio che potessimo mai desiderare.

Grazie, perché ho il cuore pieno di emozione.

Elena Anna Andronico

Tutto ciò che di buono c’è

 

 

 

 

 

 

Vi è mai capitato di svegliarvi, alle prime luci del mattino, con il sole che passa attraverso la finestra, con quel freschetto piacevole e, soprattutto di buon umore (senza aver preso nulla la sera prima, ovviamente, e SENZA essere nella pubblicità della Mulino Bianco)? A me si, raramente, è successo! Ecco, quelle volte le splendide mattine si tramutavano in piacevoli giornate, ne potevano capitare di tutte i colori (tranquilli, i colori non sono stati rubati – la fabbrica del degrado sa!) ma comunque erano belle giornate. Quella sensazione di percepire la positività che il mondo emana, con l’animo sereno, mi ha permesso di notare la bellezza che caratterizza Messina, quei piccoli attimi quotidiani a cui siamo abituati, e di cui spesso non ci accorgiamo, che equilibrano il peculiare caos della città dello stretto.

Il tempio della passeggiata a mare. Ecco cos’è per me. Un tempio senza colonne, senza mura, senza tetto. Come quando tutti noi andiamo alla passeggiata e passiamo sempre davanti alla ringhiera che da’ sugli scogli; noi, gente di mare, non riusciamo a dare le spalle, al mare. Ci culla, ci rilassa, e stare in silenzio mentre lo si guarda, beh è come sputare fuori tutti i nostri pensieri, come confidarsi con un amico stretto o con uno psicologo. E lì, in quell’istante, le onde ascoltano i pensieri di tutti: del signore che è appoggiato al muretto con lo sguardo distante dalla realtà, la bambina che con la bici rallenta mentre guarda una barca entrare al porto, una futura mamma che accarezza la pancia, due innamorati che sulla panchina si alienano entrando nel loro piccolo universo.

La madonnina che è sempre lì, immobile ed eterna, che osserva la nostra fretta, la nostra frenetica vita, il correre da una parte all’altra della città, sentendo almeno una volta al giorno una Smart, o una Lancia Y con la musica ad alto volume a qualsiasi ora (ecco quest’ultimo non è proprio uno di questi “schizzi” di bellezza), ma lei è comunque e sempre lì. È la certezza del messinese, anche del non credente.

Dei traghetti che lentamente passano da una sponda all’altra, come cullate da quello stretto che ci sembra infinito, che i calabresi “ci invidiano il panorama” ma nemmeno quel che vediamo noi scherza. Ed è sempre lì.

Oppure un’altra routine che non passa mai è la felicità che si prova attraversando i cancelli di Villa Mazzini: l’infanzia attaccata ad alberi enormi, giochi “old school” e zucchero filato. Passeggi su quel pavimento che ormai conosci a memoria e vedi giocare spensierati quelle piccole pesti ed istintivamente sul tuo volto si forma un sorriso, anche nelle giornate più cupe.

Quando vediamo il vigile che mette le multe: che se le mette a noi è un pezzo di merda, se le mette agli altri allora fa bene il suo lavoro!

E poi vogliamo parlare del bar di fiducia che con la granita che “come la fai tu non la fa nessuno in tutta Messina, compare” ci salva in giornate calde, terribilmente calde, disperatamente calde come queste di Giugno? Certo, la tradizione è tradizione!

La bellezza è quando di ritorno da una serata in quel di Faro, in città i panettieri cominciano a lavorare, e accolgono noi screanzati che ci godiamo la giovinezza, con il profumo del pane, con quell’inebriante odore che nasce dalle loro mani.

E tutti gli studenti seduti davanti a piazza Pugliatti mentre fanno una pausa che poi dura 1 ora perchè che fai non lo saluti a quello? non scambi due parole con quell’altro? non chiedi consigli a quella per l’esame? Si percepisce una grande, immensa “cosa” che li accomuna: LA SESSIONE. Che sia estiva od invernale poco importa, loro sono comunque lì, e magari per distrarsi osservano le persone che passano, desiderando ardentemente di essere al posto di chiunque altro in quel momento.

Dato che questo articolo è diventato una lista, ed un finale non so trovarlo, perché non la continuiamo? Qual è il tuo schizzo di bellezza in questa Messina?

 

Giulia Greco

 

La storia fantastica del cinema America. Il recupero dei beni comuni

C’era una volta a Trastevere , in via Agostino Bertani, il teatro Lamarmora , là al suo posto negli anni Cinquanta venne costruito il Cinema America.

L’arena venne chiusa nel 1999 per fare spazio prima ad una sala bingo e poi ad una palazzina ad uso residenziale.
A Roma come nel resto di Italia, negli anni a venire, vengono chiuse tante sale: cementificare piuttosto che curare e valorizzare il luoghi di cultura.
Nel 2008 il “comitato cinema America” , grazie anche al supporto dei trasteverini, riesce a bloccare il progetto di costruzione di un palazzo ad uso abitativo,ma le richieste per destinarlo ad uso sociale e culturale vengono rifiutate e la sala viene abbandonata.
È il 2012, accade un evento tipicamente giovanile: i “trast invaders” , ragazzi del liceo e dell’università, occupano per qualche ora il cinema e grazie alle foto che affollano i giornali la condizione di degradante abbandono del luogo è sotto gli occhi di tutti.
Di propria iniziativa e con il supporto degli abitanti del quartiere i ragazzi ricostruiscono il tetto, i pavimenti e creano una biblioteca e un’aula studio. Diventa uno spazio di aggregazione culturale.

Veloce aumenta l’interesse di attori, registi e produttori che passano dalla sala e supportano i ragazzi.
La sala è piena ogni giorno, vengono proiettati film e presentati prima dagli stessi registi o attori creando una atmosfera di scambio culturale. Il Maestro Ettore Scola è stato da sempre vicino a loro.
La storia non finisce qui: i ragazzi vengono fatti sgomberare ma i trasteverini, conquistati dalla passione dei ragazzi, concedono in comodato d’uso l’ex forno accanto il cinema.
È ora che nasce l’arena San Cosimato : cinema all’aperto nella piazza di Trastevere.
Più di un successo.

Questa è una storia di sgomberi, occupazioni e continue battaglie legali, l’ultima vede protagonista la sindaca Raggi e la l’appello del mondo del cinema (in direttissima da Cannes sottoscrivono Almodovar, Chastain e Sorrentino). Passando per iniziative bellissime come gli “Schermi pirata” e proiezioni nella periferia romana.
Intanto i ragazzi sono riusciti a vincere il bando per l’assegnazione della sala Troisi , altra sala chiusa da anni, e anche quest’anno da giugno ad agosto la piazza San Cosimato si illumina di cinema e riempie di persone (https://trasteverecinema.it/).

La realtà italiana vede, nella maggior parte delle città, sempre più coinvolti i cittadini nella cura e recupero dei beni comuni.
Non solo le sale vengono chiuse sempre più frequentemente, i luoghi di cultura o di interesse artistico vengono tenuti chiusi per mancanza di fondi. O almeno così molti dicono.

Le vicende che ho riportato potrebbero essere solo l’inizio di un vero e proprio movimento culturale italiano.
Chi meglio di noi, col nostro patrimonio, dovrebbe recuperare il rapporto coi nostri luoghi? Ritrovandone la bellezza, curandoli, rispettandoli e valorizzandoli tramite attività culturali : dalle proiezioni alle esibizioni alla creazione di luoghi di ritrovo per scambiare idee e conoscenza.
A Messina ci sono una quantità di luoghi chiusi al pubblico, riaperti ogni tanto per le Giornate di Primavera del Fai, che hanno tutte le caratteristiche.

È una idea bizzarra forse e potrebbe spaventare perché è un territorio ignoto.

I ragazzi del cinema America erano interessati ad avere uno spazio dove fare cultura, tutto è stato consequenziale, hanno studiato, hanno imparato a chiedere autorizzazioni e permessi, si sono fatti aiutare dai consigli di esperti. Difendono l’arte e i beni comuni, in un mondo che sembrerebbe andare in direzione contraria.
Non hanno mollato davanti alla bestia nera italiana che è la burocrazia.
Grazie ragazzi.

Checché se ne dica i “giovani d’oggi” sono interessati alla cultura, molto. Sono certa che non solo a Roma starebbero (o stanno già) in prima fila per migliorare la condizione delle città.
Questa è una avventura che stimola chi , come i ragazzi dell’America, ama i luoghi che ha attorno e crede nelle stesse idee.

Si dice sempre che l’Italia potrebbe andare avanti solo col patrimonio culturale e paesaggistico che ha, e allora perché non osare? 

Arianna De Arcangelis

 

ndr: per chi fosse interessato qui il link della pagina Facebook https://www.facebook.com/piccoloamerica/

LOVME FEST: TRA DIVERTIMENTO E RINASCITA

Valorizzazione e libertà: sono le parole d’ordine della terza edizione del LovMe Fest, una rassegna multiculturale o, meglio, un appuntamento fisso che il 2 Giugno coinvolge e sconvolge – positivamente – l’intera città.

Il cambiamento di location, a primo impatto parso come una scelta azzardata, si è rivelato un successo: fin dall’apertura dei cancelli, un’ondata di gente, di ogni età, ha popolato lo spazio verde della città.

L’entusiasmo illuminava gli occhi dei bambini, contenti di potersi sporcare le mani con la terra; colorava quelli dei più grandi che, intervistandoli, ci hanno rivelato di non entrare da anni in questa splendida villa.

Ecco perché si parla di valorizzazione: Messina vanta un polmone verde di diversi ettari, facilmente raggiungibile dai cittadini; ideale per far giocare i più piccoli, per studiare, per correre, per fare una passeggiata; significa un punto di ritrovo per i più anziani, per chi vuole portare a spasso il cane, eppure la potenzialità di Villa Dante rimane inespressa. E’ solo grazie a manifestazioni del genere, alla mano d’opera dei volontari che, con sudore e fatica, hanno bonificato uno spazio ormai degradato e dimenticato, che la città può riportare in vita zone come questa.

La festa della Repubblica, quest’anno, a Messina, rimarrà come il segno della volontà di cambiamento dei messinesi, di chi ha evidenziato che ogni cittadino può contribuire a migliorare la città. E’ così che il vero obiettivo del LovME Fest si realizza: a giorni di distanza dal festival, Villa Dante è ancora pulita, è in ascesa per diventare un punto di riferimento.

Pensiero, questo, condiviso anche dal rapper Piotta, l’ospite della serata che, a fine esibizione, ha sottolineato l’importanza di organizzare tali eventi che esprimono la vera identità di una città. E’ proprio dall’arte del cantare che si estrapola la seconda parola chiave della manifestazione: libertà.

In villa, infatti, si sono susseguite 15 ore di intrattenimento di ogni tipo: esibizioni canore; mostre di fotografia, di fumetti, di scultura, di pittura; body-painting; yoga; esposizioni artigianali e seminari su legalità, sulla disabilità e sui diritti civili; per concludere, i tre palchi adibiti per ogni esigenza musicale.

Si tratta, quindi, di arte, nonché di libertà di espressione: ogni cittadino era libero di comunicare a proprio modo e di raccontarsi liberamente attraverso le varie facce dell’arte.

Il LovMe Fest è un festival, ma è anche altro: è sete di cultura, è simbolo di raccolta per i messinesi; è fame di rinascita culturale e sociale.

Jessica Cardullo

I 10 comandamenti del pacco da giù

Mi trovo con un piede in una zona ed un piede in un’altra. Sono ad uno stallo, anzi, per dirla alla Enrico Ruggeri, ad un bivio. Diciamo che sono un semi – fuori sede, anche se il termine è improprio, dato che molto spesso viaggio tra Messina e Roma in vista di un trasferimento universitario che mi porterà a finire il mio percorso accademico nella capitale. Ogni mese, praticamente, sto a Roma circa 15 giorni, abitando lì anche la mia ragazza finisco per unire vacanza e dovere, essendo necessario informarsi per bandi, corsi e case.
Ogni volta che prendo un intercity, però, un particolare fondamentale non mi abbandona mai. No, non il ritardo di Trenitalia. Il cibo. Quando parto mia madre e mia nonna mi riempiono di roba tipica siciliana, messinese e catanese (per metà il mio cuore è sotto l’etna), e finisco sempre per occupare 4 posti, il mio assegnato e gli altri tre attorno a me, perchè addosso, tra i bagagli, ho anche i pacchi di braciole, biscotti, panini, affettati, sottovuoto e salse varie, sia in discesa che in salita, sia chiaro, perchè la famiglia della mia fidanzata è originaria della riva giallorossa dello stretto.
Si perchè ragazzi, dai, la porchetta del porchettaro non puoi non portartela a casa in camion carichi, o le bombe o i cornetti di Centocelle non puoi mica lasciarli lì, in balia della sorte. Sei proprio costretto a portarteli dietro. Chiedete a chi viaggia per studiare quale sia la sua più grande attesa e mai vi risponderà “l’occasione per tornare a casa” ma sempre “il pacco da giù”. Sia questo spedito o riportato nella città “straniera” al momento del rientro, il pacco da giù è fondamentale, senza non ti riconoscono come terrone, che poi è proprio bello vantarsi di esserlo. Anche perchè dico, c’è tutto un modo per mandare questo sacro graal della degustazione, un iter da seguire, e quindi questo editoriale, più che un articolo, vuole essere un vademecum, i 10 comandamenti del pacco da giù.
1- Deve essere oleoso. Così tanto oleoso che i pacchi accanto con dentro le scarpe, nella stiva di trasporto, devono diventare melanzanine da mettere nel panino al volo
2 – Deve essere compatto. Siccome te lo manderà tua mamma o tua nonna, vuole essere sicura che niente si rompa, quindi si, all’esterno sembrerà una scatola comune, ma dentro sarà tipo stretto neanche contenesse un vaso di porcellana
3 – Lo scotch deve rigorosamente essere marrone, qualunque sia il colore del cartone. Quel nastro adesivo da cui non esce nulla, neanche i sensi di colpa di tua madre o tua nonna quando pensavano che potesse entrarci altro, ma altro non hanno messo
4 – Dentro nessun imballaggio, la sicurezza è data dalla sua importanza. Il pacco da giù non arriva, cade dal cielo, così, senza capire niente, è leggero, aureo, angelico, non viene consegnato, ma in modo nobile consegnato, non vi è timbro postale ma sigillo del regno delle due sicilie
5 – Le bottiglie di sugo non devono essere state imbottigliate da meno di 6 mesi. Sappiatelo mittenti, le bottiglie di pomodoro fatte tipo 1 mese prima non sono bottiglie di pomodoro, servono solo per lavare per terra
6 – Le brioscia. Tante. Sopra Messina non comprendono cosa significhi riempire una brioche di gelato o inzupparla nella granita, al nord, addirittura, il cornetto viene chiamato brioche…insomma, capite bene che servono sempre, come cibo, spugnette per il bagno se troppo morbide o pietro pomice se diventano troppo dure
7 – Deve necessariamente essere scritto con una scrittura di giù. Vengo e mi spiego: la scrittura di giù sul pacco porta scritto robe tipo “Mio nipote Claudio Panebianco, Viale degli Aranci, 18, Roma” o un “posta veloce”, scritto veramente a mano, esperienza reale, sullo scatolo, come se servisse veramente per farlo diventare Bolt
8 – Fondamentali le melanzane, senza non si fa la parmigiana, non si fa la pasta con le zucchine fritte, SENZA NON SI FA LA VITA
9 – Le braciole, le braciole come Dio comanda. Perchè a Roma, ragazzi, o in altri parti d’Italia, le braciole sono polpette. “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno”
10 – La salsiccia. A caddozzi. Niente roba strana da aprire per essere cotta sul barbecue, niente macinato, il puro caddozzo siciliano, sia condito o meno, ma che sia sosizza. Tanta da poterci fare una collana. Due collane. Due collane ed una sciarpa. Tanta da utilizzarla come bracciale
Il pacco da giù non si aspetta. Il pacco da giù si evoca, come una divinità, pregando ogni giorno rivolti verso il pilone.
Claudio Panebianco

L’essere umano: un animale spaventato

UniVersoMe in questo periodo sta prendendo una piega introspettiva. Sarà la primavera? Sarà che continuiamo a crescere? Sarà l’ansia della sessione imminente che ci porta a farci domande esistenziali al posto di studiare quella pagina che abbiamo sotto al naso da un’ora? Non lo so, so solo che questo filo non voglio spezzarlo. In questo editoriale ho voglia di affrontare un argomento che abbraccia (e a volte stritola) tutti noi, chi più, chi meno: il panico.

L’unico ostacolo per ottenere ciò che vuoi è la persona che vedi riflessa alla specchio” non mi ricordo dove ho letto questa frase. Forse in una di quelle immagini condivise dagli over 40. O su uno di quei poster che vediamo appesi dal dentista. Ma questa frase nella realtà cosa vuol dire?
Io la interpreto come “la tua paura ti fermerà”. La paura è come un carcere dentro cui nessuno ci ha chiuso. Abbiamo persino le chiavi. Eppure stiamo lì perché fuori dalle mura e dalle grate mentalità c’è qualcosa che ci spaventa.

“Non sono abbastanza forte”, “Non ce la posso fare”, “Morirò se faccio questo”. Arriviamo a pensare cose così brutte che anche un gesto semplice, come prendere un aereo, diventa l’entrata in guerra. Guerra che comunque perderemo, perché combattiamo contro noi stessi.

Abbiamo paura nel 2017 perché nel 2017 abbiamo troppe informazioni. Veniamo bombardati di notizie che spesso non capiamo, su cui non indaghiamo. Ma restano sedimentate e sbagliate come un cancro. Leggiamo da qualche parte: “studi recenti hanno dimostrato che non dormire può causare problemi cardiaci”. Così quando non dormiamo una notte, o dormiamo male, l’ipocondria ci getta a terra con un braccio dietro la schiena ed il suo ginocchio che preme sulla scapola come solo un buon vecchio The Rock sapeva fare nella WWA.
Abbiamo fatto un errore: pensare che l’informazione libera potesse salvare l’umanità. Ci ha condannato a informazioni grossolane, poco ricercate e rese “istituzionali” da un numero di mi piace superiore a mille. Un medico non si laurea condividendo un link sull’importanza della vaccinazione. “Complimenti Dott. Pivetta lei ha ottenuto 20.000 mi piace. Le conferisco la laurea in medicina col massimo dei voti“.
È un mondo duro per ipocondriaci e gente soggetta ad ansia (guarda caso il 90% della popolazione). Cosa fare quindi? Dopo essermi scervellata, la soluzione che ho trovato è questa: non dobbiamo ascoltare nulla! Per un po’ di tempo (anche solo una settimana) non diamo retta a nulla! Neanche a noi stessi. Il percorso è difficile, non sarà per nulla facile resistere alla negativa tentazione di scoprire l’ultima ricerca pubblicata da una testata veritiera quanto il lato B delle Kardashian.

Sapete a quanti marchi siamo sottoposti in Occidente? All’incirca 50.000 al giorno. 50.000 loghi, marchi, pubblicità e simbologie che noi non abbiamo cercato. È una vera aggressione quella che subiamo. Questo è ciò che dice uno studio di sociologia dell’università di Boston (l’ironia delle ricerche). Come si può non avere un po’ di panico, ansia o ipocondria vivendo così? Chiudiamo occhi ed orecchie per un po’. Non ascoltiamo i vari allarmi fantasma che il nostro corpo invia. Non stiamo morendo. Il nostro problema è che non stiamo vivendo. Dopo questa clausura, quando ci sentiamo pronti, ascoltiamo i nostri bisogni. Ritorniamo al mondo. Iniziamo a ricercare informazioni di qualità. Più fonti per una notizia e soprattutto non leggete i titoli ma gli articoli. Certamente la battaglia continua ed è quotidiana, quindi, per evitare ricadute, troviamo qualcosa per cui valga la pena lottare. Perché è una lotta dura quella contro l’uomo allo specchio ma fuori dal ring c’è la vita. La vita vera, non social ma sociale. Non condivisioni ma condivisa.

“Don’t panic” immagine tratta dal film “Giuda Galattica per autostoppisti” ispirato all’omonimo libro di Douglas Adams – diretto da Garth Jennings

L’ipocondria ed il panico sono amichetti per la pelle, sono secondini di una prigione senza ossigeno. Tu hai le chiavi di quella prigione. Ed una volta che le userai sarai il direttore. In quelle gabbie ci saranno i tuoi mostri. Prenditene cura, controllali di tanto in tanto. Controlla lo scantinato della tua anima. Poi sali fino al tetto e balla, canta, piangi, ridi, VIVI.

Io tutto questo ancora non lo so fare ma ci sto lavorando. Lavorateci. E sarà un lavoro terribile, perché se così non fosse vuol dire che state sbagliando lavoro. Sarà un lavoro duro. Sarà pieno di nuove cadute, di lividi e ferite. Non vi dirò favole. Sarà peggio di continuare a vivere in gabbia. Ma a lavoro finito quanto ci piacerà il nostro volto? Il nostro vero volto! Quello così ammaccato da essere meraviglia. Non lo so. Ce lo diremo alla fine quanto siamo belli e forti. Un uomo più saggio di me disse: “Ho odiato ogni minuto di allenamento, ma mi dicevo: “Non rinunciare. Soffri ora e vivi il resto della vita come un campione!” (Cassius Marcellus Clay Jr. Muhammad Ali).

P.S. Ringrazio vivamente una persona per me molto speciale, Gianmarco, che mi ha ispirata ed aiutata a scrivere questo articolo, nella speranza (da parte di entrambi) di aiutare un po’ tutti.

Giulia Greco

Hai 24 anni

Mi rendo conto del tempo che scorre sempre nello stesso periodo dell’anno, in questo periodo dell’anno, quando, con le mie tre amiche, a distanza di pochi giorni, mesi, compiamo gli anni. Per pochi mesi, abbiamo tutte e quattro la stessa età.

I compleanni, crescendo, non hanno più lo stesso sapore. Per me acquisiscono, pian piano, una sorta di malinconia. Eppure, ancora, siamo così giovani.

Abbiamo 24 anni. Siamo giovani. Siamo forti, caparbi, siamo dei sognatori. Lo leggo nella faccia dei ragazzi e delle ragazze che mi circondano, negli occhi dei colleghi, delle persone che incrocio per caso il sabato sera o il lunedì mattina.

Siamo in quella fascia di età che va dai 20 ai 30 anni, in cui ancora, chissà per quanto tempo, possiamo permetterci di sognare, di fare errori, di ripararli. In quella fascia d’età in cui ancora possiamo rischiare, metterci in gioco e, anche solo per un attimo, per un paio di ore, concederci il lusso di scordare.

Scordare gli impegni, le responsabilità, i doveri, le preoccupazioni.

In quella fascia d’età in cui, che tu sia ancora a casa o meno, la sera trovi mamma e papà, a casa o per telefono, pronti a salvarti il culo o a dirti, ancora, di nuovo: “andrà tutto bene”.

E quella frase ti può fare incazzare, oppure no, ma non devi dimenticartene il sapore. Perché, chissà, forse un giorno sarai tu a doverla dire. Anche se non ci credi, anche se non ne hai la forza.

Andrà tutto bene.

Abbiamo 24 anni e capita di bloccarsi, anche solo per un secondo, e chiedersi:” ma io, chi sono?”. E quando arriva questa domanda, improvvisa, come una doccia fredda, si sta là, in mezzo al traffico, alla folla, davanti allo specchio del bagno. Tutto passa veloce mentre tu sei immobile nel tempo. Sai rispondere alla domanda?

È la paura, che blocca. Quella domanda fa paura. Chi sono io?

Come potrebbe non fare paura. Tutto intorno a noi si muove. Mentre noi, a volte, siamo fermi. Non ci accorgiamo che, quando ci muoviamo noi, è il resto che si ferma. E questo fa paura. Ma quando tu ti muovi, non puoi accorgerti se il resto è fermo: semplicemente perché ti stai muovendo.

Ma quando sei fermo, è in quel momento che non devi avere paura. Rilassarti, con la consapevolezza che ti muoverai di nuovo.

A 24 anni, alcuni sono già laureati, altri no. Alcuni lavorano, altri no. Ma tutti ci chiediamo perché noi non riusciamo come gli altri. Dopotutto, la vita degli altri sembra sempre più facile.

E ci sentiamo in colpa: potremmo fare meglio, forse, ma il meglio non sembra mai abbastanza.

E si ricomincia. Io, chi sono? Io, dove sto andando?

Non stiamo certo tutto il tempo a chiederci chi siamo e dove stiamo andando. Ma di sicuro, di tanto in tanto, queste domande arrivano prepotenti, pesanti, insormontabili. Le anestetizziamo con la vodka e i buoni propositi per il giorno dopo. Ci fanno stare più tranquilli, ma poi, non servono a niente.

Abbiamo 24 anni, e forse siamo troppo grandi per ballare in preda all’alcol e all’euforia. Che i nostri genitori avevano già noi, mentre noi abbiamo soldi da spendere in ricordi che, beh… Non sempre ricorderemo.

Quella vodka che, diciamolo tra noi, comincia a diventare una scimmia sulle spalle un po’ pesante.

Abbiamo 24 anni, e ci guardiamo intorno aspettando. Un messaggio, uno sguardo, un invito. Magari aspettando solo l’ora di tornare a casa, o il panino delle 4 a.m. (chissà come, ha sempre un sapore meraviglioso).

E ti chiedi come siamo finiti così, con un piccolo amore nel cuore e noi piccoli senza nessuno accanto. Perché il bello dei 24 anni è anche questo: condividere. Con gli amici, , siamo la generazione che può dire a gran voce “grazie a Dio ci sono i miei amici”; ma servirebbe, a volte, pure qualcun altro con cui condividere la vita. I momenti, le notti.

Che poi, dicono, basta l’esperienza d’amare per renderci pieni, migliori. Sarà.

Sarà che, a 24 anni, vedi gli obiettivi fermi davanti a te e corri loro incontro per prenderli, e più corri, più ti sembrano lontani.

Eppure te li immagini, te li sai immaginati così tante volte, nella tua testa, che quasi provi a non immaginarteli più per paura di farli sbiadire. Il giorno dell’esame, il professore che verbalizza, finalmente, il voto per cui stai sudando 100 camice. Il giorno della laurea, la corona di alloro sul tuo capo. Il primo giorno di lavoro.

Sarà che, ai 24 anni, ci arriviamo e non sappiamo nemmeno noi come siano diventati 24. E pensi a quando ne avevi 18, di anni, a come ti immaginavi, a come sei, o a come non sei. Ricordo che quando, a 18 anni, il mio amore dell’epoca mi lasciò ed io mi ritrovai sola, mi consolai più di una volta pensando:” dai, quando avrò 24 anni e sarò quasi laureata, sarà tutto diverso. Chissà chi sarò, come sarò, chi avrò accanto, come sarà la mia vita”. È strano. A volte cambia tutto, a volte non cambia niente. Forse, sta tutto nel fatto che, nel nostro cuore, abbiamo ancora 18 anni, siamo ancora quei ragazzini con i vestiti da grandi.

Eppure, quei 24 anni, sembravano realmente così lontani.

Sarà che, a 24 anni, basterebbe qualcuno che ti concedesse un momento per sorridere. Con la tuta, immersi in una nuvoletta di fumo e sogni. Perché dai, non prendiamoci in giro, è questo che vorremmo tutti. Anche i più strafottenti di noi, lo sono solo fino a quel momento lì.

Sarà che ormai, forse, ci viene da dire “è troppo tardi”; però, forse, ancora è troppo presto.

Perché, a 24 anni, condividiamo tutti le stesse preoccupazioni: laurea, lavoro, futuro. Condividiamo quelle domande, chi sono io dove sto andando; ma condividiamo anche il cuore spezzato, il cuore in attesa, il cuore illuso, chiuso o aperto, traboccante, sfiorito o fiorito, arido, pulsante o fermo.

Sarà che, a 24 anni, ci fermiamo tutti, sotto casa, nella nostra macchina, con la musica che scorre e aspettiamo. Cosa? Non lo sappiamo. Però quei 10 minuti in macchina, da soli, di notte, servono a fermare il tempo, le preoccupazioni. Entriamo in stand-by dai nostri pensieri, alziamo il volume, aspettiamo che finisce la canzone e saliamo a casa. Quei 10 minuti fanno bene, all’anima.

Che poi, forse, a 24 anni, conviene solo continuare a camminare, che se aspetti non arriva niente. E senza preoccuparsi troppo: perché chiunque tu sia, a 24 anni, sei una bella persona. Sei quella persona che ride, scherza, va a ballare e aiuta l’amico sbronzo (o è l’amico sbronzo). Sei quella persona che ancora crede, sogna, studia. Quella persona che supera le sconfitte a testa alta e festeggia le vittorie a testa bassa, con umiltà.

 Chiunque tu sia, hai 24 anni, e c’è ancora un sacco di tempo per amare, per festeggiare e, soprattutto, per correre. E, di tanto in tanto, per fermarsi.

Che tanto, andrà tutto bene. Ora è così, ma a 31 anni, chissà dove sarò, chi sarò, come sarò diventata, chi avrò accanto, cosa starò facendo.

Elena Anna Andronico