L’Italia: il paese più “simpatico” del mondo

Se c’è una regola basilare nel tentativo di approccio ad una ragazza, è sicuramente quella di non esordire complimentandosi per la sua simpatia. Non perchè sia negativo, anzi, ma se tra tutte le sue infinite qualità fisiche e mentali tu hai individuato solo quella di saper far ridere le persone, il complimento perde della sua valenza e si tramuta in un insulto velato.

L’Italia è dunque il paese più simpatico del mondo. Lo dicono i giornalisti con i loro articoli, lo rappresentano i registi con i loro film, lo dimostrano i politici con i loro governi. È il Paese che “colpisce i venditori di sigarette, ma premia i venditori di fumo” diceva Indro Montanelli, e questa affermazione sembra essere perfetta per descrivere la situazione di questo paese che, di anno in anno, ci fa ridere sempre di più.

Non voglio essere melodrammatico, amo la mia terra, non la sostituirei con nessun’altra al mondo, ma se oggi sono qui e prenderla un po’ per i fondelli è solo perchè so che ha un gran senso dell’umorismo. In effetti però, guardandoci indietro, possiamo vedere come il panorama politico degli ultimi anni non ci aiuti a rimanere seri nel discorso. Dal 2000 ad oggi, i Presidenti del Consiglio italiani che si sono passati il microfono (come in un vero spettacolo di stand up comedy) sono stati dieci, da Giuliano Amato a Giuseppe Conte, passando per Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Ognuno di questi ha fatto il proprio monologo, ognuno di questi ha calcato il proprio palcoscenico, ognuno di questi, per fortuna o purtroppo (questo lo lascio scegliere a voi), ha ricevuto fischi ed applausi ed ha lasciato la scena – metaforicamente parlando.

Attenzione però, come in tutti i migliori spettacoli, è il pubblico a pagare il biglietto ed è il pubblico a decidere se andarci o meno. Troppe volte ci si trincera dietro la figura del politico-cialtrone, ladro e farabutto, non rendendoci conto che, volenti o nolenti, loro stanno lì perchè noi ce li abbiamo mandati; anche se, negli ultimi anni in molti sono stati dubbiosi anche su questa ultima mia affermazione. A partire dal governo tecnico Monti, infatti, il meccanismo delle elezioni nel nostro paese si è inceppato, ha saltato qualche giro, generando una tale confusione da sfociare, solo qualche settimana fa, nel tentativo di impeachment nei confronti del Presidente della Repubblica Mattarella. Ma procediamo per gradi.

È il 16 Novembre 2011, Berlusconi ha rassegnato le sue dimissioni da quattro giorni dopo le polemiche riguardanti la crisi economica del Paese e Mario Monti diventa il nuovo Primo ministro italiano, scelto dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, come figura forte capace di affrontare la complicata situazione in cui l’Italia versava a livello finanziario. Una scelta obbligata, dettata dalla necessità di dialogare con l’UE e con la Germania, che durerà un solo anno, così come era stato preannunciato dallo stesso Monti subito dopo il suo insediamento.Risultati immagini per berlusconi monti letta renzi gentiloni

Nel 2013 a sostituirlo è Enrico Letta, pilastro della sinistra italiana, già ministro durante i governi D’Alema, Amato e Prodi, che passerà alla storia per essere stato messo in sfiducia proprio dal suo partito, o sarebbe meglio dire, dal segretario del suo partito, Matteo Renzi, l’ex sindaco di Firenze dall’aria sbarazzina che si era fatto strada nell’arena politica al grido di “Rottamiamoli”, indirizzato a tutti quei politici che da decenni lottavano per rimanere attaccati alle loro prestigiose poltrone. Un Matteo Renzi che diventerà il nuovo centro del dibattito politico e satirico italiano, molte volte paragonato a Berlusconi per le sue doti da showman, da comico (per rimanere in tema), e per la sua forte predisposizione a scandali e capitomboli che si riassumono perfettamente nella sconfitta del SI al “Referendum costituzionale Renzi-Boschi” del 4 dicembre 2016, data che segnerà la fine del governo guidato dal leader toscano e l’inizio del nuovo esecutivo Gentiloni.

Risultati immagini per di maio e grilloMa durante questi anni di profondi stravolgimenti e rocambolesche sostituzioni in corsa, si è andato formando un nuovo gruppo, giovane e coeso, critico verso l’operato delle forze politiche di rilievo, voce del popolo che si riunisce in piazza a protestare e fa dei social network l’arma più pericolosa; gruppo guidato – neanche a dirlo – da un comico, Beppe Grillo. Se non si fosse già capito, sto parlando del Movimento 5 Stelle. In pochi anni questo “partito politico” ha conquistato il cuore di moltissimi elettori, giovani principalmente ma non solo, dando spazio a nuovi volti della politica italiana tra cui Luigi Di Maio, trentunenne campano, poco avvezzo ai congiuntivi (si scherza) che in pochissimo tempo diventerà il leader del movimento e il volto del cambiamento politico italiano alle ultime elezioni di marzo.

Della situazione recente ne siamo al corrente tutti, chi più chi meno (per saperne di più leggi il nostro articolo) , un nuovo governo è nato – dopo la suspense generatasi negli ultimi giorni intorno alla figura di un Mattarella ingiusto e, per citare Buffon, “con un bidone dell’immondizia al posto del cuore“- Giuseppe Conte è il Presidente del Consiglio e i suoi due vicepresidenti sono Di Maio e Salvini (giuro che questa non è una battuta) e staremo a vedere ciò che il “governo del cambiamento” tanto sognato da M5S e Lega riuscirà a fare nei prossimi anni viste le numerose promesse fatte durante la campagna elettorale e la forte volontà di non tradire quel popolo tante volte chiamato in causa dalle due forze politiche come prima vittima del malgoverno.

Risultati immagini per stand up comedy audienceNoi intanto sediamo tra il pubblico, ci godiamo lo spettacolo con gli occhi lucidi e gli addominali che ci fanno male per le troppe risate, stringendoci scomodi su queste 60 milioni di sedie, sperando che, almeno questa volta, non si tratti solo di un’altra favolosa barzelletta.

Giorgio Muzzupappa

Chi ce lo fa fare: scrivere per ritrovarsi

“Chi te lo fa fare?”

In due anni di onorato servizio qui su UniVersoMe, non c’è dubbio che questa sia stata la domanda più frequente che mi sia mai stata posta (o che mi sia mai posto) a riguardo.
Ed è una domanda all’apparenza sensata. Dopotutto siamo universitari, e si sa, il ritmo della nostra vita è scandito dal pendolo schopenhaueriano che oscilla tra una sessione e l’altra, tra lo studio di una materia e lo studio della prossima. Arrivi al punto in cui tutto quello che c’è in mezzo a questo intervallo, a meno che non serva a soddisfare un bisogno immediato (mangiare, bere, accoppiarci coi nostri simili, insomma mantenerci vivi) o a facilitare la sua soddisfazione, diventa automaticamente etichettato come “perdere tempo”, quest’espressione che è l’incubo di ogni universitario che si rispetti, capace di risvegliare atavici e inarrestabili sensi di colpa in ciascuno di noi.

Bene, se accettiamo questa definizione ci sono pochi dubbi sul fatto che UniVersoMe sia stato, per me come per molti altri, “perdere tempo”.
Magari questa assunzione, oggi in cui questa attività consente di acquistare i tanto agognati CFU (ma solo in alcune facoltà) o, per chi studia Giornalismo, addirittura di svolgere tirocinio, può suonare meno vera rispetto a quando per la prima volta mi sono accostato al giornale. Ma quando, insieme a tanti dell’attuale direttivo o della redazione, abbiamo iniziato a scriverci, tutto questo non esisteva. E se magari alcuni di noi, spinti da velleità di carriera giornalistica, avrebbero potuto vedere quest’esperienza come un banco di prova per il loro futuro professionale, per me come per molti altri non ci sono mai stati dubbi: certo non lavorerò domani facendo il giornalista.

Quindi, tornando a noi, “chi me lo fa fare”? È una domanda che pesa un po’ se penso che questo, che state leggendo, sarà il mio ultimo editoriale, dato che sto per lasciare il direttivo di UniVersoMe. Quindi direi che è ora di abbozzare una risposta.

Intanto, lo ho fatto perché mi piace scrivere. Lo ho fatto perché mi ha consentito di riscoprire un lato creativo in me che credevo completamente sopito. Lo ho fatto perché mi ha aiutato a conoscere, e fare conoscere, tante cose che non sapevo o che altri non sapevano sulla nostra città di Messina. Lo ho fatto perché mi ha permesso di mettermi in contatto con gente che condivide le mie stesse passioni e i miei stessi interessi, e scambiarci le idee ci ha fatto crescere insieme.
L’ho fatto perché mi ha aiutato a mettermi alla prova, ad assumermi degli impegni, ad essere parte di qualcosa. E l’ho fatto anche perché UniVersoMe nasce per questo, per creare un ponte fra l’università, la città e gli studenti: inseguendo l’idea di fondo che l’impegno che ci abbiamo messo a far crescere questo progetto è impegno investito nel rendere, nel nostro piccolo e nel limite delle nostre possibilità, l’Università di Messina un posto un po’ più simile a come vorremmo che fosse.

Per tutte queste cose io devo ringraziare UniVersoMe e a tutto il suo team, Alessio e tutti gli altri colleghi direttori, insieme a tutti i ragazzi della redazione e della radio che ogni giorno ci mettono il loro tempo, le loro capacità e il loro entusiasmo per fare crescere questo “qualcosa” a cui tutti apparteniamo e che ci appartiene. Grazie a tutti, è stata una esperienza che è valsa e continua a valere la pena, e anche se adesso mi rendo conto di non avere più tempo per adempiere al ruolo di membro del direttivo, spero di averne quantomeno per continuare a scrivere, ogni tanto, e crescere insieme.

E a voi che mi state leggendo, e magari siete incuriositi dal progetto, ma vi state chiedendo tutto sommato “chi ve lo fa fare”, l’unico consiglio che posso dare è: buttatevi, mettetevi in gioco, lasciatevi coinvolgere; dite no alla logica alienante che pretende che l’università sia solamente un posto in cui darsi le materie e prendere la laurea, e aiutate UniVersoMe a trasformarla in un posto più bello, un luogo di incontro, di scambio di opinioni, di crescita collettiva.

 

Gianpaolo Basile

La nostra compagna musica

La musica è ovunque.
La sua fruibilità grazie ai servizi streaming, Youtube, Soundcloud è diventata facilissima, l’ascoltiamo nelle cuffie, al pc, col cellulare, alla radio.
Ci viene servita, senza poterci opporre, anche nei locali, nei negozi, dove il suo valore viene svilito, è un rumore di sottofondo non più un piacere per la nostra anima e mente.
Il facile accesso ha portato negli ultimi anni ad un fenomeno quasi opposto, si è riscoperto il vinile.
Chi li acquista (o più facilmente recupera quelli dei genitori) decide di ritagliare del tempo per la musica, che perde quella funzione di compagna per le attività della giornata e diventa la protagonista del momento.
Si pulisce il piatto, si sistema LP, la puntina si posiziona sulla superficie e via: la magia inizia.

https://www.youtube.com/watch?v=bX0Ynv6fEO4

La musica è così parte del nostro essere umani che è strano fermarsi a pensare “cosa significa per noi”, ne beneficiamo in modi diversi ed ineffabili per compierne una disamina. Gli stessi musicisti hanno difficoltà a definire il loro lavoro, il perché, anzi alcuni la ritengono una domanda sciocca.
La musica è immortale, è vitale per l’umanità come l’acqua da bere.
La canzone nel momento in cui l’ascoltiamo la facciamo nostra, diviene parte di noi, ci parla e le conferiamo una interpretazione.
Il musicista ci racconta una sua esperienza, una sua idea ma non ci impone una lettura obbligata.
È un amico che ci dice implicitamente “guarda che non sei solo, non sei l’unico a pensare/provare ciò”.

Jimmy Page in una intervista alla BBC racconta la genesi di Starway to Heaven “L’idea di Stairway to Heaven era quella di avere un pezzo di musica, una canzone che si sarebbe dovuta sviluppare su più strati e dovesse andare a coinvolgere diversi stati d’animo. Tutta l’intensità e la finezza dovevano servire per dare spinta al brano sotto ogni punto di vista, sia quello emozionale che musicale. Per questo la canzone continua ad aprire e ad esplorare un certo tipo di schemi”.

L’ascolto di un intero album dalla prima canzone all’ultima ti trasporta in una altra storia, vita, tramite la concatenazione che c’è fra un brano e l’altro, i riferimenti impliciti nei testi.
I musicisti creano una relazione intensa con chi sceglie la loro musica,  nelle esibizioni dal vivo più che mai, dove è la capacità dell’artista di connettersi all’auditorium ad avere funzione principale.
Io lo reputo un gesto volontario di mettersi completamente a disposizione del pubblico, di farsi conoscere veramente da loro. I concerti sono condivisione e connessione fra gli spettatori e fra questi e il performer.
Guardate il video di seguito, come sono sbigottiti gli spettatori durante la performance di Janis Joplin all’ormai storico Monterey Pop nel 1967.

https://www.youtube.com/watch?v=Bld_-7gzJ-o

Peter Gabriel sostiene che la musica, la conoscenza anche teorica di questa, sia una “cassetta degli attrezzi per le emozioni”.
In effetti a seconda dei diversi momenti della nostra vita, noi ritorniamo, scopriamo canzoni che ci permettono di affrontare, comprende e sublimare i nostri sentimenti. Spesso abbatte le barriere che abbiamo creato dentro e fuori di noi.
Luca Sofri il direttore de Il Post in un suo articolo “Leccanzòni” ha scritto una frase sulla musica che mi è rimasta impressa più di mille canzoni

Forse non si esportano. La musica non cambia il mondo, come dicono in molti: la musica è il mondo. Il bicchiere mezzo pieno del mondo.

La musica è un riparo inviolabile, è mettersi in contatto con sé e col resto del mondo. Dalla notte dei tempi è la compagna dell’umanità.
Che la musica ci travolga che è il migliore terapia per la nostra anima.

 

Arianna De Arcangelis

4 marzo

A meno di una settimana dal 4 marzo, la domanda che molti si pongono è: chi votare? Gran bel quesito. 

Di certo non sarò io, confusa ventiduenne, a dirvi chi, in questa giungla politica, sia meritevole di un voto. Però, posso dirvi che avvalersi di informazioni che vanno oltre le proposte del caldo periodo pre-elezioni, serve. 

In questi giorni si parla, e anche tanto, ma solo di quelle che sembrano semplicemente promesse da campagna elettorale, riassumibili in delle proposte sociali che non richiedono competenza. Così, c’è chi suggerisce il rimpatrio di migliaia di clandestini (senza parlare dei costi del ”rientro in patria”); c’è chi sostiene l’abolizione di tasse universitarie (una proposta che andrebbe ad agevolare solo i figli dei ricchi); c’è chi dice di abolire la legge Fornero (senza sapere che ciò porterebbe ad un buco di 350 miliardi di euro da qui fino al 2060). 

Direte: come è possibile affidare l’Italia a gente che non sa nemmeno di cosa parla? A politici che si gonfiano la bocca per ergersi su castelli di sabbia!? 

Eccoci, quindi, arrivati a questo bivio elettorale, nella strada di chi dice assolutamente sì e di chi asserisce assolutamente no; di chi sostiene una cosa e chi un’altra, in questa biforcazione dissestata di sole parole e di inconsapevolezza nei fatti. 

Che poi, l’Italia è biforcata da quella frattura tra partiti di sinistra e partiti di destra, scissa tra quelli che vogliono fermare il processo di integrazione e quelli che vogliono rafforzarlo.  

E infondo che politica è questa? Canticchiando Giorgio Gaber siamo arrivati al punto in cui ”ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra?”, o, probabilmente, lo siamo sempre stati. 

L’Italia è un paradosso, riassumibile persino in una canzone o, forse, due: mi viene in mente quel pezzo di Ghali che fa cambiano i ministri ma non la minestra”. Ed in effetti i politici si avvicendano e le idee sembrano proporre rivoluzionarie realtà, ma alla fine dei conti ogni cosa rimane statica e uguale al passato. 

Mentre scrivo continuo a chiedermi: chi voto?  

E alla fine, alea iacta est: so chi non voto. 

Io non voto quelli che vogliono il cambiamento del mondo però poi tengono in ”vita” le province; quelli che elogiano la sobrietà comodamente seduti in villa di proprietà a Capalbioquei comici che fanno i politici e quei politici che comici lo sono.
Io non voto chi ha migliorato l’ambiente, l’occupazione e la sicurezza VISIBILMENTE, tanto che l’Istat e i cittadini sono perfettamente d’accordo, no? Io non voto chi fa le manovre e non vuole che si parli al manovratore.  

E allora? Che ne resta, o cara Italia, del nostro diritto al voto? Forse resta ”il voto consapevole” o forse rimane il voto come un dovere nei confronti di una flebile speranza di risanamento.  

E nell’attesa, ‘muti pensando all’ultima
ora dell’uom fatale’. 

 

Jessica Cardullo

Siamo tutti un po’ fanatici. Siamo tutti un po’ altruisti

Quando c’è troppa carne al fuoco è sempre difficile scegliere quale pietanza assaggiare per prima.

Questo 2018 è iniziato inserendo tranquillamente la prima per poi mettere improvvisamente la quinta non appena il calendario ha segnato 1 Febbraio. Ci avete fatto caso? Con le elezioni sempre più vicine, il web ci bombarda di notizie ricche di opinioni discordanti e soluzioni vane, giusto per farci arrivare in cabina elettorale con gli attributi a terra e la testa immersa in nuvole dense come quelle che hanno coperto la città negli ultimi giorni.

Il lunedì, per la nostra redazione, è fondamentalmente il giorno dell’opinione, del pensiero che racchiude i momenti salienti che stiamo vivendo, raccontati da un punto di vista fresco, a volte goliardico, ma sicuramente di chi non ha un “futuro sicuro”. Ed escludendo la politica, escludendo Sanremo che anche quest’anno ce lo siamo tolto, escludendo il proliferare delle condivisioni di canzoni di Faber subito dopo il film – ma non erano tutti fissati con la trap? Da quando questa passione per il cantautorato? -, ed escludendo le solite lamentele di Messina, su Messina, perché Messina (BAAASTAAAAAA!! Aggiornate lo Zanichelli, abbiate pazienza signori miei): di che parlo?

Alchè qualcuno che segue la mia vita con pozioni magiche, ha ben deciso di mandarmi un segnale divino, per non impazzire in piena sessione d’esami (E HO DETTO TUTTO). Durante la scorsa settimana, in uno di quei giorni che passano esattamente come quelli precedenti (in cui la cognizione del tempo la si ha solo “grazie” al countdown per il giorno dell’esame, yu-hu) mia madre, tornando da lavoro, mi ha posto un quesito << Secondo te sono una persona fanatica? >> ed io, con la mia atrofizzazione mentale, le ho chiesto << In che senso? Non hai fissazioni >> e mi ha fatto leggere un passo di un libro che non conoscevo:

“Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. […] Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall’errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato” – Contro il fanatismo, Amos Oz

L’avevate mai notato? Avete mai dato questo significato alla parola fanatismo? Capita spesso di dire <<Quell* è un fanatico di … non parla d’altro!>> vedendo questo modo di fare con un’accezione negativa. E non è del tutto sbagliato. Secondo Oz la volontà di aiutare gli altri è propria dei fanatici come una forma deviata di altruismo. Nessuno pensa all’altruismo con degli aspetti che potrebbero diventare nocivi per la società, eppure dobbiamo ammettere che ogni cosa ha i suoi pro ed i suoi contro. Persino il “fare del bene”. L’autore spiega anche che il fanatismo è un bisogno di appartenere a qualcosa, esso si riscontra con la tendenza ad omologarsi, a “difendere” un ideale in apparenza supremo, che è seguito dalla massa, e si cerca in qualsiasi modo di iniettarlo nella mente di chi non lo segue.

Fanatismo – Unknown Artist, 2018

Perché ci riguarda? L’introduzione che ho fatto sembra una supercazzola. In realtà quelli che ho elencato sono atteggiamenti di fanatici, che ci portano a regredire noi stessi o, nel peggiore dei casi, a provare una totale indifferenza nei confronti del nostro ecosistema, di quel che ci sta intorno divenendo copie, di chissà cosa, fatte male. E nel nostro piccolo siamo tutti un po’ fanatici, per sentirci apprezzati, per sentirci utili, per dire la nostra senza ascoltare appieno gli altri – che gli altri, in fondo, siamo sempre noi – . Ciò che va contro il fanatismo è il mettersi nei panni dell’altro, vedere il punto di vista del prossimo. Lo scontro eterno insito nella natura umana è quello tra fanatismo e pragmatismo, tra fanatismo e tolleranza, tra fanatismo e pluralismo. Non ci sono un buono ed un cattivo, ci sono solo due mondi opposti in continua lotta per la supremazia. “La storia ci insegna” – qualcuno direbbe “Ma che ci insegna?” – che le creature dell’universo, forse inconsciamente, hanno sempre proiettato il proprio antagonismo ed il proprio protagonismo nella vita di tutti i giorni. Il progresso ha solo cambiato i mezzi.

Non è mia intenzione fare morale o dispensare saggezza, cambiarvi la vita o migliorarvela…no, in quel caso sarei una fanatica che ha ben poco da insegnare. Vorrei solo darvi uno spunto di riflessione, poi sta a voi decidere se prenderlo o lasciarlo tra queste parole.

<< Stefa’, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi. Allora invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci… con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro… O no? >> –  Jep Gambardella, La grande bellezza

 

Giulia Greco

 

Femminismo non è una cattiva parola

Ho una maglietta che dice “Femminismo non è una cattiva parola”. 
C’è stato un momento della mia vita in cui però l’ho pensato e come me, credo qualche altra ragazza. I ragazzi che incontravo, gli amici, anche qualche amica, quando mi apostrofavano “sei una femminista: è ovvio che dici così” “si seccherà perché è una femminista convinta” mi avevano gettata nello sconforto, quasi convincendomi di essere nel torto.
Non c’era cattiveria in loro, ma il dubbio si era fatto strada nella mia mente. Fortunatamente il periodo adolescenziale è durato pochissimo, i pensieri per me innaturali sono lontani e io sono felice delle convinzioni che si sono imposte e soprattutto di quelle nuove.

Le parole sono potenti, il bisogno umano di definire le cose fisiche e non è impellente, e le parole vengono utilizzare con accezioni differenti, nel caso di “femminista” intesa come “la donna arrabbiata”.
Abbiamo superato il periodo in cui per femminista era intesa una donna che rivendicava la parità fra i sessi e l’emancipazione della donna. Oggi l’ambito è molto più ampio, mantenerci radicati ad una definizione con il mondo che cambia quotidianamente è illusorio.
Io credo che questo sia il momento più bello per essere un/una femminista.
Siamo collegati da una necessità di cambiamento nella visione sociale dell’essere umano femminile e non solo.
Oggi si tratta di vederci come esseri umani e di essere trattati con la stessa dignità.

Il movimento “Women’s march” in USA ha avuto un fortissimo impatto mediatico e politico. Le donne in USA oggi si stanno presentando, in numeri mai visti, per le elezioni politiche che vanno dai seggi locali a quelli del senato.
Qui in Italia il movimento “Non una di meno” ha prodotto “Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere.” .
Laura Boldrini ha riempito la Camera di donne giorno 25 novembre per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Questi non devono essere eventi sporadici nel nostro paese, le Camere dovrebbero avere una percentuale maggiore di donne sedute. Donne competenti si intende, come d’altronde deve essere per gli uomini.
Rendermi conto che solo 12 anni fa è stato varato il dlgs. confluito poi nel Codice delle pari opportunità uomo donna mi ha infastidito e scoraggiata ma il cambiamento sta soffiando anche qui.

 

Quando ad ottobre 2017 si è scatenata la bufera Weinstein, ero scettica sull’effetto mediatico che avrebbe avuto in Italia ma subito è stato rimpiazzato da una forte rabbia per il modo in cui Asia Argento è stata trattata ed apostrofata.
Perché Asia Argento è una donna come tante, per alcuni indicata come fortunata sotto l’aspetto economico-sociale, ma è una donna in primis che ha subito quello che molte, moltissime altre italiane subiscono quotidianamente.
Mi ha fatto arrabbiare il fatto che alcune donne l’abbiano criticata e le sue colleghe non l’abbiano sostenuta come è successo invece con Rose McGowan, Annabella Sciorra, Rosanna Arquette (la lista è veramente lunga).
E se gli italiani storcono il naso perché si tratta di questioni “contaminate” dagli stranieri, ci sono le testimonianze di diverse donne che lavoravano per “Non è la Rai”  che a 16/17 anni si sono ritrovate sbattute contro una porta, usate come regalo per figli di politici, le agenzie che le prostituivano (perché questo facevano). Sapere che dietro certi ingegni c’erano alcune volte altre donne sdegna e irrita.
E coloro che si rifiutavano vedevano troncate le proprie carriere “hai ancora il rossetto? Non ti vedremo più cara.”.
Le donne dello spettacolo oggi sono i portavoce più potenti insieme ai politici.
In Italia è necessario che il dialogo sia quotidiano e forte, siamo un paese che ha memoria corta.
Asia Argento ha rotto il “glass ceiling” del silenzio in Italia una volta per tutte.

 

https://www.youtube.com/watch?v=VtUWs6muGzg

 

Io sono nata in una famiglia che non ha mai limitato le mie azioni perché femmina ma soprattutto sono cresciuta con una tribù di amiche che mi hanno sempre spalleggiato, se non fosse stato per loro alcune volte non avrei nemmeno provato esperienze.
Sono la mia forza e la mia continua sfida e rappresentano tutto quello che i legami fra donne significano.

Sono una privilegiata in questo paese e in questa città, me ne sono resa conto da troppo poco e questo mi fa arrabbiare ancora di più, per non essermi “svegliata” prima.
Il tempo per questa sonnolenza è scaduto.
Fin da piccole siamo abituate a far finta di non sentire i commenti e i fischi, di fare attenzione la sera tornando a casa, arriva poi l’età in cui bisogna far fronte alle avances fastidiose sul luogo di lavoro da parte dei capi e colleghi. Dal clima scolastico si viene catapultate in questo.
Certo gli abusi sessuali sono ben diversi da quelle che sono avances, ciò non toglie che alcune situazioni siano sgradevoli.
Un mondo al quale ci siamo abituate non vuol dire che sia giusto.

L’altro giorno con un’amica discutevamo del fatto che un ragazzo avesse detto ad un’altra amica, riferendosi al suo abbigliamento che , parafrasando, “si era vestita apposta per far avvicinare i maschi”.
Le ragazze si vestono in primis per sé e anche se il fine fosse altro ciò non giustifica l’altro genere ad arrogarsi il diritto di essere fastidioso ed insistente quando si mostra il disinteresse. Non ho mai visto in vita mia una ragazza insistere nei confronti di un ragazzo o dirgli che si era sistemato per attirare “le femmine”.
Sono sicura di non essere l’unica ragazza che quando mette una maglietta un po’ più scollata nota gli sguardi altrui, anche l’atteggiamento. Mi ha portato ad un istintivo senso di pudore che con difficoltà abbandono.
L’abbigliamento è espressione di sé, non un’autorizzazione per gli altri ad agire liberamente.

Noi ragazze non abbiamo la stessa libertà di espressione nel definire i nostri desideri e voglie per il nostro piacere come i ragazzi. Ragazzi abbastanza lungimiranti, si rifiutano di sentirmi parlare di certi argomenti, che sono invece centro di conversazione fra loro dello stesso sesso. Se ne parla solo dal loro punto di vista ed esigenze. È un limite per entrambi per differenti motivi.

L’anno scorso ho scoperto Alba De Céspedes e la sua corrispondenza con Natalia Ginzburg sul “pozzo” in cui le donne cascano. Dialogo di qualche decennio fa che mai come oggi mi sembra attuale:

“pensavo che gli uomini lo avrebbero letto distrattamente, o con la loro vena di ironia, senza intuire l’accorata disperazione e il disperato vigore che è nelle tue parole, e avrebbero avuto una ragione di più per non capire le donne e spingerle ancora più spesso nel pozzo. Ma poi ho pensato che gli uomini dovrebbero infine tentare di capire tutti i problemi delle donne; come noi, da soli, siamo sempre disposte a tentare di capire i loro. […] del resto – tu non lo dici, ma certo lo pensi – sono sempre gli uomini a spingerci nel pozzo; magari senza volerlo.
Ti è mai accaduto di cadere nel pozzo a causa di una donna? Escludi naturalmente le donne che potrebbero farci soffrire a causa di un uomo, e vedrai che, se vuoi essere sincera, devi rispondere di no. Le donne possono farci cadere nell’ira, nella cattiveria, nell’invidia, ma non potranno mai farci cadere nel pozzo.
Anzi, poiché quando siamo nel pozzo noi accogliamo tutta la sofferenza umana che è fatta , prevalentemente, dalla sofferenza delle donne, siamo benevole con loro, comprensive, affettuose.
Ogni donna è pronta ad accogliere e consolare un’altra donna che è caduta nel pozzo: anche se è una nemica […] uomini a spingerci nel pozzo. I figli pure sono uomini, e i fratelli, i padri; ed essi tutti con le loro parole, e più ancora con i loro silenzi, ci incoraggiano a cadere nel pozzo smemorante ove loro non possono raggiungerci e noi possiamo esser sole con noi stesse”

Ero totalmente ignorante di questa scrittrice italo-cubana e della sua vita incredibile. La persona che me l’ha fatta scoprire l’ha conosciuta grazie al corso di studi in Lettere e filosofia.
Perché in Italia il sistema scolastico non ci fa studiare queste fini penne e menti? Alle due citate possiamo aggiungere Goliarda Sapienza, Sibilla Aleramo e Giovanna Cecchi d’Amico, sceneggiatrice di moltissimi film (Il gattopardo, Ladri di biciclette, Bellissima, Rocco e i suoi fratelli giusto per nominarne un paio).
La scuola è il luogo dove ci formiamo culturalmente , è il luogo che avrà più influenza sulle nostre persone oltre la famiglia. È il luogo in cui si creano anche i legami di amicizia che ci si porterà dietro accomunando persone affini.
È qui che la conoscenza del pensiero femminile dovrebbe avere accesso, non solo all’università.
Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” notava proprio questa mancanza, con la storia inventata della sorella di Shakespeare.
È la cultura a fare la differenza nella percezione dell’altro.

Siamo il paese in cui la presidente della camera è una donna, di Emma Bonino, Concita De Gregorio, Dacia Maraini, Susanna Camusso ed Emma Mercegaglia, personalità notevoli nei diversi campi di espressione.
Ma siamo anche il paese di Lucia Annibali, Gessica Notaro, Serafina Strano, Sara Dipietrantonio e delle 84 donne uccise in 9 mesi, 8.480 denunce stalking, 3mila violenze sessuali nel 2017.

Il femminismo è solidarietà, accoglienza e supporto.
Gli slogan sono utili, per la chiarezza del messaggio, e le persone che si fanno portavoce ancora di più perché infondono coraggio.
Non siamo tutte Malala ma siamo donne e abbiamo il diritto di dire la nostra e fare il possibile. Anche gli uomini.
Si tratta della nostra crescita come popolo, “ci colpiamo noi mamme” mi ha detto una signora tempo fa. In parte, ci colpiamo noi figli se con il nostro intelletto e volontà non cambiamo questa condizione.
Il cambiamento non sarà immediato si agisce sempre per il futuro.
In questo flusso di parole spero troviate almeno una verità, affermazione a voi vicina che instilli in voi il desiderio del cambiamento e far comune questa battaglia.
Dialogo per raccogliere più opinioni possibili e conseguente azione per non scadere nella ostentazione di buoni propositi.

The Times They Are a-Changin’ non sono gli anni ’60, ma sono tempi di rivoluzione.

 

Arianna De Arcangelis

Arm in arm con la solitudine

”La società non esiste, esistono gli individui” Margaret Thatcher, 1988. 

  

I malati abbandonati in corsia; gli anziani senza posti letto, i pazienti morenti in pronto soccorso: sono solo alcuni segni del preoccupante quadro clinico che mostra la profonda crisi del Regno Unito. 

L’atmosfera ospedaliera è lo specchio della depressione e dell’abbandono in cui la società britannica si riflette; è il cordone sanitario infetto a cui si rimane legati. 

La premier britannica, Theresa May, ha così deciso nominare un minister for Loneliness, per affrontare quella che definisce ‘la triste realtà della vita moderna’. Il ruolo sarà ricoperto da Tracey Crouchche, onorata, ha spiegato la sua strategia contro l’isolamento sociale e che creerà un indicatore per misurare la solitudine delle persone.  

 

Se negli anni del capitalismo la solitudine era sinonimo di libertà, il XXI secolo, friabile e cagionevole, trasforma la solitudine in malattia 

L’uomo moderno, infatti, soffre di quel frutto avvelenato del progresso. 

Le città sono trafficate; i palazzi sono pieni di appartamenti; le scuole, le università sono frequentate da eserciti di studenti; le autostrade sono intasate; le stazioni, gli aeroporti, sempre affollati. Viviamo nei nonluoghi di Marc Augè – spazi comuni transitori di individualismo solitario – in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione. 

Si è sempre così pieni attorno, ma alla fine si è vuoti dentro. 

Si è sempre circondati dalla ”folla” in qualsiasi momento della giornata, in qualsiasi posto, a qualsiasi età. 

E, intanto, paradossalmente, la solitudine aumenta, si trasforma in un grido soffocato, silenzioso, che si apostrofa contro la gente, altrettanto sorda quanto muta. 

La solitudine diventa un contrasto alla società così piena di oggi e si manifesta non fisicamente, ma mentalmente: ciascuno è talmente preso da se stesso, dai ritmi insostenibili della modernità, dai tristi riti del consumismo da non riuscire più a comunicare con gli altri. 

Si è sempre così soli da affidarsi addirittura al proprio smartphone per colmare il vuoto che la società odierna è come se ci imponesse di vivere; si è sempre così soli da non capire quanto lo si è veramente e quanto avremmo bisogno di sentirci pieni dentro e non fuori. 

Forse la May ha letto Pavese ( o forse no), ma ha sicuramente capito che il vero problema della vita di oggi è questo: capire come rompere la propria solitudine e come comunicare con gli altri. 

 

Jessica Cardullo 

“Quer pasticciaccio brutto” del quartiere Avignone

Ha scosso l’opinione pubblica la notizia, risalente ormai dadiversi giorni fa, della demolizione di un palazzo residenziale risalente circa al finire del ‘700, situato nei pressi della via Cesare Battisti, in quello che, nella toponomastica della città pre-terremoto, era il Quartiere Avignone. Questo antico quartiere, conosciuto nell’800 come uno dei più poveri e disagiati della città di Messina (non a caso punto di partenza della predicazione e delle opere caritatevoli di padre Annibale Maria di Francia), pare essere destinato periodicamente a tornare al centro di controversie accanite: e di fatto, la notizia di cui sopra ha aperto un autentico vaso di Pandora, scatenando tante e tali reazioni confuse e confusionarie da creare un inestricabile groviglio, un “pasticciaccio brutto” degno forse della penna di Carlo Emilio Gadda (da cui l’improvvida citazione del titolo, della quale ci scusiamo col defunto scrittore), e nel quale risulta difficile fare chiarezza.

Ci proviamo, senza nessuna pretesa, solo per dare l’idea ai lettori meno informati. Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio, le ruspe entrano in azione distruggendo ciò che resta del palazzo; vengono interrotte successivamente dall’intervento della polizia municipale. Alcune ore dopo, l’Assessore all’Urbanistica De Cola comunica, in una nota, le sue perplessità circa l’accaduto: le demolizioni sarebbero state infatti intraprese senza che il Comune di Messina le avesse autorizzate, come testimoniato dall’assenza, sul sito dei lavori, del regolare cartello. Interviene anche la Soprintendenza, disponendo il blocco dei lavori che sarebbero avvenuti senza che ne fosse data comunicazione. Dulcis in fundo, il giorno successivo arrivano le caustiche dichiarazioni del neoassessore regionale Vittorio Sgarbi, il quale tuona, dall’alto della sua autorità, di aver “cacciato” il soprintendente di Messina, reo di non aver vincolato il palazzo in questione. Da precisare che il soprintendente non è stato cacciato (né del resto sarebbe possibile, in così poco tempo),e che lo stesso Sgarbi ha successivamente corretto il tiro dicendo che non c’è stata nessuna rimozione dall’incarico per il funzionario, e che sarebbero invece stati inviati degli ispettori per indagare sull’accaduto.

 

Va anche specificato a scopo di chiarezza che il palazzo in questione è da tempo al centro di una
disputa giudiziaria, che vede coinvolti da un lato i proprietari dell’immobile e dall’altro quelli dei
terreni circostanti, per cui la sua demolizione sarebbe già stata disposta dai magistrati per
questioni di sicurezza.
Pare oltretutto che la demolizione in questione fosse tutt’altro che una sorpresa: era stata
preventivata già nel 2013 da una ditta edilizia messinese, che avrebbe dovuto costruire, al posto
dell’edificio storico, un grande palazzo a 22 piani (comprendente tra l’altro nel progetto una
ricostruzione per anastilosi della facciata originale).

Tali lavori sarebbero stati regolarmente autorizzati dalla Soprintendenza (!), a patto appunto di
preservare la facciata originale e di effettuare la debita comunicazione per tempo all’inizio delle
demolizioni: cosa, quest’ultima, che pare non essere avvenuta giorno 8, da cui il blocco dei lavori.
Da precisare oltretutto che i lavori sono stati approvati da un Soprintendente diverso da quello
attuale, il che rende dunque la boutade di Sgarbi del tutto inopportuna. Il progetto in questione,
approvato come già detto dalla Soprintendenza nel 2013, aveva trovato l’opposizione della
passata amministrazione comunale; la ditta aveva quindi fatto ricorso al TAR lo stesso anno, ma il
Comune non si era presentato.

Alla luce dei fatti dunque, la questione della demolizione, priva di quel carattere di “scandalo” che
tanta stampa locale non ha esitato a darle, diventa dunque una sorta di disastro annunciato,
assistito e passivamente lasciato accadere; e i suoi risvolti si colorano di tinte quasi grottesche, da
teatro dell’assurdo.
Ma se all’assurdità lo spettatore della cronaca messinese dovrebbe forse (purtroppo) essere
abituato, quella che colpisce è l’ipocrisia malcelata dei tanti indignati della prima ora: gente che
fino al giorno prima probabilmente ignorava addirittura l’esistenza di questo piccolo angolo di
Messina storica che è andato in polvere, gente che non ha mosso né fatto muovere un dito per la sua valorizzazione o il suo restauro (e lo testimoniano le condizioni di totale abbandono in cui
l’immobile versava prima della demolizione), adesso è in prima fila a strapparsi le vesti e piangere
sul latte versato.

Tutti pronti ad ergersi a paladini del patrimonio culturale messinese, ma solo
quando si tratta di lamentarne la perdita; quando si tratta di conservarlo, difenderlo, farlo
conoscere, rivendicarne l’appartenenza a nome dell’intera comunità messinese, al solito nessuno
si presenta. E se John Lennon cantava, in una sua canzone, che “tutti ti amano, quando sei sei
piedi sotto terra”, allora è forse vero che a Messina bisogna attendere che la Storia muoia, prima di
trovare qualcuno che la ami.

Gianpaolo Basile

Non perché, ma come

“Per molto meno, nei secoli scorsi, scoppiavano guerre e rivolte popolari”. Così D’Amico della Gazzetta del Sud la settimana scorsa chiudeva un articolo riguardo l’isolamento e l’arretratezza in cui verte la Città di Messina.

Fondata come colonia greca col nome di Zancle e poi Messana, la città raggiunse l’apice della sua grandezza fra il tardo medioevo e la metà del XVII secolo, periodo in cui contendeva a Palermo il ruolo di capitale siciliana.

Il nome originario Zancle deriva forse dalla forma a falce della penisola di S. Raineri, la quale oltre ad aver stimolato l’immaginazione dei greci attribuendone l’origine al momento in cui Cronos (padre di Zeus) tentò di scacciare dal trono il padre Urano evirandolo con una falce poi lasciata cadere proprio nello stretto, ha costituito un porto naturale che fu alla base dello sviluppo della colonia greca.

Lo stesso che oggi è snodo fondamentale per le imbarcazioni che solcano il mediterraneo e che nel 2016 è stato il primo porto italiano per traffico passeggeri (250mila in più di Napoli). Considerazioni che poco sembrano interessare alla politica nazionale, la quale toglie a Messina la sede dell’Autorità Portuale e poi la lascia fuori dal fondo di 1 miliardo e 397 milioni di euro destinati alle linee metropolitane e filoviarie delle Città metropolitane e altre città.

Sembra quasi ci sia la volontà di punire ed umiliare ogni volta questa splendida città privandola di tutto, spesso anche di diritti fondamentali. La continuità territoriale, in questa zona così cruciale della geografia italiana, viene negata dallo Stato italiano dato il progressivo rincaro dei biglietti aerei per l’Isola da parte delle compagnie aeree, l’assenza di un’alta velocità ferroviaria (per non dire di treni e binari) insieme alle penose condizioni della Messina-Catania il cui versante peloritano non è stato sistemato nemmeno con la venuta del G7 (Tchamp piss no uor).

Caro voli denunciato nei giorni scorsi ancora una volta dall’associazione “Fuori di Me” con il report annuale, da cui si evince un incremento costante dei biglietti aerei per le tratte che servono la nostra zona con picchi sotto Natale a 603 euro per una A/R sulla tratta Linate-Catania. «Come evidenziato dall’ultimo bilancio demografico – sottolinea l’ex presidente dell’associazione Roberto Saglimbeni –, la città di Messina ha subito una perdita pari a 5000 abitanti (-2,2%) solo negli ultimi cinque anni. È quindi ovvio che c’è una sempre più forte esigenza di collegamenti efficienti, soprattutto aerei».

Una realtà quella del fuorisede messinese che cresce quotidianamente, come attestano i dati Istat pubblicati quest’estate sui quotidiani locali secondo cui Quattromila 20enni hanno lasciato Messina dal 2008 ad oggi. Insomma uno stillicidio di giovani più che una fuga di cervelli. Talenti che devono brillare altrove pur essendo nati e cresciuti qui come il chimico-fisico di 25 anni recentemente intervistato da IlFattoQuotidiano.it Fabrizio Creazzo che dopo la tesi magistrale alla Sorbona ha ottenuto il finanziamento del suo PhD sul carburante ecologico del futuro alla Université Paris-Saclay e Ecole Polytechnique. Dopo un 110 e lode in Fisica all’UniMe Fabio è partito per svoltare la sua situazione economica e professionale come si legge nell’articolo del quotidiano nazionale:

“Io vengo dal Sud ma nonostante ciò, con fatica e sacrifici, ho potuto realizzare la mia tesi magistrale in fisica, con il massimo dei voti, all’Università della Sorbona e ottenere un completo finanziamento da un laboratori d’eccellenza per realizzare il mio PhD sempre in Francia”. Ma non solo: in questi pochi anni di vita parigina Fabrizio ha potuto pubblicare ben tre articoli scientifici, conoscere gli esperti mondiali del suo ambito di lavoro e diventare membro del comitato editoriale di una rivista scientifica a soli 25 anni. “E sono partito da Messina. Tutto questo in Italia sarebbe stato impensabile”.

Tutto ciò potrebbe suonare come un commiserare ripetitivo, una lamentela, di quella che è la situazione attuale, ma ciò che deve spaventare davvero è l’assordante silenzio della classe dirigente locale. L’assenza di politiche concrete che rendano Messina capace di richiamare ed attrarre a sé i più giovani, senza i quali questo posto non ha futuro.

Quando ero all’ultimo anno di Liceo, in occasione del 66^ anniversario della nascita della Regione Sicilia (2012), la mia scuola organizzò un incontro con l’autore del libro “I Siciliani” Gaetanno Savatteri, incontro al quale parteciparono anche l’allora sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca e l’allora assessore regionale alla cultura Mario Centorrino. Mi fu richiesto dal comitato organizzativo insieme ad altri compagni di scuola di porre una domanda allo scrittore. I miei coetanei fecero domande inerenti al libro, alla Sicilia ed alla Mafia, io pensai di andare un po’ fuori traccia. Così presa la parola mi rivolsi direttamente all’assessore regionale e chiesi come potessimo noi giovani una volta terminato il liceo costruirci un futuro rimanendo nella nostra terra. Era un professore distinto, molto pacato, e fu piacevole ascoltare la sua risposta sul perché fosse importante rimanere qui, ma una volta averlo lasciato terminare al microfono dissi: “assessore non le chiedo perché, ma come?”. Lui mi sorrise e fu così gentile da rispondermi che era possibile ma difficile. A distanza di cinque anni però, continuo a pormi la stessa domanda: “Non perché, ma come?”.

Alessio Gugliotta

Dedica di Gaetano Savatteri

 

Possiamo essere reali nella società del giudizio?

Qualche settimana fa sono andata al teatro Vittorio Emanuele, il quale ancora piano piano riesce a rimanere a galla con la selezione di spettacoli di tutto rispetto, come quello che ho scelto di vedere: “Performance” scritto ed interpretato da Virginia Raffaele.

Virginia Raffaele è attrice, comica, imitatrice, speaker radiofonica, conduttrice televisiva, e molto probabilmente sarà anche insegnante, estetista, avvocato, cuoca, commessa…insomma chi più ne ha più ne metta! In ogni sua veste è comunque magistrale: una show-girl a tutti gli effetti, con quel tocco di introspezione che la pone ai vertici nel contemporaneo panorama culturale italiano. Difatti, è riuscita a mantenere alta la concentrazione degli astanti in un clima di leggerezza, per tutta la durata dello spettacolo.
I personaggi si avvicendano tra monologhi esilaranti e dialoghi surreali con la vera Virginia Raffaele che, grazie ad un attento lavoro di regia, interagisce con le sue creature come una sorta di narratore involontario che poeticamente svela il suo “essere – o non essere”. Oltre le risate, ogni personaggio ritrae una sfaccettatura della nostra società, di chi siamo e di ciò che ci circonda. Vengono messe a nudo queste donne che mostrano le ossessioni che ci siamo creati e alle quali siamo ormai assoggettati.

Senza l’intento di recensire lo spettacolo, voglio concentrarmi sulle riflessioni che sono sorte subito dopo: la Raffaele ha esordito con un suo personaggio (la criminologa Roberta Bruzzone) che denigrava l’immagine reale dell’attrice; ha dato una voce rilevante ad un soggetto inventato ricalcando un’autoironia fuori dal comune e soprattutto ha messo a tacere chi, nel descriverla, ripete sempre le stesse cantilene: “deve essere se stessa”, “non ha identità”, “è una persona debole”.
La prima frase che mi è venuta in mente è stata “Quanno un giudice punta er dito contro un povero fesso, nella mano strigne artre tre dita, che indicano se stesso” (Il bar della rabbia – Mannarino).
Chi realmente ha un’identità totalmente stabile, forte, immobile? È nella natura dell’uomo, il cambiamento è la sua costante, perché prendersela tanto? Tutti siamo diversi in ogni situazione della nostra vita: con i genitori siamo in un modo, con i colleghi in un altro, con gli amici in un altro ancora, è difficile poterci riconoscere appieno. Inizialmente questo pensiero mi è parso triste, ricolmo del pessimismo cosmico di Giacomino. Ma riflettendoci con serenità, e accettando questa realtà, ho constatato che va bene così, fa parte di questa esistenza. Non serve credere agli aforismi che troviamo ogni giorno sulla timeline di ogni social, non siamo parole, siamo esseri umani. “Sii te stesso” – per i più “be yourself” – vorrei sapere a quale me stessa dovrei fare riferimento. E no, qui non si tratta di disturbo dissociativo dell’identità o borderline della personalità, qui ci concentriamo solamente sul conoscere se stessi, γνῶθι σεαυτόν ricordando i nostri cugini greci, e non essere se stessi. Conoscendoci riusciamo a sentirci a nostro agio in ogni situazione, in ogni veste che le circostanze ci chiedono di indossare; studiandoci riusciamo ad ottenere un contatto con il nostro io profondo per vestire la nostra autenticità.

Incontrandola subito dopo lo spettacolo l’ho ringraziata: l’ho ringraziata di essere reale perché non vuole essere un solo personaggio nel mondo dello spettacolo, non ne ha bisogno, non vuole avere una maschera che la identifichi, lei ha la possibilità e le capacità di essere se stessa più di quanto si possa credere, ha il via libera per conoscersi senza doversi nascondere (come purtroppo, spesso, accade). Virginia Raffaele è reale perché riesce a dar voce ai personaggi reali, dicendo ciò che loro vorrebbero dire ma non possono, raccontando con irriverenza, ironia e caparbietà il loro drammi, che sono un po’ di tutti.

E si chiude il sipario.

 

Giulia  Greco