Pillola rossa o pillola blu?

Giugno 2020, ci muoviamo sicuri su un palcoscenico post-apocalittico.

Fieri e soddisfatti per la libertà restituita, camminiamo sorridenti sul cumulo di macerie lasciato dalle esplosioni della Covid-19, dallo Stato di Polizia e da un preannunciato crollo dell’economia occidentale.

La tempesta perfetta ci è scivolata addosso.

Tout est pardonné”, parafrasando la famosa frase di Charlie Hebdo: dopo aver vissuto il peggio possiamo sopportare tutto.

Abbiamo perdonato le scelte di governo, abbiamo accettato i presidi fissi di polizia, abbiamo accettato di vivere così, come si può.

Le epidemie globali potrebbero essere il sogno dello Stato autoritario, certo, vi invito però a non sottovalutare la potenza della rassegnazione.

La polarizzazione tra governanti e governati sta toccando vette mai raggiunte, ringrazia i cittadini per aver posato le spade e, come un padrone magnanimo, dispensa consigli dal retrogusto di imposizioni.

Come tutti, sono rimasto molto colpito dalla tragedia di George Floyd; ma l’elemento d’interesse della mia riflessione non è stata l’efferatezza del crimine, quanto la reazione popolare. Per giorni abbiamo sentito (e ahimè, commentato) le rivolte popolari avvenute in svariate città degli USA. Che si difenda il diritto della vittima o l’autoritas della divisa non si può negare la risposta dei cittadini.

Le violenze, i roghi, le morti, hanno distolto il nostro sguardo da un evento che ha un’enorme rilevanza: giuste o sbagliate, quelle azioni hanno portato a qualcosa.

Stop alla stretta al collo, tagli netti ai fondi delle forze dell’ordine e demilitarizzazione dei centri urbani: sono alcuni dei topic (in parte già votati dal Consiglio di Minneapolis) che in modo indiretto rimettono in discussione il valore della libertà.

Il dibattito diventa molto interessante se confrontato alla political agenda italiana.

Il bel paese risponde ai problemi con la vecchia formula proibizionismo–repressione, un mantra che implicitamente mette in mostra tutta l’incapacità della classe governante. “Non sono capace di risolvere, quindi vieto” è il succo dei vari provvedimenti emanati negli ultimi giorni.

Su questo trend il Sindaco della città di Messina firma (di nuovo) l’ordinanza “coprifuoco” che costringe ancora una volta i cittadini a vivere come “consigliato”.

Questa volta il capro espiatorio sono i “temibili” ubriachi, mostri mitologici mezzi uomo e mezzi degrado urbano, combattuti dalle eroiche forze dell’ordine.

Il rintocco dell’1.30 guida la carica delle forze di polizia che, a sirene spiegate, volano per la città in cerca dei malviventi della fase 3: gli imprenditori della notte.

Intimano la chiusura e invitano gli avventori (questi reietti) a tornare a casa ripristinando l’ordine ed il sacro silenzio della notte, sinfonia della vittoria del potente.

La libertà è un diritto ottriato, è tua ma ringrazia per il regalo. Esercitala come si deve – come dico io – altrimenti te la toglieremo, dimostra di essere degno.

14 Maggio 1932, “We want beer parade”

Che sia un pensiero di Destra o di Sinistra poco importa, ciò che conta è la svalutazione dell’essere umano considerato incapace di vivere e scegliere per sé.

I più colpiti sono senza dubbio gli under 30, quella fetta di popolazione considerata dai governatori un peso, una massa informe da controllare a vista. Quelli che vivono una situazione economicamente penosa, le cui famiglie vivono nel settimo paese più tassato al mondo (2019), le cui prospettive di vita sono state fortemente minate da scelte di governo poco oculate. Quelli a cui hanno già tolto il diritto di sognare, quelli a cui stanno togliendo il diritto di divertirsi.

La reazione popolare americana ci insegna che possiamo aprire un dibattito esprimendo il nostro malcontento. Anche chinare il capo di fronte alla negazione del diritto dell’utenza alla città è un male per la democrazia.

Potrebbe sembrare un invito all’anarchia, in realtà non c’è cosa più distante dal mio discorso. Quello che preoccupa è la cieca obbedienza, la rassegnazione e il silenzio della minoranza. Il senso di impotenza a cui sono state condannate quelle generazioni che dovrebbero lanciarsi nel mondo del lavoro e porre rimedio agli errori fatti nel corso degli anni da chi, oggi, sostiene ancora di avere la formula magica per la ripresa della nazione.

Come sempre, anche oggi, ci troviamo di fronte un bivio. Possiamo decidere di percorrere la strada dell’abnegazione o possiamo legittimarci nel tentativo disperato di rimettere la situazione in equilibrio, ritrovando interesse nella politica e nel dibattito per dare un’ultima chance al nostro paese.

Se così non sarà inevitabilmente continueremo a scegliere l’opzione “exit”, andremo via, lavoreremo fuori lontano dalle nostre origini per tornarci poche settimane d’estate. Soffriremo, feriti da un paese che non ci ha mai voluto, ma alla lunga soffrirà più la povera Italia la nostra mancanza.

Davide Pedelì

L’Erasmus ai tempi del Coronavirus

Due settimane. Sono appena trascorse le mie prime due settimane di esperienza Erasmus. Mi sento in un vortice di emozioni, sensazioni. È tutto nuovo, e allo stesso tempo conosciuto, come se avessi dato conferma alle “fantasticherie” che hanno preceduto la partenza. Si, è inevitabile riempirsi di domande, e di paure. Diceva mia nonna <<quando lasci la strada vecchia per la nuova, sai quello che lasci e non sai quello che trovi>>.
Eh beh, per l’Erasmus è proprio vero: tutti coloro che l’hanno vissuto possono dispensare consigli e pareri, ma fino a quando non ci si è dentro non esiste un vero termine di paragone. È un’esperienza personale, faccia a faccia con se stessi ed il mondo. Poi, aggiungiamoci un’epidemia che minaccia l’intera popolazione globale ed il quadretto di “Erasmus unico nel suo genere” si completa. Il Coronavirus non lascia indietro nessuno, ed anche l’Agenzia Erasmus+ INDIRE ha comunicato che per le mobilità degli alunni, degli studenti e dello staff, che operano negli ambiti dell’istruzione scolastica, dell’istruzione superiore e dell’educazione degli adulti, nell’ambito del programma Erasmus+ potrà applicarsi il principio di “causa di forza maggiore”. Sarà possibile richiedere all’Agenzia Nazionale, nelle forme e con le modalità che saranno successivamente comunicate, di applicare la clausola di “forza maggiore”, relativamente alle attività e ai costi per tutte quelle mobilità che vengano annullate in ragione della situazione di emergenza e dei provvedimenti delle competenti autorità. Qui presente il Vademecum per la gestione di_progetti_Ereasmus+:Gioventu_e Corpo europeo di solidarietà – Emergenza COVID_19 

Sono partita per la mia esperienza il 23 febbraio verso la Nazione che mi avrebbe ospitato. Attualmente, infatti, mi trovo a Maribor, in Slovenia, in cui, se tutto va bene, dovrò trascorrere i prossimi quasi 5 mesi prima delle vacanze estive. Facendo due calcoli, noterete che sono “fuggita” giusto in tempo, quando il focolaio era distante da me ma la sua forza espansiva era più forte del previsto, tanto che nel giro di pochissimi giorni integralmente il Bel Paese si è bloccato. Coloro che sono partiti dopo di me sono stati messi in quarantena, soprattutto i provenienti dall’Italia. Una quarantena un po’ sui generis comunque, non dovuta né ad una negligenza del Paese Sloveno – il quale si è mobilitato immediatamente ad installare in ogni dove, senza nemmeno accorgersene, disinfettanti ed igienizzanti – ma forse dovuta alle caratteristiche del virus che principalmente attacca anziani e adulti, quindi gli under 25 sono stati poco salvaguardati senza ricorrere al tampone. È vero anche che ancora i casi presenti nel territorio sloveno, nonostante la stretta vicinanza con il nord Italia, si limitano a due anch’essi isolati e tenuti sotto controllo.

Ironica è la situazione creatasi per le condizioni meteorologiche che hanno attaccato gli studenti di ogni nazionalità con raffreddori, tossi, lievi stati febbrili e mal di gola. Il panico è dilagato in un secondo. Tra qualche risata volta a camuffare la preoccupazione interiore, abbiamo svaligiato le farmacie ed iniziato a scambiarci farmaci con costanti aggiornamenti dei nostri medici che in Italia non hanno più gli occhi per piangere. Fortunatamente, come anticipato, lo stato influenzale generale è stato principalmente dovuto ai costanti sbalzi termici che abbiamo incontrato (15 gradi, il giorno dopo neve con -2 gradi, pioggia, di nuovo sole) solo chi abituato a queste temperature si è fatto una grossa risata per smorzare l’occhio sinistro che naturalmente si faceva ad ogni colpo di tosse

I luoghi comuni vengono sfruttati per rompere il ghiaccio il più delle volte: se prima all’estero Italia = Mafia, oggi è Italia = Coronavirus. E se Erasmus è l’acronimo di EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Student dal 1987 ha definito la parola “globalizzazione” anche per gli under 30, il 2020 vorrebbe tutto tranne che ulteriori spostamenti. L’università ospitante, infatti, seguendo le direttive europee ed internazionali, ha inviato una mail a tutti gli studenti in mobilità indicando i luoghi più critici (italiani e non) consigliando di non spostarsi dalla propria abitazione se non si sentono bene, di informare immediatamente i propri coordinatori, mettere al corrente della propria condizione il proprio medico e di contattare immediatamente il numero di emergenza evitando trasporti pubblici. Nota più importante a fine mail: se si ha la necessità di ritornare nelle zone critiche, non è permesso rientrare per continuare la propria mobilità.

 

Veduta della Piramida innevata, Maribor, Slovenia – Febbraio 2020

Come per chi è bloccato in Lombardia, anche io non posso “né scendere né salire”. Il gruppo italiano si sente un po’ in esilio dalla patria, quasi il desiderio di rientrare si è intensificato: tutti i propri cari si trovano in una situazione di estrema emergenza e noi che, per coincidenze, ci troviamo in questo momento lontani, abbiamo un enorme punto interrogativo sopra la testa. C’è chi già programmava l’arrivo di genitori e fidanzat*, chi voleva visitare anche qualche zona del nord italia più vicina adesso che quando si sta nell’isola sicula. Certo, non possiamo né dobbiamo lamentarci, al contrario, forse, dovremmo sentirci fortunati di avere scampato per poco il pericolo, ma come per tutti non sappiamo come continuerà questa matassa che si aggroviglia sempre più.

Per ulteriori aggiornamenti il servizio informativo Viaggiare Sicuri del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale fornisce informazioni online costantemente aggiornate sui singoli Paesi. All’indirizzo http://www.viaggiaresicuri.it/find-country sono disponibili una Scheda Informativa e un Avviso in evidenza aggiornati sulla situazione corrente in ogni Paese nel mondo. È consigliato controllare il sito anche poco prima della partenza, all’indirizzo http://www.viaggiaresicuri.it/aggiornamenti. È inoltre utile, prima di partire, che i cittadini italiani registrino il proprio viaggio sul sito www.dovesiamonelmondo.it .

 

 

Giulia Greco

Odi et amo Messina, una casa che sta stretta

Se mi venisse chiesto come definirei la terra di cui sono originaria, la Sicilia, unitamente alla mia città natale, cioè Messina, risponderei proprio citando i versi di una canzone popolare abruzzese che nell’immaginario collettivo si attribuisce di solito alla versione più nota rivisitata da Modugnoio vado via. Amara terra mia, amara e bella. Ho sempre interpretato queste parole un po’ come un appello, un composto grido di denuncia di un fenomeno che coinvolge tutti coloro che non si sentono più rappresentati dal luogo in cui si è nati e cresciuti e dove per natura si tenderebbe a restare. Può un luogo rivelarsi amaro e bello allo stesso tempo? Se sì, perché?

©RobertoInterdonato, libreria di Heidelberg, 2019

In effetti può sembrare paradossale, eppure è indice di ciò che riguarda una realtà, quella del sud e di Messina, che attanaglia centinaia di cittadini decisi a lasciarsela alle spalle, per costruire più dignitosamente la propria vita altrove. Ormai non se ne fa mistero, e i telegiornali, i programmi televisivi e le testate giornalistiche nazionali, al meridione e al settentrione, ne parlano frequentemente. Ognuno dice la sua, tra polemiche, punti di vista, giudizi, critiche più o meno costruttive. Ciò che al di là di tutto e senza dubbio non è edificante è stare in silenzio. Occorre riflettere, e non smettere mai di confrontarsi, sperando di smuovere le coscienze e scuotere gli animi di chi ha più potere rispetto all’autrice di questo articolo, per contribuire a cambiare le cose.

Sulla scia, tra l’altro non programmata, di due precedenti editoriali redatti dai miei colleghi Alessio Gugliotta e Giulia Greco, proseguo la digressione sul tema, come fosse un fil rouge, che evidentemente non capita a caso. Questo dibattere comune è sintomo di un disagio esteso in modo capillare nella generazione dei cosiddetti millennials. Senza alcuna intenzione di sfociare nella retorica, è arrivato anche per me il momento giusto di pubblicare i pensieri che annoto, raccolgo e conservo da quattro anni, e che sento il dovere morale di pubblicare in occasione del mio ultimo editoriale: una personalissima lettera d’addio che indirizzo a chiunque nelle mie parole possa ritrovarsi traendone ispirazione e conforto, ma anche a chi in tutta libertà voglia assumere una posizione diversa e contraria, che invito a manifestare e motivare. Dare risalto ad argomenti che risulteranno “scomodi” per alcuni non mi turba.

Un pretesto che mi ha fornito lo spunto per questo editoriale è stato l’argomento scelto per la seconda edizione del TEDxCapoPeloro dal titolo “Casa: Equilibrio tra radici e desideri”. Essendo molto sensibile alla tematica, ho voluto partecipare con motivazione all’evento, che si è tenuto il 23 novembre scorso. La locandina reca un approfondimento: “Cosa vuol dire casa nel 2019? Cosa vuol dire casa quando si vive in un posto dove è più facile partire anziché restare? La casa come luogo degli affetti, del quotidiano e del lavoro. La casa come elemento naturale da rispettare, preservare e proteggere. Una casa che garantisca al tempo stesso protezione, sicurezza, comfort e benessere. Casa negata e casa da inventare, costruire e immaginare. Spesso altrove, a volte in un luogo che solo dopo anni riesci a chiamare casa. Qual è la casa che ci aspetta? Esiste già la casa che abiteremo? La casa è un luogo fisico o solo il nostro posto nel mondo?”.

©CristinaGeraci, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Non appena ho scoperto che la tematica sarebbe stata affrontata in questo modo, mi sono sentita subito in sintonia con le idee che intendevo destinare all’editoriale, e mi sono ripromessa che avrei fatto menzione del TEDxCapoPeloro, come ulteriore elemento a supporto delle mie teorie. Così come auspicato dagli organizzatori, l’evento riesce nei suoi intenti. Apprezzo lo storytelling proprio perché stupisce, emoziona, e fa riflettere. In particolare, è il talk di Carmelo Isgrò a suggerirmi input stimolanti. Il biologo messinese dall’esperienza professionale eclettica ed eterogenea, rende poliedrico anche il significato del termine “casa”. Lo fa partendo dalla definizione di “casa”, e rendendosi conto che è un concetto che cambia a seconda delle specie di esseri viventi che abitano un determinato tipo di spazio. Lo speaker giunge anche alla conclusione che agli occhi dell’uomo stesso, “casa” ha concezioni molto relative. E se ci pensiamo bene, è proprio vero. Forse si tende a dare per scontato o a sottovalutare la declinazione di “casa”, senza accorgersi che mai come nel secolo attuale, la sua accezione è diventata invece sempre più labile, instabile, precaria.

Proprio avantieri ho letto che i koala sono una specie a rischio di estinzione a causa, tra le altre, della perdita del loro habitat naturale e dei cambiamenti climatici. Un habitat quindi può diventare inospitale, nel momento in cui vengono meno le condizioni minime necessarie per far vivere un certo tipo di soggetti che lo popolano. Quello dei koala e di altri animali è un caso estremo che purtroppo accade, anche per colpa dell’uomo, ma di questo passo ci andremo vicini anche noi esseri umani se continuiamo a maltrattare l’unica nostra vera casa: il pianeta, di cui siamo ormai più parassiti che graditi ospiti. Ma restringiamo il cerchio a Messina e proviamo a capire perché sono partita da così tanto lontano per spiegare il termine “casa”.

Da quando ho conseguito il diploma di scuola superiore ho avviato un percorso di crescita costituito da molte esperienze positive, alcune rinunce, una manciata di scelte sofferte e anche errori. Ora che di tempo ne è passato, posso fare un bilancio analizzando il presente con nuovi occhi, adesso più consapevoli, maturi e lucidi. In quattro anni, ogni volta che ho lamentato le condizioni in cui versa Messina – occupa da anni gli ultimi posti nella classifica delle città italiane per qualità della vita, oltre a essere definita la città più disoccupata d’Italia sulla Gazzetta del Sud e in emergenza di disoccupazione su MessinaToday – mi è stato detto e ho letto di tutto. Tra capri espiatori e colpevoli, si addossa la responsabilità della crisi del mezzogiorno, in particolare di Messina in questo caso, un po’ a tutto: alla mentalità dei messinesi, all’immigrazione, alla mafia, alla politica (che spesso corrisponde alla precedente), al fatto che il nord si arricchisce attraverso il sud e ne mina la crescita avallandone l’arretratezza. Segue chi individua una cattiva amministrazione del turismo, chi afferma che in fondo “a Messina non c’è nenti”, e chi più ne ha più ne metta.

©GiusyBoccalatte, Imperial War Museum, Londra, 2014

Tra dichiarazioni fondate e altre più discutibili, quando palesavo la mia voglia di andarmene dalla falce della Sicilia, alcuni mi rispondevano: “ma chi te lo fa fare? Almeno laureati qui”, oppure “criticare ciò che non va ma desiderare di lasciare Messina è da incoerenti, perché equivale a non avere il coraggio di restare per cercare di cambiare le cose”. Ammetto che quest’ultimo commento mi ha sempre infastidita, alimentando sensi di colpa e giudizi che come catene hanno anche se parzialmente contribuito a ritardare e rimandare la mia partenza. Poi un giorno mi sono svegliata, stanca più mentalmente che fisicamente, e come folgorata da un’illuminazione ho capito: quando di possibilità te ne dai e se ne danno troppe a un luogo, non vivi più, ma sopravvivi soltanto. È inevitabile che poi arrivi il momento in cui senti l’esigenza impellente di dare una svolta alla tua vita, scartando tutto ciò che non ti fa più stare bene, perché a prescindere che il problema possa anche essere la tua crisi identitaria e qualsiasi parte del mondo potrebbe non andarti bene, percepisci che qualcosa dove ti trovi adesso non funziona più, e che abiti un posto che non senti più casa tua e che ti sta stretto.

©CristinaGeraci, Francesco Biacca, TEDxCapoPeloro, Messina, 23 novembre 2019

Sono giovane e ho sicuramente tanto da imparare ancora e di cui essere davvero sicura, ma ho una certezza: Messina non mi rende più felice. La posizione geografica privilegiata in cui sorge non è più sufficiente. Il mare e le bellezze naturali che offre non mi bastano più, se ci si investe poco. Osservo alcune zone della città con sconcerto. Le vedo trascurate, povere di innovazione e di opportunità. Quando al mio ultimo anno di liceo, in letteratura inglese, mi sono imbattuta nello studio di “Gente di Dublino”, ho paragonato Messina alla capitale irlandese, al modo in cui Joyce la raccontava e descriveva come città paralizzata. Ecco, è così che vedo Messina adesso: statica, poco vivace, martoriata, sfruttata e rassegnata al suo destino. Mi sento appartenere a una categoria di altri miei coetanei che si alzano dal letto senza ricordare più un sogno, spenti, privi di speranza e fiducia in una politica losca e marcia, cancro di una terra in cui non c’è spazio per tutti, appannaggio di pochi e a favore di coloro che sempre hanno avuto e sempre avranno, a volte gli stessi che lasciano Messina e il sud più per moda che per necessità di affermarsi onestamente.

Forse mi verrà detto che non mi so accontentare, che non mi so adattare, e che avrei avuto comunque la voglia di esplorare il mondo e formarmi altrove, anche se Messina fosse stata migliore. Probabilmente è vero. Per mia personalità avrei sicuramente cercato un posto più conforme ai miei interessi e al mio stile di vita, e infatti è un altro tra i motivi che mi spinge a fare le valigie piene di tutto ciò che ho vissuto fino ad adesso e che mi servirà, per sradicare le radici da Messina, trasformarle in ali, e poi piantare nuove radici nei posti in cui andrò. Le mie prime radici però non verranno mai dimenticate. Non è mia intenzione rinnegarle o vergognarmene. Ma saranno conservate più nel mio cuore e nella mia mente. Tendere al cosmopolitismo non significa vantarsi di aver viaggiato in modo meramente turistico in mille posti del mondo, bensì vuol dire vivere quei posti apprezzandone le differenze culturali e vedendole come occasione per capire il proprio ruolo nel mondo e sviluppare una cittadinanza attiva. Non si fa peccato a sentire di abitare il mondo più che una casa singola.

©GiusyBoccalatte, Wild Duck, Dublino, 2019

La mia curiosità e il mio carattere spigliato e intraprendente mi hanno sempre agevolata e spinta a cogliere tutte le possibilità di viaggio di varia durata che mi si sono presentate fino ad oggi, realizzate prevalentemente grazie a progetti associativi e convenzioni, oltre che all’aiuto della mia famiglia. Non si tratta di nulla di eccezionale, nulla di lussuoso, nulla da ostentare. Per me non erano vacanze, ma viaggi di scoperta che mi hanno consentito di farmi portatrice della mia nazionalità e della mia Messina, senza annullarla, ma cercando di capire nuovi punti di vista che potessero allargare i miei orizzonti e rendere la mia mentalità più elastica e sostenibile. Ho seminato tante case tanti quanti sono i posti che ho visitato. Ritrovo casa in tutti quei posti dove ho lasciato pezzi di me e pezzi di cuore, che ho colmato con tutto ciò che la gente di quei luoghi e che quei luoghi stessi mi hanno donato.

A ogni ritorno, mi sono sentita straniera in quella che prima ritenevo essere la mia unica casa, fino a scoprire di trovarmi forse nel posto sbagliato per me, che non mi lascia esprimere come vorrei, che non sempre tira fuori il meglio di me, e che soffoca le mie ambizioni. I sogni non devono essere calpestati, quindi forse bisogna piantarli in un terreno più fertile per coltivarli. I koala purtroppo non hanno più le condizioni favorevoli per vivere, e forse potrebbe non esserci possibilità di salvezza per loro. Noi uomini, pur causando un male che danneggia l’intero ecosistema, siamo più fortunati e possiamo spostarci. C’è chi direbbe che le rivoluzioni si fanno restando a casa propria. Io dico invece che la vera rivoluzione è cambiare sé stessi, in qualsiasi posto, e riscoprirsi per conoscere meglio sé stessi e il mondo. Solo a questo punto i cambiamenti possono avvenire più facilmente, e magari, tornando un giorno nella propria casa natale, portare la propria esperienza per migliorare le cose.

 

Giusy Boccalatte

Fonte dell’immagine in evidenza: Daniele Passaro

 

Muri d’odio – ieri e oggi

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, nuovi confini e chilometri di filo spinato dividono continuamente il mondo; sono barriere fisiche o ancora immateriali. 

La notte di Berlino 

15 Giugno 1961. Riecheggiano nitide le parole di Walter Ulbricht, presidente del consiglio di Stato della DDR – “Nessuno ha intenzione di costruire un muro” – alle porte di Brandeburgo. 

13 Agosto 1961. Data simbolo della costruzione del muro che per 28 anni dividerà una città in due, separerà famiglie, affetti; le sue fondamenta sono nient’altro che la bassezza degli interessi politici. 

Il buio e il freddo calano su Berlino in una notte lunga come quei 155 km dai quali non sembra oltrepassare un alito di vento: il filo spinato, le torri di guardia, i fossati, i campi minati, i bunker inaspriscono l’aspetto già crudele di un recinto che vuole sottolineare la prigionia. 

Se è stata sufficiente una notte per costruire la Grande Muraglia della Germania, è stata altrettanto sufficiente una notte per abbatterla. 

9 Novembre 1989. Il rumore della moralità, della speranza abbattono la costruzione dell’oppressione di un popolo: il muro di Berlino cade, diventando esempio della libertà oltre le barriere imposte. 

 

I muri di oggi 

Se trent’anni fa si contavano 16 muri – con la caduta di quello di Berlino – oggi gli studiosi ne contano circa 77. Paradossale, no? Lo avreste mai detto, ad oggi, in questa nostra società che sproloquia tanto la cosiddetta ‘’globalizzazione’’? 

Tra Ungheria e Serbia, tra Ucraina e Russia, tra Corea del Nord e Corea del Sud, tra Turchia e Iran, tra Stati Uniti e Messico; in Palestina erge un ‘’muro di prigione’’ che circonda Gerusalemme. 

Muri come barriere oltre la dignità, oltre la tolleranza, oltre l’umanità. I muri di cemento di oggi vedono la loro progettazione nei cardini della paura dello sconosciuto, del potere di chi può attraversarli ghettizzando la popolazione confinata. 

 

Muri oltre la geografia 

Dimentichiamoci, se pur possibile, delle barriere presenti sulla nostra cartina geografica e pensiamo a quali altri muri – oggi, tutti i giorni – ergiamo o da cui veniamo emarginati. 

Sono i muri costruiti dalle parole che diciamo, che giudicano, che allontanano e, perché no – volendo usare un ossimoro- abbattono le persone costruendo fortezze inespugnabili di insicurezza e solitudine. 

Ci sono i muri mediatici, quelli di informazione e di comunicazione che alimentano ignoranza, individualismo e i soliti muri dei potenti che silenziano spesso la realtà per impedire crescita e consapevolezza. 

 

Ma a somme fatte: a cosa servono realmente questi muri? La risposta è semplice: a niente. 

I muri – geografici e interumani- non hanno mai risolto un problema, ma hanno solo alimentato odio e discriminazione; hanno tolto e tolgono aria e libertà, incentivando lo smarrimento. 

I muri, le barriere, le parole che si innalzano come limiti possono spaventare, ma mai spegnere sogni e speranza. 

 

Jessica Cardullo

 

Se rimani non giudichi, se te ne vai non giudichi

Una delle poche certezze che ha Messina è la retorica di fine estate. C’è sempre il poeta polemico di turno, la scrittrice nostalgica, lo zio d’America che sentenzia, sul finir di Agosto. Molte testate dello Stretto hanno preso questa abitudine – noi forse l’abbiamo addirittura iniziata questa tradizione – di pubblicare le lettere “rendiconto” delle condizioni e delle sensazioni che si provano quando si ritorna e si parte da Messina. 
Quando si supera la soglia dei 30 giorni di permanenza in quel di Zancle, scatta l’impellente necessità delle parole di farsi spazio tra le dita.

Premetto che questo filo narrante di analisi di critica costruttiva riguardo i movimenti migratori dal Sud non era stato deciso ma si è creato da solo: già da Settembre avevo in mente di affrontare tale argomento dal punto di vista “interno”, mentre il mio collega Alessio Gugliotta, penna dell’editoriale precedente, ha riportato nero su bianco dati rilevanti e critici della nostra attuale comunità, senza esserci messi d’accordo.

Che il mio discorso non venga travisato perché riconosco esserci tanti, troppi punti di vista: chi voglio affrontare sono quei cittadini che rimangono ma puntano il dito senza fare distinzione, sostenendo che tutti coloro che se ne sono andati siano deboli. Le ragioni dell’emigrazione sono diverse e personali, chi si permette di giudicare chi rimane sbaglia, sopratutto se ha avuto l’opportunità di andarsene senza la necessità di farlo, e viceversa chi rimane pur avendo la possibilità di andarsene ma preferisce giudicare come moralmente scorretto chi riempie la valigia. Questa forma di bullismo antiquata e sempre più ancorata nel dilagante malcontento generale che sconvolge i rapporti sociali, alimenta l’aggressiva reazione di una parte di nazione che viene illusa continuamente come se fosse drogata. Ed il primo punto di riflessione che sorge spontaneo è: quanto noi giovani meridionali subiamo e soffriamo le condizioni precarie offerte dalla nostra terra? I punti di vista sono infiniti, e più che opinioni sono critiche elevate a giudizi supremi che vanno in netto contrasto tra loro.

Partendo da chi sceglie di rimanere: mi chiedo perché chi rimane è meglio di chi se ne va? L’assunto incontestabile che ognuno è artefice del proprio destino nel momento in cui prende una decisione deve essere il sottofondo di lettura di questa opinione, cari lettori.

Ho notato che chi continua a vivere al Sud è sinonimo di chi crede nel territorio, di chi non abbandona le radici, di chi lotta, di chi ha sani principi. Sono quelli del “nonostante tutto”, del “il problema non è la mia città ma i cittadini, le istituzioni”, del “io amo la mia cittàslogan che ormai hanno perso identità. Come in questa lettera l’autrice sente la necessità di dire la sua che lievemente sfocia nell’accento sulla mancata valorizzazione del territorio. Io stessa mi sono ritrovata a scrivere qualcosa su quello che di buono c’è, che può aiutarci a vivere armoniosamente un luogo indipendente e selvaggio, ma la dura verità che noi non accetteremo mai è che viviamo una terra che sta implodendo e continuerà  fino a quando non si inizierà a fare fronte comune.

Non è giusto che io mi debba sentire in colpa perché sono figlio del mondo e come tale voglio conoscerlo. Se la mia colpa è quella di scegliere di essere chi non posso essere dove sono nato, devo obbligarmi ad essere chi non sono perché altrimenti sono un disertore delle radici?

Perché deve essere visto come una sconfitta andarsene? Siamo figli di questa terra, cittadini del mondo e come tali abbiamo l’obbligo morale di conoscerlo, visitarlo, esprimere il meglio di noi stessi attraverso la conoscenza del nostro ecosistema, un luogo che stiamo pian piano distruggendo a causa di una radicalizzazione controproducente. Tutte le buone intenzioni si trasformano in ipocrisia. É una croce per tutti il prendere una valigia e partire senza sapere come andrà, con la consapevolezza che quel biglietto di andata non avrà un ritorno. 

La più grande paura dei “terroni” è il cambiamento, un cambiamento che perde di significato nel momento il cui viene bloccato in tutti i modi. Si ne sono consapevole, subiamo ingiustizie e vessazioni solo per il fatto di essere nati in un punto geograficamente troppo ricco per poter essere appieno sfruttato, è un territorio scomodo per il Mangiafuoco di turno. 

Forse c’è troppa carne sulla brace, ma ciò che vorrei “mangiaste” è solo l’atteggiamento supponente e presuntuoso che ognuno di noi ha nei confronti di novità che vediamo solo dall’esterno o che, peggio, influenziamo con le nostre esperienze elevandoli a concetti supremi. 

Il confronto è le fondamenta di una comunità che vuole crescere, migliorarsi e cambiare ciò che di male c’è. 

Proprio ieri su Repubblica di Bari è stata pubblicata questa pillola 

https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/11/02/foto/murales-240066470/1/#1 

L’opera artistica dello street artist Daniele Geniale è stata realizzata e dedicata a chi è costretto a lasciare la propria terra per ragioni di lavoro, e solo loro riconoscono il motivo della coraggiosa decisione. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte La Repubblica, Bari

 

Giulia Greco

Andrea Camilleri, l’uomo dietro Montalbano

 

«Se potessi, vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio ‘cunto’, passare tra il pubblico con la coppola in mano».  

A. Camilleri

 

 

E’ davvero arrivato alla fine del suo cunto Andrea Camilleri, dopo una vita passata a raccontare storie; non sarà davvero passato con la coppola in mano tra il pubblico, ma non ce n’è bisogno, il successo della sua opera è ridondante, immenso.

Tutti conoscono il papà del Commissario Montalbano, i suoi libri sono stati tradotti in tutto il mondo, eppure l’autore siciliano faticò, non poco, ad entrare nel mercato librario.

Tra il suo esordio letterario, Il corso delle cose (1978) e il primo Montalbanoci furono tanti altri romanzi non sempre troppo fortunati.

Poi nel 1994 venne pubblicato La forma dell’acqua; per la prima volta viene presentato Salvo Montalbano, il commissario della siciliana Vigata, città di fantasia, ma descritta così bene che potrebbe esistere davvero.

Il successo questa volta arriva impetuoso e viene suggellato dalla creazione della serie televisiva Il commissario Montalbano, interpretata da Luca Zingaretti.

27 in totale le avventure del commissario che, pagina dopo pagina, puntata dopo puntata, diventa una persona familiare, un amico.

Questo è proprio uno dei tanti punti di forza di Montalbano: la caratterizzazione meticolosa non solo del protagonista, ma anche di tutti i personaggi secondari.

Sono tante e tutte diverse le storie vissute dal commissario, ma legate tra loro da un comune filo conduttore che tranquillizza il pubblico, lo protegge dall’inaspettato.

 

A rendere unici ‘i Camilleri’ è sicuramente la forte sicilianità che emanano.

La loro lingua è inconfondibile, un insieme di termini italiani e dialettali che diventano propri anche del vocabolario di chi, siciliano non è.

Ma che fine farà Montalbano ora che il suo creatore ci ha lasciati? Camilleri ha dichiarato di aver già scritto la conclusione dieci anni fa. Il commissario sparirà, senza morire. Dove è custodito il ‘prezioso manoscritto’ contenente la fine delle peripezie di Salvo? Niente casseforti, semplicemente in un cassetto dell’autore!

C’è chi  ha affermato, muovendo una sorta di critica, che non è stato Camilleri a creare Montalbano bensì Montalbano a creare Camilleri. Forse è in parte vero ciò? Non fosse stato per il Commissario, il grande pubblico avrebbe conosciuto e apprezzato così tanto un intellettuale di tale livello?

 

Camilleri ha raggiunto il grande successo ormai da anziano, ma da sempre dedicò la sua vita alla scrittura, al raccontare. Mosse alcuni passi nel mondo del cinema, poi i tanti anni in Rai e infine l’approdo alla scrittura.

In un’età in cui gli uomini si fermano a ‘tirar le somme’, lui ci regalò il meglio della sua arte.

Un successo maturo quindi il suo, che comunque non lo cambiò. D’altronde come affermava sempre, “il successo ti assicura solo un po’ più di serenità per scrivere”.

E lui scrisse, sempre.

Anche quando l’età avanzò inesorabilmente e offuscò i suoi occhi. Il diventar cieco non fu un ostacolo insormontabile, anzi lui stesso ci ironizzò su in una delle ultime interviste rilasciate:

 

«La cecità mi ha reso libero. Non devo più vedere la mia faccia da imbecille».

 

 

Il maestro ci ha lasciato il 17 giugno scorso, all’età di 93 anni. Ciò che ci ha trasmesso invece non ci lascerà mai: un patrimonio culturale immenso, tante lezioni di umanità e libertà.

 

«Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre, possono trasformarsi in pallottole. Bisogna pesare ogni parola che si dice e far cessare questo vento dell’odio, che è veramente atroce. Lo si sente palpabile attorno a noi».

 

 

Benedetta Sisinni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La “scelta” della felicità!

“Cosa vuoi fare da grande?”
Quante volte ci hanno fatto questa domanda? Cento volte!? Forse duecento!? Diciamo anche mille!
Quando questo quesito ci veniva posto da bambini, la maggior parte di noi iniziava ad elencare i lavori più disparati: dal calciatore alla ballerina, dall’avvocato alla maestra, dal dottore alla modella, e moltissi altri.
Tuttavia, c’era sempre un bambino che non diceva che lavoro volesse fare da grande, ma semplicemente diceva: “Voglio essere felice!”

Questa è la frase che riassume al meglio lo scopo dell’esistenza umana.
Un’esistenza che, citando Arthur Schopenhauer, può essere paragonata ad un pendolo che oscilla incessantemente tra la noia e il dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia (che tristezza Arthur!).
E sono proprio questi intervalli che l’uomo, fin dagli arbori, ricerca durante la sua vita. Seguendo la dottrina dell’eudemonismo, che considera la felicità come principio naturale della vita umana e assegna a questa il compito di raggiugere tale stato d’animo.

L’importanza che viene attribuita a questa emozione così complessa, ma indispensabile nella nostra vita, è così tanta che essa viene celebrata in una giornata ben precisa, il 20 marzo. Infatti, in questo giorno, l’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha istituito nel 2012 la Giornata Internazionale della Felicità, per promuovere tale sentimento e il benessere, sia mentale che fisico, di tutta la popolazione mondiale.
Inoltre, la felicità è talmente rilevante, ed alla base dei principi morali dell’uomo, da essere stata inserita, dai padri fondatori, nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, con queste parole: “[…] tutti gli uomini sono stati creati uguali, essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità ”.

Ma che cos’è la felicità?
Certamente, ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si sarà posto questa domanda, si sarà chiesto cosa sia realmente questo stato d’animo, e cosa ci rende felici.
Se cerchiamo in internet, la definizione che troveremo reciterà: “La felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti i propri desideri. L’esperienza di gioia, contentezza e benessere positivo, unito alla sensazione che la propria vita sia buona, significativa e utile ”.

Però definire cos’è la felicità è più complesso di quel che crediamo.
Persino i più grandi filosofi ed i più grandi poeti si sono trovati in difficoltà nel descriverla con una semplice frase.
Tuttavia, alcuni di questi si sono soffermati sull’argomento esprimendo il loro pensiero.

Facendo un excursus storico, si possono citare le parole del filoso greco Epicuro.
Quest’ultimo affermò che la felicità è strettamente correlata al “piacere”, e che questo dovrebbe essere l’unico scopo a cui ogni azione dell’uomo dovrebbe tendere. Piacere inteso come il non patire dolore nel corpo e il non essere turbati nell’anima; quindi essere in salute ed in pace con se stessi.
Ma basta solo questo per essere felici? Certo che no!
La felicità non dipende solo dal non provare alcun tipo di dolore, perché si può essere infelici pur godendo di ottima salute.

Questa ha un significato molto più profondo e intimo.

Per capire bene cosa sia, ho chiesto ad alcuni miei colleghi ed amici cosa fosse per loro la felicità.
Ecco cosa hanno risposto:
-“Per me felicità è sinonimo di libertà. Non avere catene, poter scegliere liberamente, mostrarsi per ciò che si è”.
-“Felicità equivale a star bene con se stessi, bastare a se stessi”.
– “Riuscire a raggiungere e superare i propri limiti, migliorando giorno dopo giorno”.
– “La felicità è amare ed essere amati senza nessun freno, senza nessuna inibizione”.

Voglio soffermarmi un attimo su quest’ultima frase, e sottolineare che, anche se a volte cerchiamo di negarlo, non possiamo non ammettere che la felicità è strettamente correlata all’amore, in qualunque sua forma.
L’amore che porta alla felicità è, innanzitutto, l’amore per la vita; per le emozioni che essa ci fa provare, per le occasioni che ci dà, per le situazioni che ci fa affrontare, per i momenti che ci fa vivere, grazie ai quali cresciamo e maturiamo ogni giorno.

Questo rapporto di simbiosi tra amore e felicità può essere riassunto attraverso una celebre frase di Hermann Hesse: “Felice è chi sa amare“.
Felice è chiunque riesce a donare amore verso il proprio partner, la propria famiglia, i propri amici; senza chiedere nulla in cambio, senza nessuno scopo.
Soltanto con l’intenzione che questo amore così sincero, genuino, disinteressato, che viene dal cuore, riesca a rendere altrettanto felice chiunque lo riceva.

Ritornando alle risposte dei mie amici; queste sono solo alcune delle tante che ho ricevuto, e – com’è evidente – nessuna risulta uguale alle altre.
Ragion per cui mi sento in dovere di citare Aristotele, il più grande filosofo di tutti i tempi, che affermò: “La felicità dipende da noi stessi “; – e aggiungo io – dalle nostre azioni, dalle nostre reazioni, dai nostri pensieri, dal nostro modo di vedere e affrontare la vita.
Ed è per questo che ognuno di noi ha la propria idea di felicità, un’idea soggettiva, unica.

Perciò, definire con una frase “universale” cos’è la felicità è impossibile!

Tuttavia, credo che una definizione che metta tutti d’accordo esiste:                                                                  “La felicità si trova nelle piccole cose”.

Certo, sembra la solita frase fatta (una di quelle che si scrivono sui social per prendere più like possibili); ma se ci fermassimo un attimo a riflettere, capiremmo che questa è la pur verità.
Perché la felicità nasce ed è racchiusa in ogni piccolo gesto: – anche il più semplice e spontaneo – un sorriso ricambiato, un abbraccio inaspettato, un bacio rubato.
La si può trovare nel guardare un tramonto in riva al mare, nel sentire il tepore del sole sulla pelle e la brezza tra i capelli, la si può leggere nel sorriso di un bambino che scarta il regalo di compleanno, la si può scorgere nello sguardo fiero di una madre che guarda i propri figli,  la si può sentire nel suono di una risata, la si può vedere negli occhi della persona che amiamo.

La felicità è fatta di attimi unici, e sono proprio questi che la distinguono dalla normalità, danno senso alla nostra vita e fanno splendere la nostra anima.
Perché come dice Alex Hitchens (àlias Will Smith) nel film “Hitch”:
“[…] Il numero di respiri che fate in vita vostra è irrilevante, quello che conta veramente sono i momenti che il respiro ve lo tolgono ”.

E come afferma Roberto Benigni: “[…] Dobbiamo sempre pensare alla felicità. Se qualche volta essa si scorda di noi, noi non dobbiamo mai scordarci di lei, fino all’ultimo giorno della nostra vita ”.

Perciò, quando vi chiederanno, per l’ennesima volta, “Cosa vuoi fare da grande?
Fate come quel bambino all’inizio dell’articolo, rispondete sempre “Voglio essere felice!
Perchè la felicità è ovunque e in chiunque, basta saper coglierla, alimentarla, proteggerla, viverla!

 

                                                                                                                                                                                 Giuseppe Cannistrà

 

I nativi digitali e la lotta di supremazia dei millennials

Ascolto consigliato “Altrove” – Eugenio in via di gioia

Qualcuno disse “La storia si ripete”, ma la stessa storia potrebbe confondere se stessa con le sue bugie. Quello succede periodicamente ad intervalli indeterminati. Ad ondate ancora non ben delineate nell’universo spazio temporale.

Un po’ come in una classica puntata di Sex and the City, mi ritrovo nella stessa situazione di Carrie quando si metteva a scrivere: peccato non essere in quell’appartamento. In ogni caso la scena di me che prendo un sorso di caffè accanto al pc c’è. Agenda accanto c’è. Cose procrastinate da giorni pure.

Ricordo un pomeriggio di quelli che apprezzo vivere, perché ogni volta vivo qualcosa di nuovo. Chiacchieravo con una splendida ragazza, Lilly, di qualche anno più grande di me, che ci teneva a dirmi che ammira tanto le generazioni nate tra il 1994 e il 1999, i nativi digitali. Perché? Perché siamo la cavia di un passato incosciente e di un futuro aggressivo. Viviamo con la costante oppressione del posto fisso, della paura di dover superare i nostri limiti perché ci viene imposto, trascinando il peso di una crisi generazionale frammentata e mai ricomposta da una comunità statale che ha accantonato i disturbi patologici sofferti dai propri cittadini. Lilly mi ha ammesso con le mani in alto che la sua classe della fine degli anni Ottanta e inizi Novanta a volte si comporta con prepotenza nei nostri confronti, come chi vede i giovani una minaccia per il proprio futuro.

Facendo un passo indietro, è bene spiegare i termini “tecnici”: con nativi digitali si intendono quelle generazioni nate e cresciute con i nuovi sistemi tecnologici che sono appannaggio di tutti; i millennials sono invece tutti coloro nati dalla fine degli anni Settanta in poi.

La differenza, benchè semplice, è abissale nel loro rapporto con la società. I millennials sono figli del secondo boom economico, con genitori che hanno vissuto i nostri anni Sessanta, la rivoluzione 68ina e tutto ciò che ne è scaturito. Nel bene e nel male. Il problema è che questo boom economico li ha abituati bene, sono stati molto fortunati nella loro crescita, ma si sa i primi anni ’90 sono stati un fulmine a ciel sereno che ha fatto crollare quel muro di sogni che era stato costruito con tanta cura.
I nativi digitali, nella crisi esistenziale che ha colpito un’intera società, hanno affrontato le paure di genitori apprensivi e si affacciano su un futuro sempre più confusionario.

Il paternalismo particolarmente fastidioso delle generazioni precedenti mette in continua crisi chi è a cavallo tra passato e futuro globale. I millennials hanno una gamba appoggiata sul commodore 64 mentre l’altra la fanno vedere a mare con una tattica foto postata su Instagram. Due realtà di materialismo temporaneo con una difficile individuazione delle responsabilità. Lilly mi diceva che lei, come tutti i suoi amici, si sono cullati sugli allori, lasciando il grosso ai tech addicted. Forse perché avevano troppe aspettative sulle spalle difficili da realizzare nel contesto.

La generazione neo-adulta che vive il 21esimo secolo ha invece tante opportunità, invidiate da chi li precede, che frequentemente vengono stroncate da un “perché sì, è così.” In continua lotta tra ciò che hanno e cosa poterne costruire. I millennials accusano il colpo, e come tattica di difesa ripetono le stesse parole dei loro genitori allontanandosi dalla realtà e prendendone solo ciò che per loro è comunque conveniente. Attenzione: la mia non è una critica a nessuna generazione, ma un confronto diretto. E vi spiego perché: Il sociologo Christopher Lasch scriveva delle élite globali così

“Si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale, o una località turistica non ancora scoperta. La loro è essenzialmente una visione turistica del mondo”

e Mario Capanna, nel libro Lettera a mio figlio sul sessantotto, che

“I <<figli di Tangentopoli>> (tra i quindici e in ventiquattro anni) nati e cresciuti nel dilagare del rampantismo – gli anni Ottanta e Novanta – si distinguono per <<sfiducia nei confronti delle istituzioni>>, <<diffidenza verso il prossimo>>, <<disillusione riguardo il futuro>>, <<timore di fronte alle scelte e alle possibilità>> […] come se si svegliassero di colpo in un mondo ostile, senza colori e senza speranza”

La prima citazione, di Lasch, fu scritta nel 1995 e Mario Capanna pubblicò il libro nel 1998. In un primo momento avete pensato fossero attuali? Ebbene, più di vent’anni fa la storia era la stessa.

Due generazioni con le loro sfighe, che dell’appellativo “giovani” ne hanno fatto un mostro simile a Thanos (personaggio dei fumetti Marvel, ndr). Siamo in un loop adolescenziale che non ci permette di essere sereni, di vivere la nostra esistenza. Quindi, cari millennials, non abbiatecela con noi: anche voi siete stati giovani! Lo siete. Non è meglio ritenersi una risorsa al posto di essere influenzati dall’idea di essere un pericolo?

 

 

Giulia Greco

Pics credits: ©Giulia Greco

Immagine in evidenza: ©Laura La Rosa

 

 

L’illegalità di decidere per sé stesse 

 

I diritti. I nostri diritti. 

Sono lì, scritti ed assodati, scolpiti sulla pietra, intoccabili. 

Eppure – relationes docent – mai dare niente per scontato, nemmeno ciò che sembra così radicato nella nostra vita o nella nostra società. 

Francia – maggio 1968. La fondatrice del femminismo contemporaneo Simone De Beauvoir alza la voce a favore delle donne e pone l’accento su questioni scomode. Il 5 Aprile del 1971 LA donna del femminismo francese scrive il testo de “le manifeste des 343″, n cui 343 donne ammettono di aver avuto un aborto, esponendo sé stesse alle relative conseguenze penali. 

Italia – 22 maggio 1978. Trionfa Emma Bonino e la legge 194, un insieme di norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. 

Alabama – 15 maggio 2019. La governatrice Kay Ivey, retrocede nel medioevo dei diritti in quella che dovrebbe essere una società avanzata. Iquesto stato americano, infatti, vige adesso un incostituzionale divieto per cui l’aborto diventa illegale anche in condizioni di stupro ed incesto. La suddetta decisione, inoltre, viene proposta (e approvata) come una sorta di movimento pro life che si sostiene sui saldi pilastri della vita come dono dall’alto, un inaccettabile ossimoro di un paese in cui vale la pena di morte.  

Se la vita va difesa sempre, dal concepimento alla morte naturale, è ovvio il contrasto dell’essere contro l’aborto ma a favore della condanna a morte contemporaneamente. le contraddizioni sembrano non scomparire mai, essendo qui garantita la libertà di possedere armi con quello che ne consegue, di totale disprezzo della vita altrui. 

Le donne, il femminismo, la lotta per la PARITA’ DEI DIRITTI senza disuguaglianze, accompagnata dal potere decisionale ugualmente esercitato da donne e uomini, sembra voler essere calpestato da queste leggi rimarcanti l’impossibilità di una donna di decidere per sé stessa – o per il proprio corpo. 

 

A sostenere l’illegalità dell’interruzione della gravidanza, sono tantissimi paesi. Volendoci avvicinare alle nostre acque, ritroviamo l’arcipelago maltese, dove la maternità è qualcosa di sacro e quindi sostenuto ed inviolabile con questa pratica. 

Nel ciclone anti-aborto c’è anche la Polonia, dove ogni anno ci sono migliaia di interruzioni clandestine e dove sussiste un trasporto dagli stati confinanti di pillole abortive, in assoluta riservatezza. 

In Albania è legale, ma  purtroppo viene praticato anche quello selettivo, ovvero, in una società fortemente patriarcale, si pratica più spesso quando il feto è femmina. 

 

Diritti. I nostri diritti; quelli delle donne, che spesso sembrano schiacciati dal volere altrui, da menti retrograde e ingiuste. 

Per citare ancora Simone de Beauvoir, questa sosteneva che le donne devono scegliere la trascendenza, che niente è dato, niente è eterno e che anche la condizione più penalizzante e ingiusta è frutto delle nostre scelte.  

Nella nostra società, nella vita di tutti i giorni hanno tentato, tentano e tenteranno di limitare la libertà di noi donne, che è il presupposto della nostra esistenza. ‘’Trascendere i fatti dell’esistenza significa scegliere di non arrendersi alla propria condizione e partecipare al cambiamento del mondo. E questo non vale solo per le donne, ma per tutti gli esseri umani, che sono egualmente dotati di libertà’’. 

 

Jessica Cardullo

A qualcuno piace brutto

Una città che, seppur mostri segni di miglioramento, non perde mai l’occasione di perdere un’occasione.

Dopo tanti anni ce l’abbiamo fatta, è successo che Gugliotta ha citato se stesso! 
In alto la conclusione dell’editoriale Blu scompare da Bologna. Cosa è rimasto a Messina? pubblicato nell’aprile del 2016 dove denunciavamo le condizioni in cui verteva il meraviglioso murale di via Alessio Valore, vilipeso dal primo impunito che passa. Nonostante l’amministrazione Accorinti avesse speso parole rassicuranti nulla è cambiato, anzi, la situazione è degenerata. Nel settembre 2013 l’allora assessore Sergio Todesco, con un comunicato stampa sottolineava come l’amministrazione comunale intendesse “adottare misure volte alla valorizzazione dell’edificio in oggetto” con tanto di collocazione di segnaletica illustrativa, esecuzione di lavori di pulitura, manutenzione dei manufatti. A questo comunicato seguì un sopralluogo della Soprintendenza dei beni culturali, ma niente e nessuno ha impedito che il murales, alla fine del 2014, venisse brutalmente vandalizzato. Un atto vile ed imbecille a cui sono seguite solo le parole dell’assessore Tonino Perna, fiducioso riguardo la possibilità di recuperarlo. In occasione dello Street art tour ci eravamo anche premurati di consegnare all’ex consigliere comunale Lucy Fenech una copia cartacea del sopracitato editoriale, perchè potesse essere uno sprono a riqualificare un’opera di rilevanza internazionale lasciata a se stessa. Niente da fare. Oggi il dono del writer BLU alla nostra comunità è in queste condizioni:

©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2019
©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2019
©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2019
©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2019

Come si può “apprezzare” il murales è completamente irriconoscibile rispetto al 2016

©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2016

E nel frattempo, come se non bastasse, l’attuale amministrazione lo ha letteralmente ignorato piazzandoci davanti un parcheggio a strisce blu assieme al mercato domenicale

©GiuliaGreco – Mercato Ittico, Messina, 2019

Messina non è certamente una città d’esempio in Europa per quel che riguarda la sensibilità artistica, ma gli atti di vandalismo oramai sono all’ordine del giorno. Esclusi i casi (vergognosi) del vilipendio al monumento ai caduti nei pressi della Fiera e dei danni al pianoforte in Galleria Vittorio Emanuele, gli atti vandalici più rilevanti negli ultimi mesi hanno sempre avuto come oggetto elementi dell’arte urbana. La prima settimana di gennaio Elisabetta Reale sulla Gazzetta ed il Mezzo TG di Todo Modo hanno portato agli onori di cronaca lo scempio al murale dello stabilimento della Miscela D’Oro, atto compiuto con un movente di matrice xenofoba.

messina.gazzettadelsud.it

Più recenti invece sono gli esempi di miopia per l’arte di questa amministrazione comunale: i fatti di via Maregrosso. Un quartiere di rara bruttezza, dal quale convenzionalmente facciamo iniziare la zona sud di Messina, famoso perché dimora di due locali di successo come il Retronouveau e l’Officina, che in realtà avrebbe anche altro da offrire. Esiste infatti una costruzione particolare, una architettura spontanea che per tutti risponde al nome de La Casa del Puparo

Giovanni Cammarata già Cavalier Cammarata, è stato un muratore e veterano di guerra che trasferitosi a Maregrosso ha deciso di abbellire la sua baracca, costruendo un esempio mirabile di arte del riciclo, che per i posteri dovrebbe essere qualcosa di più. Uno fra tutti a pensare che Casa Cammarata sia più di un semplice esperimento è il Prof. Pier Paolo Zampieri, docente di Sociologia urbana ed esperto di Outsider art, che da anni è impegnato nella riqualificazione della via Maregrosso a partire dall’eredita lasciata dal Cavaliere. Uno dei progetti meglio riusciti è la Via Belle Arti, immaginata da Cammarata per soppiantare il degrado di cui siamo ancora oggi testimoni. Tramite concorso, ogni anno vengono chiamati artisti ad impreziosire le pareti della via su cui sorge la casa del puparo, dando di fatto una chance alla comunità di Maregrosso. Purtoppo il desiderio di riabilitazione sociale non è nelle corde di tutti gli uomini e così la casa è stata in parte abbattuta nel 2007 nella realizzazione di un primo centro commerciale ed oggi, nel giubilo degli autoctoni per l’apertura di un secondo centro, la costruzione si trova in queste condizioni:

Anche peggio è andata ad una delle opere realizzate per il progetto di Via Belle Arti dall’artista messinese Giuseppe Raffaele, autore del Pesce Spada infiocinato in fil di ferro, che non è stato tutelato nel rifacimento del marciapiede della via, la quale ora rischia di rimanere priva della sua arte.

normanno.com

In una città a cui serve disperatamente la bellezza esistono altri esempi di anticorpi al degrado, come i ragazzi di PuliAmo Messina che in questi giorni hanno terminato il ciclo di incontri aperti alla cittadinanza Messina arcana. Grazie alla buona ruscita dell’evento sono addirittura riusciti a raccogliere quasi duemila euro per l’illuminazione artistica della fontana di Nettuno.

Qualcuno diceva “non ci resta che piangere“, forse. Intanto, facendosi strada tra le macchine e le buche sull’asfalto, si può entrare nel nuovo centro commerciale Maregrosso, salire su per la scale mobili, prendersi un bel caffè al bar del secondo piano, uscire sul terrazino ed ammirare il panorama.

Alessio Gugliotta