Allen e la variazione numero 50 nella collezione di “non-capolavori”

“Écrit et dirigé par Woody Allen”. Titoli di testa in francese per la versione originale di Coup de chance, opera numero 50 del regista che finalmente ha realizzato il suo sogno: girare un film europeo.
Presentato fuori concorso (perché a Woody non piace la competizione) all’80ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è l’ennesima variazione sul tema dell’amore. E forse anche l’ultima.

Woody Allen è quel regista che nei manuali di storia del cinema si posiziona subito dopo il crollo dello Studio system, quando il cinema indipendente era possibile, e qualche istante dopo la disastrosa comparsa dello streaming che mina lentamente quella magica esperienza della sala cinematografica.
E se all’esperienza in sala sembra ormai che la gente preferisca tornare al kinetoscope di Edison, l’antenato del nostro proiettore, anche l’industria cinematografica, a detta dello stesso Woody, da “glamour” sembra ormai essere destinata a diventare sempre più anonima:

“Facevi un film e migliaia di persone correvano in sala, e il film restava nei cinema per sei mesi, e tutti facevano la coda per vederlo. Ora è diventato tutto anonimo, due settimane e poi il film scompare, le persone lo guardano in camera da letto, non hai più nessun contatto con loro”. – Woody Allen

Alla ricerca del capolavoro, fra tagli rapidi e riprese in controcampo!

E mentre tutti noi attendiamo quel coup de chance che possa migliorare la situazione, Allen col suo nuovo film torna sulla scia di Match Point e di Irrational Man, dando sfogo alla sua natura di giallista un po’ sui generis. E se tutti, dai critici ai fans, sperano di trovare in quest’ultimo film, il capolavoro della sua carriera, Allen li “rassicura” e, anzi, è piuttosto convinto di non aver mai girato quel grandissimo film che tutti cercano. Forse, in mezzo ai suoi 50 lavori ne salverebbe non più di dieci.

Allen
Woody Allen all’80. edizione del Festival del Cinema di Venezia. Fonte: Gazzetta del Sud

Ma è mai possibile che, uno dei più grandi registi degli ultimi cinquant’anni, non sia soddisfatto nemmeno di una delle sue opere? Guardando a ritroso nella sua carriera troviamo film che fanno ormai parte dell’immaginario collettivo: Io e Annie, con cui Woody Allen si è aggiudicato due oscar nel 1978 (miglior regia e miglior sceneggiatura originale); Hannah e le sue sorelle, film studiato dallo storico del cinema statunitense, David Bordwell, per i tagli rapidi che caratterizzano alcune delle scene e per le riprese in controcampo;  Midnight in Paris (miglior sceneggiatura originale del 2012), e il più recente Un giorno di pioggia a New York che, pur essendo stato accolto piuttosto negativamente dalla critica, ha visto come protagonisti Timothée Chalamet e Selena Gomez.

Una “scontornata” retrospettiva su Woody Allen

Insomma, appellandoci alla sua filmografia ognuno di noi avrebbe la possibilità di trovare quel film perfetto. Anche se forse, il più importante e, probabilmente, anche il più divertente film che Woody Allen abbia girato fra questi 50 “non-capolavori”, è la sua stessa vita. Un po’ ipocondriaco e un po’ allarmista, divertente, un grande regista e un po’ meno un jazzista, ma pur sempre un grande artista.

È con queste poche e semplici parole che potremmo scontornare la figura del personaggio che Woody è diventato in questi 88 anni di vita. Ci ha fatto piangere, di certo ridere, e ha fatto parlare di sé. Non solo per le sue scarpe francesi con la zip o per essersi addormentato durante la diretta con Fabio Fazio, ma anche per questioni di cuore, proprio come nei suoi stessi film.

E questo potrà anche essere il suo addio alla macchina da presa, – anche se, a quanto pare, lui ha sempre preferito scrivere sceneggiature, – ma noi tutti ricorderemo il suo cinema e, soprattutto, ricorderemo lui. Per il suo fare irriverente, per il suo modo di indossare quegli occhialoni e quel poetico cinismo che gli calza perfettamente, l’unico modo da lui conosciuto per affrontare la vita.

Anche perché non dimentichiamoci che la vita per Woody Allen non è altro che: “una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo”. E come dargli torto!

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

 

*Articolo pubblicato il 14/12/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Perché usiamo Instagram?

Perché usiamo Instagram? Nel corso degli anni sono numerose le insidie dovute alla spietata concorrenza, eppure l’applicazione di proprietà del gruppo Meta sembra essere riuscita a superarle tutte.

Le origini e lo sviluppo, è giusto prendere spunto?

É un normale pomeriggio, hai appena finito di pranzare, decidi di sederti sul tuo comodo divano e, prendendo lo smartphone, apri Instagram e inizi a visualizzare i vari post del tuo feed. Noti che ci sono 5 nuove pubblicazioni di persone che segui: 2 foto del tramonto del giorno prima, 2 foto scattate con la fotocamera anteriore e una foto del cane di un tuo amico. No, non hai sbagliato applicazione, sei su Instagram ma nel 2015.

Logo di Meta
Fonte: Facebook

La piattaforma appena descritta paradossalmente rappresenta qualcosa di molto vicino all’idea che sta alla base di Instagram ma contemporaneamente un social totalmente differente da quello attualmente utilizzabile. Se ci trovassimo a vivere un’esperienza utente come questa ci apparrebbe come un vero e proprio anacronismo. Ad oggi l’utente medio di Instagram la prima cosa che fa una volta aperta l’applicazione non è guardare i post bensì le storie. Il cambiamento infatti ha inizio nell’agosto del 2016 quando per la prima volta ci si è potuti interfacciare con questo tipo di contenuti: foto o video dalla durata massima di 15 secondi che come caratteristica peculiare possedevano la totale e automatica cancellazione dopo 24 ore dalla pubblicazione. In realtà non si trattava di un’idea totalmente nuova ed inedita. I gestori di Instagram avevano semplicemente “preso spunto” dal progetto promosso in quegli anni da un’altra piattaforma: Snapchat. Quest’ultima stava vivendo il periodo di massima espansione in quegli anni e stava per diventare il social più amato e utilizzato dai giovani. Se questo scenario non si è verificato è merito di Instagram e della sua capacità di intercettare il trend del momento e di adattare la piattaforma ad esso.

Le novità:

Proprio questa capacità ha fatto si che il social di Meta nel tempo rimanesse il più gradito dalle nuove generazioni nonostante le numerose insidie di questi ultimi anni.

Sono stati creati i Reels per inseguire TikTok ed è stata aggiunta la funzione “fotocamera bilaterale” per imitare i post di BeReal. Ecco perché ad oggi ci sono realmente pochi motivi per utilizzare Instagram. Aprendo l’applicazione trovi tutto ma non vivi quell’esperienza unica che ti spinge a preferirla rispetto alla concorrenza.

Pensateci, cosa manca? Una bella zona di dibattito simultaneo. Un limite di caratteri, dei post testuali che lasciano spazio agli utenti per dire ciò che gli passa per la mente. Elon, io te lo dico, guardati le spalle.

Loghi di Snapchat, TikTok, Instagram
Fonte: Bemainstream.com

Siamo al sicuro su Instagram?

In realtà dovremmo tutti guardarci le spalle dal momento in cui utilizziamo un’applicazione di proprietà del colosso Meta. Senza rendercene conto infatti ogni volta che clicchiamo su quell’icona diciamo addio alla riservatezza, al nostro right to be alone, ma soprattutto all’idea che i nostri gusti, le nostre tendenze, i nostri dati siano davvero Nostri. Lo sa bene chi si è ritrovato coinvolto nel celebre scandalo di “Cambridge Analytica”: nel 2018 è stato rivelato che molti dei dati di ben 87 milioni di account Facebook erano stati ceduti alla società di consulenza politica Cambridge Analytica che li aveva sfruttati per influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016 e anche quelle nel Regno Unito. Conseguenze? Per Meta quasi nessuna, è diventata talmente grande da essere intoccabile. Talmente grande che negli Stati Uniti sono tutti preoccupati da eventuali furti di dati da parte di TikTok, ma nessuno osa far domande sul caro Zuckerberg.

Perché usiamo instagram?
Mark Zuckerberg.
Fonte: Corrierecomunicazioni.it

Cosa ci spinge ad utilizzarlo?

Detto ciò l’utente dei social network comunque continua ad utilizzare l’app di Metà, perché? Una banale – ma nemmeno troppo – ragione sociologica: l’essere umano che vive in società necessità di visibilità. Ad oggi non sei nessuno se non sei su Instagram. La tua riconoscibilità, e molto spesso la grandezza del tuo ego, risulta essere direttamente proporzionale al numero di followers che hai. Inoltre ultimamente sta prendendo piede un altro tipo di convinzione: tramite i social ci si può arricchire, i social possono diventare un lavoro. Da quando questa idea contagia, anche solo in minima parte, la mente di qualsiasi utilizzatore di Instagram, diviene sempre più difficile separarsi da questa possibilità.

Saremo famosi?

Non vorrei necessariamente infrangere i sogni di tutti ma credo ci sia bisogno di un po’ di dati, non statistiche indecifrabili ma un qualcosa di semplice da cui si possa ricavare una conclusione altrettanto banale ma spesso di così ardua capibilità.
Numeri alla mano, tra i 20 account più seguiti su Instagram ben 7 sono cantanti, 6 personaggi tv, 3 calciatori, 1 magazine, 1 giocatore di cricket, 1 marchio di moda e infine, come account più seguito, il social stesso, Instagram. Qual è la conclusione alla quale desidero arrivare? Instagram è un mezzo che raramente ti permette di arrivare in alto da zero. Instagram serve? Si, ma al massimo come amplificatore, smontiamo l’idea che senza fare nulla tramite i social si possa arrivare a guadagnare e ad avere visibilità.

Nonostante ciò, nonostante i motivi citati in apertura, probabilmente questo articolo verrà in qualche modo spammato sui social – soprattutto su Instagram – io lo ricondivideró sul mio profilo personale e tutto andrà come sempre, dal 2015 ad oggi. Perché la verità – per certi versi amara – è che non possiamo separarci da questo, che Instagram non è entrato solo a far parte della nostra realtà ma addirittura la sorregge.

È il 2023 e senza Instagram il mondo non sarebbe lo stesso.

Francesco Pullella

Polemica per l’editoriale del New York Times contro la “cancel culture”, ritenuto di scarsa “carità interpretativa”

Nonostante tutta la tolleranza e la ragione affermate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un paese libero: il diritto di dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati.

Si apre così l’editoriale del New York Times, in un’epoca in cui le informazioni filtrano in modo capillare in tutto il mondo, dove molto spesso si misurano interessi e sensibilità molto diversi tra loro, ma in cui tendono a prevalere e a essere più visibili toni aggressivi o intimidatori e sentimenti di indignazione e intolleranza. Da questo si potrebbe pensare che trova origine il dibattito sulla cosiddetta “cancel culture“, il target principale dell’editoriale, che è stato oggetto di grandi attenzioni e molte critiche.

 

Che cos’è la cancel culture

 

(fonte: ilpuntoquotidiano.it)

Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.

 

I dettagli dell’editoriale

L’editoriale attribuisce sia alla destra che alla sinistra la responsabilità di aver generato questa situazione di «silenziamento sociale» e «de-pluralizzazione» dell’opinione pubblica. Molte persone a sinistra, secondo il New York Times, ritengono che la cancel culture, sia soltanto un argomento strumentale e vittimistico utilizzato dalle destre, in una sorta di complesso di persecuzione, per difendere l’uso di espressioni di odio e intolleranza nei confronti di ciò che non è conforme ai loro valori. Allo stesso tempo, molte persone a destra che protestano contro la cancel culture appoggiano severe misure conservatrici e di censura, come quella di proibire determinati libri nelle scuole e biblioteche pubbliche limitando la circolazione delle idee ritenute divisive, tra cui quelle che riguardano minoranze etniche e persone LGBTQ+. Su questioni controverse e su cui la società si interroga, secondo il New York Times:

Le persone dovrebbero poter presentare punti di vista, porre domande e commettere errori, e assumere posizioni impopolari ma in buona fede

senza timore di alcuna «cancellazione». Un rischio che, al netto delle divergenze sulla precisa definizione del termine, diversi sondaggi negli Stati Uniti descrivono come una reale percezione sia diffusa: molte persone intervistate affermano, per esempio, di sentirsi meno libere di parlare di politica rispetto a dieci anni fa. Questo, infatti, è un problema per le democrazie secondo l’editoriale: senza un dibattito alimentato da opinioni in contrasto tra loro, espresse senza paura e liberamente, le idee diventano più deboli e fragili. È anche ritenuto significativo, dal New York Times, il fatto che le persone che si dichiarano democratiche e progressiste siano, stando ai risultati del sondaggio, quelle che più spesso delle altre sentono il bisogno di interrompere «discorsi antidemocratici, intolleranti o semplicemente falsi». Eppure, prosegue l’editoriale, «la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista»: oggi, impegnati nella difesa dei principi di tolleranza, molti progressisti sono invece «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» o che esprimono opinioni diverse.

Le contestazioni

Secondo un’obiezione molto condivisa nel dibattito, che è stata ripresa e sintetizzata dall’organizzazione americana non profit Press Watch, il New York Times avrebbe frainteso quali siano le minacce reali al diritto fondamentale della libertà di espressione: ovvero quelle del “potere” – e, nello specifico, l’azione del governo – e non le contestazioni da parte di altre persone, benché queste oggi prendano dimensioni che le rendono nei fatti un “potere” a loro volta. Il fondatore e giornalista di Press Watch, Dan Froomkin, ha aggiunto che un conto è la cancel culture e un conto è l’essere ritenuti responsabili di ciò che si dice, e che se davvero il comitato editoriale del New York Times crede «che le persone abbiano un diritto a esprimere le proprie opinioni senza timore di essere screditate», i membri del comitato dovrebbero dimettersi tutti. Anche il giornalista americano Jeff Jarvis, ha accusato duramente il New York Times di farsi portavoce di una forma di vittimismo di destra tipicamente espresso da una classe di maschi bianchi privilegiati, non abituati e infastiditi dall’esercizio del diritto di espressione altrui.

Questo genere di obiezioni, in realtà, non considera una parte importante delle argomentazioni di chi ritiene che la cancel culture sia un fenomeno che esiste e del quale bisognerebbe preoccuparsi. Più che le reazioni di protesta o persino gli insulti, infatti, a essere biasimate e temute sono principalmente le pressioni perché chi è al centro della polemica e delle critiche di turno perda il lavoro, che si tratti di una scrittrice o di un professore universitario o di un regista. O che il timore per questo tipo di conseguenze porti le persone ad auto-censurarsi, impoverendo il livello del dibattito politico, culturale o accademico.

 

Federico Ferrara

Contemporanea iscrizione a due corsi di laurea: opportunità o nuovo metodo per collezionare titoli?

Si profila l’abolizione definitiva del divieto di iscrizione a due corsi di laurea contemporaneamente.

Qualche mese addietro, infatti, la Camera dei Deputati ha approvato il testo unificato intitolato “Disposizioni in materia di iscrizione a due corsi di istruzione superiore”. Il disegno di legge, attualmente in attesa di passare all’esame del Senato, riunisce varie proposte di anni precedenti che andranno a modificare l’articolo 142 comma 2 del Regio Decreto 31 agosto 1933 n. 1592 che così disponeva: “ (…) è vietata l’iscrizione contemporanea a diverse Università o a diversi Istituti di Istruzione superiore, a diverse Facoltà o Scuole della stessa Università o dello stesso Istituto e a diversi corsi di Laurea o di diploma della stessa Facoltà o Scuola”.

Prescindendo dalle valutazioni di opportunità o ideologiche che hanno indotto il legislatore dell’epoca a introdurre questo limite, proviamo ad entrare nel merito di questa proposta che sta per completare il suo iter in parlamento.

Il disegno di legge prevede non solo l’iscrizione contemporanea a due diversi corsi di laurea o di laurea magistrale anche in più università, ma consente anche un’iscrizione alternativa, per esempio un corso di laurea magistrale e un master, un corso di Dottorato di ricerca e un master.

Fonte: Archivio UniVersoMe

La ministra dell’Università Messa ha accolto la riforma con entusiasmo; a detta di lei sarà un grande risultato che consentirà al nostro Paese di fare un salto verso un futuro della formazione universitaria finalmente in linea con il resto del mondo. L’argomento non è per nulla nuovo, infatti, in diversi atenei esteri.

Ma quali vantaggi può ottenere lo studente da questa innovazione?

Innanzitutto, premettiamo che nello stesso testo viene specificato che “dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.  Da questo punto di vista gli italiani possono dormire sonni tranquilli: zero costi per lo Stato e di conseguenza zero costi per i cittadini e niente aumento di debito pubblico.

E invece cosa diranno le famiglie delle matricole che intenderanno iscriversi a due corsi di laurea in contemporanea? Il disegno di legge per garantire anche ai meno abbienti questa opportunità prevede agevolazioni e benefici, limitati però solamente ad uno dei due corsi a discrezione dello studente. Premettendo che una volta che la legge sarà definitiva si attenderanno regolamenti di attuazione di essa, ci pare già di intuire che per agevolazioni e benefici ci si riferisca a borse di studio, rimborsi affitto e spese varie, posti letto in residenze universitarie e premi al merito che saranno comunque previsti per un solo corso. Possiamo intuire che, anche qualora lo studente riuscisse ad ottenere anche una sola agevolazione di queste e per uno dei corsi da lui scelti, se si ritrovasse alle spalle una famiglia con un reddito medio basso, questa non sarà sgravata da tali minimi benefici e anzi dovrà sostenere per intero le spese dell’altra iscrizione. Sappiamo benissimo che i regolamenti degli atenei prevedono delle “no tax area” entro certe fasce di reddito, ma nonostante questo non tutte le matricole meno abbienti spesso riescono a rientrare in questi parametri; tra l’altro i regolamenti e gli statuti d’ateneo a fronte di una riforma del genere dovranno essere rivisitati per intero. Quindi quale vantaggio se non quello di aumentare il divario sociale tra matricole?

Fonte: archivio UniVersoMe

Si dice che la soppressione di questo divieto fosse da tempo tanto bramata dagli studenti e dovrebbe rendere l’Italia più competitiva sul piano comunitario e internazionale a livello accademico. È un fatto tristemente noto alle cronache però che il Belpaese dalle annuali statistiche Istat sia puntualmente quello con meno laureati rispetto alla media europea. Da un recente rapporto risulta che in Italia solo il 20,1 % della popolazione tra i 25 e i 64 anni possieda una laurea contro il 32.8 % dell’UE.  Ad opinione di chi scrive, date queste statistiche, sarebbe prioritario che ai piani alti si cominciasse ad incentivare lo studente innanzitutto a non abbandonare gli studi dopo il diploma. Come può una politica che negli anni in vari modi (tagli alla ricerca, laureati con contratti da stagisti costretti a fuggire all’estero) ha scoraggiato i ragazzi a intraprendere il percorso universitario, pretendere ora di rendere l’istruzione più competitiva consentendo una formale iscrizione a due corsi di laurea? Formale sì. Perché chi saranno questi studenti che poi materialmente faranno una doppia immatricolazione? Pensiamo seriamente gli universitari siano in grado di sostenere nello stesso appello sia l’esame di storia greca che di diritto privato oppure l’esame di economia aziendale e di anatomia, insomma di immagazzinare una mole di concetti di tale portata? È più che scontato a questo punto che scelte simili creeranno una pressione devastante sullo studente con rilevanti conseguenze sul piano psicologico e morale.

Fonte: Younipa

Qualora si volesse conseguire un doppio titolo, sarebbe più logico ottenerlo immatricolandosi post lauream ad un corso con un piano di studi similare a quello conseguito, convalidando ove possibile alcune materie precedentemente sostenute, chance che già viene ampiamente utilizzata, ma che sicuramente necessita di migliorie.

Dove sta allora l’esigenza di ottenere un doppio titolo in contemporanea, se non nella voglia di creare una società di apparenti tuttologi? Una società che apprende tutto e niente: giovani che non terranno più conto delle proprie inclinazioni, tanto si può studiare sia fisica che scienze politiche, cosa importa se una delle due non appassiona, l’importante è collezionare un “pezzo di carta” in più per i curricula. A che servirebbe una doppia laurea se ormai da anni questa non rappresenta il grado più alto di istruzione perché viene bypassata da master di secondo livello, dottorati e scuole di specializzazione? A cosa servirebbe conseguire due master costosissimi  quando un eventuale bando di un qualsiasi concorso pubblico per titoli ed esami ne prevederà la valutazione di uno solo di questi probabilmente?

Attendiamo che si pronunci il Senato. I frutti di qualsiasi proposta legislativa si raccolgono parecchio tempo dopo la sua entrata in vigore. Quindi qualora tale divieto verrà soppresso, vedremo tra un po’ di anni quali saranno stati i suoi effetti.

                                                                                                                      Ilenia Rocca

 

Articolo pubblicato il 18/11/2021 nell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

 

Lauree in tempi record? No grazie

Tra una decina di post che inneggiano alla body positivity e un centinaio di scatti che esaltano bellezze 90-60-90, tra migliaia di prosopopee sull’accettazione di sé stessi e altrettante migliaia di elogi dei nuovi Paperon de’ Paperoni delle over the top, a chi dar ragione? A chi cerca di convincerci che questa vita non è una gara, che tanto vale amarci per quello che siamo e poco importa se andiamo al passo della lepre o della tartaruga (tanto si sa come finisce la favola)? Oppure a chi in maniera subliminale ci bombarda di storie di vite riuscite, di mete raggiunte, termini di paragone con cui ci confrontiamo giorno dopo giorno e cerchiamo di sorpassare a costo di arrivare senza fiato al termine di questa corsa frenetica?

In una società capitalista sempre più simile ad una giungla darwiniana in cui tutti sono in lotta contro tutti, non tanto per la semplice sopravvivenza, ma per levare in alto per primi il trofeo del successo, ancor più triste è constatare come lo stesso spirito di competizione pervada inevitabilmente istituzioni come la scuola e l’università. Istituzioni popolate dai giovani, coloro che per antonomasia dovrebbero rappresentare il “nuovo”, il “controcorrente”, una visione diversa del mondo e della vita, magari anche più spensierata, utopica -e perché no? – ingenua.

Invece no, basta farsi un giro già fra le  aule di diversi licei per rendersi conto come la complicità tra coetanei, la voglia di condividere esperienze e divertirsi assieme ha lasciato il posto all’individualismo più sfrenato, agli strattoni per la corsa ai voti, alle invidie, alla competizione più becera e malsana- quando va bene e non si hanno le ossa di vetro. E quando va male, ansia, depressione, disturbi alimentari e chi più ne ha più ne metta. Ormai sono una specie in via d’estinzione gli studenti che vivono gli anni dell’istruzione- dalle scuole alla formazione universitaria- in maniera tranquilla e serena e ancor meno quelli che concepiscono il percorso più come un’occasione di arricchimento su tutti i fronti che come una corsa al dieci in pagella.

Un po’ di “sana” competizione. Fonte: greenme.it

Entrambi i fenomeni sono comunque due facce della stessa medaglia, sintomi di un sistema malato in cui vige sempre di più l’equazione illusoria felicità= successo e si tessono le lodi della rapidità a tutti i costi e dell’ottimizzazione economica del tempo. Conta arrivare al traguardo sì, ma soprattutto arrivare prima, anche accelerando, perché fermarsi un attimo a guardare il panorama sarebbe da stupidi, da lenti, da ritardatari.

Complice in tutto questo anche la narrazione da show dei record di mass media che eleggono a nuovi eroi studenti che hanno avuto l’unico merito di concludere il percorso universitario col massimo dei voti e con largo anticipo. «Francesco studente record, dottore prima dei suoi coetanei», «Federica batte tutti»: questi i titoli che campeggiavano qualche settimana fa su pagine social e testate ufficiali, titoli accolti da sfilze di polemiche e commenti sdegnati. Semplici sfoghi di hater di professione?

Al di là dei soliti leoni da tastiera che non perdono l’occasione di vomitare la propria rabbia sul web, stavolta la maggior parte dei commenti negativi postati sotto l’ennesimo post celebrativo con tanto di intervista a una studentessa raggiante per essere riuscita a «capitalizzare» (triste parola) il tempo della pandemia, mentre i poveri fessi dei suoi coetanei si permettevano il lusso di deprimersi, non provengono da persone prive di spirito critico o di capacità di argomentazione.

Le lauree in tempi record e ancor di più la loro pubblicizzazione non convincono nessuno, anzi suscitano tanta giustificata rabbia per molte ragioni che non starò ad elencarvi. Sarà sufficiente però parlare di alcune.

Punto uno: com’è che un percorso universitario che ha una durata prestabilita di cinque anni viene condensato in soli tre? Alcune università, soprattutto quelle pubbliche, non permettono ai loro studenti di anticipare più di un tot di materie. E va bene così del resto. Friedrich Nietzsche, parlando della filosofia diceva che i concetti vanno “ruminati”, meditati più volte per essere assimilati meglio. Lo stesso discorso, a mio parere, può essere esteso a tutte le materie universitarie di qualsiasi campo, scientifico o umanistico.

Gli studenti non sono serbatoi da riempire di materie a tempi record prima della sessione d’esami, da svuotare davanti al professore e poi, il tempo di prendersi un bel 30 e lode sul libretto, pronti di nuovo a ingozzarsi di altre materie da digerire alla svelta. Ad uscirne pregiudicata in questa abbuffata bulimica di esami è la capacità di approfondire, di interrogarsi e aprire la mente. In poche parole verrà a mancare lo spirito critico. La dimostrazione? Parole che minimizzano la depressione generale dei propri coetanei in un periodo critico quale la pandemia, periodo in cui la percentuale di giovani che ha dovuto combattere contro disturbi psicologici è arrivata addirittura al 37 %.

 

La depressione non è una “scelta”.

Punto due: non sapevamo fosse una gara. Questo il commento più sdoganato, ma per niente banale, in reazione all’euforia dei giornalisti per le lauree in tempi record. Vi cito un’altra frase più vecchiotta, sempre molto usata, ma significativa: non conta la meta, ma quello che provi mentre corri.

La laurea si pone a conclusione di un percorso non solo di crescita culturale, ma soprattutto personale e relazionale, percorso durante il quale molti giovani si confrontano per la prima volta con l’autonomia e l’indipendenza lontani da casa. Si tratta di un cammino, non di una gara, e va bene andare lenti, cadere più volte e prendersi il tempo di rialzarsi, senza il fiato sul collo di cronisti dilettanti che piuttosto che spronarti ti urlano contro: «Guarda, lui è un fenomeno, è arrivato prima al traguardo!»

Esultare assieme: non siamo in una gara! Fonte: skuola.net

Punto tre: va bene, supponiamo ci sia la “gara”.  Allora gettiamo un occhio alla “partenza”: c’è qualcuno che parte prima? Qualcuno che parte dopo?

Perché se sono una ragazza madre che deve dividersi tra studio e neonato che urla la notte o le finanze di casa arrancano e devo arrabattarmi con un lavoretto part-time, partirò 100 chilometri più indietro (altro che partitina di tennis nei campi verde smeraldo della LUISS). E se vivo in un paesino dell’entroterra in cui una connessione internet decente è roba da film di fantascienza o in una famiglia numerosa ed economicamente disagiata, senza “una stanza tutta per me” anch’io partirò in ritardo. E potremmo andare avanti all’infinito citando altri esempi di “partenze svantaggiate”: il digital divide, le disuguaglianze economiche, i problemi psicologici sono realtà concrete ancora per tanti giovani e non se ne parla mai abbastanza.

Non prendiamoci in giro perciò con l’adagio da film Disney: «Se puoi sognarlo, puoi farlo». Quello andava bene per le favole, la vita reale è un’altra cosa.

Angelica Rocca

Numeri ed evidenze scientifiche contro le fake dell’infodemia: un invito all’equilibrio

L’insegnamento principale che possiamo trarre dall’anno appena trascorso è che siamo tutti profondamente diversi, in maniera non sempre prevedibile e non immediatamente evidente.

Abbiamo appreso che la COVID può evolvere in modo completamente differente in diversi individui: da casi totalmente asintomatici fino alla necessità di ricovero, che in alcuni casi non viene superato. Il tentativo di giustificare tali differenze sulla base del sesso, dell’età o anche delle patologie concomitanti non è sempre sufficiente.

Basta pensare che due soggetti identici, come due gemelli omozigoti, possono sviluppare una malattia con severità diversa. Il New York Times riporta la storia di due gemelle americane, Kelly e Kimberly, infettate nello stesso contesto: la prima ha sviluppato solo sintomi moderati, mentre la seconda ha trascorso più di un mese in terapia intensiva.

Tanta diversità dipende quindi da caratteristiche complesse, che non sono scritte solo nel DNA, e che quindi sono impossibili da valutare a priori nella loro interezza.

Cosa può aiutarci di fronte a tanta complessità? Un contributo ci arriva dai numeri. Quantificare ciò che succede ci permette di sbagliare meno e di avere contezza di ciò che osserviamo. I numeri non mentono, ma vanno ben analizzati e contestualizzati. Se “maneggiati” in modo improprio possono trarre in inganno, facendo sovrastimare o, al contrario, sottostimare certi eventi. Vanno, dunque, consegnati in mano ad esperti, in grado di elaborarli ed interpretarli correttamente.

Lo scopo è quello di fornire delle evidenze, ovvero delle prove su cui la scienza si basa per prendere ogni decisione. In medicina ogni nuova evidenza può permettere di decidere se continuare ad usare un farmaco, se investire in un vaccino o se eseguire un esame diagnostico. Allo stesso tempo nuove evidenze possono rigettare vecchi approcci o scoraggiarne di nuovi.

La pandemia ci fornisce numerosi spunti che confermano il valore dei numeri, in un braccio di ferro tra la (disperata) necessità di trovare soluzioni e il poco tempo disponibile.

L’esempio di un tentativo che si è dovuto arrendere di fronte alle evidenze prende il nome di idrossiclorochina. Si tratta di un farmaco di cui si è abusato all’inizio della pandemia, e di cui inspiegabilmente, ancora oggi, si continua a parlare. È stato dimostrato che la molecola non riduce il numero dei decessi, ma genera solo effetti collaterali. Sembra paradossale che, in passato, si pensasse addirittura di assumere la sostanza a scopo preventivo. La percezione e l’ipotesi che il farmaco funzionasse sono state annientate dai numeri.

Un altro esempio, ancor più significativo, è quello del plasma iperimmune. Nelle fasi più drammatiche della pandemia quest’approccio venne presentato come quasi miracoloso. Televisioni e giornali non parlavano d’altro e contribuivano ad alimentare la percezione di aver trovato una soluzione definitiva alla malattia.

Gruppi di ricerca di vari Paesi, quindi, si sono impegnati per verificare se l’efficacia del plasma fosse una percezione o un’evidenza. Uno studio pubblicato su una rivista di riferimento del settore (NEJM), coerentemente con quanto osservato successivamente in altri studi, dimostra che il trattamento con plasma non determina differenze significative nella mortalità. Anche in questo caso fidarsi dei tempi della scienza avrebbe potuto evitare una contagiosa illusione generale.

Questa pandemia ci dimostra, invece, che gli approcci migliori sono quelli messi in atto solo dopo aver avuto prova della loro efficacia. Un esempio? I vaccini: nessuno avrebbe mai pensato di somministrarli senza dei numeri che ne giustificassero l’impiego. Come previsto dagli studi, nel “mondo reale” si sta verificando una riduzione delle infezioni negli ambienti ospedalieri. I Paesi più avanti nella campagna vaccinale si dirigono addirittura verso un’apparente “normalità”.

I vaccini stanno dimostrando la capacità di superare le profonde differenze che ci contraddistinguono e che determinano l’imprevedibile decorso della malattia. Si tratta di un intervento prezioso che può abbattere le diversità e costituire fronte comune nella lotta al virus.

La sospensione precauzionale (termine fondamentale) di quello prodotto da AstraZeneca, per quanto detto finora, va analizzata con giudizio.

Quando si parla di reazioni avverse il problema è stabilire un rapporto di causa-effetto e non solo un rapporto temporale: se dopo aver mangiato una mela ci si frattura un osso, il problema non sarà stato certamente la mela. Ogni singolo evento grave o fatale va comunque approfondito con la massima attenzione: non possiamo permetterci farmaci meno sicuri rispetto a quanto dichiarato. Allo stesso tempo, la sospensione del vaccino AstraZeneca potrebbe determinare una quantità maggiore di morti per la mancata vaccinazione rispetto a quanti ne sarebbero avvenuti per un potenziale effetto raro non ancora dimostrato.

Le esperienze vissute nell’ultimo anno permettono di essere d’accordo su una cosa: i numeri, se corretti e ben utilizzati, alla fine presentano il conto. Non lasciamoci disorientare da percezioni errate e diffidiamo da chi amplifica queste percezioni in maniera poco convincente. Attendiamo informazioni affidabili senza cadere in conclusioni affrettate.

Lasciamo fare alla scienza quello che sa fare meglio: raccogliere e analizzare i numeri per costruire delle evidenze che possano superare le diversità e condurre verso soluzioni condivise e sicure alla pandemia.

Antonino Micari

Il potere della Costituzione a servizio delle future generazioni: così l’ambiente torna al centro del dibattito

Roberto Cingolani, ministro per la transizione ecologica – fonte: baritoday.it

Ne abbiamo sentito parlare per 40 anni, ma ora potrebbe diventare realtà. A vantarlo come punto saliente, il discorso programmatico del presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato: sviluppo sostenibile e giustizia intergenerazionale. Negli ultimi anni il dibattito attorno a questi temi è stato acceso e, rispetto ad alcuni punti, crudele. Sempre più si è fatta notare una mancanza di attenzione verso le generazioni future; sempre più sono state criticate decisioni prese in vista dell’immediato futuro anziché di quello lontano. Abbiamo assistito a catastrofi naturali pensando che la Natura si stesse rivoltando contro di noi – spesso, abbiamo desiderato di estinguerci per non nuocerle più.

Eppure, l’ultimo anno, la pandemia, il lockdown ci hanno servito alcuni dei fenomeni più intensi degli ultimi decenni: la Terra che si riappropria dei suoi spazi. Vedere i delfini nuotare tra i cristallini canali di Venezia ha risvegliato nei più un profondo senso di appartenenza al mondo. Adesso l’uomo sta ricevendo un messaggio: la crisi ha dimostrato che l’unica strada percorribile è quella della corresponsabilità, laddove ognuno sia consapevole che le proprie scelte influiranno sul destino del prossimo. Ecco allora che la celebre frase di Draghi, “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”, si cala all’interno di un contesto che ha coscienza del fatto che l’ambiente non sia più un elemento sacrificabile.

Un delfino nuota nei canali veneziani durante il primo lockdown del 2020 – fonte: mondoaeroporto.it

Da quanto emerso, il nuovo premier sembra intenzionato a garantire il realizzarsi di una riforma costituzionale, avviata dal precedente governo, che si sta trattando in Parlamento. Per la precisione, la riforma coinvolgerebbe gli articoli 2, 9 e 41 della Costituzione. Anche nel 1983 la Commissione Bozzi aveva avanzato una proposta del genere con l’unico risultato di cadere nel vuoto per 38 lunghi anni. Ne deriva che nel migliore dei casi otterremmo la tutela delle generazioni future, dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile come diritti inviolabili del singolo e delle sue formazioni sociali; avremmo poi un’iniziativa economica costretta a rispettare i principi dello sviluppo sostenibile. Nel peggiore, tutto rimarrebbe com’è – con la novità del Recovery Plan che imporrebbe in ogni caso degli interventi orientati in questo senso.

Se nelle ultime settimane abbiamo sentito tanto parlare di ambiente, di sviluppo sostenibile e di transizione ecologica (a cui è stato dedicato un ministero nel neo-governo), è proprio per questo: una delle condizioni che tengono in sospeso il Recovery Fund è l’attuazione della transizione ecologica e digitale del nostro Paese – ossia il raggiungimento di un impatto ambientale pari a zero.

I criteri ai quali devono essere ispirati i piani di ripresa nazionali – fonte: consilium.europa.eu

Ma si tratta di obbiettivi a lungo termine che possono essere conquistati solo col tempo, da generazioni che non sono le nostre. In sostanza, si tratta di comprendere non soltanto cosa il presente stia lasciando a noi, ma soprattutto cosa noi lasceremo in mano ai nostri figli. Ottimisti sì, ma senza illuderci che una tutela formale – benché di massima importanza – possa di per sé comportare un cambiamento sostanziale.

Se pensiamo anche solo all’Accordo di Parigi, trattato ambientalista internazionale che quasi tutti i paesi del mondo si sono impegnati a firmare, e a come esso non venga rispettato da molti membri del G20, la questione appare ancor più evidente. Però è da questo primo passo che ci si rende conto dell’anacronismo tra la situazione attuale e l’aprioristica e dogmatica difesa del testo costituzionale. Chi, dopo e nonostante tutto, invoca l’intoccabilità della Costituzione sminuisce la sua vera potenza, la capacità di adattarsi al carattere vivente ed in evoluzione della realtà al fine di tutelarne ogni aspetto. Ora più che mai si avverte l’urgenza di muovere passi, anche piccoli. E’ l’insegnamento della pandemia: proiettarsi nel futuro, imparare del passato, mai rimanere attanagliati al presente.

Valeria Bonaccorso

Articolo pubblicato il 25 febbraio 2021 sull’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud

L’altra faccia del politically correct

Che infanzia sarebbe senza Aristogatti, Dumbo e Peter Pan? Recentemente il colosso Disney, in nome del politically correct ha deciso di inserire all’inizio della proiezione di questi famosi film d’animazione una sorta di “parental advisory”: questo programma include rappresentazioni negative e/o offese di persone e culture. La presenza di personaggi stereotipati nelle pellicole, in seguito a recenti episodi di razzismo, ha portato Disney Plus ad aggiungere questo avvertimento per i più piccoli. Negli Aristogatti è presente un gatto siamese con dei marcati tratti orientali, Peter Pan definisce “pellerossa” i nativi americani e infine i corvi neri di Dumbo ricordano gli schiavi afroamericani nelle piantagioni. Una sorte più drastica è toccata l’anno scorso al celebre Via col Vento addirittura oscurato per mesi dalla piattaforma HBO Max, sull’onda delle proteste del movimento Black Lives Matter, in quanto giustificherebbe lo schiavismo e inciterebbe all’odio razziale.  Sotto accusa finisce di recente anche Grease per una frase della canzone “Summer Nights” che a detta di molti strizzerebbe l’occhio allo stupro e per l’”omofobo” personaggio Vince Fontaine che raccomanda al ballo del liceo di non formare coppie dello stesso sesso.

La domanda che sorge spontanea è se ha un senso scagliarsi oggi contro produzioni cinematografiche di oltre mezzo secolo fa, nate quando vi era una diversa sensibilità verso alcune tematiche e se non sia più utile attaccare invece quei prodotti culturali odierni che rivelano ancora una visione del mondo arretrata e irrispettosa delle differenze.  Certo è che un bambino potrebbe non possedere spirito critico e di conseguenza abituarsi al cliché e allo stereotipo, ma è anche vero che un bambino dovrebbe guardare un film d’animazione libero da pregiudizi e condizionamenti e quindi non cogliere alcun tipo di messaggio dannoso tra le righe. Si spera invece che l’adulto si approcci davanti a qualsiasi rappresentazione artistica senza condizionamenti e contestualizzando l’opera nel tempo e nello spazio senza bisogno di ricorrere a strumenti quali una pseudo-censura in chiave moderna.

Gli Aristogatti sotto accusa per Shun Gon, stereotipo “offensivo” dell’orientale. Fonte. corriere.it

Non si può negare: quello di Via col Vento, sia nel romanzo di Mitchell che nella trasposizione cinematografica del ’39, è un affresco a tinte nostalgiche del Sud schiavista all’alba della Guerra di Secessione. È questa una verità risaputa ancor prima della riscossa della “cancel culture”. Ma lo spettatore che guarda oggi Via col Vento simpatizza più con la capricciosa e ingrata Rossella O’ Hara o con la più umile MamiWalt Disney, matita geniale dell’american dream, non era certo un campione di progressismo e impegno sociale. Ma nell’ultimo film prodotto sotto la sua supervisione- e parliamo proprio degli Aristogatti (1970)- non trapela odio reazionario nei confronti del diverso. Abbiamo una banda di gatti randagi che accorre in aiuto a una famigliola di “aristocats”: due mondi diversi specchio delle disuguaglianze create dall’uomo si trovano a fraternizzare. Dov’è il messaggio diseducativo per le giovani generazioni? Come la nostra mente rischia di rimanere imprigionata nella rappresentazione stereotipata e riduttiva che questi capolavori ci consegnano del diverso?

Rossella O’Hara e Mami-Fonte: Giornale di Sicilia.it

Allora non basta la nobile Duchessa che fa amicizia con Romeo, Scat- Cat e tutta la gang di “pulciosi” gatti randagi. Non basta la Mami dal cuore d’oro e l’Oscar a Hattie Mc Daniel come miglior attrice non protagonista. Rimangono comunque gli occhi a mandorla, gli incisivi sporgenti di Shun- Gon e quelle bacchette dello xilofono che sembrano più posate da sushi. Rimangono i “fianconi” e l’accento poco yankee di Mami.

Come i francesi mangiatori di formaggio, gli scozzesi col kilt e il “braccino corto”, i siciliani lupara e baffi che si trovano in tante barzellette, ma anche classici comici di immenso successo. Il problema è proprio questo: quando si vuole disegnare ciò che è “straniero”, tra ritratto pittoresco e caricatura offensiva il tratto è molto sottile. Altre volte ancora le matite non sono abbastanza appuntite, il nostro sguardo non troppo acuto e si finisce per ricalcare contorni già tracciati dal proprio background culturale senza troppo sforzo o originalità alcuna. Ed ecco lo stereotipo. Allora che fare? Cancellare anni e anni di arte e cultura con un colpo di gomma?

Tiberio Murgia (il siciliano Ferribotte de “I soliti Ignoti”). L’attore, benché sardo, fu scelto da Monicelli perché incarnava il “tipico siciliano”. Fonte: memories.books.it

La cancel culture, oltre a peccare di mancanza di prospettiva storica, non tiene poi conto che l’arte è innanzitutto gioco di fantasia ed evasione. «Se la mia musica è letterale, allora io sono un criminale» dice il “rap godEminem in uno uno dei suoi tanti testi “controversi”. Con la lente di ingrandimento, alla ricerca ossessivo-compulsiva di un capo d’accusa dietro ogni immagine, dietro ogni parola, come il prete di Nuovo Cinema Paradiso che costringeva il buon Alfredo a tagliare parti di pellicola: è questo che si propone esattamente di fare la cultura del moderno revisionismo. E se questa tendenza verrà portata all’estremo, poco resterebbe della produzione culturale pop del Novecento. I giovani in primis si troverebbero privati di un patrimonio immenso da apprezzare ma anche- si spera- conoscere con occhio critico. Tutto questo dovrebbe giocare a favore di una società più libera da visioni retrograde e pregiudizi. Ma possiamo definire veramente libero un mondo in cui la creatività artistica sarà imbrigliata nelle spire del perbenismo e del politically correct? Matite frenate, penne censurate, comici zittiti: questo è lo scenario grigio e poco stimolante al quale potrebbe alla lunga condurci un’ossessione che qualcuno ha giustamente definito “dittatoriale”.

 

          Angelica e Ilenia Rocca

Ma 2020, ci sei o ci fai?

Sapete, questo è il mio primo editoriale. E un po’ come per tutte le prime volte, l’ansia e il voler fare bene ci portano spesso ad assumere colori e forme che sul momento potrebbero non rispecchiare ciò che vogliamo dire (o magari rispecchiarlo troppo bene). Mi sono domandata di cosa mai avrei potuto parlarvi e le idee (almeno quelle) pullulavano nella mia testa; alcune le appuntavo dove prima capitava, altre speravo mi rimanessero in mente, aggrappate ai neuroni con unghie e denti. A volte è capitato e a volte no.
Poi avevo finalmente deciso, ah ma la vita è imprevedibile… ti capitano cose e cambi idea, nonostante tutti i tuoi appunti e le tue bozze. E allora perché non parlare di questo? Dell’imprevedibilità.

In fondo, se non vogliamo definirlo “catastrofico”, almeno imprevedibile possiamo dirlo a questo 2020.

Buoni propositi

Ogni anno che termina speriamo che il nuovo sia migliore, riponiamo tante aspettative in un qualcosa che di certo non ci dà nulla. Eppure siamo lì a fare il conto alla rovescia, con i calici in mano, sintonizzati su RAI 1 con gli immancabili Albano e Romina che cantano “Felicità” e tutti convinti cominciamo:

10, 9, 8

Apriamo il pandoro, ci alziamo tutti in piedi.

7, 6, 5

Ci prepariamo a fare gli auguri su whatsapp a chi, per un motivo o per un altro, non è con noi allo scoccare della mezzanotte.

4, 3, 2

Scartiamo lo spumante.

1

Baci, abbracci, urla e fuochi d’artificio. E poi?

Per un anno che comincia con la minaccia di una Terza Guerra Mondiale, beh, altro che botti di capodanno!

Eppure si è aperto così: Trump -o chi per lui- uccide il generale Soilemani e ne “firma” con orgoglio l’assassinio sui social, mentre l’Iran promette vendetta.

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Fortunatamente –si spera per sempre- dopo qualche screzio senza ulteriori vittime, sembrano essersi apparentemente calmate le acque.

Ma sì, 2020, l’importante è che ci sia la salute.

Insomma, largo ai buoni propositi: quest’anno studio per tempo, non mi ridurrò all’ultimo. Farò quel viaggio che rimando da tempo. Poi la laurea: “Ah devo chiedere la tesi”, “ma il tailleur meglio rosso o nero?”.

Quanto tempo passiamo ad organizzare la nostra vita, quando in realtà è lei che organizza noi? È Lei che ci detta i tempi, le condizioni in cui viviamo spesso ci limitano e ci indirizzano. Facciamo programmi, sì, ma poi arriva il guastafeste di turno.

Come quando stai per uscire e a casa arrivano quei parenti che non sapevi nemmeno di avere. Come quando hai un giorno libero e vuoi andare al mare, ma tuoni e tempesta te lo impediscono. Come quando non ti iscrivi ad un esame perché ti servirebbe qualche giorno in più e poi scopri che li posticipano di una settimana (qui oltre al danno anche la beffa). Come quando vuoi partire, vuoi esplorare e scoprire, hai i biglietti della semifinale di Coppa per Juventus-Milan, ma un virus dalla Cina, giusto per qualche peccato di gola, arriva e ti catapulta in una prigione. Prigione d’oro (per i più fortunati), per carità, protetti dalle nostre abitazioni e con l’unico problema di dover scegliere cosa dover guardare su Netflix, ma pur sempre prigione. Protetti sì, ma limitati.

Wuhan in emergenza coronavirus. Fonte: ilmessaggero.it

Si ferma la vita, la frenesia, si fermano gli orologi e cominci a dare un senso nuovo al termine di “quotidianità”. Riscopri cose perse, probabilmente sì, ma a che prezzo?

In fondo questo fantomatico Coronavirus è in Cina, non arriverà mai qui. Eppure.

Repubblica – 23 febbraio 2020

Ma come, 2020, non c’era la salute?

Ora capisco il detto “Anno bisesto, anno funesto”. Come se già 365 giorni di sfiga non bastassero e ne servisse uno in più.

Cominci allora a sperare nel futuro (che poi è lo stesso principio dei buoni propositi). “No, ma questo periodo passerà. Ora trovano il vaccino” (a meno che non siate no-vax, in quel caso la tragedia è un’altra).

E quant’è bella la speranza? Io penso sinceramente che sia un po’ il motore di tutto.

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Non è un’utopia e chi lo pensa, pensa male. Perché utopico sarebbe auspicare in un mondo che rispecchi il nostro modo di pensare, fatto da persone che vedono allo stesso modo nostro, pur avendo occhi diversi. Questa è illusione. Ma dobbiamo essere convinti e consapevoli che l’imprevedibile può succedere, dire il contrario sarebbe negare l’assurdo presente, che, nonostante fosse stato già preannunciato dai Simpson, non era sicuramente immaginabile. Lo ha detto anche mio nonno, che di storia ne ha vissuta.

I Simpson – Fonte: repubblica.it

Potreste dirmi: “Chi di speranza vive, disperato muore” , verissimo! Bisogna anche darsi da fare.

Ma secondo me è chi uccide la speranza, che uccide l’uomo.

In fondo l’imprevedibilità è anche dietro l’angolo del futuro e se riusciamo ad affrontarlo è perché speriamo sia migliore. Che poi il futuro è un po’ uno scudo.
Quanti prima di un esame – dai più credenti ai più atei – invocano miracoli, recitano incantesimi e promettono: “la prossima volta studierò di più e non mi ridurrò all’ultimo”.
“Non rimandare al domani quello che puoi fare oggi”, “Meglio un uovo oggi, che una gallina domani”.
Ma chi li ha inventati questi proverbi? Chi mi conosce sa che io no di certo.
Il punto è che sono tutti veri per carità e tutti consiglieremmo questo a persone a noi care, ma quanto lo facciamo noi? Quanto affrontiamo le cose?
Oh beh, se non studi oggi 40 pagine (continuo con questo esempio che per noi universitari è caro ed odiato, ma ahimè, tanto comprensibile), domani ne avrai 80. Quindi che fai? Ma ovviamente nulla, rimandi. Mica è un tuo problema oggi! Ma il domani è presente. Il futuro è convenzione.

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Conoscete la legge di Murphy? «Se qualcosa può andar male, lo farà.»

Ad una prima analisi potremmo dire che si abbina perfettamente al 2020, eppure l’intento della stessa è quello di analizzare in chiave ironica tutto il negativo che il presente ci propina.

È tutto un grande assioma, ma in fondo è quello che cercavo di dire prima con l’imprevedibilità. Per quanto sia improbabile che un evento si verifichi, entro un numero elevato di occasioni, questo finirà per verificarsi con molta probabilità. Improbabile non vuol dire impossibile (non lo dico io, ma la Scienza).

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Capite perché – non la sto chiamando- dico che questo 2020 si può sempre risollevare? E se vi piacciono le figure geometriche potrebbe chiudersi il cerchio così come si è aperto: a novembre ci saranno le elezioni presidenziali in America, Trump vuole il secondo mandato… few words to the wise.

2020, io da buona ottimista, ripongo ancora fiducia in te.

Lungi da me, infatti, voler tirare le somme a poco più di metà anno, questo lo farò un minuto prima della mezzanotte del 31 dicembre; un minuto dopo avrò invece tutti i buoni propositi per il 2021.

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Claudia Di Mento

Perché ci spaventa dire la parola “addio”

Ascolto consigliato: “Don’t know how to say goodbye” , The Pigeon Detectives

Associamo la parola “addio” a diverse sensazioni ed eventi consequenziali tra loro. Ma non riusciamo a pronunciarla. Mi spiego meglio: noi proviamo il sentimento dell’addio, quella struggente fitta che colpisce stomaco e testa, a volte ci fa scendere la pressione, apre il nostro condotto lacrimale, ma non accettiamo il fatto che stia accadendo che vi sia una separazione, una divisione, e non dirlo non ci fa realizzare l’evento. Di conseguenza somatizzandolo sentiamo la mancanza di qualcosa, ma perché non riusciamo a distaccarcene ammettendolo? Perché è così difficile pronunciare la parola “addio”? Certo, forse questa può risultare un’analisi più lessicale che concettuale, ma è anche vero che altre lingue affrontano le nostre stesse “frustrazioni”:

Come dire “addio”
Come dire “arrivederci”

Dire ad alta voce la parola “addio”, ammettendolo a noi stessi e agli altri è difficile da affrontare. In questi giorni di fine semestre, l’erasmus è incorniciato dentro questa dimensione malinconica e surreale di saluti che sanno bene essere gli ultimi per un bel po’ di tempo. Guardarsi negli occhi con la consapevolezza che l’abitudine di vedersi ogni giorno svanirà, non apre la possibilità all’addio di concretizzarsi.

La paura di dire addio

Il sentimento atavico dell’angoscia ed il vuoto che ci pervade come conseguenze di una separazione, riemergono nel nostro equilibrio quando questo viene sconvolto.

“L’attaccamento” è un concetto usato in psicologia per esprimere l’insieme di comportamenti, pensieri, emozioni orientati alla ricerca della vicinanza, della protezione e del conforto da parte di una figura privilegiata. La teoria dell’attaccamento studia i processi attraverso i quali si costruiscono quei modelli interni da cui dipenderà come ci rapportiamo nei legami intimi, ossia come ci rappresentiamo l’altro, come viviamo noi stessi, le nostre aspettative, le nostre paure. Tali schemi, che si costruiscono nel bambino piccolissimo (tra i 7 e i 15 mesi) agiscono al di là della consapevolezza e organizzano le informazioni relative ai rapporti affettivi, determinando cosa portiamo all’attenzione, che significato diamo agli eventi, che emozioni ci suscitano, che comportamenti adottiamo in risposta. Lo stile di attaccamento rispecchia l’unicità delle aspettative di ciascun individuo riguardo alla disponibilità degli altri per la soddisfazione del bisogno di protezione, vicinanza e condivisione –  sostiene lo psicoterapeuta Giacomo Del Monte

L’attaccamento nel 21esimo secolo è ancora più frequente con una forza minore, quasi distribuito in molte più cose (ci attacchiamo agli oggetti più banali, a pensieri aleatori, a sensazioni che una storia di Instagram ci rievoca riguardandola in archivio – ah, questi maledetti ricordi dei social network!) e per quanto possa sembrare che l’importanza che diamo a ciò che ci è più caro non sia sufficiente, al contrario, siamo bombardati dall’idea di dover mantenere legami ed è questa che ci manda in confusione, senza permettere all’ago della bilancia di fare il suo lavoro. Anche semplicemente pronunciando quelle cinque lettere, la coscienza si orienta obiettivamente verso una soluzione che ritiene giusta per la guarigione. Sì, alla fine perdere l’attaccamento, e quindi affrontare una separazione, è parte di un percorso patologico obbligato, la cui fine si verifica nel momento in cui torniamo ad avere fiducia in noi stessi, ed alla nostra capacità di vivere senza quella presenza nella nostra esistenza.

Una privazione simile l’abbiamo tutti affrontata in questo periodo di isolamento, quanta negatività abbiamo subito dalle circostanze e dai nostri pensieri influenzati da esse?

“Privaci del contatto umano e iniziamo a disintegrarci. Ecco perché l’isolamento è una tortura” ha commentato Robert W. Fuller in un articolo sullo Psycology Today.

Procedendo con una prima analisi del comportamento degli umani contemporanei in questa situazione, si può dire che abbiamo affrontato due diversi “addii”: i primi a inizio quarantena, quando abbiamo sentito di dover salutare la vita che fino al giorno prima procedeva nello stesso modo, rendendoci conto che era ogni singolo giorno ad essere unico per se’; i secondi quando la quarantena è finita, e abbiamo detto addio a quei lombrichi che costretti a stare in pigiama tutto il giorno si dilettavano tra impasti e workout. Quanta mancanza percepiamo di queste versioni di noi stessi? É possibile che riescano a convivere? Abbiamo avuto la possibilità di conoscerci, riscoprirci, ma la conseguenza “produttiva” è stata quella di lasciar andare ciò che doveva andare, e che prima bloccavamo per la paura di ammettere il distacco?

Il cambiamento 

Accettare il cambiamento è il fulcro di questo flusso di coscienza: ammettere a noi stessi che si sta per verificare, e confermarlo con la parola “addio”, spezza le catene che rifiutiamo di toccare. Un addio rappresenta la disintegrazione di un’identità che la nostra psiche ha bisogno di mantenere salda, con la vana presunzione che la strada nuova è meglio non affrontarla se la confort zone della vecchia è ancora agibile. Avete presente quando gli anziani raccontano più volte lo stesso aneddoto, la stessa storia? Cercano di tirare le fila della loro identità che il cambiamento che hanno attraversato, di oltre 70 anni, ha fatto in modo che si perdesse lungo il cammino però, la loro ostinata convinzione che pronunciare ad alta voce quel pensiero lo renda reale, allevia le sofferenze della separazione. La nostra avversione agli addii è un’avversione al cambiamento, unica costante della nostra esistenza.

La liberazione di un addio

Allora perché, a differenza della “meglio gioventù”, non spostiamo la nostra concentrazione su ciò che di diverso ci aspetta, portando con noi il meglio di quel che ci lasciamo alle spalle? Attenzione: non sto sottovalutando l’importanza di dire “addio”, anzi, al contrario, dire “addio” è una cosa seria e ci sono tanti addii per quante esperienze viviamo e proprio perché è così, non va dimenticato che, anche se fa male, è necessario. Dobbiamo sapere cosa lasciamo, da cosa ci separiamo per poterci connettere a qualcosa di nuovo. Se dentro di noi sentiamo che qualcosa è finita e ha avuto modo di far brillare la sua luce, salutarla per sempre non fa di noi persone apatiche o superficiali, penso che faccia di noi persone attente e rispettose dell’esperienza che ci è capitata.

 

E come dice Winnie the Pooh “Quanto sono fortunato ad avere qualcosa che rende difficile dire addio.”

 

 

Giulia Greco

 

Immagine in evidenza: Anselmo Bucci, L’addio