Donald Trump in arresto? A rischio le Presidenziali 2024

Sabato mattina, attraverso un post pubblicato sul social Truth, Donald Trump ha annunciato di essere stato incriminato dal Gran Giurì di Manhattan con accuse relative ad accordi finanziari presi con la pornostar Stormy Daniels, in seguito a rapporti intimi avvenuti tra i due.

Nel post di Trump si legge che: «Il primo candidato Repubblicano ed ex Presidente degli Stati Uniti d’America sarà arrestato martedì della prossima settimana. Protesta, riprenditi la nostra Nazione!»

Dal tono utilizzato si evince che Donald Trump voglia utilizzare il suo arresto per alimentare la narrazione secondo la quale sarebbe un martire delle élite; strategia di cui ha già fatto uso quando l‘FBI ha prelevato dei documenti riservati nella sua villa in Florida o quando è ha subìto la procedura di impeachment dal Congresso americano. Allo stesso tempo, il fatto che abbia spinto i suoi supporter «TO TAKE OUR NATION BACK», a riprendersi la nazione, sottolinea la volontà di ricordare gli eventi di Capitol Hill, quando ha convinto migliaia di persone che la democrazia americana fosse vittima di un colpo di stato, alimentando un’insurrezione nel cuore delle istituzioni politiche americane.

Chi è un Gran Giurì?

Il pubblico ministero americano istituisce tipicamente un Gran Giurì per determinare se sussistano abbastanza elementi per proseguire con un procedimento giudiziario. Egli deve, in termini legali, stabilire se vi sia una causa probabile per stabilire che sia stato commesso un reato. Nel fare ciò, detiene poteri investigativi: può citare persone in giudizio o consegnare la documentazione relativa al caso; egli può anche interrogare i testimoni, ai quali non è consentito avere avvocati presenti. In questo caso, il Gran giurì è Alvin Bragg.

La storia tra Trump e Stormy Daniels

Trump e Daniels si sono conosciuti durante un torneo di golf per celebrità in Nevada nel 2006, quando lui aveva 60 anni e lei 27. Dopo aver cenato e parlato, Daniels sostiene che abbiano passato la notte insieme (cosa smentita da Trump), poiché Trump le avrebbe garantito la partecipazione al programma The Apprentice, di cui era conduttore e produttore. Sempre secondo Daniels, i due si incontrarono altre volte senza intrattenere rapporti sessuali.

Daniels ha tentato più volte di vendere la sua storia ai giornali, soprattutto in virtù del fatto che lui le abbia promesso un’apparizione televisiva in cambio di un rapporto sessuale senza poi rispettare la “promessa”.

Con la decisione di candidarsi per la Casa Bianca, Trump cercò di tutelarsi da accuse del genere e lo fece attraverso David Pecker, suo amico e direttore del giornale di gossip National Enquirer. Pecker cominciò a pubblicare articoli che potessero migliorare la reputazione di Trump affossando, invece, storie potenzialmente dannose.

Micheal Cohen parla alla stampa sito: Il post Fotografo : Mary Altaffer

La falsificazione dei documenti aziendali

Nel 2016, subito dopo la pubblicazione da parte del Washington Post di un audio in cui Trump fa commenti molto volgari, Daniels tentò nuovamente di raccontare la sua storia, visto l’atmosfera a lei favorevole. In questo caso Pecker mise direttamente in collegamento l’avvocato di Trump (Cohen, responsabile per la risoluzione di problematiche del genere) e quello di Daniels (Davidson).

I due legali raggiunsero un accordo con Trump, che avrebbe pagato 130 mila dollari in cambio del silenzio di Daniels sul loro rapporto sessuale. Affinché il pagamento non risultasse nei rendiconti della Trump Organization, Cohen decise di effettuare il pagamento direttamente dal suo conto, come confessato durante una testimonianza del 2018. La Trump Organization decise di rimborsare Cohen, registrando il pagamento come consulenza legale.

La vicenda potrebbe portare conseguenze gravi per Trump, se la procura riuscisse a dimostrare che la falsificazione dei documenti aziendali avvenne per nascondere anche altri reati, come – per esempio – una violazione della legge che regola i finanziamenti alle campagne elettorali. In questo caso Trump rischierebbe fino a 4 anni di carcere.

Se giudicato colpevole, potrebbe ancora candidarsi per la presidenza?

Teoricamente, nessuna legge americana impedirebbe ad un candidato riconosciuto colpevole di un crimine di fare campagna elettorale e servire come Presidente. Tuttavia, l’arresto complicherebbe la sua campagna presidenziale: potrebbe avvicinare a Trump dei nuovi supporter in difesa del loro eroe sconfitto e contemporaneamente venir utilizzato dagli avversari politici per screditare la candidatura.

Giuseppe Calì

Inchiesta su Capitol Hill, i testimoni: Trump tentò un golpe grazie ai gruppi di estrema destra

Nel gennaio 2022 negli Stati Uniti è stata aperta un’inchiesta parlamentare per indagare sui fatti del 6 gennaio 2021, quando migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso. Dal 9 giugno sono iniziate le audizioni pubbliche utili a presentare i risultati dell’inchiesta. Quanto emerso dalla stessa potrebbe stupire: se, dapprima, si pensava che l’assalto fosse opera di un gruppo di seguaci della teoria QAnon, adesso si fa sempre più concreto il possibile coinvolgimento dell’ex Presidente Donald Trump in un vero e proprio tentativo di ribaltare i risultati delle Presidenziali 2020.

il presidente della Commissione istituita ad hoc Bennie Thompson, deputato democratico, ha detto chiaramente che l’assedio è stato «il punto culminante di un tentato golpe» e che «Donald Trump ha istigato la folla a marciare verso il Campidoglio per sovvertire la democrazia americana».

Donald Trump incitò i suoi fan a marciare sul Capitol

L’ex Presidente avrebbe addirittura aggredito un agente alla guida della limousine presidenziale afferrando il volante per tentare di raggiungere i manifestanti. Questo è quanto emerge dalla testimonianza di Cassidy Hutchinson, testimone chiave che ha lavorato per l’ex capo dello staff Mark Meadows.

(Cassidy Hutchinson. Jacquelyn Martin via AP Photo)

A tal proposito, i Servizi Segreti hanno rilasciato una dichiarazione in cui hanno affermato di «aver cooperato pienamente con la Commissione e che continueranno a farlo». Per questo – continuano – «abbiamo intenzione di rispondere formalmente alle nuove informazioni rivelate durante l’audizione non appena potranno accoglierci».

Non finisce qui: Trump sapeva che c’erano persone armate e con giubbotti anti proiettili al comizio che aveva organizzato il 6 gennaio, poco prima di incitare la folla dei suoi fan a marciare sul Capitol. Inoltre, chiese di rimuovere i «fottuti metal detector» al suo raduno, affermando che i suoi fan non gli avrebbero fatto del male.

Un altro dato emerso dalle audizioni consiste nel fatto che Trump era a conoscenza della regolarità dello svolgimento delle elezioni, per cui era stato invitato a non parlare più di “brogli” e “frodi elettorali”. L’ex procuratore generale William Barr ha aggiunto che se «davvero Trump crede in quelle cose, allora è completamente fuori dalla realtà». Anche la figlia Ivanka Trump ha fatto sapere di essere d’accordo con Barr.

Minacce all’ex vice Mike Pence

Emerge dalle audizioni un altro dato: la vita dell’ex vicepresidente Mike Pence potrebbe essersi trovata in grave pericolo nel periodo successivo alle Presidenziali. Infatti, quando si è rifiutato di dare seguito al piano sull’interruzione della certificazione dei voti del collegio elettorale (e quindi di ostacolare la salita di Biden), Trump avrebbe scatenato la folla contro di lui attraverso vari tweet pubblicati sia mentre gli assalitori stavano marciando verso il Campidoglio, sia quando erano già dentro.

(Gage Skidmore via Flickr)Un documento riservato dell’FBI, in cui vengono riportate le parole di un informatore all’interno dei Proud Boys (una milizia di estrema destra fondata nel 2016), ha rivelato che «se ne avessero avuto l’opportunità, i membri del gruppo avrebbero ucciso Mike Pence». Non sorprende che diversi manifestanti abbiano intonato cori inneggianti all’impiccagione di Pence.

Intimidazioni anche contro i testimoni

Al termine delle testimonianze, Liz Cheney, membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti, ha presentato possibili prove di intimidazione dei testimoni e ostruzione alla giustizia.

Il Presidente vuole che ti faccia sapere che sta pensando a te. Sa che sei leale.

Sarebbe uno dei messaggi ricevuti dai testimoni.

Un precedente antidemocratico?

Nonostante l’attacco a Capitol Hill sia sventato, negli Stati Uniti si continua a temere per il destino dell’assetto costituzionale. Anche alla luce degli ultimi eventi, tra cui l’overturning della RoevsWade e la conseguente abrogazione della tutela costituzionale del diritto all’aborto, si inizia a pensare (in realtà, già da prima) che questa broken democracy rischi veramente di vivere una deriva autoritaria. Soprattutto, i timori riguardano la possibilità che, in assenza di punizioni reali per i membri dell’Ufficio Presidenziale che hanno provato a coprire il tutto o vi hanno addirittura partecipato, si possa creare un precedente antidemocratico destinato a ripetersi in futuro.

Che l’ex Presidente adesso indagato non abbia imparato molto dalla vicenda, lo si nota anche dalle sue ferme intenzioni di ripresentarsi alle prossime Presidenziali.

Immagine in evidenza: Tyler Merbler via Wikimedia Commons.

Valeria Bonaccorso

Verso l’estradizione di Assange, arriva l’ok del Tribunale. ONU: estradizione violerebbe diritti umani

Mercoledì, la Corte dei Magistrati di Westminster (uno dei tribunali di Londra) ha autorizzato formalmente l’estradizione del giornalista e creatore di Wikileaks Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove rischia di essere condannato a 175 anni di detenzione o alla pena di morte per i diciotto capi d’accusa legati alla sua attività di hacker, in particolare per la violazione dell’Espionage Act americano. Si tratta di una misura che non era stata attivata neanche quando Daniel Ellsberg svelò i Pentagon Papers riguardanti la guerra in Vietnam. In quel caso, infatti, la contestazione sulla riservatezza degli atti pubblici cadde a favore della libertà di diffusione di informazioni d’interesse pubblico.

Assange si trovava dal maggio 2019 presso il carcere di massima sicurezza Belmarsh per scontare una pena di 50 settimane relativa alla violazione dei termini della libertà su cauzione concessagli in seguito all’arresto, avvenuto nel 2010, per reati sessuali. Prima di allora, aveva trascorso sette anni presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra in qualità di rifugiato politico.

Chi è Julian Assange, la mente dietro Wikileaks

Assange nasce il 3 luglio 1971 a Townsville, in Australia. Durante l’adolescenza acquisisce esperienza nella programmazione e verso la fine degli anni ’80 entra a far parte del gruppo di hacker “Sovversivi Internazionali”. Già negli anni ’90 gli vengono rivolte diverse accuse di pirateria informatica, alcune di queste anche contro il Dipartimento di difesa americano.

Nel 2006 fonda Wikileaks, organizzazione che si occupa di divulgare documenti coperti dal segreto di Stato. Sarà proprio nel 2010 che il sito web riceverà fama internazionale, grazie alla diffusione di notizie fornite dall’ex militare statunitense Chelsea Manning. Quest’ultima riuscì a far trapelare – durante il proprio servizio militare – dei diari di guerra dall’Afghanistan e dall’Iraq, così come il video Collateral Murder, esponendo i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti durante le relative campagne militari.

Tuttavia, sia Assange che Manning pagheranno un caro prezzo: il primo costretto ad una fuga decennale, la seconda condannata a 35 anni di detenzione (con grazia del presidente Barack Obama e scarcerazione dopo sette anni).

Il caso della Svezia e il primo arresto

Nel 2010 – si noti, poco dopo la divulgazione dei crimini di guerra statunitensi – la Svezia emette un mandato di arresto per Assange con l’accusa di aver praticato rapporti sessuali non protetti contro il consenso delle partner (atto che in Svezia è equiparato al reato di stupro). Ai tempi, Assange si difese affermando che si trattasse di un pretesto per essere portato in Svezia e successivamente estradato negli Stati Uniti. Infatti, in territorio americano avrebbe dovuto essere processato per spionaggio cospirazione.

A questo punto Assange si trova a Londra, dove si costituisce nel 2010 in seguito all’emanazione del mandato di cattura europeo. Verrà rilasciato pochi giorni dopo su cauzione, mentre la Svezia presenterà richiesta formale di estradizione. Accolta la richiesta dall’Alta Corte londinese e rigettato il ricorso dei legali, il giornalista chiede asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che lo accoglierà per i successivi sette anni concedendogli anche la cittadinanza (revocata nel 2021 in seguito al cambio di personale dell’ambasciata). Le accuse svedesi verranno archiviate nel 2017 per essere riprese al termine del suo asilo politico nel 2019, finendo, da ultimo, in prescrizione nel 2020.

Julian Assange parla dal balcone dell’ambasciata ecuadoregna (fonte: parool.nl – Immagine di AFP)

Il caso delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016

Un caso che aggravò la posizione di Assange, e di Wikileaks in generale, fu quello del Russiagate, ossia la diffusione di email ricevute dall’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton che dimostravano il coinvolgimento di Arabia Saudita Qatar nella formazione dello Stato Islamico (ai tempi ISIS) e che indussero a sospettare anche un coinvolgimento degli Stati Uniti. Lo scandalo portò, quantomeno indirettamente, all’elezione dell’opponente Donald Trump. Ad ogni modo, Assange negò qualsiasi connessione con la Russia nella divulgazione di tali notizie, ma fu inevitabile l’incrinarsi ulteriore dei rapporti con gli USA.

Violazione dei diritti umani secondo l’ONU e gli appelli umanitari

Nel luglio 2015, Assange si dichiara in pericolo di vita. Già pochi anni prima il Regno Unito aveva minacciato di voler violare il diritto all’immunità delle sedi diplomatiche per irrompere nell’ambasciata e catturarlo. Pochi mesi dopo, a dicembre 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria dichiara che le vicende vissute dal giornalista dal 2010 sarebbero configurabili come detenzione arbitraria e illegale da parte di Gran Bretagna e Svezia, con conseguente richiesta di liberazione e risarcimento. I due Paesi si rifiutano.

Nell’aprile 2019, il Relatore Speciale ONU sulla tortura, Nils Melzer, si è detto allarmato per la possibile estradizione in quanto l’imputato rischierebbe di subire gravi violazioni dei suoi diritti umani, trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti, perdita della libertà di espressione e privazione del diritto a un equo processo. Il 9 maggio dello stesso anno, Melzer ha visitato Assange e ha riscontrato sintomi di “esposizione prolungata alla tortura psicologica”.

(fonte: sueddeutsche.de – Immagine di Henry Nicholls/Reuters)

Nel 2020 anche il Consiglio d’Europa si esprime a sostegno di Assange, affermando che una sua estradizione risulterebbe in importanti conseguenze non solo per la tutela dei diritti umani, ma anche per la tutela di chi diffonde informazioni riservate nell’interesse pubblico. In sostanza, l’allarme esposto dal Consiglio è quello di un grave colpo anche alla libertà di stampa e al futuro dei giornalisti.

Il secondo arresto e l’ok all’estradizione

Nel 2019 Assange perde l’asilo politico dell’Ecuador e verrà portato via di forza dagli agenti della polizia metropolitana di Londra ammessi nell’ambasciata. Scontate le 50 settimane, gli viene negata nuovamente la libertà, finendo ancora una volta in detenzione preventiva per via della richiesta di estradizione rinnovata dagli Stati Uniti.

Nel gennaio 2021 il tribunale di Londra deciderà sulla richiesta negando l’estradizione sulla base del timore che Assange possa suicidarsi una volta estradato. Tuttavia, nel dicembre dello stesso anno l’Alta Corte accoglierà il ricorso della controparte ammettendo ancora una volta la possibilità dell’estradizione.

Autorizzata formalmente l’estradizione pochi giorni fa, la decisione finale spetta al Segretario di Stato per gli affari interni del Regno Unito Priti Patel. In seguito alla decisione del tribunale, Amnesty International e diversi tra senatori e giornalisti italiani hanno fatto appello per negare l’estradizione ed a favore della liberazione di Assange.

 

Valeria Bonaccorso

Vaccino Pfizer: arriva la firma UE per 300 milioni di dosi, 27 all’Italia. Borse in rialzo e Trump all’attacco

Una luce in fondo al tunnel si è accesa con l’annuncio dell’efficacia al 90% del vaccino prodotto dall’industria farmaceutica americana Pfizer in collaborazione con la società tedesca Biontech.

Sarebbe semplicistico pensare di essere giunti alla resa dei conti nella lotta contro la pandemia. Troppe sono le incertezze intorno all’efficacia e alla possibilità di distribuzione del nuovo vaccino che rendono la soluzione al problema ancora lontana.

Si tratta di un vaccino innovativo, che stimola la risposta genetica nella lotta al virus sfruttando il MRNA. Per tutti i dettagli sulle caratteristiche tecniche del vaccino Pfizer e degli altri vaccini anticovid in via di sperimentazione vi rimandiamo a questo articolo.

Al momento si parla solo di una speranza che, comunque, non ha tardato a suscitare entusiasmo e fervore.
La prima a rispondere positivamente? La borsa.

L’impatto economico dell’annuncio di Pfizer

L’annuncio dell’efficacia del vaccino ha avuto una forte incidenza sui mercati azionari di tutto il mondo: le principali borse hanno registrato un rialzo.
I guadagni, superiori al 5%, hanno coinvolto in particolare il settore del turismo, il settore aereo e quello petrolifero, i grandi sacrificati dal Covid. Si apre invece una fase di discesa per i colossi che hanno trainato l’economia durante tutta la pandemia: a Piazza Affari è il caso di Diasorin, società leader nella produzione di test sul Covid e tamponi; una battuta d’arresto si ripercuote anche su Amazon e Netflix. Lo conferma Equita:

Riteniamo che la notizia abbia risvolti positivi per alcuni settori come petroliferi, finanziari e consumi discrezionali e negativi per healthcare e consumer staples”.

Il Ftse Mib negli ultimi 12 mesi, Borsa Italiana – Fonte: it.businessinsider.com

Secondo gli esperti di Barclays, la banca internazionale britannica, l’eliminazione dei due fattori principali di incertezza, cioè l’elezione del presidente americano e la ricerca di un vaccino, potrebbe provocare una “rotazione settoriale”, dalle obbligazioni e dai beni di rifugio, come l’oro, verso investimenti più rischiosi.

La teoria del complotto di Donald Trump

L’impatto si è fatto sentire, in particolare, negli Stati Uniti d’America, dove l’annuncio ha innescato, all’indomani delle elezioni presidenziali, forti polemiche. Protagonista della scena è Donald Trump che non ha esitato ad utilizzare la notizia del vaccino come un’ulteriore arma di contestazione dell’esito delle elezioni.

Trump sostiene la teoria del complotto su Twitter – Fonte: www.express.co.uk

Il presidente ancora in carica ha accusato la casa farmaceutica statunitense di aver aspettato il risultato delle elezioni per dichiarare l’efficacia di un vaccino che, come confermato dal vicepresidente Mike Pence, sarebbe stato finanziato da lui stesso.
Trump si dichiarerebbe vittima di una cospirazione pianificata da Pfizer: se la notizia fosse stata divulgata prima del tre novembre, Joe Biden non avrebbe avuto alcuna possibilità di conquistare la Casa Bianca. Ne è sicuro Trump Jr., il quale definisce la tempistica dell’annuncio “nefarious”.

Il figlio di Trump sostiene la teoria del complotto – Fonte: www.dailymail.co.uk

Non è la prima volta che la Pfizer si distacca dall’azione del quasi ex presidente. Adesso respinge le accuse e nega di aver ricevuto dei fondi pubblici. A quanto detto dalla casa farmaceutica, la sperimentazione del suo vaccino non avrebbe niente a che fare con l’operazione Warp Speed, l’iniziativa statunitense di collaborazione tra pubblico e privato per lo sviluppo di vaccini, terapie e test diagnostici contro il coronavirus. Lo ha chiarito Kathrin Jensen:

Non siamo mai stati parte di Warp Speed. Non abbiamo mai preso denaro né dal governo Usa né da nessuno”.

Gli unici fondi pubblici utilizzati sarebbero quelli tedeschi versati a Biontech. Pfizer avrebbe invece attinto esclusivamente a fondi privati.

Del resto, sarebbe difficile immaginare una collaborazione tra Trump e la casa farmaceutica: i rapporti erano già da tempo in rotta di collisione, soprattutto dopo la battaglia intrapresa dal presidente, nel luglio del 2018, contro l’aumento del prezzo dei farmaci sostenuto da Pfizer. Di certo all’azienda farmaceutica non mancava una ragione per provare astio nei confronti di Trump: l’annuncio avvenuto dopo le elezioni potrebbe essere, come sostenuto dal presidente, la vendetta di Pfizer? Non abbiamo alcun dato certo né per confermarlo né per smentirlo. Certa e innegabile è però la slealtà di Trump che, pur di portare acqua al suo mulino, sarebbe capace di inventare qualsiasi menzogna: un dato che sembra far crollare la teoria del complotto.

Il vaccino Pfizer in Europa

Nessuna teoria e congettura, invece, in Europa dove, come affermato da Eric Mamer, portavoce dell’esecutivo comunitario, in queste ore l’Ue dovrebbe firmare con Pfizer un contratto per avere 300 milioni di dosi. Il collegio dei commissari dell’Ue ha dato già il via libera a sottoscrivere il contratto.

La distribuzione del vaccino, come spiegato dalla Commissione Ue

avviene sulla base della popolazione di ciascun Stato membro rispetto al totale degli abitanti dell’Ue”.

L’Italia dovrebbe ottenere il 13,5 % della prima tranche di dosi, cioè 27 milioni di dosi, già disponibili fra fine dicembre e inizio gennaio, previsione confermata anche dall’approvazione dell’Ema, l’agenzia europea per i medicinali.

Rassicuranti questi dati che danno l’immagine di una speranza che ha intrapreso la strada della realtà.

Chiara Vita

È caos in casa Facebook: ecco perché i dipendenti protestano contro Zuckerberg

I dipendenti di Facebook prendono le distanze dalle decisioni di Zuckerberg di non intervenire a oscurare i post di Trump. Su Twitter continuano le polemiche.

Il Presedente Americano Donald Trump il 28 maggio ha firmato un ordine esecutivo con l’intento di ridurre la possibilità, da parte dei social network, di segnalare o eliminare i contenuti dei propri utenti.  Il provvedimento prevede di non censurare neppure i contenuti falsi o che incitano all’odio.

Con la nuova normativa imposta dalla casa bianca, social network come Twitter e Facebook non godranno più di una sorta di “immunità”. Infatti, qualora dovessero eliminare un post le autorità competenti dovranno valutare se hanno leso o meno la libertà di espressione. Il decreto è stato presentato pochi giorni dopo che Twitter ha segnalato due post del presidente, considerandoli come “potenzialmente fuorvianti”. I contenuti non sono stati rimossi, ma è stato allegato un link dove era possibile approfondire i fatti che sono stati riportati erroneamente.
Trump prima di firmare il provvedimento ha affermato che l’esecutivo è volto a

«difendere la libertà di espressione da uno dei pericoli più gravi che si sia dovuto affrontare nella storia americana».

La volontà del Presidente Americano di non censurare i contenuti degli utenti, accade in virtù della norma conosciuta come “Sezione 230” contenuta all’interno del Telecommunications Act statunitense del 1996. Il provvedimento è stato istituito negli anni del boom tecnologico ed emanata per regolarizzare i contenuti pedopornografici, poi modificata nel 2018. La normativa però, esenta le piattaforme dalla responsabilità dei contenuti pubblicati dai propri utenti.

«Sui social media» –afferma Trump – «una manciata di realtà controllano una vasta porzione di tutte le comunicazioni pubbliche e private negli Stati Uniti. Hanno avuto il potere incontrollato di censurare, limitare, modificare, modellare, nascondere, alterare, praticamente qualsiasi forma di comunicazione tra cittadini privati».

Ci sono però dei limiti decisionali da parte di Trump; l’ordine esecutivo prevede infatti che il Dipartimento del Commercio e il procuratore generale William Barr modifichino la legge dalla Federal communications commission (Fcc). L’agenzia governativa è indipendente dal governo e può decidere se modificare o meno le norme vigenti, considerando i social network al pari del giornali.

Ciò che appare chiaro è che Trump punta a diminuire il potere delle grandi piattaforme, cambiando una legge del 1996 che le tutela a livello legale.

Il caso Twitter

L’antefatto tra Twitter e Trump, riguarda due tweet del Presidente considerati fuorvianti dal social network.
Nel primo affermava, senza alcuna prova, che le votazioni per posta avrebbero portato una diffusa frode fiscale nei confronti degli statunitensi. Trump ha prontamente reagito all’accaduto, scrivendo che quest’atto si può considerare censura, e anche quest’ultimo post è stato considerato come “non veritiero”.

Il decreto voluto dal Presidente infatti, cita direttamente Twitter affermando che questo applichi una selettiva che considera, erroneamente, i post come inaffidabili. Nel provvedimenti vengono citati anche Google che, secondo il parere di Trump, aiuterebbe la Cina a spiare i cittadini americani e Facebook che riceverebbe un cospicuo guadagno dalle pubblicità cinesi.

Dipendenti di Facebook in protesta

Il provvedimento di Trump ha creato all’interno dell’aziende del Network abbastanza scompiglio. I dipendenti manifestano contro il rifiuto di CEO, Mark Zuckerberg, di sanzionare i post incendiari del presidente americano. Alcuni dipendenti, infatti, si astengono dal lavorare per contrastare l’imparzialità da parte di Zuckerberg. «Riconosciamo la sofferenza che molti della nostra gente sta provando ora, in particolar modo la nostra comunità nera» affermano i dipendenti, incoraggiando altri lavoratori «a parlare apertamente quando non sono d’accordo con i vertici dell’azienda».
Parlando a Fox News, però, il fondatore del colosso ha affermato che i social privati non dovrebbero essere arbitri della verità di quanto le persone sostengono online.

Il Presidente Americano ha ritwittato l’intervista, dopo che i suoi post che incitavano alla violenza contro i manifestanti non sono stati censurati per incitamento all’odio. Anche il direttore dei prodotti Facebook si discosta dal modo in cui Zuckerberg sta gestendo la situazione e afferma:

«Non sono fiero di come si sta muovendo l’azienda e molti colleghi con cui ho parlato la pensano come me. Dobbiamo far sentire la nostra voce».

Nel corso di una conferenza, tenuta nella giornata di ieri, il numero uno di Facebook Zuckerberg parlando ai suoi dipendenti ha affermato che è stata “una decisione difficile” ma “approfondita” e aggiunge

«Sapevo che avrei dovuto mettere da parte la mia opinione personale, conscio che decisioni come questa avrebbero turbato molti all’interno della compagnia e avrebbero attirato critiche dai media».

Paola Caravelli

https://www.lifegate.it/persone/news/trump-contro-twitter (03/06/2020)

https://www.lastampa.it/esteri/2020/06/02/news/usa-zuckerberg-non-interviene-su-post-di-trump-in-sciopero-i-dipendenti-di-facebook-1.38918721 (03/06/2020)

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2020/06/02/zuckerberg-si-difende-su-trump-decisione-difficile-_799835fe-3bb8-433f-a2b2-416293fe3650.html (03/06/2020)

 

Brexit,tra perplessità e contraddizioni: stop agli europei in cerca di lavoro

“Dopo la Brexit non sarà più possibile per le persone di arrivare dall’Europa nella remota possibilità che possano trovare un lavoro” a renderlo noto è il premier britannico Theresa May sul suo profilo Facebook personale.

 

 

 

 

 

 

A distanza di due anni dal voto che ha deciso l’estromissione della Gran Bretagna dall’UE, le trattative per la Brexit rimangono aperte. Il 12 luglio scorso la premier britannica, Theresa May, ha pubblicato sul suo profilo Facebook una nota in cui parla del futuro del Paese post Brexit. In giornata è stato presentato anche il cosiddetto “Libro bianco” che stabilisce le condizione previste per il divorzio dall’Unione.

Non sarà più permesso alle persone arrivare qui da tutta Europa nella remota possibilità che possano trovare un lavoro. Accoglieremo sempre i professionisti qualificati che aiutano il nostro paese a prosperare, da medici e infermieri a ingegneri e imprenditori – chiarisce – Ma per la prima volta da decenni, avremo il pieno controllo delle nostre frontiere. Sarà il Regno Unito, non Bruxelles, a decidere a chi dovrebbe essere permesso di vivere e lavorare qui.

Il documento propone, insomma, una Brexit morbidissima, già ribattezzata “soft-Brexit“, decretando le anticipate dimissioni dell ministro degli Esteri, Boris Jhonson, e di quello della Brexit, David Davis, suscitando parecchia stizza tra le fila degli euroscettici.

Non mi pare che i britannici avessero votato per questo!

A fare il punto della situazione, con la solita – forse troppa – franchezza, è il Presidente USA, Donald Trump, sottolineando come, l’uscita di Londra dall’Europa assomigli sempre più ad una messa in scena. Siamo di fronte ad una “libertà di circolazione sotto altro nome“, come sostengono i pro-Brexit. Ed in effetti, pare che sul piano economico, il governo May, intenda restare soggetta alle regole del mercato unico, per quanto riguarda industria e agricoltura; mentre in merito a servizi finanziari e digitali, il Paese sarà svincolato dalle leggi dell’Unione, camminando solo.

Cosa succederà effettivamente ancora non ci è dato saperlo. Tra perplesssità e contraddizioni, il treno Brexit pare correre sempre più veloce, anche se non si è ben capito verso quale direzione.

Elisa Iacovo

 

 

 

Inaugurata a Gerusalemme l’ambasciata USA

Si è svolta il 14 Maggio a Gerusalemme la cerimonia di apertura della nuova ambasciata Usa.

La decisione del presidente americano, Donald Trump, di trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme è avvenuta in concomitanza con le celebrazioni per il 70esimo anniversario della nascita dello stato di Israele.

Alla cerimonia di insediamento della nuova ambasciata americana hanno preso parte la figlia del presidente americano Donald Trump, Ivanka, e il genero, Jared Kushner, oltre al segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, e al vice segretario di Stato, John Sullivan.

E’ stata proprio Ivanka Trump a togliere il velo alla targa dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Il presidente non essendo fisicamente partecipe alla cerimonia è intervenuto con un video messaggio pre-registrato, nel quale afferma che:

“La capitale di Israele è Gerusalemme. Israele, come ogni stato sovrano, ha il diritto di determinare la sua capitale (…) la nostra speranza è per la pace e gli Stati Uniti restano impegnati per un accordo di pace”.

Scrivendo subito dopo un tweet nel quale ribadisce esultando “Un grande giorno per Israele. Congratulazioni!”.

 

Sebbene alla cerimonia di inaugurazione la presenza era solo di quattro delegazioni europee: Repubblica Ceca, Romania, Austria e Ungheria; dopo gli Stati Uniti, altri paesi hanno affermato di avere in programma il trasferimento della loro ambasciata a Gerusalemme.

Dopo aver annunciato lo spostamento dell’ambasciata, lo scorso 6 dicembre, la situazione in Medio Oriente può essere riassunta con una sola parola: “massacro“.  Questa notizia scatenò e continua a scatenare un forte conflitto a tal punto che le manifestazioni, alle quali la partecipazione si è presentata in massa, prendono il nome de “La marcia del ritorno“.

Purtroppo anche l’inaugurazione è stata circondata da un clima di tensioni: violentissimi e sanguinosi scontri tra manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano, hanno avuto luogo sia per le strade sia lungo il confine tra Israele e la Striscia di Gaza, dove secondo alcuni dati dimostrati, il bilancio è salito almeno a 52 morti e altri duemila feriti.

Nonostante tutti i paesi si dichiarino preoccupati, le loro reazioni di condanna volte sia verso la decisione del presidente americano sia verso l’incessante massacro, non sono sufficienti per fermare la catastrofe.

                                                                                                                                                                         Francesca Grasso