Quando l’all-you-can-eat di serie tv diventa indigesto

Netflix, dopo gli inizi promettenti della sua produzione con la serie House of Cards con protagonista Kevin Spacey nel 2013, si è fatta decisamente largo nella nostra quotidianità. La maggior parte di noi ha oggi un abbonamento attivo, le sue serie di punta sono entrate nel panorama mainstream e il catalogo si è nel tempo ampliato aggiungendo sia serie e film vintage che nuove produzioni della stessa Major. Questo menu però si è col tempo trasformato in un “all-you-can-eat” dalla qualità decisamente altalenante: l’azienda, cercando di procurare sempre più prodotti agli spettatori, ha col tempo disatteso molte aspettative non riuscendo a coniugare la possente macchina produttrice con una buona fattura.

Serie come La casa di carta sono l’emblema di tutto ciò: si tratta di un prodotto che potremmo giudicare come una vacca munta oltre il necessario. Una rapina raccontata dal punto di vista di personaggi che riescono a stare al di sopra del mero stereotipo ci ha inizialmente catturato come idea, ma col tempo questa stessa idea è risultata ridondante e la serie si è lasciata trascinare verso una banalità che ha colpevolmente punito il lavoro iniziale.

Dal trailer de ”La casa di carta”. Fonte: Netflix

 

Stesso discorso anche per un altro prodotto Netflix acclamato da massa e critica: Stranger Things. La serie ha fin dall’inizio avuto un nucleo semplice ma attraente: gli anni ’80 e tutta la cultura pop relativa al periodo, i mostri che si annidano nei sobborghi americani, le azioni di giovani protagonisti che crescono assieme agli spettatori e Stephen King come maggiore ispirazione narrativa.

Il successo di Stranger Things ha riportato in auge anche il ricordo degli eighties sia nel pubblico giovane, che li sta scoprendo, sia in quello adulto che li ha nel cuore e li sta rivivendo. La serie, però, col tempo si è rivelata una miniera di diamanti per il colosso americano e, se da un lato questo sembrerebbe positivo, è diventato in realtà una lama a doppio taglio. La volontà di ingozzare lo spettatore già a partire dalla seconda stagione, introducendo situazioni che espandevano l’universo narrativo, non è stata recepita bene dal pubblico e, con il prosieguo della trama, quel labirinto ha fatto posto ad una strada più lineare.

Ci saremmo augurati però che la storia seguisse un filo più logico e meno isterico!

Dal trailer di ”Stranger Things”. Fonte: Netflix

 

Per ricollegarci ora ad un universo più ampio, si può accennare ad un’altra importante tendenza dello show business hollywoodiano dell’ultimo decennio: il tema supereroistico. La serie Netflix sul personaggio di DareDevil ha per la prima volta spostato questo tema dalla sala alla TV.

Oggi questo percorso sta venendo continuato da Disney sulla sua piattaforma streaming Disney +.  Nel giro di poco meno di due anni sono state aggiunte al catalogootto produzioni: un numero esorbitante se consideriamo che va ben oltre la media della quantità di serie tv di cui lo spettatore medio fruisce in quel lasso di tempo. Inoltre  solo poche storie all’intero di questo miscuglio meritano una valutazione positiva.

L’atteggiamento bulimico che si aspetta la produzione da parte del pubblico potrebbe, a nostro avviso, non essere la strada migliore da seguire.

Sarebbe invece auspicabile un ritorno ad una produzione meno intensiva ma che al contempo porti con sé maggiore qualità nei prodotti destinati al grande pubblico, anche nell’ottica di salvare queste aziende e queste storie dall’orlo di un baratro che col passare del tempo si fa sempre più vicino e più largo.

 

Matteo Mangano, Giuseppe Catanzaro

 

*Articolo pubblicato su Gazzetta del Sud, all’interno dell’inserto “Noi Magazine” il 10/11/2022

Scrubs: la serie che ci fa ridere ed emozionare allo stesso tempo

“Con il cuore di JD e la testa di Kelso” (AntartidePTN)

Fin da piccola ho avuto una passione: quella del cinema, della musica e dello spettacolo. Non come interprete, ma come osservatrice: guardo, analizzo e mi commuovo. Essendo un amore il mio, ho visto tante opere, alternando il mio interesse verso più direzioni. Scrubs è quella serie tv che mi ha colpito particolarmente. Ideata dal regista Bill Lawrence, la serie ha ottenuto una fama internazionale, andando in onda dal 2001 al 2010: 9 anni, 9 stagioni e 182 episodi che hanno coinvolto il pubblico.

Scrubs ha lanciato la carriera dell’attore Zach Braff, che interpreta il Dottor John Michael “J.D.” Dorian. (Curioso sapere che proprio oggi la star della fortunata serie spenga 47 candeline).

Da sinistra a destra: Turk (Donald Fraison) Elliot (Sarah Chalke) Carla (Judy Reyes) e JD (Zach Braff). Fonte: Disneyplus

Di cosa parla Scrubs?

“Un saggio disse che lo spirito umano può superare ogni ostacolo… Quel saggio non aveva mai fatto triathlon”

Le vicende avvengono all’Ospedale Sacro Cuore con “sale bianche”, mascherine, medici e pazienti che corrono da una stanza all’altra. Nei corridoi possiamo notare il tirocinante John Dorian, un ragazzo dal cuore d’oro, fresco di laurea, alle prese con questo mondo nuovo – fatto non solo di lavoro, ma d’amore e amicizia – composto di attimi di paura e felicità. John comincerà questa nuova avventura assieme al suo migliore amico Christopher Turk (Donald Fraison).

Nel primo episodio farà la conoscenza di tutte le persone che entreranno a far parte dalla sua vita. Come il Dottor Cox (John C. McGinley) nonché il suo mentore, poi l’amore della sua vita Elliot Ridd (Sarah Chalke), l’inserviente (Neil Flynn) di cui non si saprà mai il suo vero nome e che renderà la vita di JD un vero inferno. Abbiamo il Primario di medicina, il Dottor Kelso (Ken Jenkins), più interessato ai soldi che alla cura dei suoi pazienti, e infine troviamo la Capa infermiera Carla Espinosa (Judy Reyes), una specie di “madre” per tutti i nuovi arrivati.

Le prime otto stagioni sono interamente narrate dal punto di vista di JD, ad eccezione di alcuni episodi.

I personaggi principali di Scrubs. Fonte: Disneyplus

Sigla e titolo

Il titolo è un gioco di parole: “scrubs” indica le divise indossate da medici e infermieri. E come ci ha insegnato la pandemia, sappiamo che è importante lavarsi le mani accuratamente, strofinando per bene. Medici e chirurghi devono eliminare ogni tipo di germe prima di compiere qualsiasi operazione. “To scrub”, in italiano, vuol dire proprio “strofinare”.

La sigla della serie è Superman, un brano della band musicale Lazlo Bane. Durante la canzone vediamo i protagonisti, in sequenze alternate, passarsi un radiogramma che infine viene poggiato su un diafanoscopio. La canzone rappresenta non solo la serie ma tutto il mondo della medicina perché molte volte pensiamo ai dottori come a degli “eroi”, un po’ come quelli dei fumetti. Ma si sa, anche Superman ha la sua Kryptonite.

“Ma non posso fare tutto ciò da solo
No, lo so non sono Superman”

Perché è diversa?

“È per questo motivo che l’emicrania non le passa: qui vede, questo si legge “analgesico”, non “anale-gesico”. Signore, le prenda per bocca…”

Per anni è andato di moda il genere medical drama. Si pensi a Doctor House o a Grey’s Anatomy. Tutte opere che suscitano un grande interesse nel pubblico, ma che purtroppo sembrano essere sempre uguali tra di loro: serie in cui il contenuto viene meno e si pensa solo all’immagine commerciale. Ed è proprio in questo caso che troviamo quegli episodi che vanno avanti solo per l’audience generata da un “senso di attaccamento” del pubblico.

Anche a me, quando finisco una serie, un libro o un film, succede spesso che mi salga un senso di angoscia, avendo in qualche modo creato un legame con la storia o con i personaggi. L’unica serie che si distacca dai gusti del mercato globalizzato è proprio Scrubs. Anch’essa è legata agli stessi elementi del genere medical, ma la trama, che più si avvicina alla realtà, è allo stesso tempo più leggera. Un paradosso se ci pensiamo! La vita in sé non ha attimi prolungati di felicità e di quiete: il nostro tempo è costituito soprattutto da istanti di infelicità e solitudine. Quindi perché Scrubs è cosi leggera?

Fonte: DisneyPlus

Scrubs è una delle poche serie che riesce a legare comicità e “dramma”, rendendole una cosa sola. Nel giro di 20 minuti, ridi e subito dopo scoppi in lacrime. Ogni particolare, anche il più piccolo, rende lo spettatore partecipe alla storia, mettendo in mostra “il reale” che viviamo giorno per giorno. Ricordandoci che alla fine, per quanto si possano incolpare gli altri, la persona con cui bisogna prendersela davvero è soltanto una: noi stessi. I pensieri di JD, i monologhi del Dottor Cox, e le azioni degli altri personaggi ci insegnano che tutti siamo fragili ed è normale sbagliare.

Per questo, di fronte a situazioni tragiche non dobbiamo abbatterci. A volte è giusto chiedere aiuto, ma non bisogna mai arrendersi. Scrubs è quella serie che lega il riso e il pianto in unico filo: due reazioni che scaturiscono da due stati d’animo opposti, ma che appartengono ad ogni essere umano. Bisogna mostrare le proprie fragilità e ammettere di avere paura: nessuno di noi è Superman, come dice la sigla.

  Alessia Orsa

Hawkeye: un graditissimo regalo per chiudere il 2021

 

      Un ottimo regalo firmato Marvel per le feste natalizie   – Voto UVM: 4/5

 

Arrivata al suo quarto prodotto seriale, Marvel offre agli spettatori un prodotto molto più leggero rispetto agli intricati Wanda Vision e Loki ed al più politico The Falcon and The Winter Soldier (uscite sempre nel 2021).

La serie Hawkeye, trasmessa dal 24 novembre al 22 dicembre scorso su Disney +, vede per la prima volta come protagonista – dopo oltre 10 anni di film del MCU – Clint Barton (Jeremy Renner) alias Occhio di Falco, affiancato da una freschissima new entry, Kate Bishop (Hailee Steinfeld).

Clint (Jeremy Renner) con il classico costume viola. Fonte: Disney +

Gli eventi hanno luogo – come di consueto nelle ultime produzioni Marvel – dopo Avengers Endgame (2019), e sono per la prima volta piuttosto semplici e tranquilli.

Clint si prepara a trascorrere un felice Natale con la sua famiglia fino a quando non vede in televisione un oscuro fantasma del suo passato. Qualcuno sta indossando il suo vecchio costume di Ronin, identità adottata da Clint dopo il “Blip” (conseguenza dello schiocco di dita di Thanos avvenuto in Avengers Infinity War), in cui l’arciere, divorato dalla perdita della sua famiglia, diviene un giustiziere di criminali assetato di sangue.

Clint scoprirà immediatamente che chi si cela dietro la maschera non sarà altro che Kate Bishop, e da lì la serie impennerà verso vette qualitative decisamente elevate. Descritta così la storia potrebbe sembrare caratterizzata da quei toni cupi da cui Hawkeye in realtà si distanzia subito.

Infatti, la sceneggiatrice Katrina Mathewson pesca a piene mani dalla storia migliore dello scanzonato arciere ossia l’Occhio di Falco di Matt Fraction e David Aja, da cui riprende interamente i “nemici”: la Tracksuit Mafia (Mafiosi in Tuta), versione tremendamente caricaturale di qualunque associazione criminale.

 

Clint e Kate in una scena della serie

Ma l’aspetto per cui Hawkeye brilla di più non è la trama (che resta comunque piacevole e ben congeniata) bensì il legame tra Clint e Kate.

Con il succedersi degli episodi il loro rapporto maestro-allieva progredisce sempre di più fino a diventare quasi quello che c’è tra un padre e una figlia. L’entusiasmo di una novizia Kate e la stanchezza di un Clint, ormai sovraccarico di tutte queste dinamiche, spiccano in un dualismo ben caratterizzato.

Ogni loro dialogo è impattante, sia che si soffermi sulle tematiche più profonde sia che tocchi quelle più leggere e divertite. Le prove attoriali dei due protagonisti, poi, rendono la serie la gemma che chiude un 2021 ricco di produzioni Marvel.

Da sottolineare anche le coreografie di combattimento totalmente inedite nel panorama MCU data la massiccia presenza di arco e frecce che rende i combattimenti mai ripetitivi.

La serie non è tuttavia esente da difetti, seppur divertente e spensierata. Non si percepisce mai un vero senso di pericolo che coinvolga i due protagonisti: la già citata Tracksuit Mafia è del tutto innocua e funge solo da esilarante “punching ball” ( valvola di sfogo), mentre l’introduzione di Echo (Alaqua Cox) risulta troppo frettolosa e volta esclusivamente a presentare al pubblico il personaggio per il suo futuro spin-off.

Infine un ritorno graditissimo potrebbe risultare quello di un personaggio reso magistralmente nelle sue precedenti apparizioni su Netflix, ma che qui viene decisamente “svilito”. Di chi si tratta non saremo noi a svelarvelo!

 

Da una copertina della serie di Fraction e Aja – Fonte: Marvel Comics

 

In conclusione, Hawkeye è una serie che scorre via piacevolmente chiudendo linee narrative senza lasciare buchi, ma che pecca un po’ di ingenuità nella costruzione della trama. Ciò nonostante, resta un ottimo regalo per le feste di Natale.

Giuseppe Catanzaro

The Falcon and The Winter Soldier: la potenza dei simboli nell’attualità

La nuova serie Disney, seppur più “tradizionale”, non manca di azione e funge da veicolo per messaggi di grande rilevanza sociale – Voto UVM: 4/5

Dopo la scommessa più che vinta fatta con Wanda Vision nella piattaforma Disney Plus, la Disney ritorna con una nuova serie dai canoni molto più simili a ciò che siamo stati abituati a vedere all’interno del Marvel Cinematic Universe: The Falcon and the Winter Soldier.

La serie continua la narrazione degli eventi accaduti alla fine di Avengers Endgame, e, più nello specifico, il ritiro dalle scene di Steve Rogers con il suo conseguente addio al ruolo di Capitan America e il passaggio dello scudo a favore di Sam Wilson.

 

Sam riflette sul valore dello scudo – Fonte: My Red Carpet

Il fulcro della serie verte attorno alle 3 figure che, fumettisticamente, dopo l’originale Capitan America, hanno ereditato lo scudo in periodi ed in eventi diversi, e, nello specifico: Falcon (Anthony Mackie), il Soldato d’inverno (Sebastian Stan) e il neo introdotto nel MCU John Walker (Wyatt Russell).

Ma cosa significa essere Capitan America? È sufficiente ricevere lo scudo ed un costume e che il governo ti dichiari tale per esserlo?

La risposta è assolutamente no, perché l’essere Cap ha sempre trasceso dall’uomo che porta lo scudo, poiché lo scudo stesso è un simbolo: rappresenta il sogno ma, al contempo, porta con sé responsabilità ed un peso che può schiacciarne chi lo possiede evidenziandone le sue debolezze.

La serie mostrerà allo spettatore tutto ciò attraverso il personaggio di John Walker, soldato che ha ricevuto molteplici medaglie d’onore per il valore ed i meriti mostrati sul campo, il quale viene eletto dal governo nuovo Capitan America in quanto ritenuto, sia fisicamente che moralmente, degno di essere l’erede di Steve Rogers.

John porterà il fardello di rivestire il ruolo del simbolo maggiore del proprio paese, non riuscendo, però, a gestire tale peso: questo lo porterà a macchiare lo scudo di una colpa indicibile dovuta al sentirsi inferiore rispetto al Cap originale, il tutto reso in modo magistrale attraverso una scena ed una fotografia talmente impattante agli occhi dello spettatore da risultare quasi evocativa.

John Walker – Fonte: Comics Universe

 

Ma qual è il messaggio principale che Malcolm Spellman – autore della serie – vuole darci?

I simboli trascendono l’autorità, Capitan America non è un uomo bianco, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, non è lo stereotipo che il governo vuole far passare come immacolato e puro tanto da rinnegare i meriti di soldati di colore solo perché tali, cercando di cancellarli dalla storia, bensì un uomo che sa cosa davvero rappresenta lo scudo, che combatte per esso e per gli ideali che esso rappresenta.

Il razzismo è una piaga che ancora oggi, purtroppo, attanaglia il nostro mondo, ma personaggi come Sam Wilson e la crescita dello stesso all’interno della serie, servono a veicolare il più importante dei messaggi: il colore della pelle non è mai stato e mai dovrà essere un fattore per giudicare una persona, eroe o meno che sia.

I simboli trascendono dal colore della pelle e dalla religione, e non apparterranno mai a nessuno, tranne a chi li merita davvero.

Possiamo dunque affermare che The Falcon and the Winter Soldier è una serie compatta, a tratti altalenante nei ritmi, che soffre la poca consistenza degli episodi iniziali, ma che vanta coreografie di combattimento ben congegnate e che – soprattutto – cerca di trasmettere dei messaggi sociali degni di nota.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Giuseppe Catanzaro

Disney+ vs Netflix agli Oscar 2021

Come per ogni categoria che si rispetti, anche la statuetta dei film di animazione è tra le più attese.

Come sempre, la grande casa Disney fa da padrone ( è inevitabile associare ad essa un cartone ), ma quest’anno ha la Grande N come rivale. Infatti, a concorrere agli Oscar nella categoria in questione abbiamo, tra gli altri, Soul e Over The Moon.

Soul, Disney+

La matita di Pete Docter, ancora una volta, cela dietro personaggi dagli occhi grandi e forme morbide una riflessione sulla vita, profonda e pesante allo stesso tempo. Dietro la figura di Joe Gardner si nasconde l’insoddisfazione “dell’essere umano medio”, di colui che ha dovuto rinunciare ai propri sogni pur di uniformarsi alle convenzioni.

Fonte: taxidrivers.it, il professor Joe

Pete ha disegnato un uomo in grigio la cui unica scintilla è il jazz: sarà proprio questo a farlo svegliare al mattino e a fare da sottofondo alla sua vita e a tutto il film. Infatti sono stati scritti dei pezzi originali proprio per la vita di Joe, in stile “vecchio bar americano” con nuvole di fumo e completi gessati.

Il film è geniale in quanto utilizza un linguaggio semplice per spiegare un concetto complesso: l’essere insoddisfatti e non trovare la propria scintilla perché si è costantemente persi in un mondo caotico.

Il  protagonista sarà oggetto di uno scherzo del destino: la sua vita finisce proprio quando sta per cogliere una delle più grandi opportunità, ovvero suonare con una sassofonista leggendaria. E così ci ritroviamo nell’altro mondo dove Joe, incontrandosi e scontrandosi con le altre anime, riesce – in modo non convenzionale – a comprendere la bellezza della vita. E noi la scopriremo con lui grazie alle voci di Neri Marcorè e di Paola Cortellesi che renderanno il tutto più coinvolgente e leggero.

Ma di leggero in Soul non c’è nulla. Fa riflettere tutte le generazioni, dimostra che siamo così indaffarati a cercare di modellare la nostra personalità alle convenzioni sociali che non ricordiamo l’importanza delle passioni «che sono il sale della vita» o addirittura quanto sia buona una fetta di pizza.

Fonte: ilfattoquotidiano.it, Joe e 22 in una pizzeria dell’altro mondo 

A far capire tutto questo a Joe sarà l’anima di 22; Joe da solo non sarebbe mai riuscito a trovare l’importanza della semplicità e la piccola anima cinica, senza il nostro protagonista, non sarebbe mai riuscita a tornare sulla terra e accorgersi di quanto fosse sbagliata la convinzione che non la potesse “accendere niente”.

Collaborazione, realizzazione e immaginazione sono le tre parole chiave del film che fa scendere una lacrima e accendere molte lampadine, interrogandoci in ogni momento.

Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria, Netflix

Netflix ci porta in Oriente e poi sulla Luna: Over the Moon è una storia commovente, sullo stampo dei classici cartoons, un film da guardare con tutta la famiglia che lascia una sensazione di serenità e pace.

La vicenda strappalacrime è quella di una bambina che perde la mamma, che crede ancora nelle fiabe ma nonostante questo possiede una spinta continua alla ricerca della verità.

Fonte: taxidrivers.it, Fei Fei e la sua famiglia 

Un’anima da scienziata dentro il corpo di una piccola Fei Fei talmente ingegnosa che arriva sulla luna.

Il regista Glen Keane, ex “cadetto” Disney con diverse medaglie, rappresenta in maniera colorata e semplice il “fantastico mondo di Lunaria”, un luogo particolare e fluorescente che farà da palcoscenico alla fiaba scritta da Audrey Weels (deceduta nel 2018) a cui è dedicato il film.

Fonte: tomshw.it, la vista di Lunaria 

I temi trattati sono evergreen: il lutto, la “gelosia” nei confronti della nuova compagna del padre,  il senso del dovere e le tradizioni di famiglia; tutto questo si trova immerso sotto la luce della luna e viene raccontato tramite musica e colori.

Il confronto

Come si può notare, la competizione anche quest’anno è molto alta. Lo streaming ha sostituto le poltrone del cinema e, nonostante questo, i film non hanno perso la loro magia. Da una parte ci sono le riflessioni sulla vita espresse mediante un film di animazione, dall’altro ci sono grandi problematiche della nostra esistenza vissute da una ragazzina; sembrano temi già trattati ma − sicuramente – richiedono una costante e ulteriore rilettura.

Soul e Over the Moon emozionano e fanno riflettere; sicuramente il far parte della categoria “film d’animazione” rappresenta una grande sfida e cela una sorta di evoluzione: possiamo affermare che i cartoni ormai non sono film solo per bambini, bensì richiedono autocoscienza e voglia di cambiare. Ci donano il desiderio di crescere, come quello che avevamo da piccoli, ma ci permettono di farlo con maggiore consapevolezza. Che grande privilegio, non sprechiamolo.

Barbara Granata

Wanda Vision: l’autorialità della cultura pop

Voto UVM: 4/5

A distanza di più di un anno dalla sua ultima produzione, il Marvel Cinematic Universe (MCU) ritorna in grande stile con il prodotto più autoriale mai fatto in questi 13 anni di attività.

Wanda Vision, nella programmazione dei prodotti della fase 4 dell’universo cinematografico Marvel, avrebbe dovuto essere il quinto (Black Widow, Eterni, Shang Chi, Falcon and the Winter Soldier), ma, a causa della pandemia e dei molteplici rinvii del film sulla Vedova Nera, è stato deciso che fosse il prodotto iniziale della suddetta fase.

La serie (ambientata subito dopo le vicende di Avengers Endgame) è stata realizzata nel modo più inaspettato possibile per un prodotto del suo genere: infatti, la parte iniziale della serie è una celebrazione della sitcom americana, che si evolve con il passare degli episodi, passando dagli anni 50 agli anni 80-90, fino alla più che naturale (ma contestualmente di ottima fattura) trasformazione in cinecomic.

 

Poster della serie

Ritroviamo Elizabeth Olsen, nei panni di Wanda, e Paul Bettany, nei panni di Visione, ma con uno spazio ad essi dedicato, ovviamente maggiore, in cui i due talentuosi attori riescono a dare il meglio di loro stessi immergendosi totalmente nel mood mutevole della serie. In particolar modo Elizabeth Olsen riesce a esprimere nel migliore dei modi tutte le sfaccettature del personaggio da lei interpretato, passando dal comico al drammatico con una naturalezza sconvolgente.

La serie ci porta a Westview, dove Wanda e Visione vivono la più classica delle vite da coniugi che veniva rappresentata nelle sitcom di metà secolo scorso, dove, tra battute e situazioni comiche, si insinua sempre più, con il passare degli episodi, un senso di stranezza e surrealtà, con un incedere sempre maggiore, fino al raggiungimento delle molteplici rivelazioni, che faranno capire la reale natura sia di Westview sia delle vite così perfette ma, al tempo stesso, irreali di Wanda e Visione.

Il prodotto segue lo schema di distribuzione, ormai consolidato, della piattaforma di Disney+ di un episodio a settimana, mossa vincente in quanto riporta lo spettatore alla bellezza del teorizzare (in particolar modo dopo l’introduzione di un personaggio specifico) su ciò che avverrà nell’episodio successivo, o su come tutta la serie influenzerà il macroverso del MCU; questi aspetti non si vedevano nel panorama delle serie tv dai tempi di un vero e proprio cult come Game of Thrones.

La Marvel attinge a piene mani dai fumetti più noti dei due personaggi, riadattandoli alla serie e, più in generale, al mondo narrativo cinematografico della Casa delle Idee, dal Visione: Un pò peggio di un uomo/un pò meglio di una bestia di Tom King, al celebratissimo House of M di Brian Bendis.

 

Copertina del numero 1 di House of M – Fonte: Wikipedia

L’insieme non è tuttavia privo di difetti, in quanto l’introduzione di personaggio in particolare (non lo menzioniamo per evitare un enorme spoiler) non viene giustificata e approfondita nella narrazione della serie, lasciando lo spettatore alle più disparate speculazioni o al pensare che il tutto possa risolversi nell’essere del mero fan service; inoltre, il finale non risulta incisivo come il resto della serie.

In conclusione, Wanda Vision è una scommessa più che vinta da parte dei Marvel Studios, che riescono, con il loro prodotto di fascia più pop, a creare una serie autoriale magistralmente scritta e recitata che non manca di tutte le sfere che hanno reso celebre la categoria nell’ultimo decennio abbondante, ma che si evolve nell’avere una propria identità alzando l’asticella delle aspettative verso i prodotti successivi della piattaforma stessa.

Adesso non resta che vedere cosa Marvel e Disney abbiano in serbo per noi con le prossime serie.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Giuseppe Catanzaro

Tu chiamale se vuoi Emozioni

É ormai risaputo che la grande famiglia Disney – Pixar non fa cartoni per bambini o comunque non solo per loro; infatti, dietro gli occhi rotondi e i colori sgargianti dei protagonisti si nasconde qualcosa di ben più complesso, ma allo stesso tempo qualcosa di reale e sempre attuale.

Eh si, uno dei suoi più grandi film è proprio Inside Out, film scelto da AEGEE per il cineforum sulla #mentalhealth, e che dire? Sicuramente è un successo intramontabile.

Voto UVM: 5/5; l’inconfondibile matita Pixar riesce a disegnare le nostre emozioni passate, presenti e future

Il genio Pixar

In Inside Out si evidenzia la bravura dei registi – tra cui Pete Docter famoso per essere il cantastorie che ha incantato il mondo con Toy Story, Up e l’attualissimo Soul – nel regalare al pubblico la possibilità di immedesimarsi, di riflettere e forse, di autocriticarsi.

fonte: mymovies.it; Locandina Film 

La vicenda si svolgerà sia dentro (inside) che fuori (out) la mente della protagonista; la bellezza di ciò è rendersi conto di quanto l’out sia influenzato dall’inside. Questo cosa vuol dire? Non perdendoci in ragionamenti psicologici, sicuramente indica l’importanza di dare peso ai sentimenti e alle emozioni perché sono queste che ci permetteranno di affrontare qualsiasi prova che si presenta all’esterno.

Inside

Il cervello di Riley – nome della protagonista del film – ci viene rappresentato come un grande centro di comando (d’altronde cos’altro è il cervello se no?) al cui “capo” c’è Gioia.

Attenzione, perché la gioia qui è capo logistico delle altre emozioni ma non per questo è la più importante. E qui ci viene svelata una delle grandi verità del film: la vita è gioia ma non soltanto… Se non ci fosse Rabbia a far valere i propri diritti o Disgusto ad evitare cibi cattivi, come farebbe Riley a superare la sua quotidianità? Ecco la bellezza nascosta dietro la perfetta matita pixar: la realtà.

fonte: empireonline.com; Le emozioni al centro di comando

Infatti dietro delle figure antropomorfe si nasconderanno le emozioni, ognuna con le sue peculiarità e le sue attitudini, ma soprattutto ognuna con il suo compito. E’ proprio da dietro una scrivania – che ricorda quella di un Talent Show – che gestiranno ogni azione della ragazzina e nel loro insieme creerano un mix complesso ma divertente che va dal goffo al riflessivo.

La dicotomia clue del film – e forse della nostra vita – è quella tra Gioia e Tristezza una non vivrebbe senza l’altra e soprattutto Riley non potrebbe sopportare una perdita del loro equilibrio. Questo sembra porre la tristezza su un altro livello: per una volta non si accetta di essere tristi perché non si può essere felici, bensì perché essere tristi è giusto, è vero e fondamentale.

Ci insegna a voler bene alla tristezza e ad essere gentili con lei e questo, in fondo, ci spinge ad essere più tolleranti nei nostri stessi confronti.

fonte: huffingtonpost.it; Gioia ci insegna ad essere gentili con Tristezza

Così, il film riesce a sintetizzare la fisiologia del cervello – nello specifico delle emozioni e dei ricordi – e la pratica quotidiana.

Out

Visto da fuori, il mondo di Riley si disgregherà gradualmente; a poco a poco la ragazzina passerà dalla solita vita ad una tutta nuova e sconosciuta, e dopo l’entusiasmo per la novità si renderà conto di essere stata sradicata dalla sua quotidianità. Nonostante la causa del trasloco sia stata un’ esigenza lavorativa del padre, per lei non fa differenza e la tristezza prende il sopravvento.

La scelta di un trasferimento e della protagonista undicenne è geniale: momenti di transizione esterni, quali il trasloco, che si verificano in un momento di cambiamento interno, come la vicina pubertà. Ancora una volta inside e out: l’importanza e la differenza tra dentro e fuori.

fonte: disney-planet.fr; Riley rattristata 

Quindi possiamo confermare quanto Inside Out abbia meritato il premio Oscar nel 2015; in effetti il film ha incantato gli spettatori di tutte le età, dai bambini agli adulti, e ha riempito le sale cinematografiche (che ricordiamo con un pizzico di nostalgia). Ha lasciato uno strano ottimismo e una maggiore consapevolezza in ognuno; come a voler dire che se Riley è riuscita da sola a superare quel momento in balia delle sue emozioni goffe e disorganizzate possiamo farlo anche noi.

E’ un film che fa scendere una lacrima ma suscita anche una sana risata: il suo intento non è solo quello di commuovere –  ci riesce senza ombra di dubbio – ma anche di far riflettere ed è questo che emoziona lo spettatore.

Trasportandoci letteralmente nella mente della ragazzina fa capire quanto sia complesso il nostro mondo interno, quanto sia giusto provare ogni emozione, quanto sia importante ricordare e forse, saper dimenticare.

 

                                                                                                       Barbara Granata

 

Oceania: la Disney colpisce ancora

In questi giorni, nei cinema, si può andare a vedere ‘’Oceania’’ il nuovo film della Disney.oceania_disney_film_voci-1

Come ogni film che porta questo marchio, anche questo è da non perdere. A partire dai più piccoli fino ai più grandi, come sempre, la Disney colpisce ancora.

Oceania parla di una principessa, o meglio, una futura capo villaggio, che deve salvare il suo popolo riportando il cuore, perduto da secoli, a madre natura. L’accompagnano nell’impresa la Nonna (con il suo spirito), un pollo e l’Oceano. È stato infatti quest’ultimo a sceglierla per l’impresa, facendole trovare il cuore perduto.

Durante il suo viaggio, Vaiana (la principessa), deve anche trovare Maui: un semi-dio che ha perso un amo, oggetto che dona lui grandiosi poteri. La nostra principessa ha bisogno del suo aiuto per riportare il cuore a Madre Natura (nel film chiamata Te Fiti): così lo va a cercare. Una volta trovato lo aiuta a ritrovare il suo amo perduto e, insieme, navigheranno verso Te Fiti.

Ma, come in ogni favola che si rispetti, c’è sempre un cattivo. In questo caso si chiama Te Ka e ostacola la strada per arrivare a Te Fiti. Ma Vaiana, grazie alla sua forza di volontà, riuscirà a superare pure lui.

 

Perché Oceania è un film da andare a vedere? A partire dalla grafica sempre più eccezionale, con dei personaggi e disegni sempre più reali e curati in ogni minimo particolare, fino alla comicità semplice e diretta, caratteristica della Disney, è davvero un film che vale la pena vedere.maxresdefault

Importanti, inoltre, i temi che serpeggiano per tutto il film: in primis la nonna, reputata sui generis da tutto il villaggio per i suoi comportamenti bizzarri ma, in realtà, l’unica che crede nella protagonista e la sprona a lanciarsi verso la sua missione. Per spiegare a tutti che diverso non vuol dire sbagliato e uguale non vuol dire giusto.

Vaiana, la principessa che, come ormai quasi sempre nei film Disney, alla fine, si salva da sola. Sempre più si vedono queste ragazze che, al diavolo il principe azzurro, alla fine riportano la pace solo ed esclusivamente con le proprie forze. Lo abbiamo visto con Mulan, Frozen, Rapunzel, Cenerentola (sì, anche lei, pensateci bene): Oceania è l’ennesima prova. Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. E non puoi fare altro, quando sei là in sala, che tifare per la forza d’animo di questa piccola tahitiana che ci pensa da sola a riportare la pace per il suo villaggio.

Ancora Maui, il semidio, è un personaggio tutto tatuato. Non solo: i suoi tatuaggi si muovono, cantano, danzano, raccontano storie. E, ogni qualvolta lui compie una buona azione, gliene appare uno nuovo cosicché non se ne scordi mai. Con delicatezza e divertimento, la Disney sdogana, finalmente, il tatuaggio. Per la prima volta, da Pocahontas, appare un personaggio che non ha pelle pulita ma solo disegnata.

E, allora, cosa state aspettando? Tutti al cinema!

Elena Anna Andronico

Taormina Film Fest 2016: Finding Dory, risate e magia

FINDING_DORY_-_Key_Art Un tuffo in un’avventura con la pesciolina più simpatica che tutto ci fa provare fuorché “star zitti e nuotare”.

 

Quante tonalità di blu ha l’oceano?

Dopo 13 anni dall’uscita in sala de “Alla ricerca di Nemo” e grazie all’eccellenza della Pixar abbiamo una risposta: infinite.

Finalmente il personaggio non protagonista , forse uno dei migliori creati dalla casa di produzione californiana, ha il suo film : Dory.

E per la premiere europea quale sala a cielo aperto migliore del Teatro antico di Taormina!

 

Eccoci davanti ad una pesciolina blu affetta da perdita di memoria a breve termine con degli occhioni languidi che viene aiutata dai genitori Jenny (Diane Keaton) e Charlie (Eugene Levy) a dire agli sconosciuti il suo nome e il morbo da cui è affetta.

Con questo flashback inizia il nostro viaggio insieme a Dory, alla ricerca della sua famiglia che la porterà al Parco Oceanografico della California dove la calda voce di Sigourney Weaver ripete “rescue rehabilitation and reintegration”.

Le risate sono assicurate, tutte naturali come le lacrimucce, Dory è un personaggio eccezionale, profondo che si avvicina a tutti noi umani, ai bimbi in primis.

 

Si aggiungono nuovi personaggi quali lo squalo balena Destiny (Kaitilin Olson) , la belunga Bailey (Ty Burrell il Phil di Modern Family) che non sa usare l’ecolocalizzazione , i due leoni marini (Idris Elba) ed Hank (Ed O’Neill il Jay Pritchett di Modern Family) il polipo scorbutico dal cuore (anzi tre) d’oro sono tutti divertentissimi , dalla battuta pronta e mai scontata.

Come tutti i prodotti Pixar è per un pubblico senza età.

 

Al centro c’è la ricerca delle origini, gli affetti , la famiglia che non è solamente quella costituita sul legame di sangue.

Anche sociale-ambientale: siamo catapultati nel mondo del centro di riabilitazione e ci rendiamo conto che i pesci dovrebbero stare nel mare, il personaggio di Hank ne è il simbolo. Dobbiamo rispettare gli animali e gli oceani, proteggere l’ambiente in cui viviamo non il contrario. Non sono un intrattenimento.

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Dory è un personaggio apparentemente semplice, è la metafora del non desistere davanti le avversità anche quando queste sono delle patologie.

Dory è la forza di volontà. Si trasforma in un motto “Cosa farebbe Dory?”.

 

Per questo scendendo gli scalini del teatro antico non potevo smettere di canticchiare (stonata come Ellen De Generes) “Just keep swimming just keep swimmin. What do we do? We swim swim” con gli occhi lucidi di una persona consapevole di aver visto un cartone animato che ha alzato il livello di questo genere ancora più in alto.

Insomma grazie Ellen De Generes per aver insistito per 13 anni con la sua ironia per realizzare un sequel del premio Oscar “Alla ricerca di Nemo” e per essere la perfetta doppiatrice di Dory.

 

Dal 14 settembre andate tutti “Alla ricerca di Dory”!

 

Arianna De Arcangelis