Resto al Sud: come uscire dalla crisi delle crisi

É da tempo sulle pagine dei quotidiani, nei servizi televisivi ed in cima ai programmi elettorali dei nostri cari politici. É invisibile, ma i suoi effetti si vedono eccome. É silenziosa, ma causa crolli e cadute di colossi che fanno rumor(e). Conviviamo con essa da anni, un malessere generale riassumibile con due parole: la crisi. Quando si parla di crisi si sottende necessariamente quella economica che dal 2008 sino ad oggi ha causato un esponenziale incremento del tasso di disoccupazione, del livello di povertà e dell’indebitamento. Oltre a causare falde finanziarie non rimarginabili, fatto saltare posti di lavoro, aziende ed imprese, aumentando la pressione fiscale, la crisi ha causato esiti negativi per quanto riguarda la psiche dell’individuo. Alla crisi economica si affianca quella della psiche. Le conseguenze di questa commistione di crisi sono: depressione,  insoddisfazione e smarrimento. Ci si sente fuori luogo, inadeguati. E si emigra in cerca di fortuna. Eppure una soluzione a tutto questo c’è, ed é il lavoro.

Secondo il Briefing Document for the National Governors Association possedere un’occupazione rappresenta un fattore rilevante che segna la routine quotidiana, fornisce obiettivi significativi, aumenta le finanze individuali e familiari allontanando il rischio di povertà. Ottenere un impiego è anche correlato con l’aumento del benessere personale, la “self efficacy”, il miglioramento della gestione delle relazioni ;rappresenta inoltre, un’opportunità di instaurare amicizie, ottenere supporto sociale e contribuisce a definire se stessi come lavoratori. Dunque avere un lavoro rende liberi, indipendenti, e ci si scrolla di dosso tutte quelle preoccupazioni sopraindicate. Il lavoro é la soluzione! Ma qualcuno potrebbe anche dire: <<Scusa giovane – mi domanda un qualsiasi abitante del Meridione – qui al Sud “non c’è nenti”, in più c’è la crisi, chi ce lo dà il lavoro?>>.

Di certo il nostro conterraneo non ha tutti I torti. Il lavoro non cade dal cielo, ma su una cosa sbaglia di grosso. Al Sud, c’é molto più di niente. Migliaia e migliaia di risorse inutilizzate o in mano ad individui che voglion tutto fuorché il bene della nostra terra. C’è bisogno di arrotolarsi le maniche, cambiare ciò che manda a rotoli il nostro paese, estirpare quella “mala pianta”. Ed un’opportunità ci viene data proprio da quelle istituzioni che spesso e volentieri latitano da queste parti. “Resto al Sud”, un bando istituito dal decreto Mezzogiorno n. 91-2017 a sostegno dell’autoimprenditorialità giovanile. Invitalia ha attuato un nuovo regime di aiuto per incoraggiare la costituzione di nuove imprese nelle Regioni meno sviluppate e in transizione, cioè Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, da parte di giovani imprenditori.

Le richieste di agevolazioni possono essere presentate dai soggetti di età compresa tra i 18 e i 35 anni che siano in possesso, al momento della presentazione della domanda, dei seguenti requisiti: che siano residenti in una delle regioni sopraindicate;  e che non risultino già titolari di attività di impresa in esercizio alla data del 21 giugno 2017!

Le risorse disponibili stanziate sono pari a un miliardo e 250 milioni di euro ed i finanziamenti sono concessi fino ad un massimo di 50mila euro, o di 50mila euro per ciascun socio nel caso in cui l’istanza sia presentata da più soggetti già costituiti o che intendano costituirsi in forma societaria, fino ad un ammontare massimo complessivo di 200mila euro.

Il finanziamento è così articolato: 35% come contributo a fondo perduto erogato dal Soggetto gestore; 65% sotto forma di finanziamento bancario, concesso da istituti di credito in base alle modalità ed alle condizioni economiche definite dalla Convenzione. Dunque il finanziamento bancario deve essere rimborsato entro otto anni dall’erogazione del finanziamento, di cui i primi due anni di pre-ammortamento.

I settori nei quali le aziende si possono specializzare sono: industria, turismo, costruzione, audiovisivo, ICT, servizi, trasporti, energia, sanità, cultura, farmaceutico ed alimentare.

Dallo scorso 15 gennaio é possibile inviare la propria idea di azienda. Circa 6 mila le domande presentate e quasi 900 i progetti già presi in analisi da Invitalia. Se dovessero andare in porto questi progetti, momentaneamente si stima un incremento del lavoro di circa 4 mila posti, con un investimento pari a 55 milioni di euro. Le regioni con maggior numero di domande presentate sono: Campania(49,3%) , Sicilia (15,8%) e Calabria (13,2%).

Il settore turistico-culturale è il più rappresentato con quasi il 43% dei progetti, al secondo posto le attività manifatturiere (27%), quindi i servizi alla persona (13%). Il 37% dei proponenti si colloca nella fascia d’età 30-35 anni e il 38% di essi ha un elevato livello di istruzione (laurea, master, dottorato di ricerca). Significativa la quota di under 25, che arrivano al 32% del totale.

Un vero e proprio incentivo del governo per sviluppare economia e lavoro nel meridione limitando la famigerata fuga di cervelli. Il sud c’è , e risponde a gran voce presente. “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.” Questo era Albert Einstein, il quale tirando le somme, e non era molto bravo a farlo, ci fa capire a noi terroni che la crisi tra le crisi, la più grande e la più difficile da combattere é la questione meridionale. Ed esiste dall’unità d’Italia, non dal 2008. Dopo un secolo e mezzo non si può più far finta di niente, dobbiamo mettere in crisi i meccanicismi mafiosi e classisti che ci hanno portato a questo punto. Dobbiamo restare. Dobbiamo tornare. Solo così avverrà la crisi delle crisi.  

Vincenzo Francesco Romeo

 

 

 

 

                                                                                                                

Non perché, ma come

“Per molto meno, nei secoli scorsi, scoppiavano guerre e rivolte popolari”. Così D’Amico della Gazzetta del Sud la settimana scorsa chiudeva un articolo riguardo l’isolamento e l’arretratezza in cui verte la Città di Messina.

Fondata come colonia greca col nome di Zancle e poi Messana, la città raggiunse l’apice della sua grandezza fra il tardo medioevo e la metà del XVII secolo, periodo in cui contendeva a Palermo il ruolo di capitale siciliana.

Il nome originario Zancle deriva forse dalla forma a falce della penisola di S. Raineri, la quale oltre ad aver stimolato l’immaginazione dei greci attribuendone l’origine al momento in cui Cronos (padre di Zeus) tentò di scacciare dal trono il padre Urano evirandolo con una falce poi lasciata cadere proprio nello stretto, ha costituito un porto naturale che fu alla base dello sviluppo della colonia greca.

Lo stesso che oggi è snodo fondamentale per le imbarcazioni che solcano il mediterraneo e che nel 2016 è stato il primo porto italiano per traffico passeggeri (250mila in più di Napoli). Considerazioni che poco sembrano interessare alla politica nazionale, la quale toglie a Messina la sede dell’Autorità Portuale e poi la lascia fuori dal fondo di 1 miliardo e 397 milioni di euro destinati alle linee metropolitane e filoviarie delle Città metropolitane e altre città.

Sembra quasi ci sia la volontà di punire ed umiliare ogni volta questa splendida città privandola di tutto, spesso anche di diritti fondamentali. La continuità territoriale, in questa zona così cruciale della geografia italiana, viene negata dallo Stato italiano dato il progressivo rincaro dei biglietti aerei per l’Isola da parte delle compagnie aeree, l’assenza di un’alta velocità ferroviaria (per non dire di treni e binari) insieme alle penose condizioni della Messina-Catania il cui versante peloritano non è stato sistemato nemmeno con la venuta del G7 (Tchamp piss no uor).

Caro voli denunciato nei giorni scorsi ancora una volta dall’associazione “Fuori di Me” con il report annuale, da cui si evince un incremento costante dei biglietti aerei per le tratte che servono la nostra zona con picchi sotto Natale a 603 euro per una A/R sulla tratta Linate-Catania. «Come evidenziato dall’ultimo bilancio demografico – sottolinea l’ex presidente dell’associazione Roberto Saglimbeni –, la città di Messina ha subito una perdita pari a 5000 abitanti (-2,2%) solo negli ultimi cinque anni. È quindi ovvio che c’è una sempre più forte esigenza di collegamenti efficienti, soprattutto aerei».

Una realtà quella del fuorisede messinese che cresce quotidianamente, come attestano i dati Istat pubblicati quest’estate sui quotidiani locali secondo cui Quattromila 20enni hanno lasciato Messina dal 2008 ad oggi. Insomma uno stillicidio di giovani più che una fuga di cervelli. Talenti che devono brillare altrove pur essendo nati e cresciuti qui come il chimico-fisico di 25 anni recentemente intervistato da IlFattoQuotidiano.it Fabrizio Creazzo che dopo la tesi magistrale alla Sorbona ha ottenuto il finanziamento del suo PhD sul carburante ecologico del futuro alla Université Paris-Saclay e Ecole Polytechnique. Dopo un 110 e lode in Fisica all’UniMe Fabio è partito per svoltare la sua situazione economica e professionale come si legge nell’articolo del quotidiano nazionale:

“Io vengo dal Sud ma nonostante ciò, con fatica e sacrifici, ho potuto realizzare la mia tesi magistrale in fisica, con il massimo dei voti, all’Università della Sorbona e ottenere un completo finanziamento da un laboratori d’eccellenza per realizzare il mio PhD sempre in Francia”. Ma non solo: in questi pochi anni di vita parigina Fabrizio ha potuto pubblicare ben tre articoli scientifici, conoscere gli esperti mondiali del suo ambito di lavoro e diventare membro del comitato editoriale di una rivista scientifica a soli 25 anni. “E sono partito da Messina. Tutto questo in Italia sarebbe stato impensabile”.

Tutto ciò potrebbe suonare come un commiserare ripetitivo, una lamentela, di quella che è la situazione attuale, ma ciò che deve spaventare davvero è l’assordante silenzio della classe dirigente locale. L’assenza di politiche concrete che rendano Messina capace di richiamare ed attrarre a sé i più giovani, senza i quali questo posto non ha futuro.

Quando ero all’ultimo anno di Liceo, in occasione del 66^ anniversario della nascita della Regione Sicilia (2012), la mia scuola organizzò un incontro con l’autore del libro “I Siciliani” Gaetanno Savatteri, incontro al quale parteciparono anche l’allora sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca e l’allora assessore regionale alla cultura Mario Centorrino. Mi fu richiesto dal comitato organizzativo insieme ad altri compagni di scuola di porre una domanda allo scrittore. I miei coetanei fecero domande inerenti al libro, alla Sicilia ed alla Mafia, io pensai di andare un po’ fuori traccia. Così presa la parola mi rivolsi direttamente all’assessore regionale e chiesi come potessimo noi giovani una volta terminato il liceo costruirci un futuro rimanendo nella nostra terra. Era un professore distinto, molto pacato, e fu piacevole ascoltare la sua risposta sul perché fosse importante rimanere qui, ma una volta averlo lasciato terminare al microfono dissi: “assessore non le chiedo perché, ma come?”. Lui mi sorrise e fu così gentile da rispondermi che era possibile ma difficile. A distanza di cinque anni però, continuo a pormi la stessa domanda: “Non perché, ma come?”.

Alessio Gugliotta

Dedica di Gaetano Savatteri

 

When you are too blessed to be stressed

Caro lettore

Ti immagino mentre, annoiato, forse stanco, leggi queste parole. Siamo già a Giugno, lo so bene – io, come te tra l’altro, mi ritrovo ad essere naufraga tra libri e dispense varie… eppure vorrei che anche tu capissi la bellezza del momento presente. Sì, hai letto proprio bene: c’è scritto bellezza!

Ma come, starai pensando, cosa c’è di bello nell’alzarsi la mattina con le idee ancora una volta confuse, magari, proprio su quel concetto che pensavi di aver capito e di poter archiviare tra le nozioni assimilate e metabolizzate definitivamente? Cosa c’è di bello nel ritrovarsi il cellulare intasato di messaggi da parte dei tuoi carissimi e fedeli compagni di corso che come te, sono alla ricerca della “versione ufficiale” su un determinato argomento e  cominciano a confrontarsi ed interrogarsi e confondersi e confonderti, facendo venire l’ansia persino alle tue ansie? Cosa c’è di bello nel vedere il sole splendente fuori dalla finestra, in un cielo azzurrissimo che si confonde con il mare all’orizzonte, mentre tu sai di dover stare seduto alla tua (rigorosamente scomoda) sedia di legno, ma soprattutto, sai di dover rimanere concentrato, altrimenti è la fine. Cosa c’è di bello in tutto questo, ti chiedi.

Eh, apparentemente ben poco: siamo giovani, arriva la bella stagione, gli aeroporti pullulano di gente più del solito, le spiagge si riempiono, le città si svuotano, tutto il mondo è in movimento, mentre tu, tu sai di dover stare fermo. Infatti studiare è un tuo dovere, tutti quanti hanno scommesso su di te, la tua famiglia, i tuoi amici, magari anche i tuoi vicini di casa, si aspettano di vederti con quella corona d’alloro a cingerti il capo, mentre un sorriso ineffabile ti piega il volto.

Potrei dirti che questo pensiero sia sufficiente a tirarti su e darti la forza, la volontà di continuare, ma non sarebbe completamente vero. Certo, avere uno sguardo positivo sui tempi a venire, può essere fonte di coraggio, ma siamo uomini ed abbiamo sempre bisogno di concretezza, di speranze tangibili che possano raggiungerci adesso, nel presente e stringerci forte, forte per abilitarci ad affrontare ogni giorno sempre con rinnovato entusiasmo.

Allora, caro lettore, pensa al giorno, in cui mettesti piede per la prima volta in facoltà, alle prime persone incontrate, le prime parole pronunciate dai professori, quella luce particolare che hai colto nello sguardo di tutti gli altri, felici come te di intraprendere questo nuovo percorso, magari lungo ed arduo, ma al contempo, l’unico che sembra essere stato pensato solo per te, l’unico in cui ti senti,  di esame in esame, sempre al tuo posto – nonostante la stanchezza e la quotidianità. E pensa a quanto dovresti essere grato per questa opportunità unica, di poter studiare cioè, quello che hai sempre desiderato, quando magari, nel modo, questa possibilità non è concessa a tutti. Quando senti, tra una pausa ed un’altra, dell’ennesimo attentato causato da folli integralisti islamici che al suon spietato di “Allah Akbar”, continuano a spezzare vite innocenti senza pietà e ringrazi che questa sorte non sia toccata anche a te, ringrazi di avere ancora tempo. Caro lettore, pensa alla generazione dei tuoi nonni che esattamente alla tua stessa età è stata costretta ad abbandonare sogni e speranze per essere coinvolta in una folle, quanto inutile guerra senza vinti, né vincitori; pensa all’umanità tutta, sofferente, in questo “nuovo” mondo che abbiamo creato ed a tutte quelle storie di vite meravigliose spese al servizio dei più indifesi ed emarginati.. storie di cui probabilmente non ne avrai mai contezza perché il bene fa sempre meno scalpore del male.

Renditi conto che quello che sei chiamato a fare, adesso, in questo preciso momento della tua esistenza, in cui ti sono richiesti tanti sacrifici, è sì, la parte più importante che potrà determinare chi sarai in un domani non troppo lontano, ma, non coincide affatto con quella che definiremmo una condizione disperata! Renditi conto che l’hashtag “MaiNaGioia”, proprio non s’addice alla tua situazione; ché prendere sul serio gli studi, senza lagnarti, è proprio il minimo che tu possa fare portando così una pietra al cantiere per la realizzazione di una società migliore, più sana. E’ necessaria l’opera di tutti, anche la tua, affinché il mondo possa raggiungere il suo destino, la sua destinazione.

Allora non è dello studio, degli esami che dovresti preoccuparti, caro lettore, ma del tuo atteggiamento dinnanzi ad essi.

 

Ivana Bringheli

Intelligenza artificiale ed androidi, cosa è fondamentale considerare.

E’ successo venti anni fa, più o meno in questo periodo: la prima “vittoria” del computer sull’uomo. Nel cuore di Manhattan il super computer Deep Blue progettato da IBM batteva in sole 19 mosse il più grande giocatore di scacchi, Garry Kasparov, chiudendo in modo sorprendente l’ultima di sei partite in un torneo combattutissimo, giocato proprio per dare alla macchina la possibilità di rivincita dopo la sconfitta subita appena un anno prima. Per non ripetere gli stessi errori al tavolo di gioco, i programmatori dell’azienda avevano potenziato il “cervellone” di Deep Blue rendendolo capace di analizzare 200 milioni di mosse al secondo.

Da allora, la cosiddetta intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante, non solo nei giochi da tavolo: aziende come Google, Facebook, Amazon, Uber ed anche diverse case automobilistiche stanno investendo molte risorse e denaro per produrre software intelligenti ed abili nello svolgere compiti particolari. Non so se ricordate quanto fosse sgrammaticato il traduttore di Google fino a qualche anno fa, adesso non è perfetto, però, quantomeno, riesce a fornire una traduzione più o meno corretta.

Ma cos’è questa intelligenza artificiale e da dove è spuntata fuori?

Non è facile dare una definizione univoca di Intelligenza artificiale, perché nemmeno i cosiddetti addetti ai lavori riescono ad accordarsi a riguardo. In modo abbastanza prudente partirei col dire che per intelligenza, comunemente parlando, intendiamo l’insieme di capacità psichiche e mentali che permettono ad una persona di pensare, di comprendere azioni e fatti riuscendo a spiegarli tramite l’elaborazione di modelli astratti a partire dalla realtà. Questi processi, inevitabilmente, portano alla capacità di ottenere un qualche risultato, più o meno efficiente a seconda dei casi.

Ora, la prospettiva di riuscire, un giorno, a creare una macchina che potesse imitare il comportamento umano è emersa in diversi periodi storici, incrociando la mitologia, l’alchimia, l’invenzione degli automi e la fantascienza. E’ stato, però, il britannico Alan Turing nella metà del secolo scorso ad elencare i requisiti per definire “intelligente” una macchina. Nel suo “Macchine calcolatrici ed intelligenza” elaborò il test che oggi porta il suo nome, attraverso il quale un’intelligenza artificiale si rivelerebbe tale solo se riuscisse a convincere chi la sta utilizzando di avere a che fare con un persona e non con una macchina. Risulta evidente che da un test del genere l’osservatore può trarre una valutazione solo parziale; infatti un computer (come Deep Blue che ha battuto Kasparov) può essere considerato intelligente, ma al tempo stesso non avere le capacità di imitare in tutto e per tutto un essere umano ed il suo modo personalissimo di pensare.

Questa è un po’ la sfida (probabilmente “hybris”) della neo-robotica, di alcuni ingegneri cibernetici che nel mondo, lavorano per la realizzazione di robot che assomiglino sempre più a noi umani. Non solo li stanno dotando dei nostri sensi – comandi vocali, touch screen, naso e palato elettronici- ma pensano anche a realizzare degli inserti biologici. Sinapsi umane innestate nei loro hardware, tessuti epidermici creati in laboratorio con le staminali ( pratica già diffusa) con cui rivestire i nuovi robot che potranno essere chiamati a buon diritto (e certo!) androidi, cioè robot umanoidi. Una volta arrivati a questo punto, credo che il salto antropologico più inquietante sarà convincersi che gli androidi possano essere veramente delle persone.

Ma Boezio insegna che persona è “sostanza individuale di natura razionale”. Riescono a svolgere calcoli complicatissimi, a stoccare il campione mondiale di scacchi, ad eseguire azioni con possibilità di errore quasi infinitesimale. Non saranno forse meglio di noi?

In realtà i robot elaborano, non pensano. Ed elaborano perché è stato l’uomo prima a programmarli. Siri, software di assistenza e riconoscimento vocale di Apple, risponde alle tue domande su traffico, meteo, indicazioni stradali e altro ancora. Ma Siri pesca nel suo database l’informazione più corretta. Non può, per esempio, non risponderti e se non lo fa significa che qualche circuito è saltato, non certo per sua propria sponte! E’ una macchina e non può che obbedire alle leggi fisiche del determinismo meccanico che possono, però, essere manipolate dall’uomo. Quindi, per quanto si possa progredire e migliorare nella realizzazione di robot che mimino le capacità umane, essi non saranno altro che una copia di atti in cui brilla la scintilla dell’intelligenza umana. Inoltre, in quanto macchine, non potranno mai avere un’anima razionale perché l’anima è immateriale e, dunque, non può essere fabbricata artificialmente in laboratorio ed infusa in un robot.

Come al solito, si tratta di non assolutizzare mai le conquiste della ricerca e dei progressi tecnologici, perché altrimenti, quella che potrebbe essere un’opportunità per rendere più abitabile questa terra, potrebbe rivelarsi un disastroso tentativo di auto-affermazione da parte dell’uomo, l’ennesimo mito di Prometeo che, puntualmente, si ripete nella storia.

“Est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”

Orazio (68-5 a.C.), Satire I, 1, vv. 106-107 –

[Esiste una misura in tutte le cose; ci sono, cioè, dei confini ben precisi oltre i quali, mai, dovrebbe spingersi il giusto.]

Ivana Bringheli

Edoardo Albinati per Taobuk. Intervista esclusiva al Premio Strega 2016

Si è svolto ieri al Rettorato il terzo appuntamento della rassegna “Leggere il presente” – organizzata dall’Ateneo, dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti e da Taobuk – in cui è stato protagonista Edoardo Albinati. Lo scrittore ha presentato il romanzo “La Scuola Cattolica”, un’opera che traccia un ritratto dei “ragazzi bene” della Roma degli anni ’70, alla ricerca di precisi modelli di virilità, in un universo ovattato, creato appositamente per proteggerli e tutelarli. Un cosmo dal quale però uscirono anche gli assassini del massacro del Circeo (1975), alcuni dei quali erano stati compagni di scuola di Albinati. UniVersoMe è riuscita a sottoporre qualche domanda al vincitore del Premio Strega 2016.

Nell’affrontare il tema dei delitti di femminicidio, lei dice che la società mette troppa pressione addosso alle persone fino ad un “eccesso di reazione”, macchiandosi così di un crimine nefando. Lei da dove inizierebbe per cercare di far diminuire questa pressione?

“La pressione è molto forte sugli individui, però è anche vero che questi non la reggono. Perciò la pressione dovrebbe essere di meno, ma è imprescindibile una sorta di educazione al fallimento, alla precarietà. Qualcuno che dica a tutti che: la vita è precaria ed è fatta in grande parte di delusioni, mancanze e di insoddisfazioni, ergo non c’è nulla di terribile in questo poiché è costitutivo della vita stessa. Probabilmente in questo modo verrebbero accettate in maniera meno drammatica le frustrazioni e non ci sarebbe questa reazione violenta ogni qual volta si viene privati di qualcosa. Sembrano bambini che privati del proprio giocattolo tirano fuori il coltello e uccidono i genitori; chiaramente questo non è accettabile. “

Nel suo libro lei parla di una generazione diventata adulta negli anni settanta nel mezzo di una crisi valoriale e dell’esplosione della violenza non solo politica. Cosa pensa di questa generazione, nata secondo alcuni: senza bellezza, senza valori, impregnata di omologazione?

“In realtà queste stesse cose si dicevano della mia generazione. Già io, avrei dovuto essere un figlio della televisione omologato a questa, quindi se questo è un processo, è iniziato già da molto tempo. Ai ragazzi di oggi non abbiamo nulla da rimproverare perché i primi a guardare la TV e a seguire dei modelli consumistici siamo stati noi, i cosiddetti baby boomers, quelli nati negli anni ’50 e ’60. Sì è vero, vige il brutto nella società di oggi. È vero anche gran parte del nuovo è brutto, ma questo non è iniziato adesso. Voglio dire il moderno non è certo iniziato oggi.”

Lei descrive la mascolinità da un punto di vista innovativo, quasi rivoluzionario per i tempi dicendo che se c’è un sesso debole, è quello maschile. Che pensa della frase del critico Philipe Daverio su un ipotetico stravolgimento delle camere di governo, relegando gli uomini esclusivamente a parlamentari data al loro tendenza all’elucubrazione, al contrario le donne al Governo perché più capaci di portare le cose a termine?

“Trovo sia una boutade quella del prof. Daverio: il  Parlamento fatto di uomini e il Governo fatto di donne, si può dire tutto il contrario di tutto. Proprio oggi però leggevo una impressionante statistica sul fatto che i paesi che hanno un maggior numero di donne nel Parlamento sono quei paesi in cui la libertà femminile è minore. Esempio: in Etiopia il 40% dei parlamentari è di sesso femminile ma l’Etiopia non è nemmeno tra i primi cento paesi al mondo per emancipazione. Quindi l’idea che l’emancipazione femminile si misuri con le persone che stanno in Parlamento pare sia fallace. Tuttavia è vero che le donne nella società italiana occupano molto raramente posizioni di potere. Questo non solo per quel che riguarda la politica ma anche nell’industria e nel lavoro in generale, quindi la donna è in una posizione minorità in Italia esattamente come i giovani. Trovo impressionante quanto la nostra realtà politica, economica e sociale sia di fatto una gerontocrazia di maschi.”

Alessio Gugliotta

Disturbi da social

Facebook, Instagram, Snapchat e chi più ne usa, più ne metta: storie momentanee, di vita quotidiana, la vita reale che diventa virtuale… o viceversa?

Con la testa abbassata, ora, si attraversa la strada, si pranza, si discute con gli amici; la ‘’storia ’’ in discoteca e il selfie a casa, al mare (sembra quasi di cantare la canzone di Rovazzi ) sono un must e, attenzione, non solo fra i più giovani ma anche fra i celebri cinquantenni che iniziano dalle sette del mattino a postare i loro ‘’ buongiornissimo ’’ , per poi terminare la sera con il loro dolce ed immancabile messaggio della buonanotte.

Ma ancora più degli antipatici asociali nella vita reale e sociali in quella virtuale, sono i disturbi che causano questi nuovi portali, che ormai rappresentano una vera e propria dipendenza per tutti.

Dalle ricerche di alcuni team universitari, infatti, è stato affermato che i social network possano portare ad essere tristi e depressi, trascinando gli utenti che li utilizzano in vortici di ansia. Una delle ultime indagini condotte è quella dell’Università di Glasgow, che ha analizzato un campione di circa quattrocento ragazzi compresi nella fascia d’età che va dagli undici ai diciassette anni, osservandone il comportamento giornaliero e notturno sui social. Cosa è venuto a galla? Chi li utilizza più frequentemente è maggiormente predisposto a sviluppare affezioni come stati di insonnia, ansia e depressione.

Ma da cosa dipende effettivamente lo svilupparsi di patologie relative all’utilizzo di queste piattaforme virtuali? Sembra quasi semplice trovare una risposta: come nella vita reale, anche in quella virtuale, possono esistere fenomeni di emarginazione ed indifferenza, così come una prodigalità di popolarità. La pubblicazione di un post, infatti, riscontra una reazione da parte di quelli che sono gli ‘’amici ’’ del web che, dopo la divulgazione, possono apprezzare e commentare ciò che viene pubblicato; potrebbe anche succedere, però, di non riscontrare alcun ‘’successo’’, nonostante l’ingente quantità di followers che si ha. E così chi cerca di socializzare in questo mondo, finisce con il languire nell’attesa di un feedback positivo.

Accanto alla depressione da ‘’impopolarità ’’, emerge anche un disturbo narcisistico della personalità legato alla vetrina dei social: ogni giorno, miliardi di persone pubblicano foto e innalzano il proprio ego ad ogni like.

E se nel lontano 1968, Andy Warhol ha parlato di ‘’quarto d’ora di fama’’, adesso sosterrebbe una celebrità continua, un flusso di narcisisti bulimici di attenzione altrui.

La lunga lista dei malesseri da ambienti virtuali, si arricchisce, poi, con il rischio di anoressia per le donne. Uno studio condotto dalla ricercatrice A. Carter ha preso in esame tremila ragazze tra i dodici ed i ventinove anni, che usano abitualmente i social: è emerso che queste risultano non contente del proprio fisico rispetto alle coetanee; risultato che rivela la tendenza a sviluppare forme depressive e disturbi alimentari o, addirittura, anche a fare sport in maniera compulsiva nel tentativo di migliorare la propria forma fisica.

L’incremento di questi disturbi è indice, dunque, di allarme: urge un avere e propria disintossicazione dai social che si appropriano delle menti e dell’armonia di un qualsiasi essere umano.

Inconsciamente, ci si ritrova a ricercare notorietà, approvazione; si brama sempre di più l’elogio altrui, quando l’unico encomio, l’assoluto apprezzamento, dovrebbe venire prima da se stessi.

La sfera virtuale non è la vita reale, è solo una piattaforma in cui si cerca di apparire senza alcun valore: riflettiamo prima di diventare una vittima della nostra era tecnologica.

Jessica Cardullo

Cancro: i batteri patogeni come nuove armi di difesa

Era il 1901 e siamo negli USA, quando il medico chirurgo William Coley, specializzato in chirurgia ortopedica, s’imbatté in un paziente affetto da sarcoma.

Siamo all’inizio della storia del cancro: la parola stessa era stata coniata da una decina scarsa di anni e le tecniche che conosciamo oggi, quali chemio radio ed immunoterapia, non avevano ancora un nome. Il dr. Coley, però, pioniere della medicina, voleva salvare il suo paziente.

Già nell’800 si notò che alcuni tumori crescono più lentamente in concomitanza con alcune infezioni. Durante quel secolo, ovviamente, il problema risiedeva nel fatto che non esistevano cure antibiotiche e, quindi, erano proprio le infezioni batteriche a causare la morte dei pazienti.

Nei primi anni del 900, però, il dr. Coley fece quell’idea sua e fu così che, senza saperlo, buttò le basi della moderna immunoterapia: creò la tossina di Coley, a base del batterio Erisipela, agente patogeno di svariate malattie infettive cutanee, che portava la cura direttamente nel loco della lesione maligna.

Coley credette che i risultati furono scarsi e l’idea, con l’avvenire della guerra, fu abbandonata nel dimenticatoio. Non poteva sapere che una ricerca del 1999 ha comparato 128 suoi casi con oltre 1.600 pazienti trattati con le terapie più recenti, dimostrando che il vaccino del medico americano garantiva una sopravvivenza media di 8,9 anni, contro i 7 dei pazienti di oggi.

Germania, 2012. Uwe Hobohm, chimico biologo dell’università tedesca di Giessen, decide di rispolverare l’idea. In vitro si è visto come le immunoterapie batteriche (le terapie che sfruttano i batteri per attivare il sistema immunitario) sono in grado di stimolare la produzione di citochine, molecole che danno il via alla reazione del sistema immunitario, documentando inoltre la regressione del tumore del paziente.

Sud Corea, 2017. Il vitro è, finalmente, stato superato. Ora sono i nostri amici topi i nuovi protagonisti di questa stupefacente ricerca e, tra i vari batteri testati in laboratorio, un nemico trasformato in amico: il batterio della Salmonella. Cautamente modificato in laboratorio e riempito di farmaci antitumorali, è stato scelto un ceppo batterico provvisto di flagello (quindi in grado di muoversi) che, una volta iniettato nel topo malato di tumore del colon, si è visto arrivare esattamente dove si sperava: nelle zone necrotizzate dove cresce il tumore, rilasciando così il cocktail di farmaci.

Non solo: si è scatenata negli animali una potente risposta immunitaria e al controllo, dopo 4 mesi, si è potuto verificare che il tumore era scomparso in più della metà degli animali. Inoltre, e qua sta probabilmente la vera scoperta, gli animali in cui si è scatenata tale reazione sono stati solo quelli infettati proprio con il ceppo batterico provvisto di flagello. Sarebbe quindi emerso che sono esattamente le proteine batteriche del flagello a svegliare il sistema immunitario dell’ospite.

Due piccioni con una fava, si direbbe: da una parte, si cerca di sfruttare i microbi come cavalli di Troia per portare farmaci direttamente all’interno delle cellule tumorali; dall’altra, si pensa di usarli come fantocci per segnalare alle cellule del sistema immunitario di scatenare l’attacco.

 

Elena Anna Andronico

Alessandra Frisone

Le 4 categorie di professori

rispettare_i_profCi siamo. Il momento tanto atteso è arrivato. Finalmente abbiamo spostato il mirino della nostra pistola (ma che dico pistola, il nostro è un fucile a canne mozze) sui nostri cari professori. Ci avete mai fatto caso? Loro godono di un particolare super potere che li rende bipolari, un po come le due facce di una medaglia. Sono bianchi a lezione e neri all’esame. O neri a lezione e bianchi all’esame. Insomma: li abbiamo combinati in 4 divertenti categorie che vi permetteranno di riconoscere i vostri mentori. Let’s go…

 

  1. Buono a lezione e tremendo all’esame

La prima categoria che prenderemo in esame risulta essere altamente pericolosa.

A Lezione: Il professore in questione si dimostra disponibile e paziente. È quel tipo di professore disposto a spiegare ripetutamente la lezione, fino a che sia entrata nelle grazie di tutti. Lui non si arrabbia se arrivi tardi a lezione nemmeno se ogni tanto chiudi gli occhi e ti teletrasporti nel magico mondo di Narnia. È quel tipo di professore che lascia sempre aperta la porta e non si cura del fatto che la sua aula, somigli ad un porto di mare.  Il professore buono a lezione, ma tremendo all’esame è meschino. Si, perché tu, in realtà, la parte dell’esame non la conosci ancora e allora studi pensando: “Mi ha lasciato dormire durante la spiegazione del capitolo 5, è proprio un professore umano”. Ecco, hai appena commesso il più errato dei pensieri. Si, perché il giorno dell’esame, succederà quello che meno ti aspetti.

All’esame: Tu ti presenterai sereno e sorridente, in fondo, stai per sostenere l’esame col tuo professore preferito. (altro che “l’università è piena di tiranni”) La mattina ti svegli e non ti preoccupi di restare a stomaco vuoto (tanto, avevi più ansia all’esame del sangue) Poi ti siedi, ed è lì che l’atmosfera si trasforma totalmente: “Si ricorda il capitolo 5, quello che ho spiegato mentre lei dormiva, quel giorno in cui è arrivato tardi a lezione dicendo di non aver capito la lezione del giorno prima?” Tu nel frattempo sudi freddo. “Bene, è proprio quel capitolo che sto per chiederle” E tu ti senti morire, non solo perché non hai chiaramente mai studiato quel capitolo, ma sopratutto perché hai appena dovuto cambiare idea sul professore dei tuoi sogni.

 

2.Tremendo a lezione… E anche all’esame

Questo genere di professore è come la barbabietola da zucchero, che ci salvava durante le interrogazioni di geografia. Cresce dappertutto. In questo caso, in tutte le università (e scuole di ogni grado) del mondo. Questo tipo di professore lo incontrerai almeno una volta nella tua vita: ci uniamo tutti in un caloroso cordoglio.

A Lezione: fa capire chi è dalla prima parola detta il primo minuto del primo giorno di lezione. È quel professore che arriva e sbarra le porte dell’aula magna in modo che tu sia costretto a farti sentire se vuoi entrare. E se lo fai, se entri in ritardo, si ricorderà per sempre di te. Mentre vai al tuo posto ti umilierà (diciamo pure: perculerà) davanti a tutti i tuoi colleghi e in quel momento, con quelle parole, sta mettendo una croce su di te. Non ammette cellulari, ronzii, non puoi bere (mangiare nemmeno lo dico), rimprovera se stai prendendo appunti perché ‘’ti distrai’’, rimprovera se lo guardi fisso perché ‘’stai dormendo’’. Se frequenti un corso con frequenza obbligatoria è quello che prende le firme, che fa anche il perito calligrafico per hobby così che tu non possa chiedere il favore al collega nemmeno una volta, nemmeno per una firma sola. Peggio, se è proprio di buon umore fa l’appello. E magari ti chiede pure di portargli la carta d’identità, già che ci sei (voi pensate che non sia possibile, beh, venite a medicina e ve lo presento io stessa un professore così). Il suo corso inizia e finisce con una frase: ‘’Tanto vi boccio tutti’’.

All’Esame: Beh, è uno che mantiene le promesse. Tanto ci boccia tutti. Appunto. Non c’è scampo: ne vengono promossi 2 ogni 40 presenti all’esame, di cui uno sicuramente è suo nipote e l’altro è fuori corso da 8 anni. Vuole sapere tutto: tutto quello che dice il libro di 4mila pagine, tutto quello che ha detto lezione e tutto quello che ha detto alla lezione risalente agli anni ’60 perché era sì solo un dettaglio, ma senza quel dettaglio non puoi aver capito un accidente. Poco importa che l’esame sia di 2 o di 22 crediti: verrai bocciato. Una, due, tre, quante volte gli pare.  C’è solo un modo per superare la sua materia: botta di culo.

 

  1. Buono a lezione… e anche all’esame

 

Questa, invece, è una rarissima categoria. Talmente rara che trovarne un esemplare, equivarrebbe ad aver trovato (letteralmente) il famosissimo ago nel pagliaio. Se, nella tua carriera da studente, hai avuto la fortuna di incontrarne almeno uno, gioca d’azzardo, potresti essere una persona mooolto fortunata.

A Lezione: Stavolta no, non ci caschi più. Hai già imparato la lezione incontrando il professore gentile, flessibile, poco fiscale ed estremamente disponibile.  Il professore che viene a fare lezione in tuta da ginnastica e felpa col cappuccio (e no, non stiamo parlando di un’insegnante di scienze motorie) ormai non può più avere la tua fiducia. Hai già potuto appurare che questa categoria di professore, il giorno dell’esame sfoggerà il suo miglior completo della collezione (probabilmente quello del suo matrimonio, giusto per farvi capire quanto sarà istituzionale) e ti chiederà giusto quell’argomento che ha spiegato il giorno del funerale di tua zia novantenne (l’unica volta in cui hai deciso di assentarti). Quindi no, nessuna battuta amichevole, nessun linguaggio colloquiale, nessuna faccia d’angelo potrà mai convincerti che quel professore sia uno buono fino in fondo. Ti chiama per nome (anche questa è una trappola) e conosce persino i nomi dei tuoi genitori. Conosce le tue passioni perché per lui “non sei solo un numero” ma una persona a tutti gli effetti. Vuoi scoprire la verità? Presentati all’esame.

All’Esame:  È lì seduto, ancora con la tuta che indossava durante la lezione. Sorride e ti sta aspettando con aria sognante. Anche tu aspetti, non lui, bensì la fregatura che sta per presentarsi al tuo cospetto. “Come va?” ti chiede, e subito ti vien voglia di confessare:” Professore, ho studiato bene il capitolo 5, quello che ha spiegato quel giorno in cui ero assente” Ti sei appena reso conto che adesso non ti chiederà MAI quel capitolo, quando invece:” Me lo ripeta allora..Ed è subito 30 e lode. Semplice, veloce, indolore. Cerchi qualcuno che ti dia un pizzico ma no, non stai sognando. Hai appena incontrato il professore perfetto.

 

4.Tremendo a lezione… E buono all’esame

Questi professori sono come quando vai in un posto controvoglia e poi ti diverti e, nemmeno il tempo di rendertene conto, è tutto finito. Ti rimane quell’amarezza mentre stai salendo in macchina per tornare a casa: ‘’già finito? Che peccato’’. Sono le classiche pecorelle vestite da lupi mannari. Che tu, dopo che verbalizza (verbalizzi, verbalizzi pure), quasi gli vorresti fare una carezza sulla pelata e lasciarci un bacio.

A Lezione: in tale luogo di tortura, il professore in questione, è un pazzo maniaco. E’ differente dal professore tremendo sia a lezione che all’esame perché quello rimane glaciale e calmo sempre, con il suo sorrisetto ostile; questo sbraita in continuazione. Sempre che urla, sempre che fa arrivare la sua saliva negli occhi dei colleghi per quanto si svena. Gli pulsano i vasi sul collo che c’è da preoccuparsi, in alcuni momenti, che stiano per scoppiargli. I bulbi oculari sono perennemente e tragicamente un po’ troppo fuori dall’orbita rispetto al normale, iniettati di sangue. Questo tizio arriva, miete terrore. Se ti becca che chiacchieri con il collega non è che ti sgrida e ti butta fuori dall’aula, no, lui è capace di avvicinarsi a mezzo millimetro dalla tua faccia, che manco i dissennatori in Harry Potter, ed urlarti il sopraggiungere della tua morte immediata se non ti strappi la lingua e non gliela consegni. A volte, invece, non inizia proprio la lezione: sta 10 secondi e se ne va. Mi avete mancato di rispetto, ve la farò pagare. E tu, in quei momenti, che già di materie da recuperare ne hai tante, ti auguri di essere preso dal buon Dio il più presto possibile.

All’Esame: il fatidico giorno X entri in aula pregando tutti i santi, tutte le religioni, inventandotene alcune se è il caso. Ti siedi e attendi la tua fine. Guardi quel professore e ti chiedi se è lo stesso che per 6 mesi ti ha giurato di ucciderti: puoi mai essere? Me lo sono sognato? Forse sono miope e questo è il suo gemello buono? Lo stesso pazzo che urlava fino a farti mettere a piangere, ora è seduto là, che ascolta con espressione soave e, sopra la sua testa rilassata, ti pare di scorgere il profilo di un’aureola. Era tutta scena. Ora la sua materia la sai come nessun’altra materia al mondo, sarà l’unica di cui ricorderai qualcosa e, in più, avrà anche un bel voto scritto accanto. Commovente, irreale. Ma si può rifare? Che quasi quasi mi manca, questo stupido dolcissimo bastardo.

Elena Anna Andronico,Vanessa Munaò

La Paura fa 90: gli studenti universitari e i mezzi pubblici

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Questo articolo nuoce gravemente la sensibilità di chi non si sposta in città con i mezzi pubblici, non lo ha mai fatto e mai lo farà. Se sei ricco e motorizzato, non puoi che premere il tasto ‘indietro’ e tornare a guardare il catalogo di Rolex che vorresti comprarti a Natale. Se invece, come me, sei da sempre condannato a spostarti con i mezzi, ecco a te le 7 categorie di TIPI DA TRAM che potresti incontrare o che hai già incontrato. Scopriamole insieme..

 

  1. “Il vecchio saggio”

È mattino presto, sei in ritardo come al solito e la vita ti dona mille ragioni diverse per farti pensare che no, dal letto era meglio non alzarsi. Ti convinci che tutto andrà meglio una volta dato inizio alla giornata e che in fin dei conti, finché nessuno ti parla, è ancora tutto salvabile. Il tram arriva ed è pieno, ma tu non ti vuoi nemmeno innervosire più di tanto e ti fai spazio tra la gente alla ricerca di un piccolo angolo tranquillo, nel quale rinchiuderti senza farti troppo notare. Lo trovi. Tutto procede per il meglio, il tram si ferma e riparte ad intervalli regolari ed il flusso di gente è continuo. Non te ne sei ancora accorto? Un uomo sulla sessantina ti sta fissando da dieci minuti, ed ora che hai posato lo sguardo su di lui, non hai più scampo: “Ai miei tempi era un lusso prendere il tram… Ah, i giovani di oggi… E lei che va all’Università, che ne pensa di questa riforma di Renzi?” E tu sei li, con gli occhi sbarrati, che torni a voler desiderare di essere ancora a letto.

 

  1. “Il poco pulito”

No, non voglio essere cattiva, ne voglio insinuare che qualcuno di voi, frequentatori assidui di mezzi pubblici, abbia problemi ad usare bagnoschiuma e deodorante, ma giuro, sono costretta a farlo. Si, perché proprio quando il tuo interlocutore saggio preferito sarà sceso, nel tuo piccolo angolino fuori da mondo, ti giungerà alla gola uno di quegli odorini disarmanti da cadavere morto ed essiccato al sole che DAI RAGAZZI, è già dura per tutti sopravvivere per i 45 minuti di tragitto da capolinea a capolinea, fatelo per il bene della collettività: LAVATEVI

 

  1. “Il giacca e cravatta”

Anche il secondo pericolo sembra essere scampato, la situazione torna stabile e l’aria sembra circolare nuovamente limpida sotto al tuo naso. Il dondolìo del tram quasi ti rilassa, a tratti chiudi gli occhi e ti lasci trasportare da quel movimento. Poi, una brusca frenata. Le porte si riaprono all’ennesima fermata e l’orda di gente aspetta di salire. Ecco lui, l’uomo in giacca e cravatta più losco di sempre, colui che si diverte a vestirsi bene per creare il panico generale. Tutti si guardano terrorizzati; “Oddio, il controllore”, e con la mente cominci a cercare il momento della mattinata in cui hai obliterato il biglietto. Ti rendi conto che forse hai dimenticato anche di comprarlo il biglietto. Poi lo vedi accomodarsi senza indugio, ma col ghigno malefico, e niente, l’ennesimo agente immobiliare porta a porta. A sto giro, pericolo scampato.

 

  1. “Il controllore”

Beh, non potevo non menzionarlo. Che poi, non esiste IL controllore, ma la squadra di basket dei controllori. Fanno il loro ingresso manco fossero cani antidroga affamati, alla ricerca di chissà quale narcotrafficante Colombiano. Ti puntano. Loro sanno già se hai tutto in regola e godono nel vederti in difficoltà. “Biglietto, prego” ed è li che comincia la recita sul tuo essere uno studente Universitario, sulla fila che hai fatto alla banca per pagare il Mav, sul tempo che hai perso a ritirare la UnimeCard, sul bollino filigranato che ci hai dovuto far attaccare, del cane che ti è scappato ieri, di tua nonna in ospedale, della pace nel mondo. Il tutto solo per convincerlo a non farti la multa per aver dimenticato tutto questo elenco di cose sulla tua scrivania. A volte ti graziano, altre volte maledirai per la milionesima volta di esser salito su quel tram.

 

  1. “La coppia innamorata”

Sono lì, seduti da 30 minuti uno accanto all’altro che non smettono di fissarsi e scambiarsi effusioni. Loro, del vecchio saggio, del tipo in giacca e cravatta e perfino del controllore, non se ne sono nemmeno mai accorti. Vivono nella loro bolla felicemente disgustosa, fatta di cuori e caramelle rosa. Tu un po’ li guardi con aria sognante, un po’ ti giri per evitare di memorizzare le loro lingue che si intrecciano, e non rischiare di portare quell’immagine nella tua mente durante l’ora di economia aziendale che oh: “Che rapporto c’è tra domanda e offerta?” e tu che pensi: “Intimo professore, molto intimo…

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  1. “I liceali”

Sono un po’ come la banda dell’ultima fila quando si andava in gita con tutta la classe. I liceali hanno energia da vendere anche alle 7.00 mattino. Solo a me, quando dovevo andare a scuola, sembrava di fare l’ultima camminata sul ponte dei sospiri prima di essere giustiziata? I liceali urlano. Hanno una cuffia dell’iphone in un orecchio, con rigorosamente un Dj set di Avicii a tutto volume. Con l’altro orecchio tentano di fare conversazione col resto del gruppo, che a sua volta ha un orecchio occupato in discoteca. Il risultato? Il tuo piccolo angolo tranquillo si è trasformato in un rave party. Sono solo le 07.15, chi mi passa un Mojito?

 

  1. “Tu”

Sei sei arrivato alla fine di questo articolo, meriti una menzione speciale. Si, questo articolo è per te che ogni mattina affronti con onore le mille avventure da pendolare. A te che non temi lo stretto contatto con la gente, che hai viaggiato in posizioni che non pensavi nemmeno di poter assumere, inscatolato come sardine. A te che hai evitato multe con l’arte della tenerezza. A te che riesci ad annuire alle lamentele dei sessantenni. A te che, se sale una donna incinta, preghi che non venga nella tua direzione perché per trovare quel posto, hai sudato più di quanto possa farlo lei durante il parto. A te, che ogni volta che quelle porte si aprono, sai che comunque, sarà una meravigliosa avventura.

Vanessa Munaò

Cinque categorie di Uomini e Donne: istruzioni per l’ (ill)uso

Una delle ultime sere calde di questo autunno, mi sono ritrovata con la squadra di Radio UniVersoMe a casa di uno di noi per passare una rilassante cena tra amici. Sapete come vanno queste cose: cibo, amici, buon vino e si inizia a parlare della vita.

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No, non è vero. Si inizia a parlare di sesso, di uomini e di donne (e più l’alcool sale e più le cose diventano difficili).

Cosa ne è uscito? Che gli uomini dividono le donne in categorie e lo stesso fanno le donne. Perciò non potevo non approfittarne.

Quindi, ecco a voi le 5 categorie di Uomini & Donne (no maria, io esco):

1- Scrofe/Porci: con tutto il rispetto per questa coppia di suini, a quanto pare siamo d’accordo che alcuni esseri umani ne rispecchiano le caratteristiche. I ragazzi intendono, ovviamente, quelle fisiche: ma comunque, in guerra e carestia, ci pensa il pene e così sia. Noi donne, invece, intendiamo quei ragazzi sudaticci e inquietanti che ti fissano mentre si scavano il naso. Nel nostro caso, però, essendo il nostro apparato genitale intelligente, scappiamo a gambe levate;

2- Galline/Galletti: i senza cervello. Nel descrivere le galline, uno dei ragazzi, si è esibito in una serie di versi e smorfie da ritardato mentale. Insomma, sarebbero le ragazze che ti rispondono “oh, e si mangia?” se parli di Shakespeare, o ti dicono ‘’voglio sposare un calciatore per diventare una VIPS’’ (con tanto di S finale). I galletti, invece, sono quei ragazzi che si esibiscono in ‘’alzamento della cresta’’ accompagnata da ‘’ballo del pavone storpio’’, mentre raccontano delle auto e dei soldi del papi. Poveracci.

3- Cetacei/Nerd: il contrario della categoria precedente, i brutti con il cervello. La cosa bella, però, è che se il cervello lo si sa usare può conquistare più della bellezza. O una cosa del genere. L’importante è tromb… (io, comunque, ho un debole per i nerd)

4- Carine/Carucci: questa categoria è rappresentata da quei ragazzi e ragazze che hanno un ottimo potenziale di bellezza, umorismo e intelligenza ma non lo sanno. A quanto pare quelle carine sono le ragazze che hanno un gran fondoschiena (e non lo sanno), si girano e ti sorridono e sono stupende (e non lo sanno), ti fanno arrivare il sangue al cervello e al pene (e non lo sanno). Per i ragazzi la situazione si equivale. E la non consapevolezza di quel cucciolotto fa scattare la ‘’sindrome della croce rossina’’ e tanti saluti.

5-Donna/Uomo: evviva la funcia, direte voi. Ma questa categoria è la più rara. Sono dei pokemon rari. Sono LA persona, la metà della mela, il principe azzurro o la principessa, l’anima gemella, l’esclamazione ‘’OH MIO DIO, UNA GIOIA’’. L’uomo o la donna della propria vita. E, quindi, inesistenti.

Ve lo dico io cosa bisogna fare: bere e rimanere single.

SAPEVATELO.

Elena Anna Andronico