Georgia: la popolazione civile è riuscita ad ottenere il ritiro di una legge “controversa”

Dopo 3 giorni di proteste, il Parlamento della Georgia ha bocciato in seconda seduta la proposta di legge “sulla trasparenza dell’influenza straniera” (denominata “Russian law” dai manifestanti) con 35 voti a favore e uno contrario. La seconda seduta si sarebbe dovuta tenere il 21 marzo ma la violenza delle proteste e l’attenzione internazionale che hanno provocato, hanno spinto il partito di maggioranza GD (Georgian Dream) ad anticiparla.

La legge, nello specifico

Nel secondo articolo, la legge descrive gli “agenti di influenza straniera” come organizzazioni non governative, emittenti televisive e media agency che ricavano il 20% del loro sostentamento annuale da potenze estere, definite a loro volta come altre nazioni, ma anche come semplici individui e organizzazioni con sede legale situata al di fuori del territorio georgiano. Per la legge, chi rientra all’interno della categoria di agente straniero ha l’obbligo di dichiararsi alle autorità, pena multa di novemila euro.

La parola agente è sinonimo di spia in georgiano, ed i manifestanti temono che l’obbligo di denunciarsi alle autorità pubbliche come spia sottintenda la volontà del governo di controllare il dibattito politico del paese, con l’espediente della trasparenza. Giustificazione che non regge, poiché i media georgiani pubblicano le informazioni riguardanti le loro finanze e donazioni sui loro siti e vengono verificate da enti esterni, molte volte durante l’anno. In secondo luogo, appare evidente che a subire questo trattamento saranno determinate agenzie, con una selezione quantomeno arbitraria.

Come si è arrivati al ritiro

Fondamentali sono state le proteste che hanno coinvolto migliaia di cittadini della capitale georgiana già dalla notte di martedì, dopo l’approvazione in prima lettura della legge. Da subito le proteste si sono caratterizzate per la violenza degli scontri tra cittadini e polizia.

I primi  hanno utilizzato molotov e fuochi d’artificio mentre i secondi hanno risposto con cannoni ad acqua, granate stordenti e proiettili di gomma. L’apice della tensione si è avuto mercoledì, quando i manifestanti hanno tentato l’incursione all’interno del parlamento, prontamente respinti dagli agenti in tenuta anti-sommossa. Giovedì il governo ha annunciato il ritiro senza condizioni della legge (in vista della partecipazione di massa alle proteste) avvenuto ufficialmente venerdì.

In supporto delle proteste, si è espresso anche il Presidente francese Emmanuel Macron, che con un tweet ha sottolineato come il popolo francese sia vicino al grande desiderio di democrazia dei georgiani:

La “Russian law” e l’impetuosità delle proteste in Georgia

Alla base della grande reazione che questa legge ha provocato all’interno dell’opinione pubblica della capitale, ci sono i rapporti tra Mosca e Tbilisi e la voglia di democrazia del popolo georgiano. La Georgia è stata una repubblica sovietica fino al 1991, quando con un referendum il 99% della popolazione ha scelto l’indipendenza.

Nel 2008 la Russia ha invaso il paese, sottraendone il 20% del territorio a causa dell’istituzione di due repubbliche separatiste ( Ossezia del sud, Abcasia). Dal 2012 la Georgia ha come partito di maggioranza il GD finanziato da Bidzina Ivanishvili, un georgiano che ha fatto fortuna in Russia. 

Subito dopo l’invasione Russa in Ucraina, il Paese ha subito fatto richiesta per entrare nell’Unione Europea, richiesta respinta nel giugno del 2022 a causa di alcune criticità rinvenute nel sistema democratico.  La legge, oltre a riprendere in modo evidente una legge introdotta in Russia nel 2012 e responsabile della fine della libertà di stampa nel paese, rappresenterebbe un ulteriore ostacolo nell’ammissione  all’interno dell’Unione Europea poiché accentuerebbe le criticità del sistema democratico, scontrandosi inoltre contro la stessa Costituzione (art.78) georgiana che impone l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire l’integrazione Europea della Georgia.

Per i georgiani protestare contro l’adozione di questa legge significa lottare per la loro libertà, contro un nemico (la Russia) dal quale si sono già difesi 15 anni fa e che continua mettere a rischio la loro indipendenza. In questa battaglia, la bandiera dell’Unione Europea rappresenta il sogno di un futuro democratico da difendere con tutte le proprie forze.

Giuseppe Calì

 

 

Convenzione di Faro: l’Italia va verso la multiculturalità, ma la destra si oppone. Ecco cosa prevede

Il 24 settembre 2020 l’Italia ha compiuto un grande passo avanti: il Parlamento ha ratificato la Convenzione di Faro. La strada verso un nuovo concetto di eredità culturale, in cui si intrecciano identità, democrazia e multiculturalismo, può dirsi aperta.

Fare della cultura la protagonista di una discussione in Parlamento, in una società fondata sempre più sul dio denaro e sulla burocrazia, è sicuramente singolare e, per tale ragione, da mettere sotto i riflettori.

Che cos’è la Convenzione di Faro

Si tratta di una convenzione emanata dal Consiglio Europeo che riconosce il diritto alla partecipazione al patrimonio culturale. Sostiene l’articolo 4:

“Chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento”.

Il ponte di Mostar ricostruito – Fonte: www.dagospia.com

Venne approvata nel 2005 nella città portoghese di Faro con l’intenzione di fare della cultura uno strumento di pace in linea di pensiero con le Convenzioni UNESCO del 2003 sulla protezione del patrimonio culturale immateriale e la promozione della diversità delle espressioni culturali.

Il retroterra storico è rappresentato dalla guerra combattuta tra i paesi dell’ex Jugoslavia dal 1991 al 2001, durante la quale ricchezze del patrimonio culturale, come il ponte di Mostar o la Biblioteca di Sarajevo, vennero distrutte, in quanto simbolo della storia e dell’identità dell’etnia da debellare.

I cambiamenti determinati dalla Convenzione di Faro

Il valore della cultura, con la Convenzione, non fa ingresso per la prima volta nei documenti istituzionali dello Stato italiano. Lo stesso articolo 9 della Costituzione dichiarava già che

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Dunque, per quale ragione la Convenzione è da considerare un testo rivoluzionario? La rivoluzione è insita nel concetto di eredità culturale affermato:

“L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”.

Patrimonio di uno Stato non sono più le risorse materiali considerate come ricchezze aventi valore in sé, piuttosto come lo specchio in cui i cittadini vedono riflessi la loro identità, i loro valori e la loro storia. Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana che muta il perno sul quale ruota il concetto di cultura: dal bene storico all’uomo e alle sue possibilità d’uso di tale bene. Come ha spiegato Massimo Montanella, direttore della rivista Il Capitale Culturale, siamo di fronte

ad un profondo rovesciamento complessivo: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini: dalla museificazione alla valorizzazione.

Fare dell’individuo il fondamento della cultura non è cosa di poco conto: significa democratizzarla. La Convenzione si impegna infatti a facilitare l’accesso alla fruizione delle ricchezze culturali. Questo emerge chiaramente dall’articolo 12:

Le Parti si impegnano ad incoraggiare ciascuno a partecipare al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale

e dall’articolo 13:

 “Le Parti si impegnano a facilitare l’inserimento della dimensione dell’eredità culturale in tutti i livelli di formazione, non necessariamente come argomento di studi specifico, ma come fonte feconda anche per altri ambiti di studio”.

La Convenzione di Faro e le polemiche della destra

L’iter verso la ratifica non è stato privo di ostacoli. In testa all’opposizione si sono posti la Lega e Fratelli d’Italia.

Le destre, subito dopo l’approvazione, hanno fatto sentire la loro voce, definendo la Convenzione una resa per l’Italia, il “Caporetto di una civiltà”, “una svendita del nostro patrimonio artistico all’Islam”, una limitazione alla fruizione delle nostre ricchezze culturali.

Il principale oggetto di contestazione è stato l’articolo 4, secondo il quale

l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà”.

Agli occhi delle destre, questo provvedimento rappresenterebbe un ostacolo al libero esercizio della cultura, dando agli altri Stati la possibilità di interferire con l’uso del nostro patrimonio artistico.

Hassan Rouhani e Sergio Mattarella – Fonte: www.mosaico-cem.it

A sostegno della loro tesi, alcuni degli oppositori, tra i quali Vittorio Sgarbi, hanno portato come esempio un avvenimento risalente al 2016 quando, in occasione della visita in Italia del presidente iraniano Hassan Rouhani, Palazzo Chigi ha deciso di coprire i nudi dei Musei Capitolini. La legge morale iraniana sciita, infatti, proibisce il nudo femminile.

Tale scelta, sicuramente per alcuni aspetti contestabile, non ha niente a che vedere con la Convenzione di Faro, il cui articolo 4 non fa altro che ribadire, come già affermato in diversi articoli della Costituzione italiana, che la libertà del singolo individuo può essere limitata nel momento in cui lede l’interesse pubblico e la libertà dell’altro. Un esempio potrebbe essere la chiusura dei musei a causa dell’emergenza Covid.

L’Islam non viene minimamente menzionato dalla Convenzione. Non è menzionata la coercizione. Non è menzionata alcun tipo di resa culturale. L’obiezione della destra sembra far acqua da tutte le parti, sembra essere priva di fondamento. L’ennesimo esempio di come la politica, in vista del consenso, strumentalizzi le differenze culturali portando avanti sterili polemiche.

Basta leggere il testo, soprattutto l’articolo 7, per comprendere che la Convenzione non vuole porre limiti alla libertà culturale, piuttosto promuovere, in una società composita e variegata, la comunicazione tra i diversi valori e le diverse comunità espressione della medesima eredità culturale.

 Il multiculturalismo nell’enciclica di Papa Francesco

Papa Francesco – Fonte: www.vocetempo.it

Una risposta forte alla contestazione delle destre, in linea di pensiero con quanto espresso dalla Convenzione, sembra provenire dall’ enciclica Fratelli tutti, firmata da Papa Francesco il 3 ottobre, soltanto qualche giorno dopo la ratifica della Convenzione di Faro. Un testo attualissimo che ribadisce la necessaria universalità di ogni identità culturale, che è nata, si arricchisce ed è alimentata dalla continua interrelazione delle diverse culture.

Una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti”.

Le parole incisive del papa zittiscono le destre affermando la necessità del multiculturalismo e l’unità di tutto il genere umano:

“Ci sono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare se stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli. […] Ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così che una cultura senza valori universali non è una vera cultura”.

Chiara Vita

Elezioni USA: come (non) funziona il sistema elettorale americano e cos’è la voter suppression

Fonte: www.dailycos.com

Durante le elezioni del 3 novembre verranno scelti i grandi elettori che il 14 dicembre eleggeranno il nuovo Presidente. Queste elezioni rappresentano dunque la partita in cui si gioca la scommessa fondamentale per ogni democrazia: lasciare al popolo la facoltà di scelta, nonché la rappresentanza. Non è difficile prevedere gli esiti di tale scommessa se si guarda ai principi che regolano il diritto di voto e, ancor di più, ai meccanismi che ne presiedono l’applicazione.

Le imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, dunque, reclamano la nostra attenzione, ci tengono in allerta ponendoci di fronte ad una questione fondamentale: il valore della democrazia al giorno d’oggi.

Democrazia è un principio valido soltanto in linea teorica o è realmente radicato nel profondo della società americana? Questo interrogativo sorge spontaneo, se si guarda ad un paese che da una parte emerge dalla storia come baluardo della sovranità popolare e che, dall’altra parte, persiste nel portare avanti pesanti ingiustizie e discriminazioni.

Dire America, per molti aspetti, è dire contraddizione. Guardare ai meccanismi che guidano i processi elettorali significa mettere a nudo le modalità attraverso cui tale contraddizione opera minando il fondamento stesso del governo del popolo: il diritto di voto.

Il diritto di voto nella Costituzione americana

Il diritto di voto è garantito dall’emendamento XV della Costituzione americana che recita in tal modo:

Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato in ragione della razza, del colore o della precedente condizione di schiavitù”.

Tale provvedimento venne approvato nel 1870, ma iniziò ad operare in modo del tutto equo soltanto a partire dal 1965 con il Voter Rights Act, che impediva agli Stati di fare leggi che ostacolavano il diritto di voto degli individui, soprattutto grazie alla sezione 5 dove si vietava di applicare leggi elettorali senza il consenso del governo federale scongiurando la pratica secondo cui, Stati di matrice prettamente razzista, infrangessero il diritto di voto dei neri.

Sicuramente fu uno dei provvedimenti più importanti nella storia degli Stati uniti, un passo decisivo in un paese composito ed eterogeneo, fondato su anni di schiavitù e discriminazioni nei confronti delle minoranze, un paese che cercava di intraprendere la strada dell’uguaglianza e dell’equità.

Ma sradicare una tradizione è difficile e nel 2013, la discriminazione contamina nuovamente la democrazia americana infiltrandosi nelle pratiche elettorali. Attraverso un nuovo emendamento, infatti, è stata data la possibilità agli Stati di approvare nuove leggi per il voto senza il consenso del governo federale.

 Il sistema elettorale americano

Prima di capire come nel concreto sperequazioni e disparità divengano protagoniste delle elezioni, è necessario chiarire quale sia il loro terreno d’applicazione e dunque come sia organizzato il sistema elettorale.

Si tratta di un procedimento indiretto: i cittadini, dopo essersi registrati alle liste elettorali, sono chiamati a scegliere i 538 grandi elettori. Il numero dei grandi elettori di ogni Stato è stabilito in proporzione al numero degli abitanti: gli Stati più popolosi avranno un peso maggiore sull’esito delle elezioni. È un sistema che si fonda su procedure burocratiche, dunque di per sé non facilmente accessibile ad alcune categorie, per esempio ai più anziani o ai meni istruiti, un sistema che favorisce la voter suppression.

Fonte: www.dailykos.com

Il fenomeno della voter suppression

Con questa espressione si indicano tutte quelle pratiche finalizzate all’esclusione di alcune fasce della popolazione dall’elettorato e, proprio in tali pratiche, si manifesta il concetto di contraddizione da cui siamo partiti: uno Stato che si definisce democratico mette in pericolo la condizione d’esistenza necessaria di una democrazia: il diritto di voto.

Il fenomeno della voter suppression non è di nascita recente; si è manifestato, come vedremo, nelle elezioni americane degli ultimi anni, in particolare in alcuni Stati e, se è vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se è vero che le tendenze non sono semplici da snaturare, è anche vero che tale fenomeno si ripresenterà nelle elezioni del 2020. Per questa ragione non può essere passato sotto silenzio e, capire quali siano le modalità attraverso le quali opera, può aiutare a riconoscerlo e a smascherarlo.

I meccanismi della voter suppression– Fonte: www.kchronicles.com

I meccanismi della voter suppression

Cittadini sottoposti alla richiesta dei documenti – Fonte: www.sierraclub.org

Uno dei metodi è la richiesta di un documento di identità da esibire al seggio, il che significa ostacolare gli abitanti di quartieri poveri o le minoranze etniche che nella maggior parte dei casi, in un paese in cui possedere i documenti non è obbligatorio, ne sono sprovvisti. Esemplari sono gli avvenimenti in Texas, Missisipi e Alabama, i cui elettori sono stati obbligati a procurarsi un documento che avrebbe dovuto combattere la frode. L’11% degli elettori, comprendente giovani che abitavano quartieri poveri, è stato così escluso dalla possibilità di votare.

Riprovevoli sono poi gli atti intimidatori a cui spesso sono sottoposti gli elettori al seggio.

Lo stesso Trump in un’intervista tenuta nell’Agosto del 2020 da Fox News, riferendosi all’elezioni di Novembre, ha affermato: “We’re going to have everything, we’re going to have sheriffs, we are going to have law enforcement”,  dimostrando la sua intenzione di sottoporre tutti gli elettori a controlli che possano provare il possesso dei requisiti necessari per votare. Questo ha come conseguenza l’esclusione dal voto di tutti coloro che decidono di non presentarsi al seggio per paura.

Vi è poi la pratica dell’epurazione delle liste elettorali, che consiste nel tentativo di eliminare attraverso un espediente i votanti dalle liste. Un votante viene ufficialmente rimosso dalle liste dopo aver subito condanne penali, per infermità mentale o morte, per mancata conferma del cambio di residenza. Tuttavia, ci sono stati dei casi in cui gli elettori non si sono più ritrovati nelle liste senza che nessuna di queste condizioni si fosse presentata. Per esempio, in Georgia, secondo un’inchiesta del giornalista della BBC Greg Palast risalente al 2019, circa 313.243 elettori sono stati rimossi dalle liste elettorali poiché residenti in un altro Stato. In realtà solo 198.352 avevano cambiato indirizzo di residenza e la loro eliminazione sarebbe dovuta ad un presunto sbaglio. Tra l’altro, chi non aveva votato nelle ultime due elezioni federali e non aveva confermato il proprio indirizzo era considerato trasferito in un altro Stato.

Rientra nei meccanismi di voter suppression anche la campagna avviata da Trump, in occasione delle ultime elezioni, contro il voto per corrispondenza che, a suo dire, non sarebbe giustificabile neanche dall’emergenza Covid, in quanto potrebbe facilitare frode e imbrogli. In realtà la ragione di tale campagna vacilla, non regge: il Brennan Center for Justice ha mostrato che la frode elettorale negli Stati Uniti di America si aggira tra lo 0,0003 % e lo 0,0025 %.

Incide sulla possibilità di esercitare il diritto di voto anche la carenza delle risorse, soprattutto nei quartieri più poveri abitati da minoranze etniche, dove il numero dei seggi elettorali messi a disposizione è esiguo. Per questa ragione molti sono coloro che, costretti ad aspettare in fila ore e ore prima di votare, decidono poi di rinunciare. Durante le primarie del 2018 gli elettori neri, in media, proprio perché spesso vivono in quartieri poveri e con meno risorse, hanno aspettato il 45 % più a lungo degli elettori bianchi per votare.

Paesi vittime della voter suppression nel 2012- Fonte: www.americanprogress.org

 

In tale scenario, di per sé già catastrofico, si innesta, in occasione delle elezioni di quest’anno, anche la pandemia, che renderà difficile la gestione dei votanti nei seggi elettorali e che probabilmente ridurrà il numero degli elettori, in larga parte spaventati dalla possibilità del contagio.

Lasciamo adesso la parola al 3 Novembre 2020 e a cosa ci riserverà la “democrazia” americana.

                                                                                                 Chiara Vita

 

 

Pane Nutella e Sardine: guida contro l’indigestione

 

“Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita. Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata.”

E’ questo l’incipit del manifesto delle “6000 Sardine” di cui altri estratti sono sparsi lungo l’articolo. Il movimento apartitico e spontaneo nato dall’idea di quattro ragazzi bolognesi, appena un mese fa, oggi conta un totale di più di 100.000 presenze in varie piazze d’Italia. Il flash mob arriva anche a Messina il 21 Dicembre, in Piazza del Municipio.

La prima piazza, a Bologna, il 14 novembre, si riempie contro il contemporaneo comizio di Salvini, a qualche chilometro di distanza, in favore della candidata Lucia Borgonzioni alle regionali emiliane. L’idea funziona a tal punto da diventare virale.

Come luci di Natale altre decine di città si accendono, vogliono far parte del movimento e scendere in piazza. Non solo in Emilia, ma in tutta Italia. E non solo in Italia, ma anche in varie città del mondo tra cui New York, Berlino e Parigi. L’ultima è stata la piazza di Roma, il 14 dicembre, con la partecipazione di più di 35.000 “sardine”.

Roma – Le sardine in piazza il 14 dicembre

Il background.

Andiamo con ordine. Da qualche anno ormai Matteo Salvini incalza la politica italiana con una propaganda perenne. Lo fa tramite la strategia di social marketing più efficace che l’Italia abbia mai visto dai tempi dei social. Decine di foto, post e live su Facebook, Instagram, Twitter e addirittura TikTok. Giornalmente i suoi social inondano il web di attacchi contro chiunque e contro qualsiasi cosa: avversari politici, giornali e giornalisti, immigrati e così via. E lo fa praticando la più lampante e disonesta demagogia.

Slogan che mirano all’emotività e non alla razionalità, soluzioni facili e spesso inverosimili a problemi seri e complessi, attacchi razzisti e denigratori. Tra un “Buongiorno italiani, caffè?” ed un “Se voi ci siete io ci sono, prima gli italiani!” ecco gli attacchi ad personam in base al periodo contro la Boldrini, poi la sorella di Cucchi, poi Saviano, poi Fabio Fazio, vicino Natale spunta la difesa evergreen del presepe ed infine anche contro la Ferrero (perché usa le nocciole turche e non quelle italiane, attacco poi ritirato perché falso). Geniale, senza dubbio, nello sfruttare l’immensa popolarità dei Nutella Biscuits. Ma, come per il resto delle volte, distorce la realtà in suo favore, riesce ad apparire il garante di quei valori sociali ormai persi.

Profilo ufficiale di Matteo Salvini- attacco a Roberto Saviano

Così facendo si è messo alla guida di un immenso pullman che sparpaglia rabbia e raccoglie consensi. Un esercito di milioni di followers che sul web che difendono il loro Capitano con lo stesso modus operandi (chiusura, populismo ed emotività) e che ha un corrispettivo nella vita reale. I sempre più frequenti fatti di razzismo ed odio sociale sono prova del fatto che sia riuscito a legittimarli: oggi, chi è razzista, lo può affermare con orgoglio e a gran voce, chi odia può insultare e denigrare apertamente (e non è mai da solo).

“Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.”

Profilo ufficiale di Matteo Salvini – attacco ai meridionali

Contro questo clima di oppressione nasce il movimento delle Sardine. Venduto come la grande alternativa alla Lega, ha senz’altro avuto la capacità di far breccia nel buio di chi era diventato ormai incapace di approcciare una politica che non lascia scampo a chi contrappone l’uguaglianza e la ragione al razzismo e la demagogia. Buonisti, zecche rosse, piddìni, drogati, servi delle banche: tante sardine sole, sconfortate e perse nel mare aperto.

L’entusiasmo che ha generato il movimento nasce dall’aver contrapposto, per la prima volta, a questa politica urlante, una voce altrettanto forte sia nei modi che nei toni. Un richiamo al quale ogni sardina ha risposto con la propria presenza in una piazza.

“Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. E’ stata energia pura.”

Poi però succede che il flash mob termina, l’entusiasmo lascia spazio alle considerazioni “a freddo”. Ad ascoltare Mattia Santori, il portavoce del movimento, succede che tutta la positività lascia spazio ad un bel velo di incertezza, come quando ti allontani dalla costa e vedi pian piano un blu sempre più scuro.

Mattia ed i suoi tre collaboratori hanno radunato migliaia di persone contro la politica degli slogan e del populismo adottando una propaganda di slogan e populismo. A chi gli chiedeva delucidazioni sul movimento ha sempre risposto con un’ottima retorica senza mai perdere quell’astrazione e quell’aleatorietà che molti gli contestano. Il movimento ha sì dei paletti ben impostati, quello del rifiuto del razzismo, del fascismo, della demagogia, quello del rispetto e dell’uguaglianza, ma non ha nessuna idea precisa che possa aiutare concretamente quanti adunati in piazza. 

Parigi – Le sardine manifestano sotto la Tour Eiffel

Tre criticità.

Partiamo dal presupposto che il populismo non lo si sconfigge con il populismo. E non perché lo dice chi scrive, ma perché lo testimonia la storia dell’Italia degli ultimi trent’anni: l’antiberlusconismo è stata l’arma più forte che Silvio Berlusconi ha potuto giocare in 20 anni di dominio, ne è stato il carburante; il popolo viola sembrava avrebbe cambiato di lì a poco l’intera politica italiana, oggi nessuno se ne ricorda; il popolo del vaffa si è tramutato nel partito di potere più contraddittorio degli ultimi anni, il M5S, che ha inoltre svuotato di elettori il centro sinistra ed il centro destra per poi gonfiare quelli della destra sociale.

Dobbiamo riconoscere che:

  • non è un’iniziativa nata spontaneamente: nasce cioè con l’obbiettivo preciso delle regionali emiliane del prossimo 26 Gennaio. Il fatto che si sia diffusa spontaneamente nel resto d’Italia è una anomalia: si tratta in sostanza del primo movimento che fa opposizione a chi, al momento, è all’opposizione;
  • si fonda sullo stesso atteggiamento narcisista che è stata la pietra tombale della sinistra italiana. Che sia motivato o meno rimane narcisismo, lo stesso che ha lasciato i temi sociali, propri della sinistra, alla destra populista, che ora può dirsi invece “destra sociale”;
  • convoglia le energie e le speranze di migliaia di ragazzi verso nulla di preciso. E’ lo stesso Mattia Santori a specificare più volte che l’obbiettivo del movimento è il solo messaggio della necessità di una politica diversa da quella del populismo di destra, dell’insofferenza e della ribellione. Porsi come ago di una fantomatica bilancia vuol dire rubare del tempo e delle risorse preziose a chi vuole strutturare una vera strategia politica.
“Primato nazionale”, Pubble – Critica alle sardine

“Noi siamo le sardine, e adesso ci troverete ovunque. Benvenuti in mare aperto.”

Ma è davvero tutto inutile? No. E non lo è perché proprio questi punti critici sono al contempo punti di forza.

Bisogna anzitutto ammettere che la strategia populista, ogni qualvolta si è trovata di fronte alla realtà dei fatti che gli dava torto, si è mostrata indenne. Per quanto una critica fosse stata costruita su fatti lampanti, su errori madornali, questa non è mai stata in grado di arrecare un minimo danno.

Quante volte Salvini si è contraddetto, quante altre ha strumentalizzato persone, divise e tragedie. Ha minacciato la Costituzione, è scappato dai tribunali, ha tradito i suoi stessi elettori. Ma quanto ancora gli stessi elettori lo rivoteranno? Con quale facilità questi fatti sono caduti nell’oblio e quanti ancora finiranno nel dimenticatoio? Un muro di gomma che incassa tutti i colpi che riceve dalla realtà senza restarne scalfito.

Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti

Tre meriti.

Il primo grande merito delle sardine è stato quello di aver recuperato gli spazi di condivisione, le piazze, e di averlo fatto fisicamente. Una risposta in chiara contrapposizione all’armata da tastiera. Hanno fatto uscire di casa chi ormai, sul web, non poteva far altro che sottostare ai post e agli attacchi dei populisti, pena il linciaggio pubblico. Chi usciva di casa da solo per raggiungere la piazza, poi si ritrovava tra migliaia di altre persone con le stesse necessità e le stesse difficoltà. Il risultato è stato grandioso, lo testimoniano le piazze piene: evidentemente questa è una strada che va perseguita. 

Il secondo grande merito è che proprio nell’essere apartitici riescono ad unire chiunque attorno a denominatori comuni che oggi è sempre più difficile affermare: l’anti-fascismo, l’anti-populismo, l’anti-razzismo, il rispetto, la democrazia, l’uguaglianza e, soprattutto, il riconoscimento della complessità della politica. Questa coerenza di piazza fa sì che, nonostante le sardine abbiano una connotazione dichiaratamente di sinistra, costituisca un’alternativa agli elettori di destra più moderati, che infatti hanno raggiunto le piazze.

Infine, hanno riorganizzato e riformulato la domanda politica, non si sono posti come offerta. E’ vero che il movimento non ha soluzioni, ma non ha mai preteso di averne. Non ha motivo di offrirne ancora, all’indomani del primo mese di vita. Oggi il movimento si pongono come entità intermedia: da un lato la grossa fetta di italiani rassegnati ad una politica d’oppressione psicologica, dall’altra i rappresentanti dell’attuale Governo.

Non sta certamente a Mattia Santori, tantomeno alle varie sardine d’Italia, trovare ora soluzioni alternative a quelle che la destra populista “propone” per ogni problema del Paese. Semplicemente perché al Governo, per il momento, non c’è la destra populista. Il governo giallo-rosso, di contro, non deve e non può lasciare questo movimento al caso, i sondaggi che dimostrano un monopolio salviniano non glielo permettono.

LEFT – Vignetta di Vauro

Le prospettive.

Realisticamente l’entusiasmo scomparirà, e lo farà prima di quanto si possa pensare. Le “6000 Sardine” sono un brand di moda che molti personaggi politici vogliono sfruttare a proprio favore: Salvini per fare del vittimismo con delle simpatiche foto di gattini che mangiano sardine, il PD ed il M5S per cercare un po’ di linfa, idee, energie nuove. 

Ma, e questo è il punto cruciale, qualora anche solo l’1% di tutte le sardine coinvolte in questo mese fosse in grado di costruire, un domani, un’entità politica nella quale riunire tutte le sardine d’Italia, allora il movimento avrà avuto un senso. 

E se invece le varie figure di spicco venissero inglobate da qualche partito pre-esistente? Anche questo è uno scenario possibile, e lo è nella misura in cui queste personalità riescano ad impattare sulla direzione di quel partito portando alla Camera ed al Senato il messaggio delle 6000 sardine: vivere, testimoniare e onorare con la politica gli ideali della Costituzione.

E se ancora decidessero di non schierarsi apertamente? Rimarrebbero l’ago della bilancia acquisendo un peso non indifferente alle prossime elezioni.

Con il nuovo anno, insomma, delle sardine potrà rimanere la lisca, qualche piccolo gruppo sparso, o un gruppo ancor più grande. Comunque vada, il 21 Dicembre sarò in Piazza Municipio con una sardina di carta.

“E’ chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare”. (L. Dalla)

Antonio Nuccio

 

Seminario Democrazia rappresentativa vs Democrazia diretta: alla ricerca di una sintesi

Giovedì 11 aprile alle ore 10.30 presso l’Aula Magna 2 del Dipartimento di Economia si terrà un seminario sul tema “Democrazia rappresentativa vs Democrazia diretta: alla ricerca di una sintesi”. Il seminario è organizzato dal prof. Giacomo D’Amico e dal prof. Alberto Randazzo, ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico. I lavori saranno introdotti dai proff. Giovanni Moschella, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, e Luigi D’Andrea, ordinario di Diritto pubblico. Seguirà la relazione della prof.ssa Ida Nicotra, ordinario di Diritto costituzionale e Componente del Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. È prevista l’attribuzione di 0,25 CFU agli studenti universitari.