A Pasolini, il regista delle borgate

Poeta, scrittore, regista e giornalista, Pasolini è una tra le personalità più rappresentative del Novecento italiano. Proprio quest’anno si è festeggiato il centenario dalla nascita dell’autore di Ragazzi di vita che ci ha lasciato in eredità una corposa produzione, che tutt’ora continua a dividere la critica: o lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo.

L’amore per le borgate e l’odio per la globalizzazione

Pier Paolo Pasolini è riuscito a portare la cultura nella periferia. Questa viene vista non solo in senso topografico ma come chiave d’accesso a tutto il suo percorso artistico e intellettuale.
Partito nel 1942 con la pubblicazione di Poesie a Casarsa, sua prima raccolta poetica in dialetto friulano, l’autore si avvicina poi al magmatico universo delle borgate romane che faranno da palcoscenico a gran parte delle sue pubblicazioni. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana porrà la sua attenzione a quelle mutazioni antropologiche con cui le stesse periferie dovranno fare i conti.

Pasolini si scaglia principalmente contro quel consumismo capitalistico che non ha fatto altro che appiattire la popolazione italiana. In numerosi articoli rimpiange con amara nostalgia la felicità che un tempo caratterizzava i ragazzi di borgata, impegnati oramai a rincorrere un “sogno frustrato” che non riusciranno mai a raggiungere, in quanto limitati dalla non privilegiata condizione economica della loro stessa classe sociale d’appartenenza.

Proprio di fronte ad una periferia ormai contaminata dalla globalizzazione, Pasolini decide di abbandonare il suo disegno dei “romanzi di borgata”, progetto inaugurato nel 1955 con la pubblicazione del suo primo romanzo: Ragazzi di vita.

L’intenzione principale dell’autore era proprio quella di farsi da portavoce della realtà delle periferie. E questo non soltanto tramite un mero lavoro di documentazione, – come lui stesso ha più volte affermato, – ma provando a farsi largo nei pensieri e nella sfera emotiva della gente di borgata. È d’altronde risaputo che lo scrittore amasse passare del tempo con loro, per ammirare da vicino quella genuinità e quell’innocenza di cui era privo il resto della società. Pasolini è sempre stato dalla parte degli ultimi, degli emarginati. Ma emarginati da chi? Da una società ormai pronta ad andare in frantumi?

Una vita violenta e il dialetto come “arma” per la rivoluzione

L’autore trasporta questa realtà all’interno della sua produzione artistica. E Una vita violenta (1959), secondo romanzo pubblicato da Garzanti, ne è la prova. In quest’opera, l’autore ci racconta la storia di redenzione di Tommaso Puzzilli, ragazzo di borgata, in cerca di un riscatto sociale. Il protagonista del romanzo, pagherà col carcere l’aggressione ad un giovane, ma ad uscire di galera sarà un “nuovo” Tommaso. Ammalatosi di tubercolosi, sarà poi costretto ad un periodo di ricovero ma una volta ristabilitosi cercherà un lavoro e si iscriverà al PCI. Il salvataggio di una donna, durante un’inondazione, gli farà raggiungere il riscatto sociale da lui tanto agognato che pagherà col prezzo della sua stessa vita.

E se in Una vita violenta il protagonista si troverà davanti ad una morte fisica, riuscendo quantomeno a salvare la sua bontà d’animo; nella coralità di Ragazzi di vita, i protagonisti pasoliniani conosceranno sia la morte fisica che quella spirituale.

Pasolini, nel corso di tutta la sua produzione, si dimostrerà un eretico anche in campo linguistico, prediligendo il dialetto- visto come la giusta “arma” per combattere quel consumismo capitalistico – a discapito dell’italiano, “la lingua dell’italiano medio”, imposta dalla scuola e dai mass media.

“Ho voluto adoperare una tecnica diversa spinto dalla mia ossessione espressiva. Ho voluto cambiare lingua abbandonando la lingua italiana, l’italiano; una forma di protesta contro le lingue e contro la società.” Pier Paolo Pasolini

Pasolini (2014)

Giornalista: Prova nostalgia per l’epoca in cui la gente la insultava per strada?
Pasolini: Mi insultano ancora

Nel 2014 sui grandi schermi del cinema sono stati messi in scena gli ultimi momenti della vita dello scrittore scomodo. Il film è diretto dal regista statunitense Abel Ferrara e ad impersonare P.P.P. è il magnifico e talentuoso Willem Dafoe. Straordinario come in ogni sua esibizione, è riuscito ad interpretare l’autore in maniera impeccabile. 

Willem Dafoe (Pasolini) in una scena del film. Fonte: amazon.it

Tra Pasolini e Dafoe si  va a creare un dualismo tra il tragico e la verità: sullo sfondo gli ultimi mesi di vita dell’intellettuale. Durante la visione del film vedremo un uomo e le sue ultime volte: il suo ultimo romanzo mai terminato, Petrolio, e il lavoro dietro ad esso, i suoi ultimi amori, colloqui, interviste, e l’adorazione verso i “dimenticati”. Attorno al personaggio si delineano gli scandali sulla sua omosessualità, che non tenne mai nascosta. Una delle scene più forti e brutte del film è sicuramente quella in cui Pasolini e Giuseppe Pelosi (uno dei suoi amanti) si trovano nella spiaggia di Ostia. Proprio su quella sabbia si consumò un terribile delitto che ancora oggi è avvolto nel mistero e a cui il nostro presente cerca di dare una risposta.

La morte dietro il mistero

Quarantasette anni fa Pasolini fu strappato alla vita probabilmente per la sua penna controcorrente, ma la sua morte fu archiviata come un caso di omofobia. Il suo delitto ancora cerca una risposta: si pensa che dietro ci possa essere lo Stato, forse perché riteneva la sua opera troppo progressista, ma soprattutto perché Pasolini era un uomo che riusciva a vedere cosa fosse realmente la politica italiana. L’operato dello scrittore era dedicato agli ultimi: fu uno dei primi a rendere “persone vere” i calabresi, considerati dei reietti, e a descrivere la loro terra come “la regione più povera”, mai presa seriamente da coloro che stavano “ai piani alti”.

La morte di Pasolini ha dunque due verità, ma qual è quella vera? Pasolini all’età di cinquantatré anni fu assassinato tra la notte del 1 e 2 Novembre del 1975. Venne picchiato a suon di pugni e il suo corpo venne travolto dalla sua stessa auto. La salma fu ritrovata da una donna alle 06:30 di mattina. Fu riconosciuto come colpevole Pelosi, il “pischello” di diciassette anni, già noto alle autorità come ladro di auto, che confessò di essere stato invitato da Pasolini a salire sulla vettura con lui. Pelosi disse che lo scrittore lo costrinse con la forza a consumare un rapporto sessuale, ma egli non volle, e preso dalla rabbia lo uccise. Sorge però una domanda: perché salire in auto di uno sconosciuto e dirigersi  in un posto appartato?

La scrittura forte ha fatto di Pasolini “lo scrittore scomodo”, ma il suo lavoro non verrà mai dimenticato. Il suo essere diverso lo ha consacrato come uno degli intellettuali più profondi e complicati mai esistiti.

 

Alessia Orsa
Domenico Leonello

La scuola cattolica: figli di una mala educazione

Un film che porta a riflettere sull’educazione di ieri e di oggi per fare in modo che la violenza non si ripeta – Voto UVM: 4/5

 

Presentato fuori concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, quello tratto dal romanzo Premio Strega (2016) di Edoardo Albinati e diretto da Stefano Mordini, è un film che racchiude in sé dolcezza e atrocità.

La scuola cattolica racconta infatti uno dei fatti di cronaca nera più terribili del nostro paese: il delitto del Circeo.

La vera storia del massacro

Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, dopo torture morali, fisiche e sessuali, tre giovani appartenenti all’alta borghesia romana: Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, uccidono la diciassettenne Rosaria Lopez, che insieme alla sua coetanea Donatella Colasanti, li aveva seguiti nella Villa al Circeo di Ghira, convinta di andare al mare. I tre caricano le due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, che parcheggiano sotto l’abitazione dello stesso Guido, per poi allontanarsi. È allora che Donatella, tramortita e ferita, con piccoli gemiti riesce a richiamare l’attenzione di un vigile notturno che la salva. Dei tre colpevoli saranno arrestati solo Guido e Izzo, mentre Ghira non sarà mai catturato.

Emanuele Di Stefano (Edoardo Albinati) in “La scuola cattolica”

Al cinema

Con una struttura complessa che si presenta quasi come un crescendo musicale, il film si dirama in più linee narrative: dall’educazione dei ragazzi ai quali vengono imposte finte punizioni, alla loro libertà incontrollata, da quelle istituzioni che si presentano come i capisaldi di una società purtroppo non più in grado di crescere quei giovani uomini, finendo per nascondere sotto il tappeto una montagna di polvere – o meglio micce pronte a prendere fuoco.

La genesi di tutto è da ricercare proprio all’interno di un liceo cattolico destinato ai figli dell’alta borghesia romana, che si presenta come il terreno ideale in cui far crescere il seme della violenza e della “mala educazione”.

Produttivamente e poeticamente sembrerebbe alludere all’ormai lontano Romanzo Criminale di Michele Placido (2005) con cui condivide gli eccessi e i difetti di un’alquanto instabile società e del suo progredire verso l’inevitabile inconsistenza di un futuro frammentato, caotico e privo di certezze. Anche se, a differenza della pellicola di Placido, Stefano Mordini, lascia ampio spazio ad atteggiamenti instabili, pericolosi ed estremi, il film non mostra quasi mai la violenza in scena ma la evoca, ad esempio, nelle suppliche sfinite di Donatella, interpretata magistralmente da Benedetta Porcaroli.

Benedetta Porcaroli (Donatella) e Federica Torchetti (Rosaria) in una scena del film.

L’opera di Mordini si chiude ricordandoci che Rosaria e Donatella furono massacrate prima fisicamente e poi moralmente da stampa e opinione pubblica, che addossarono loro la colpa per quanto accaduto. In pratica se l’erano andata a cercare, salendo su quella Fiat 12! Rispetto ad allora le cose sembra che non siano cambiate. Basterebbe entrare su qualsiasi social network, accendere la Tv o la radio per ascoltare frasi del tipo «se la sono andata a cercare», riferita a donne colpevoli semplicemente di aver messo una gonna troppo corta o aver risposto male a un uomo.

La censura

Il nostro bel paese come sempre non perde l’occasione di dimostrarsi incoerente e contraddittorio. Il film, realizzato col sostegno del Ministero della cultura (MiC), è stato poi censurato dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche proprio dopo che lo scorso aprile, lo stesso Dario Franceschini, alla firma del decreto per l’istituzione della nuova commissione, aveva dichiarato abolita la censura cinematografica:

“Definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti.”

Il film è ad oggi vietato ai minori di 18 anni. La Commissione si è lamentata del fatto che le vittime e i carnefici vengono messi sullo stesso piano. Esplicito il riferimento alla scena di un professore che soffermandosi su un dipinto, mette sullo stesso livello la figura di Cristo e dei suoi flagellanti.

Al contrario, il messaggio che Mordini voleva trasmettere al pubblico, doveva essere inteso come uno strumento per capire la differenza tra le vittime e i loro carnefici, tra il giusto e lo sbagliato, per prendere atto del peso della responsabilità di chi sbaglia e non di chi subisce. È assurdo come venga vietato un film assolutamente necessario per gli adolescenti di oggi, donne e uomini di domani.

Ferrazza (Edoardo Carbonara), Edoardo Albinati (Emanuele Di Stefano), Carlo Arbus (Giulio Fochetti)

Da guardare: sì o no?

Senza ombra di dubbio, quella che il regista prova a raccontare, è una delle pagine criminali più allucinanti del nostro dopoguerra. Prova però a farlo in maniera intelligente, privilegiando una coralità narrativa, a discapito di un’analisi antropologica e sociologica del periodo storico. È infatti assente la vicinanza dei tre carnefici agli ambienti fascisti o il loro abuso di droghe.

Mordini, dunque, ci pone davanti un affresco del 1975 con scene prive di pathos e tensioni, ma pur sempre con una grande valenza sociale. Un film che tutti dovrebbero vedere, per fare in modo che la violenza non si ripeta.

Domenico Leonello