DEBUNKING – Tutto sull’agopuntura: qual è la verità?

L’agopuntura si basa sul presupposto che ogni malattia sarebbe originata dallo squilibrio di presunte energie del nostro organismo. Per riportare l’equilibrio e guarire serve agire su particolari zone situate lungo il corpo, i cosiddetti “punti di agopuntura”. Questi, anatomicamente inesistenti, sono situati su linee ben precise chiamate “meridiani”. Stimolando questi punti con degli aghi molto sottili, queste energie ritrovano il loro bilanciamento. Ogni meridiano corrisponde, connettendosi ad esso, ad uno zang fu, un “organo“, e ne condiziona le funzioni. Può sembrare superfluo, ma non lo è, puntualizzare il fatto che i meridiani siano linee immaginarie: non esistono anatomicamente, non sono vasi, fasci, nervi, non sono visibili né misurabili (insomma, ci siamo capiti).

Secondo la teoria della tradizione medica cinese l’agopuntura funziona normalizzando il “flusso” del Qi (si pronuncia “chi“), cioè l’energia vitale del corpo.

Agli albori l’agopuntura consisteva nell’incisione di ascessi, in modo da farli drenare, con punteruoli piuttosto grossi rispetto agli aghi che si utilizzano oggi. E’ una metodica tutt’altro che “ancestrale”, basti pensare che l’agopuntura auricolare è nata in Francia nel dopoguerra e che il termine “meridiani” è stato inventato sempre da un francese pochi decenni fa.

Si ritiene che l’agopuntura fu diffusa in Cina soprattutto durante la dittatura del leader Mao Tse-tung in sostituzione della troppo costosa medicina occidentale.

Oggi l’agopuntura è diventata una moda, alquanto costosa dalle nostre parti, e viene utilizzata principalmente nella cura dei problemi dolorosi, come quelli articolari, muscolari, mestruali od ossei. I pazienti riferiscono spesso un miglioramento della sintomatologia.

E’ stato infatti riequilibrato il “chi” del meridiano…ovviamente no!

Esistono diversi studi che hanno misurato gli effetti degli aghi conficcati nella pelle in diverse situazioni. Il risultato è abbastanza scontato: è un placebo. Addirittura si è visto che i trattamenti con agopuntura funzionano meglio nei pazienti che credono nelle sue potenzialità piuttosto che negli scettici. E ancora lo stesso miglioramento è riscontrabile sia con agopuntura vera sia con lo sham, cioè l’agopuntura con aghi retrattili che sembrano infliggersi ma che in realtà non scalfiscono affatto la pelle.

Nel 1990, un’importante organizzazione medica statunitense no-profit, che si occupa di frodi in campo sanitario e che è nota con l’acronimo NCAHF (National Council Against Health Fraud), ha dichiarato:

“Le ricerche durante gli ultimi vent’anni hanno fallito nel dimostrare che l’agopuntura sia efficace contro qualunque malattia…gli effetti percepiti con l’agopuntura sono probabilmente causati da una combinazione di aspettative, suggestione, revulsione, condizionamento e altri meccanismi psicologici”

Da queste parole, la posizione della NCAHF è abbastanza chiara: il benessere che l’agopuntura produce non è reale, ma è dovuto al cosiddetto effetto placebo.

Nonostante la mancanza di prove scientifiche a sostegno dell’efficacia terapeutica dell’agopuntura, il dibattito sulla validità di quest’ultima continua, tanto da essere sperimentata anche da alcuni veterinari su alcuni animali domestici.

Agopuntura su animali domestici, pratica frequente nel Regno Unito

E’ stato dimostrato che un trattamento con agopuntura, come tutti quegli altri eventi che causano dolore (un pugno, una caduta, sbattere il dito del piede contro il comodino) attiva delle risposte del tutto fisiologiche quali:

  • Rilascio di endorfine: sostanze simil-anestetiche rilasciate dall’organismo. In ogni caso esistono metodi molto più semplici e non invasivi per causare rilascio di endorfine (per esempio i massaggi).
  • Rilascio di adenosina: un “trauma” cutaneo (come l’infissione di aghi) stimolerebbe il rilascio di adenosina, una molecola che controlla il dolore a livello cerebrale. In questo modo l’agopuntura diventerebbe blandamente efficace per migliorare alcune patologie dolorose.
  • Distrazione: L’attenzione può essere spostata da un sintomo, stimolando o irritando un altro punto del corpo.
  • Meccanismi psicologici: Includono suggestione, condizionamento dell’operatore ed altri meccanismi psicologici, ognuno dei quali può essere coinvolto nell’effetto placebo.

Dunque? L’agopuntura quindi cura o no?

A quanto pare cura quanto un placebo. E’ bene utilizzarla? Se fa stare meglio sì. Non c’è motivo per evitare una pratica inoffensiva (se fatta con procedimenti sicuri) che dona un certo benessere. Se l’agopuntura ha mostrato di funzionare in qualche modo, si guarda soprattutto alle terapie del dolore, delle patologie di tipo ortopedico-muscolare ed a quelle di tipo psicologico (ansia, depressione).

Anche l’agopuntura, come l’omeopatia, è una pratica permessa dalla legge e che può essere eseguita solo da laureati in Medicina abilitati alla professione. Questo apparente controsenso ha in realtà una sua logica: sfruttare l’effetto placebo in tutte quelle malattie che non hanno bisogno di vere cure. Certi stati ansiosi, alcune forme di disturbi intestinali, determinati tipi di mal di testa o dermatiti non hanno una base “fisica” ma psicologica, e sottoporsi a pratiche che sembrano potenti e curative può risolvere una certa percentuale di casi, evitando l’uso di alcuni farmaci che potrebbero risultare inefficaci.

Tuttavia gli agopunturisti sostengono vi sia l’intervento di un riflesso parasimpatico a spiegare l’effetto anti-infiammatorio della pratica. Abbiamo deciso di affrontare questo aspetto in un secondo articolo nei prossimi giorni.

Antonio Nuccio

Echo chambers e dissonanze cognitive: la scienza di difendere la scienza

La comunicazione scientifica, negli ultimi decenni, è diventata sempre più pervasiva. Tutti parlano di scienza: dai politici ai giornalisti, da Wikipedia a Piero Angela, dai talk shows a tuo cugino.

Si parla di scienza per i motivi più disparati: per puro intrattenimento, a volte, con lo scopo di soddisfare la curiosità altrui. Ma ci sono anche motivi più seri: ad esempio, per giustificare una scelta, alle volte particolarmente importante per chi la compie (ad esempio, fare o non fare un vaccino, prendere o non prendere un farmaco) o per l’ambiente circostante (si pensi alle campagne contro l’inquinamento). Motivi che rendono fondamentale il fatto che la divulgazione scientifica funzioni bene, che sia efficace e chiara.

 

A questo fenomeno di massificazione della comunicazione scientifica ne corrisponde un altro per certi versi uguale e contrario: la circolazione di bufale, fake news, notizie scientifiche false, talvolta delle vere e proprie truffe, altre volte talmente articolate da assumere i contorni di vere e proprie teorie del complotto.

 

Comunicazione scientifica e bufale, per quanto apparentemente opposti, possono in realtà essere considerati due facce della stessa medaglia. Sia il divulgatore scientifico che il creatore di bufale, infatti, per comunicare le loro posizioni, mettono in atto processi narrativi, che, in quanto tali, non sono mai ideologicamente neutri: piaccia o no, entrambi fanno riferimenti a sistemi di valori e di credenze condivisi dal gruppo sociale a cui il narratore fa riferimento.

 

L’avvento dei social network ha amplificato ulteriormente la portata del problema: gli algoritmi informatici che regolano i social  sono infatti costruiti in un modo tale da facilitare l’interazione con soggetti che potenzialmente la pensano come noi e l’esposizione a informazioni che confermano le nostre posizioni. Si formano così dei gruppi di persone che condividono gli stessi sistemi di valori e di credenze e quindi sono potenzialmente più propensi a ritenere vere (o false) le stesse informazioni, si tratti di divulgazione scientifica o di teorie del complotto: sono le cosiddette “camere di risonanza”, o echo chambers.

 

La reazione al fenomeno delle bufale, da parte di chi si occupa di comunicazione scientifica, è spesso quella del cosidetto debunking: prendere le false notizie o le false teorie e confutarle pezzo per pezzo presentando i dati scientifici disponibili sull’argomento. Capita spesso che il debunking assuma toni anche molto accesi, per mettere in evidenza l’assurdità e l’infondatezza delle false notizie. La convinzione di chi pratica il debunking è che questo approccio, basato sulla solida evidenza delle prove addotte e sulla limpidezza delle argomentazioni, possa in qualche modo persuadere chi crede alle bufale a rivedere le proprie idee sull’argomento, oltre a convincere eventuali scettici ed indecisi.

 

Ma è veramente così? Sebbene apparentemente fondato in termini logici, questo ragionamento sembra non tenere conto di un fenomeno noto da decenni in psicologia sociale: la dissonanza cognitiva. Semplificando, un soggetto si trova di fronte a una dissonanza cognitiva quando si trova costretto a riconoscere come vera una affermazione che contrasta con il proprio pregresso sistema di valori e di credenze. In queste situazioni, è come se il nostro cervello mettesse in atto una sorta di meccanismo difensivo volto a rimuovere al più presto la contraddizione, e, nella maggior parte dei casi, ciò avviene attraverso la assoluta negazione o addirittura l’attacco nei confronti dell’affermazione nuova.

 

Si potrebbe quindi ipotizzare che un soggetto fortemente convinto della veridicità di una bufala, magari perché condivisa da soggetti che la pensano come lui e condividono la sua echo chambermesso alle strette dal rigore del debunker possa reagire in maniera opposta a quanto atteso, addirittura in maniera aggressiva, rifiutando di cambiare idea.

 

É possibile mettere alla prova questa ipotesi? Si, ed è quello che ha fatto questo articolo, uscito su PLOS One e firmato da un team internazionale guidato da Walter Quattrociocchi, dell’Università Ca’Foscari di Venezia. Sono stati analizzate le attività (Like, commenti e condivisioni) su Facebook US di oltre 54 milioni di utenti nel lasso di tempo di cinque anni, su un database di pagine divise fra pagine a tema scientifico e pagine di controinformazione. Una prima analisi quantitativa ha consentito di dimostrare una polarizzazione fra utenti che svolgono preferenzialmente attività riguardanti le pagine scientifiche (pro-science) e utenti che le svolgono nei confronti delle pagine di controinformazione (pro-conspiracy). In breve, i due gruppi di utenti tendono a interagire preferenzialmente tra di loro e tra le loro pagine di riferimento, piuttosto che con membri o pagine del gruppo opposto, confermando così l’esistenza delle echo chambers. In aggiunta, sono stati valutati i commenti e le attività dei soggetti del gruppo “pro-conspiracy” in risposta a post provenienti da pagine che si occupano di debunking, evidenziando una prevalenza netta di contenuti negativi: in pratica, i soggetti che credono a teorie del complotto e bufale tendono a reagire negativamente sui social se esposti a post di debunking. Non solo, ma è anche stata riscontrata, per questi soggetti, una aumentata attività nelle loro pagine “di riferimento” a seguito dell’esposizione: come se l’esposizione alle smentite li avesse ulteriormente irrigiditi nelle loro posizioni.

 

Morale della favola? Intanto che l’approccio del debunking non solo non è efficace a far cambiare idea, ma potrebbe anche essere dannoso; e secondariamente che esiste anche una scienza di raccontare la scienza, e persino una scienza di difenderla. Divulgatori scientifici non ci si improvvisa e l’articolo si conclude infatti con un invito, da parte degli autori, ad adottare strategie di divulgazione più morbide, per abbattere i muri tra le camere di risonanza in cui le bufale proliferano. Un monito che dovrebbe risuonare nelle menti di tanti auto-proclamati “paladini della scienza”, che proprio alla luce di dati scientifici sembrano fare più danno che altro allo sviluppo di un dibattito sano ed efficace.