De Andrè, il poeta contemporaneo

De Andrè – Fonte: brindisireport.it

Se vi dico “la chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore, metteva l’amore”, “ah che bell ‘o cafè, pure in carcere ‘o sanno fa” oppure “all’ombra dell’ultimo sole si era assopito un pescatore, aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso”, cosa vi viene in mente?

Se la risposta è Fabrizio De Andrè, vuol dire che almeno una volta nella vostra vista avete ascoltato le sue canzoni, avete potuto assaporare l’essenza delle sue parole, siete riusciti a farvi trasportare dalla magia delle sue storie .

Oggi sarebbe il suo ottantesimo compleanno, e per questo anniversario mi piacerebbe rivivere tratti della sua vita ed analizzare le sue parole cercando di coglierne i significati fittizi che si muovono sinuosamente dentro le sue poesie .

De Andrè nacque il 18 febbraio 1940 a Pegli, un quartiere genovese, i primi anni della sua vita hanno visto la seconda guerra mondiale e ci hanno lasciato una sua bellissima canzone “Ho visto Nina volare”, composta nel 1996, in cui egli racconta della sua amica d’infanzia Nina che conobbe proprio negli anni del conflitto.

L’incontro decisivo con la musica avviene con l’ascolto di Georges Brassens e la sua passione prenderà corpo grazie anche alla “scoperta” del Jazz e all’assidua frequentazione degli amici Luigi Tenco, Umberto Bindi, Gino Paoli e del pianista Mario De Sanctis, con i quali comincerà a suonare la chitarra e a cantare nei locali.

Tra le tante curiosità, Paolo Villaggio racconta che alcune volte si esibirono assieme a Silvio Berlusconi, anche lui cantante in gioventù.

Fonte : esquire.com

Le canzoni che conosciamo oggi hanno fatto la storia della musica italiana e non solo, sono conosciute in tutto il mondo e rispecchiano il genio che è racchiuso nella mente di quest’uomo, personaggio riservato e musicista colto, capace di trattare sia con crudezza che con metafore poetiche svariate tematiche sociali, utilizzando sonorità internazionali e un linguaggio inconfondibile, che nella sua semplicità era in grado di poter essere compreso da tutti.

Tra le tante canzoni di De Andrè ce n’è una in particolare di cui vorrei parlarvi, Bocca di rosa (1967).
E’ difficile dare un’unica interpretazione a questo brano, perché dentro ogni parola si nascondo diversi significati: perché in realtà non è un semplice testo da cantare, ma anche una poesia da leggere, una storia da raccontare, un film che chiudendo gli occhi sembra muoversi nella nostra immaginazione.

“Bocca di rosa” è la storia di una prostituta, capace di suscitare negli uomini passioni, allegria, gioia e gelosia. È facile notare come tutta la vicenda è narrata seguendo un filo logico trasportato dall’ironia, evidenziando quelli che erano gli atteggiamenti delle “cagnette” di paese alle quali veniva “sottratto l’osso”.

A “Bocca di rosa” vanno le grazie di De Andrè, che la descrive come una ventata di primavera, e degli stessi uomini che per salutarla alla stazione levano il cappello.

Il finale fu ritenuto scandaloso poiché avvicina la giovane donna, che rappresenta l’amore profano, alla Vergine, che invece rappresenta quello sacro.

Vi lascio, infine, con uno dei versi più belli di questa canzone “c’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa né l’uno ne l’altro, lei lo faceva per passione”.

 

Giuseppe Currenti

Fabrizio De Andrè, Messina e un pirata di 500 anni fa…

Andate sul lungomare della passeggiata di Messina e lì, su quei gradini che formano un piccolo anfiteatro abitato spesso da gatti randagi, prendete il vostro cellulare e, se potete, indossate le cuffie; cercate sulla piattaforma YouTube la canzone di Fabrizio De AndréSinàn Capudàn Pascià ed anche se, probabilmente, non capirete molto delle parole sussurrate da “Faber” in dialetto genovese, andate oltre il testo.
Che cosa c’entra questa canzone ligure con Messina ed, in particolare, con la sua passeggiata a mare? Apparentemente nulla, se non fosse che già nel titolo del brano Fabrizio De André ha lasciato una traccia riconducibile alla città dello Stretto: “Sinàn Capudàn Pascià”; una ricerca di queste tre parole, infatti, riporterebbe al nome di Scipione Cigala, nato a Messina da una famiglia di marinai genovesi rapiti dai pirati pirati ottomani nel XVI secolo.
Durante il secolo 1500, infatti, il porto di Messina non si trovava nella posizione odierna, ma le navi salpavano proprio dal litorale dell’attuale passeggiata, come ricorda un’epigrafe posta vicino il piccolo anfiteatro scalinato del lungomare e riecheggiante la memoria della Battaglia di Lepanto, scontro per cui proprio da quel litorale salparono le navi cristiane dirette in Turchia.
La passeggiata, allora, è uno dei luoghi che il giovane Scipione dovette conoscere, poiché molo mercantile di una Messina ricca di colonie catalane, genovesi e pisane, tutte attive nel commercio marittimo in città.

Ma per immaginarsi le vicende della canzone, avendo a portata di mano la versione tradotta in italiano del testo di De André, occorrerebbe prendere l’automobile o un autobus e fermarsi a Ganzirri, altro luogo legato tanto al mare quanto ai pirati “saraceni”. Nel momento in cui non aveste dimestichezza con i vicoli della frazione, chiedete agli abitanti del posto della “Torre Saracena” e, questi, vi indicheranno la strada che vi porterà ad una torre medievale posta nel bel mezzo delle case basse in riva al mare. La storia, anche in questo caso, potrà dirvi perché quella torre fu ribattezzata dal gergo locale “Saracena”, ma lasceremo che sia la canzone di De André a darvi un indizio. Posti davanti al mare che affaccia sulla costa calabrese da Ganzirri, ascoltate le prime battute della canzone che qui, per semplificare le cose, traduco direttamente in italiano: “Teste fasciate nella galea e sciabole si giocano la luna”: eccola la memoria della “Torre Saracena” di Ganzirri, la vedetta anticorsara che funzionò sino all’epoca napoleonica per salvaguardare un forte che esisteva sulle pendici dei colli di Faro Superiore. Accanto a quella torre potrete immaginare, nel vedere il via vai del traffico marittimo odierno, la galea di pirati ottomani che, assediata l’imbarcazione dei Cigala, rapì Scipione che da quei legni dice cantando: “Al posto degli anni che erano diciannove, si presero le gambe e le mie braccia, da allora la canzone è diventata il tamburo e il lavoro cambiò in fatica dura”. E mentre il padre riuscì a pagare ai pirati il prezzo del proprio riscatto, Scipione rimase ostaggio ottomano e De André, nell’arte poetica che lo inserisce di diritto tra i grandi della letteratura contemporanea, dà voce al marinaio messinese, ridotto schiavo dai saraceni che gli intimano: “Voga! Devi vogare prigioniero e spingi, spingi il remo sino al piede! Voga! Devi vogare “turtaiéu” (letteralmente “mangione”) e spingi, spingi il remo sino al cuore!”.
Da schiavo a soldato tra le file dei “giannizzeri” (corpo militare ottomano formato da slavi musulmani, slavi cristiani rapiti dai pirati e cristiani convertiti), sino al ruolo di “Capudàn Pascià”, carica simile a quella di grande ammiraglio dell’esercito del sultano. Ribattezzato in arabo “Sinàn“, Scipione arrivò a rivestire la carica di Vizir, una figura dai poteri subordinati solo alle competenze del sultano.
E digli a chi mi chiama rinnegato, che tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinàn ha concesso di luccicare al sole, bestemmiando Maometto al posto del Signore“. Da Ganzirri o dalla passeggiata a mare, a seconda della volontà dell’immaginazione, si potrà vedere Scipione Cigala ritornare a Messina secondo una leggenda popolare che vuole il Capudàn Pascià rientrante in città per salutare la madre morente. La corona di Aragona, sovrana in Sicilia, per mantenere fede al titolo di “re cattolici”, si oppose all’ingresso di un “moro” a Messina, veto che Scipione fece pagare agli spagnoli con l’assedio della costa reggina. Celebri di questo momento storico sono il fallito assedio di Reggio da parte degli ottomani e le scorribande di Gallico. Di fronte a questo atteggiamento, leggenda vuole che gli Aragona concessero a Scipione l’ultimo saluto alla madre e la costa reggina non fu più saccheggiata.
“E’ questa la mia storia e te la voglio raccontare un pò prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio; è questa la memoria, la memoria del Cigala, ma nei libri di storia Sinàn Capudàn Pascià“.
Il legame che unisce Fabrizio De André a Ganzirri, alla passeggiata a mare e a Scipione Cigala finisce qui, ma per ricordare il messinese che si fece grande tra le file ottomane, bisognerebbe concludere l’itinerario ad Istanbul, presso il quartiere Galata, laddove esiste la residenza lussuosa di Sinàn Capudàn Pascià. Un paio di secoli dopo, in quello stesso quartiere, nel 1905, degli studenti del ginnasio Galatasaray di Instanbul fondarono l’omonimo club di calcio che oggi è una grande polisportiva di caratura europea, ma questa è un’altra storia.

Francesco Tamburello