Dante Alighieri: ritratto umano del Sommo Poeta

Permaloso, acuto e sempre con la battuta pronta. Tu, che hai letto e studiato il Sommo Poeta sin dai banchi di scuola, ti sei mai chiesto che carattere avesse? Come trascorresse le sue giornate al di fuori della scrittura?

Ebbene, Dante Alighieri, padre della lingua italiana a cui è dedicata la giornata del 25 Marzo, attinse al nostro ricercato dialetto per la stesura del suo capolavoro.

UniVersoMe e, in particolare la redazione di cultura locale, intende celebrarlo in maniera inedita, partendo da un racconto legato al suo spiccato senso dell’umorismo.

 

Dante e la prontezza di spirito

Un biografo del Cinquecento racconta che il poeta, quando veniva importunato da qualcuno, rispondeva con battute taglienti che lasciavano i riceventi a bocca asciutta.

Il particolare evento a cui si riferisce il biografo pare sia uno dei tanti in cui Dante perse la pazienza e rispose all’uomo che lo tempestava di interrogativi: “Avanti che io risponda alle tue domande, vorrei che tu prima mi chiarissi qual tu creda sia la maggior bestia del mondo.”

Quell’uomo rispose che egli credeva che la maggior bestia terrestre fosse l’elefante. Dunque Dante così lo apostrofò: “O elefante, adunque non mi dar noia.”

 

Ritratto allegorico di Dante Alighieri di Agnolo Bronzino. Fonte: gettyimages,it

 

 

Spiritoso quanto suscettibile…

Uno scrittore del Quattrocento, il Sercambi, racconta che quando il re di Napoli Roberto D’Angiò decise di conoscere il poeta organizzò un magnifico banchetto a corte a cui Dante si presentò vestito in maniera umile e con il volto stanco.

Il Re lo scambiò per un mendicante e lo fece accomodare al tavolo riservato ai miserabili. Dante si offese e se ne andò.

Quando il Re venne a conoscenza che colui era Dante Alighieri inviò un consigliere a porgergli le sue scuse e ad invitarlo a cena la stessa sera. Il poeta per ripicca tornò a corte vestito di tutto punto, così elegante che non era possibile scambiarlo per un uomo di umili origini!

Suscettibile il nostro Dante eh?

 

Io non ho altr’arte e tu me la guasti

A proposito di suscettibilità, un altro aneddoto questa volta fornitoci da Franco Sacchetti, scrittore del Trecento, riguarda un fabbro appassionato di canto e di versi.

Dante sentì dalla bottega del fabbro declamare i versi della sua più grande opera: La Divina Commedia. 

No, ma che orrore! Il fabbro non aveva azzeccato un verso corretto! Dante irritato, entrò impulsivamente nella bottega e cominciò a gettar via tutti gli strumenti da lavoro del fabbro che sgomento reagì:“Che diavol fate voi? Siete voi impazzito?”

Il poeta prontamente rispose: “Se tu non vuoi che io guasti le cose tue, tu non guastar le mie. Tu canti il libro, e non lo dì come io lo feci; io non ho altr’arte e tu me la guasti.”

Il fabbro, non sapendo cosa rispondere, tornò all’arte sua, questa volta cantando di Tristano e Lancillotto.

 

Dante con la Divina Commedia, dipinto di Domenico di Michelino. Fonte: gettyimages

 

 

Dante nel suo Inferno

In quale girone dell’Inferno collochereste il Sommo? Vi stupirà sapere che diversi aneddoti ci fanno pensare che potrebbe essere condannato a quello dei lussuriosi!

Sulla lussuria di Dante circolano diversi racconti. Si narra che quando egli era ospite del signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta, si scoprì che Dante aveva trascorso la notte con una “donna di mercato” che intendeva sapere se Dante fosse bravo oltreché come poeta anche come amatore

La cortigiana confessò che “poco valeva perché avendo avuto assai buona bestia, non aveva cavalcato se non un miglio.”

Quando Dante venne a conoscenza di questa risposta si difese:“Io avrei anche calato l’asso ma non mi piacque la mazziera.”

Com’era quella storia che quando la volpe non arriva all’uva…?

 

Paradiso canto XXXI, Gustave Doré (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)

 

“Se tu segui la tua stella, non puoi fallire a Glorioso porto.”

Sebbene non si tratti di una citazione celebre come altre, da essa possiamo trarne ispirazione.

Ognuno di noi segue una passione, quella di Dante l’ha condotto al Glorioso porto, pertanto ti auguro di trovare e seguire con gioia e perseveranza la tua stella.

 

Alessandra Cutrupia

Il giro del mondo: alla ricerca dei luoghi più pericolosi

Siamo abituati a meravigliarci di fronte a paesaggi fiabeschi, acque incantevoli e pianure interminabili. Tuttavia, il nostro pianeta riserva per noi non solo luoghi magici. Alcuni sono spaventosi e, soprattutto, pericolosi, che destano sgomento e inquietudine. La Terra è anche questo.

  1. Il Lago della Morte
  2. Sable Island
  3. Il Camino de la Muerte
  4.     Un luogo segnato da stragi
  5. Il Lago Kivu
  6. Conclusioni

Il Lago della Morte

Il primo luogo non si trova molto lontano. Il “Lago della morte” è considerato uno dei posti più pericolosi della Terra, e si trova proprio in Sicilia, nei pressi del comune di Palagonia, a Catania. Qualsiasi organismo vivente provi a sopravvivere all’interno di questo lago, fallirà. Infatti, sono presenti quantità notevoli di acido solforico, noto per le sue proprietà corrosive, accentuate dalla reazione di dissociazione con l’acqua, a cui si aggiunge il pericolo di disidratazione della pelle a seguito del contatto con il calore di dissociazione. I vapori emanati possono provocare danni alle mucose, al tratto respiratorio e agli occhi.  Tra le testimonianze raccolte, lo scienziato Francesco Ferrara  parlò inoltre della presenza di metano e di anidride carbonica. Appare chiaro come non sia il luogo migliore dove poter abitare.

Ancora oggi, però, sono molti i dubbi attorno all’esistenza stessa del lago, e gli abitanti del luogo restano un po’ scettici al riguardo. Ciò che è certo è che questa storia diventa ancora più affascinante se immaginata tra mito e realtà.

Storia, miti e misteri della Sicilia: scomparso il lago Naftia - Men's Enjoy
Fonte: www.mesenjoy.com

Sable Island

Se pensiamo a navi scomparse in mare vengono in mente le storie legate al triangolo delle Bermuda. Ma in questo caso si fa riferimento ad un altro luogo, al largo della Nuova Scozia, in America Settentrionale. Si tratta di Sable Island, un “banco di sabbia” a forma di mezzaluna pronta a divorare navi. Si parla di circa 350 navi scomparse dalla fine del XVI secolo. Bastava un piccolo errore per far sì che la sabbia le inghiottisse, aiutata anche dalla scarsa visibilità dovuta alle nebbie, che costituiscono una costante dell’isola. La spiaggia è infatti al centro dell’incontro tra tre correnti: la corrente del Labrador, la corrente di Belle-Island, la corrente del Golfo. Nel 1801 si decise di creare una stazione di salvataggio permanente per aiutare i naufraghi, ma questo non impedì i 230 morti del 1872, a seguito dell’incagliamento del piroscafo SS Hungarian. Oggi, fortunatamente, i sistemi di navigazione satellitare permettono di avere una migliore percezione delle rotte. Sable Island è diventata il luogo delle storie passate e dei suoi relitti.

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Fonte: www.sperimentalradio.it

Il Camino de la Muerte

Spostandoci un po’ più lontano giungiamo in Bolivia, dove si trova “Il Camino de la Muerte”, la strada più pericolosa del mondo. Fu costruito agli inizi degli anni Trenta da operai imprigionati durante la guerra del Chaco. Il percorso si estende per circa 60 km, attraversa tre province, fino ad arrivare a Coroico. 3640 metri di dislivello, con un’altitudine massima di 4700 metri in corrispondenza del passo della Cumbre. Oltre all’altezza, ciò che fa tremare è che non ci sia alcun guardrail o muro a delimitare la strada, che è per di più totalmente sterrata, coperta di vegetazione e attraversata da corsi d’acqua che scendono a cascata. È costeggiata da precipizi, spesso sono presenti nebbia e pioggia che rendono il cammino più complesso di quanto già non lo sia.

Un luogo segnato da stragi

Già tra i suoi edificatori ci furono delle vittime e da allora continuarono a perdere la vita molte altre persone. La strada era ed è soggetta alla caduta di enormi massi dall’alto e a frane. Nell’incidente più grave, accaduto nel luglio del 1983, un autobus precipitò, provocando 100 morti. Da quel momento si è cercato di prendere più precauzioni e di definire delle regole stradali, tra cui l’obbligo della guida a sinistra. Nonostante ciò, ogni anno si registrano almeno 200 morti tra autisti e ciclisti. Alla meraviglia dei paesaggi del luogo si accompagna la temerarietà della morte.

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Fonte: imagenesbolivianas.com

Il Lago Kivu

Ritornando ai laghi, in Congo ne è presente uno altrettanto pericoloso. Si tratta del lago Kivu. Al confine con il Rwanda, è uno dei grandi laghi africani, con una superficie di 2700 km2. Ospita alcuni isolotti, tra cui l’isola di Idjwi (340 km2). Da molti è stato definito una vera e propria “bomba ad orologeria”. Varie operazioni di carotaggio hanno rilevato la presenza di depositi di monoidrocalcite (un minerale raro) coperti da diatomee (alghe unicellulari). Andando ancora più in giù troviamo infine sedimenti sapropelici con elevata quantità di pirite. Si stima che, in profondità, vi siano almeno due trilioni di metri cubi di gas metano e di biossido di carbonio. La miscela di questi elementi può provocare esplosioni di tipo limnico  (dal gr. λίμνη: acqua stagnante), che prevedono, appunto, rilascio di biossido dalle acque dei laghi. Esplosioni di questo tipo sono già avvenute in passato. Le enormi quantità di gas porterebbero alla morte per asfissia. A tutto ciò si aggiunge la possibilità di uno tsunami.

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Fonte: www.filmcrewfixersuganda.com

Conclusioni

Quelli appena visti sono luoghi immortalati tra fascino e orrore. Ma questi sono solo alcuni dei territori considerati tra i più pericolosi al mondo. Ve ne sono altri, forse ancora più rischiosi, pronti per essere scoperti.

Giada Gangemi

Per approfondire:

Sable island, la sabbia che non perdona

Lago di Morte in Sicilia: verità o mito? 

Il Pi greco parla la lingua dell’Universo

π.

Sedicesima lettera dell’alfabeto greco, un piccolo carattere che rappresenta parte della nostra cultura.

Questo simbolo, infatti, racchiude in sé una storia lunga millenni, colma di pensieri e uomini che si sono impegnati per quantificarlo, dandogli nuovi significati.

Il pi greco assume un ruolo importante in ambito matematico. Questo simbolo indica, infatti, una costante cui è stato attribuito un valore numerico. Si tratta di un numero irrazionale (cioè decimale illimitato non periodico) e trascendente (non è radice di nessuna equazione algebrica a coefficienti interi).

Il valore approssimato del pi greco. Fonte: codiceedizioni.it

π è l’iniziale di περίμετρος (“perimetro”) ed esprime il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e il relativo diametro.

Il π attraversa la nostra storia

Lo studio del π inizia in Egitto e prosegue nel tentativo di determinarne un valore sempre più preciso.

La più antica documentazione esistente sull’argomento ci è stata lasciata da uno scriba di nome Ahmes. Si tratta del Papiro di Rhind. Lo scritto recita: “Togli 1/9 a un diametro e costruisci un quadrato sulla parte che ne rimane; questo quadrato ha la stessa area del cerchio”. Il testo di Ahmes implica che il rapporto tra circonferenza e diametro è pari a 3,16049. Questo valore si discosta di meno dell’1% da quello vero, testimoniando una notevole precisione per il tempo.

Le formule contenute nel Papiro Rhind rappresentano anche il primo caso documentato di un tentativo di “quadrare il cerchio”, ossia di costruire un quadrato con la stessa area del cerchio.

Frammento del Papiro di Rhind, 1650 a. C. Fonte: mediterraneoantico.it

Gli studi riguardanti la circonferenza furono ripresi nel quarto secolo a.C. dai greci.

Antifonte e Brisone di Eraclea, in particolare, tentarono di trovare l’area di un cerchio usando il principio di esaustione.

Archimede, un paio di secoli dopo, usò lo stesso metodo concentrandosi, però, sui perimetri anziché sulle aree. Stimò per la circonferenza una lunghezza compresa tra il perimetro di un poligono inscritto e uno circoscritto.
Archimede riuscì, quindi, stabilì che il π doveva trovarsi tra 3,1408 e 3,1428.
Successivamente  rese pubbliche le sue scoperte nel libro “Misura del cerchio”.

Parte della Scuola di Atene di Raffaello in cui viene rappresentato Archimede intento a disegnare un cerchio. Fonte: www.arte.it

Anche in Cina, molti matematici si prodigarono nel calcolo del valore del pi greco. L’astronomo Tsu Chung Chi e suo figlio, in particolare, dedicarono molti anni allo studio di questa costante. Usarono nei loro studi dei poligoni, inscritti nella circonferenza, con innumerevoli lati. L’operazione fu immane, ma gli permise di giungere a un risultato che si discosta dal valore reale solamente per una cifra su un miliardo.

Altro studioso interessatosi alla determinazione del valore di questa costante fu Ludolph Van Ceulen, il quale arrivò tramite il metodo di Archimede, incrementando, però, di molto il numero di lati, a calcolare 35 cifre decimali del π. Quando morì, nel 1610, decise di far incidere la nuova versione del π sulla sua tomba.

La tomba di Ludolph Van Ceulen. Fonte: Wikipedia.it

Dobbiamo aspettare l’avvento dei calcolatori moderni per avere a disposizione sempre più cifre decimali di questa costante. Il sito angio.net/pi, per esempio, ha un database che raccoglie 200 milioni di cifre del π ed è possibile inserire una combinazione di numeri per sapere dove questa si trova. Essendo un numero irrazionale, infatti, esso ha infinite cifre decimali che non si ripeteranno mai uguali ed è quindi possibile trovare una qualsiasi sequenza di numeri, da qualche parte, al suo interno.

Il fascino del π

Il pi greco, però, non è presente solo nella matematica e in tutte quelle scienze che se ne servono.  Rappresenta una costante della natura stessa. Lo ritroviamo nel pallone calciato in rete, nella ali degli aerei, nell’iride dei nostri occhi o, ancora, nella doppia spirale del DNA. È anche per questo che si continua lo studio sulle cifre decimali del pi greco (attualmente siamo arrivati a 5 mila miliardi di numeri dopo la virgola) nella ricerca di regolarità, sequenze ripetute o altre sorprese del numero.

È possibile, inoltre, trovarlo guardando le stelle in cielo. Lo ha fatto Robert Matthews, della University of Aston in Birmingham, combinando un set di dati astronomici con la teoria dei numeri. Matthews ha calcolato le distanze angolari tra le 100 stelle più luminose del cielo e le ha usate per generare un milione di coppie di numeri casuali, giungendo a stimare per il π un valore di 3,12772, che si discosta di appena lo 0,4% da quello reale.

Emerge anche dalle acque dei fiumi. Ad accorgersene è stato il matematico Hans-Henrik Stolum, che in uno lavoro pubblicato su Science nel 1996 ha analizzato la sinuosità di fiumi e torrenti, scoprendo che questi scorrono seguendo una geometria frattale, caratterizzata dall’“alternanza di configurazioni ordinate e configurazioni caotiche”. In particolare, è possibile approssimare il rapporto tra la lunghezza di un fiume dalla sorgente alla foce e quella in linea d’aria a pi greco. La sinuosità media di un fiume è, dunque, molto vicina a 3,14.

Nella matematica e nella fisica pi greco è praticamente ovunque. Compare all’interno di equazioni e formule fondamentali, nei moti ondosi, nel movimento dei pianeti, nelle collisioni tra le particelle elementari. Lo ritroviamo anche nella meccanica, nell’energia sprigionata dagli urti.

π: dalla fisica alla musica

Il π, in realtà, fa ormai parte anche della cultura pop moderna. Esiste, ad esempio, una disciplina sportiva, non ufficiale, che consiste nel decantare a memoria quante più cifre decimali del π. Akira Haraguchi, ingegnere giapponese, è il campione assoluto di questo sport. È riuscito a memorizzare ben 100.000 cifre.

Esiste anche uno stile di scrittura, chiamato Pilish, in cui la lunghezza delle parole utilizzate corrisponde alle cifre del π.

Esempio di pilish. Fonte: pbs.twimg.com

Un’iniziativa molto curiosa è stata, invece, quella di Daniel McDonald che ha tentato di riportare in musica le cifre del π. Ha creato la melodia associando un numero ad ogni nota nella Scala Armonica Minore di La.
Successivamente ha suonato la melodia con la sua mano destra mentre l’armonia veniva creata dalla sinistra.
È possibile trovare il video della composizione al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=OMq9he-5HUU.

Potremmo pensare di definire il pi greco come il compagno della nostra evoluzione, simbolo di progresso. Dalla prima intuizione ad oggi, il suo studio ci permette di comprendere meglio la realtà che ci circonda. Più scrutiamo a fondo, più notiamo una sorta di armonia nella natura che dal più piccolo elemento si ripercuote nei grandi corpi gassosi che soggiornano la volta celeste.
Quella stessa è presente anche in noi, piccola rappresentazione della complessità delle stelle, e in ogni petalo, nella curvatura di un onda. Il pi greco contribuisce a permetterci di capirla in un percorso che probabilmente sarà infinito, proprio come le sue cifre.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

Quali verità scientifiche si celano dietro fiamme infernali, pietre mobili e mari luccicanti?

La terra è la nostra casa da 200.000 anni, eppure questo grande corpo rotante riesce ancora ad apparire nuovo e ignoto ai suoi piccoli abitanti. Visitandolo si scoprono luoghi che non sembrano reali e che fanno rinascere quell’istinto primordiale alla conoscenza, il desiderio di essere ancora una volta curiosi. Di seguito mostriamo una raccolta di tre luoghi dove si realizzano fenomeni per lungo tempo considerati inspiegabili per rivelare le ragioni celate dietro strani accadimenti.

La porta dell’inferno

“Porta dell’Inferno” o “Cancello degli Inferi”, Turkmenistan

Questo è il nome con cui è stato ribattezzato un cratere largo circa 70 metri e profondo, in alcuni punti, anche 50. Si è formato non lontano dal villaggio di Derweze (nel deserto del Karakum, in Turkmenistan), a 260 chilometri dalla capitale Ashgabat.

Nella nota area desertica è possibile vedere un enorme cratere infuocato che emana un bagliore visibile, di notte, a chilometri di distanza, anche a occhio nudo. Nelle ore diurne, invece, avvicinandosi si nota una voragine interamente occupata da fiamme che bruciano arida terra.

È curioso che questo fenomeno si verifichi senza interruzione da circa 45 anni. Nasce da ciò la leggenda della “Porta dell’inferno”, che affascina ancora oggi, attirando ogni anno decine di migliaia di turisti.

Il fenomeno fa la sua comparsa nel 1971, quando i sovietici impiantano in quella zona una piattaforma di perforazione con lo scopo di trovare il petrolio. Poco dopo l’inizio dei lavori, le trivelle raggiungono, però, una sacca di gas naturale presente non troppo in profondità. Ciò porta al cedimento del terreno formato da roccia e sabbia. Il buco creatosi trascina con sé tutte le attrezzature senza causare, però, vittime. Per evitare che ne facciano i gas sprigionati dal sottosuolo si decide di incendiarlo, pensando che la fiamme esauriscano la riserva naturale in un tempo relativamente breve.

In realtà, ciò fino ad adesso non si è realizzato e il fuoco continua a propagarsi alimentato dal gas fuoriuscente. Questo incidente ci ha regalato un panorama suggestivo, anche se visitarlo si rivela arduo. L’intenso calore che emana il cratere, infatti, permette di avvicinarsi solo per pochi minuti finché la temperatura diventa realmente insopportabile.

Le pietre camminano?

Pietre mobili della Valle della Morte, California

Lo strano fenomeno dei massi mobili si verifica ormai da tempo nella Racetrack Playa, un lago asciutto della Valle della Morte, in California. Si tratta di un’area lunga 4,5 chilometri e occupata da qualche centinaio di rocce di dimensioni variabili. Alcune sono, infatti, piccole come palle da baseball, altre arrivano a pesare più di 300 chili. Anche le scie lasciate dai massi sono molto diverse: alcune molto corte, altre lunghissime, altre ancora a zig zag.

I geologi da decenni tentano di comprendere le cause di tale fenomeno. Solo da un paio di anni si è riusciti a darne una spiegazione. Un gruppo di scienziati ha, infatti, filmato la corsa di alcuni massi. A spingerli sarebbero i sottili strati di ghiaccio che si formano quando il letto del lago si riempie di acqua piovana. Accade non di rado, infatti, che le temperature notturne in questa zona scendano sotto lo zero, e che l’acqua raccolta nel lago ghiacci.
Per capire meglio le dinamiche del fenomeno, nel 2011 un gruppo di geologi guidati da Richard Norris della Scripps Institution of Oceanography equipaggia quindici massi con unità GPS attivate dal movimento, monitorandoli costantemente.

Nel dicembre 2013, mentre la Playa è coperta da circa 7 centimetri d’acqua, con lo strato superficiale ghiacciato, succede qualcosa. In una giornata soleggiata, infatti, il ghiaccio inizia a creparsi, producendo rumori simili a quello di vetro che si rompe. Poco dopo, le rocce iniziano a muoversi. I grandi pannelli fluttuanti di ghiaccio, trascinati dal vento, scivolano su acqua e fango rimasti. Le rocce, a contatto con la terra, graffiano il suolo lasciando dietro di sé le famose scie.

Tramite i successivi studi si è compreso che, affinché le rocce si muovano, occorre che si verifichino alcune circostanze. La Playa deve, ad esempio, essere ricoperta da uno strato d’acqua piovana (o di neve sciolta) abbastanza alto da ghiacciare d’inverno, ma non tanto da coprire le rocce. Il ghiaccio deve avere uno spessore di 3-6 millimetri, in modo che possa rompersi facilmente, ma sia abbastanza spesso da spingere le rocce.

La spiaggia stellata

Bioluminescenza, Maldive

Le Maldive rappresentano una delle mete estive più ambite. Stupiscono le spiagge bianche e l’acqua limpida, ma, in realtà, vi è un fenomeno meno noto che qui si manifesta. A Vaadhoo, un’isola che fa parte dell’Atollo Raa, infatti, è possibile vedere il mare brillare nella notte. Delle luci colorano l’acqua di un blu accesso, come se il cielo vi si specchiasse illuminandosi. Camminando tra le onde, poi, si potranno scorgere alle spalle le proprie impronte, anch’esse dotate di quell’azzurro luccichio.

A causare questo stupefacente fenomeno sono alcuni organismi dotati di bioluminescenza. Nell’atollo di Huvadhu, infatti, il fitoplancton (un insieme di microrganismi) è dotato di una particolare luminescenza azzurra.

La fonte di energia che permette di assumere tale aspetto è data dalle radiazioni solari. La luce azzurra, invece, viene prodotta da una proteina chiamata “luciferase”.

Il fenomeno è, in realtà, causato da un meccanismo di difesa che questi organismi mettono in atto per proteggersi dai predatori.

La bioluminescenza non è, però, una caratteristica unica delle Maldive. In vari tratti dell’oceano Atlantico equatoriale e nella acque tropicali sono stati, infatti, segnalati fenomeni di questo tipo, anche in mare aperto.

In Giappone, ad esempio, esiste la Baia Toyama, dove a rendere luminescenti le acque sono dei calamari. Nel Mediterraneo è più raro assistere alla bioluminescenza. nonostante ciò anche qui esistono organismi in grado di brillare al buio.

Esemplare di calamaro lucciola, baia di Toyama (Giappone)

La fosforescenza marina è molto più diffusa di quanto si pensi. I punti luminosi si possono presentare in diversi colori: bianchi, blu, azzurri, persino verdi. Più raramente può accadere che assumano sfumature di giallo e rosso. A scatenare la reazione luminosa sono sempre dei processi chimico-fisici di organismi che vivono nelle acque marine.

Questi esseri risentono, però, molto dell’inquinamento. Ne è esempio la scomparsa, a Porto Rico, della “Baia bioluminescente”. Nel 2014, infatti, la spiaggia si è spenta. Probabilmente la causa è da ricercarsi in un cambiamento dell’ecosistema.

Riflessioni finali

La scienza, che vive tentando di spiegare la natura, trova su questo piccolo pianeta sempre nuovi misteri da svelare. In questa continua scoperta, nel gioco con il creato possiamo ritrovare il piacere di vivere. Possiamo rimanere sconvolti dalla potenza di questo cumulo di rocce che si manifesta nel fuoco e allo stesso tempo sfoggia nell’acqua una delicata bellezza.

Fonti

Alessia Sturniolo

Il messinese è “buddace”: ecco perché

La Sicilia da sempre è una terra pregna di un notevole e caratteristico patrimonio socioculturale, che spazia dalle bellezze artistiche e paesaggistiche, fino a giungere agli usi e costumi quotidiani e tradizionali. Tra questi, oltre alla profondità e alle svariate sfaccettature dei dialetti siculi, troviamo degli appellativi che spesso ci capita di ascoltare per le vie delle città mediterranee. Ponendo degli esempi, i Catanesi sono soprannominati “pedi arsi” (piedi bruciati) o “fausi” (falsi), i Palermitani “lagnusi” (lamentosi), e i Messinesi “buddaci“.

 
Esemplare di Sciarrano – Fonte: biologiamarina.org

Ma ci siamo mai chiesti perché la comunità Peloritana viene chiamata così? Cos’è un “buddaci”?

Il pesce buddace, in italiano “sciarrano“, nome scientifico Serranus Scriba (dal latino scriba,”scrivano”) vive nelle acque dello Stretto. Di anatomia abbastanza piccola, normalmente lungo circa 25 cm, possiede un manto a linee intrecciate arancioni e blu che possono somigliare a una forma di scrittura, a cui è ispirato il nome della specie. Non è pregiato o particolarmente gustoso, e sta ininterrottamente con la bocca aperta; pertanto, viene pescato con facilità, anche a causa del suo continuo appetito e della sua ingenuità. Da qui i Messinesi vengono definiti spregiativamente come buddaci: popolo poco furbo, credulone, che si vanta senza aver agito concretamente, buono a nulla.

Ma a quando risale quest’appellativo?

La parola buddace non è di certo un neologismo. Era già diffusa agli inizi del ‘900 e ciò è testimoniato anche dal titolo di un settimanale umoristico antifascista edito a Messina nel 1924, “U buddaci“. Nel 1925 però, dopo pochi numeri, fu chiuso dalla censura fascista, condividendo la stessa sorte con altre testate locali.

©Lara Maamoun – Facciata di Palazzo Zanca, Messina 2020

 

Il buddace nell’architettura cittadina

Eppure, c’è anche un altro luogo dove possiamo imbatterci nel pesciolino buddace nella realtà cittadina, oltre al mare. Camminando per le vie del centro città, giungendo a Palazzo Zanca (sede del Comune) possiamo notare sulla facciata delle decorazioni raffiguranti i pesci buddaci. La specie marina protagonista di questo articolo non è l’unica a comparire sul monumento: è accompagnata infatti da altre sculture legate alla simbologia cittadina, come la Regina del Peloro e Dina e Clarenza. Sembrerebbe proprio che l’ingegnere Palermitano Antonio Zanca, al quale nel 1914 fu affidato il progetto di ricostruzione del Municipio dopo il terremoto del 1908, non abbia ricevuto per diverso tempo nessuna remunerazione, e che quindi, come simbolo di disprezzo ai Messinesi, fece inserire i pesci buddaci sull’edificio. 

 

Dettaglio della facciata di Palazzo Zanca – Fonte: strettoweb.com

Nonostante ciò, si deve sottolineare che non tutti i messinesi sono buddaci. Non lo dice l’autrice di questo articolo, magari in difesa dei suoi concittadini, ma lo testimoniano fonti storiche: in scritti antichi la comunità messinese è descritta come vivace, intelligente, artistica, eroica ed ospitale. Seppur ancora oggi è frequente che un messinese venga chiamato buddace, adesso questo termine ha una connotazione non più unicamente dispregiativa, bensì ironica. I messinesi stessi considerano l’appellativo come facente parte del loro patrimonio linguistico e, talvolta, si autodefiniscono buddaci e ci scherzano su, con la consapevolezza di chi conosce bene la propria identità.

Corinne Marika Rianò

 

Bibliografia:

Eleonora Iannelli, Messina Ritrovata, Edizione della Libreria Bonanzinga

“Mamma non ho rifatto il letto… e menomale!”

Se fino a questo momento la scusa più accreditata da giovani sfaticati per non dover rifare il letto ogni mattina era: “Che lo sistemo a fare che tanto stasera devo tornarci?”, da oggi la Scienza corre in vostro soccorso: fare il letto potrebbe non essere così salutare come si pensa.

Letto sfatto – Giovanni Graziani

Le faccende domestiche sono da molti viste come un obbligo ed una tortura. Pochi sono infatti coloro i quali non possono iniziare bene la giornata se non è tutto al suo posto. I maniaci dell’ordine sapranno sicuramente come il primo passo per una camera sistemata è rifare il letto, vuoi perché è l’oggetto più in vista vuoi perché è quello che occupa più spazio.

Ma per quanto l’occhio voglia la sua parte, rimettere le coperte in ordine appena svegli potrebbe essere controproducente, in particolar modo per i soggetti allergici.

Uno studio condotto dal team del dottor Stephen Pretlove dell’Università di Kingston ha dimostrato come lasciare il letto disfatto impedisca la proliferazione degli acari della polvere ed aiuti, inoltre, ad ucciderli.

Dermatophagoides pteronyssinus – Acaro della polvere

Gli acari della polvere, primo fra tutti il Dermatophagoides pteronyssinus, sono dei microrganismi causa della famosa allergia alla polvere, che spesso si complica, nei soggetti predisposti, con frequenti riniti che possono evolvere in asma, o con reazioni cutanee ed arrossamento oculare accompagnato da bruciore e frequente lacrimazione.

Il loro ciclo vitale e la loro sopravvivenza si basa sulle caratteristiche igrotermiche dell’ambiente che colonizzano e cioè sulla concentrazione di vapore acqueo e quindi di umidità nel loro habitat.

Le condizioni ideali al loro sviluppo sono:

  • Temperature superiori ai 20 °C
  • L’umidità relativa tra il 60% e l’80%. Un ambiente secco ne inibisce infatti la crescita, facendo disidratare l’acaro e portandolo a morte.

Le coperte, viene da sé, sono un luogo caldo ed il “richiuderle” appena svegli, col calore del corpo che le ha rese accoglienti, favorirebbe la creazione di un microclima ideale per la loro proliferazione che invece non sarebbe possibile se si lasciasse un letto sfatto a prendere aria.

Basti pensare alle nostre nonne e alle bisnonne che all’alba mettevano cuscini e coperte sui davanzali delle finestre per “fare prendere aria” alle stesse suppellettili oltre che alla stanza. Metodi antichi che sostituivano i climatizzatori estivi o i deumidificatori invernali dei nostri giorni.

Lo studio della Kingston Univeristy è stato inoltre stimolo per numerose aziende e per diversi ingegneri edili per progettare delle abitazioni con sistemi di riscaldamento, ventilazione ed isolamento finalizzati al monitoraggio delle condizioni di umidità, basandosi sempre sulle caratteristiche igrotermiche di idoneità.

Cari lettori, da oggi avete una scusa in più per sottrarvi alle faccende casalinghe, ma usatela con moderazione per non fare arrabbiare le vostre mamme! A tal proposito, meglio scappare dalla mia prima che si accorga di questo articolo e del mio letto sfatto!!

 

                                                                                                                                                                      Claudia Di Mento

Mito o realtà: quant’è vera la regola dei 5 secondi?

A tutti voi sarà capitato, almeno una volta, di vedere cadere giù dalle vostre mani qualche prelibatezza che stavate gustando con tanto amore, peggio ancora se era l’ultimo pezzo di una torta o l’ultimo biscotto presente in casa. Ed ecco che una domanda comincia a risuonare in testa: “Che faccio lo raccolgo e lo mangio o lo butto?”. Se per alcuni il dubbio è praticamente amletico, altri si fiondano alla velocità di Usain Bolt e lo mangiano soddisfatti. È proprio questo il principio su cui si basa la famosissima Regola dei 5 secondi: se questo lasso di tempo non è passato, il cibo non è stato contaminato e non si corre alcun rischio. Ma questo è proprio vero o è solo un modo per sentirsi autorizzati a fare qualcosa di non propriamente sano e sicuro, riuscendo così a dormire tranquilli la notte?

Se da una parte c’è chi sostiene che raccogliere il cibo da terra possa far aumentare le difese immunitarie o addirittura “arricchire di gusto il pasto”, altri trovano questa pratica disgustosa ed addirittura pericolosa.

Ma cosa ne pensa la Scienza?

Diversi sono gli studi e le teorie che si sono avvicendate sulla questione, ma la ricerca più dettagliata a tal proposito è stata quella condotta da Robyn C. Miranda e Donald W. Schaffner e pubblicata sulla rivista Applied and Environmental Microbiology (American Society for Microbiology).

Questa spiega come, seppur sia vero che tempi più lunghi comportano un maggior rischio di trasferimento batterico dalle superfici ai cibi stessi, altri fattori, inclusa la natura del cibo e della superficie, siano di uguale o maggiore importanza e meritino di essere attenzionati.

La Natura del cibo

Gli alimenti scelti sono stati: anguria, pane bianco, burro spalmato sul pane e caramelle gommose. Tutti e quattro caratterizzati dalle stesse dimensioni, in modo d’avere la stessa superficie di contatto con il pavimento.

Il cibo con la più alta velocità di trasferimento è stata l’anguria, indipendentemente dal tempo di contatto, il che potrebbe essere giustificato dal fatto che, appena tagliata, essa si presenta molto umida. L‘umidità facilita il trasferimento, non importa se la superficie di contatto sia asciutta o bagnata. Inoltre l’anguria può anche presentare una superficie più piatta e uniforme a livello microscopico rispetto al pane o alle caramelle gommose, facilitando la colonizzazione.

La natura della superficie

Le superfici analizzate erano invece: acciaio inossidabile, piastrelle smaltate in ceramica, legno laminato di acero e tappeti/moquette.

Sorprendentemente, secondo lo studio, i pavimenti in moquette trasmettono meno batteri rispetto ai pavimenti in piastrelle e acciaio inossidabile e questo sembrerebbe essere motivato dall’attaccamento o dall’infiltrazione batterica profonda delle fibre assorbenti della moquette stessa, che “intrappolerebbero” i batteri. Al contrario, il tasso di trasferimento batterico era maggiore per le piastrelle, per l’acciaio inossidabile e per le superfici in legno.

Anche la pressione, non inclusa nelle variabili citate nelle studio, sembrerebbe portare un maggiore trasferimento quando applicata con una forza pari o superiore ai 20 g/20 cm^2.

Nonostante nessuno sia mai morto per avere seguito questa regola, nelle condizioni igieniche peggiori, diventa reale la possibilità di contaminarsi con ceppi di Escherichia Coli e Salmonella, che sono spesso causa di enteriti di varia entità e sintomatologia.

Ceppo di E. Coli
Ceppo di Salmonella

Lo studio sembra dunque confermare la validità della Regola dei 5 secondi nella misura in cui il tempo è una variabile importante, ma risulta comunque una pratica limitata non considerando le altre condizioni. Si rimanda piuttosto al buon costume dei consumatori per la valutazione del rapporto rischio-beneficio.

È un cibo che vale davvero la pena di recuperare e mangiare? È caduto in una zona con un’alta probabilità di contaminazione che non viene pulita troppo spesso? Ma soprattutto, è davvero così lontano il supermercato per comprare un nuovo pacco di biscotti, evitando così qualsiasi pericolo?

 

Claudia Di Mento

Quattro chiacchiere con la prof.ssa Maria Astone – Il CORECOM Sicilia

Si sa, l’UniMe ha tante eccellenze passate, presenti e, ci si augura, future. Un grande onore del nostro Ateneo, specialmente del dipartimento di Giurisprudenza, è il ruolo che ricopre la prof.ssa Maria Annunziata Astone, ordinario di Diritto Privato, a livello regionale: è lei l’attuale presidente del Corecom Sicilia. Il Corecom – Comitato Regionale per le Comunicazioni –  è un organo funzionale dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (Agcom) previsto da una legge nazionale. Ma in cosa consiste questo organo? Quali funzioni svolge? Perché è così importante per la comunità, la quale non lo conosce molto  bene? Noi di UniVersoMe non potevamo esimerci dal trovare le risposte a queste domande, ed il miglior modo è stato fare quattro chiacchiere a tu per tu con la professoressa!

©Sofia Campagna, Messina 2019

Essendovi in totale circa 400 emittenti presenti sul territorio regionale, in che modo il Corecom Sicilia regola la varietà di accesso ai media audio-visivi siciliani su cui esercita la vigilanza?

Dai nostri ultimi accertamenti effettuati, in Sicilia operano circa 367 televisioni private, numero che ritengo sia destinato in qualche modo a ridursi considerando il fatto che molte di queste emittenti vivono grazie ai contributi dello Stato. Conseguentemente nel momento in cui i criteri per il riconoscimento dei contributi diventano più restrittivi viene messa in discussione la loro sopravvivenza, con grave pregiudizio per il  pluralismo informativo e per l’economia dell’isola.
Per quanto riguarda il controllo del Comitato Regionale per le Comunicazioni della Regione Sicilia sull’operatività delle emittenti televisive viene tenuto presso la sede del Comitato  un registro degli operatori di comunicazione, il c.d. ROC. Inoltre per legge svolgiamo anche un’attività di sorveglianza e monitoraggio direttamente sulle trasmissioni, al fine di garantire le norme in materia di pubblicità, di par condicio in clima elettorale ed il rispetto delle norme dirette alla tutela  dei soggetti vulnerabili,  nelle diverse fasce orarie dei palinsesti televisivi.
Però devo dire che la normativa riguarda sole i media tradizionali, sicchè restano fuori da ogni controllo  i programmi che transitano sulle  nuove reti di comunicazione. La normativa nazionale in tema di monitoraggio e di sorveglianza infatti non è applicabile alla rete telematica. Sotto questo profilo, l’ordinamento giuridico italiano è del tutto insufficiente rispetto alle nuove esigenze.

©Sofia Campagna, Messina 2019

Mi ha anticipata riguardo la prossima domanda. Difatti in vista della prossima razionalizzazione della capacità trasmissiva degli operatori audio-visivi di reti locali, quale futuro intravede per gli stessi fornitori di media locali?

Guardi, io innanzitutto credo che il futuro sia da scrivere, però noto delle difficoltà enormi.  Infatti sia con l’introduzione   della normativa europea sul codice europeo delle comunicazioni elettroniche, sia il nuovo assetto delle reti di comunicazioni che a breve prenderà avvio determinerà  una crisi di molte realtà televisive locali. Questo è un grande problema perché non è in gioco solo l’informazione, bensì anche i livelli occupazionali di coloro che lavorano all’interno di questa realtà, basti pensare ai giornalisti, i registi, gli operatori tecnici. È necessario che le autorità intervengano quanto meno per sostenere sia i soggetti che operano all’interno delle  televisioni private sia per continuare a garantire il pluralismo informativo. Un ruolo molto importante potrà  essere svolto dalla regione Sicilia, così come ho rappresentato  in una conferenza svoltasi lo scorso Aprile, al presidente dell’ARS Miccichè. E’ opportuno che la Regione Sicilia si doti di una normativa organica e adeguata alle nuove tecnologie  in materia di informazione;  e a tal proposito il Corecom intende presentare diverse proposte.

Il Corecom Sicilia possiede delle particolari funzioni rispetto agli altri, essendo nominato da un’assemblea regionale a statuto speciale?

Il Corecom Sicilia non si differenzia rispetto agli stessi organi delle altre regioni. Ha delle funzioni proprie come quella consultiva dell’Ars e della Giunta Regionale nelle materie di propria competenza; funzioni di supporto al governo Regionale e all’Ars per le iniziative inerenti al settore dell’informazione.

©Sofia Campagna, Messina 2019

Le testate online dovrebbero essere registrate presso il Roc, il Corecom come concilia il controllo e la vigilanza con il principio di libertà di stampa?

Le testate online registrate in Sicilia sono solo 50, però sul punto va rilevato che il Corecom può svolgere sulle testate giornalistiche on line la stessa attività di sorveglianza che si attua per i giornali cartacei.. Tuttavia, come per quasi l’intera materia, ancora non abbiamo delle norme specifiche che ci forniscano una competenza in merito al loro controllo e molto è lasciato all’autonomia privata e agli accordi tra Agcom e gestori delle piattaforme online.

Un ringraziamento va alla prof.ssa Astone che con grande disponibilità si è prestata a questa intervista di un’aspirante avvocato con il desiderio di lavorare in questo “magico” mondo delle comunicazioni.

 

 

 

Giulia Greco

…a Messina si trova il secondo organo a canne più grande d’Italia?

Appassionati di musica, esultate: Messina ha una sorpresa che fa per voi. Se vi dovesse capitare di fare due passi in piazza Duomo a Messina una domenica mattina, tenete le orecchie bene aperte: già dall’esterno del grande tempio cittadino, potreste facilmente sentire la nitida voce, ora possente ora dolcissima, del secondo più grande organo a canne d’Italia.

Proprio così: con le sue 16.000 canne, l’Organo della Cattedrale di Messina è il secondo in Italia per dimensioni, sorpassato (peraltro neanche di troppo) solo dal grande Organo del Duomo di Milano.

Il pallino per la musica, a Messina, pare non essere mai mancato, così come la voglia di fare le cose in grande. La presenza di un organo in Cattedrale è documentata dal 1560, quando fu edificato all’angolo del pilastro sinistro dell’abside un maestoso strumento riccamente intagliato, per volontà dell’Arcivescovo; neanche 15 anni dopo, per volere del Senato, gli organi diventano due, uno di fronte all’altro; nel corso del XVI secolo, ne viene edificato un terzo, poi un quarto, dove oggi si trovano rispettivamente le cappelle dell’Assunta e del Risorto; ben quattro strumenti, che durante le solennità venivano suonati da altrettanti organisti, che, insieme col coro e altri musicisti, formavano l’organico della Cappella Musicale del Duomo di Messina, stipendiata

dal Senato.

Di questo grandioso apparato musicale, più volte ritoccato nel corso dei secoli per adattarsi ai gusti dell’epoca, oggi non resta nulla; ma, fortunatamente, durante il periodo di ricostruzione successivo al terremoto del 1908, si pensò di riparare al danno subito con un nuovo strumento più grande di tutti i precedenti messi assieme. Commissionato alla ditta Tamburini di Crema, una delle più importanti d’Italia, il nuovo organo fu ultimato nel 1930, ma ebbe vita breve: distrutto infatti dai bombardamenti del 1943, fu ricostruito dalla stessa ditta, ma ancora più in grande, nel 1948.

È questo l’organo che possiamo vedere e sentire oggi: con le sue cinque tastiere e i suoi 170 registri, può passare, nelle mani giuste, dai suoni più dolci e delicati a quelli più possenti e maestosi, in una gamma pressochè infinita di sfumature timbriche.

Ma c’è di più: le canne infatti sono divise in più corpi d’organo, distribuiti appositamente in diverse zone della chiesa: nei transetti di destra e di sinistra, dietro l’altar maggiore, in controfacciata, addirittura sopra l’arco trionfale. Il suono arriva quindi agli ascoltatori da davanti, da dietro, dai lati, persino dall’alto, in modo da sfruttare al meglio le peculiarità acustiche dell’edificio e creare incredibili effetti stereofonici.

Trattandosi di un organo sinfonico (secondo il gusto continentale in voga quando fu costruito), rende il massimo delle sue potenzialità in concerto, soprattutto in pezzi appositamente pensati per questo tipo di strumenti, come quelli di autori francesi del periodo romantico e tardo-romantico (vi offriamo un assaggio qui), pur potendo eseguire qualsiasi repertorio; oltre ad essere ovviamente ottimo per accompagnare il canto liturgico e la musica sacra.

Ma direi che ne abbiamo già parlato abbastanza: ora tutto quello che vi resta da fare è lasciar parlare la musica, correndo in Duomo ad ascoltarlo…

Gianpaolo Basile

Image credits:

 

1)  Mstyslav Chernov, https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Messina_Duomo_,_Organ._Messina,_Island_of_Sicily,_Italy,_Southern_Europe.jpg#mw-jump-to-license

2)  Hajottu, https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Kathedrale_von_Messina@_Orgel_20171018.jpg#mw-jump-to-license

 

 

…dietro le origini della nostra Università si cela un primato mondiale?

Il portale dell’antico collegio, nel cortile interno della nuova sede universitaria

Ebbene sì, possiamo vantarcene: la nostra Università detiene un primato storico-culturale a livello mondiale! Fu fondata, infatti, dalla Compagnia di Gesù come primo collegio al mondo aperto esclusivamente ai laici. “Primum ac Prototypum collegium”: così si legge sull’iscrizione in latino posta sopra l’antico portale del collegio, unico elemento rimasto della struttura originaria e ancora oggi visibile nel cortile della sede centrale dell’università, passando da via Venezian. Non si trattava, dunque, solamente del primo istituto di formazione gesuita ma anche di un prototipo, un modello per le innumerevoli strutture che tale ordine religioso avrebbe costruito a seguire in tutto il mondo.

Le origini di quello che può considerarsi il nucleo storico della nostra Università risalgono al 1548. In quell’anno il Senato messinese, appoggiato dal viceré Juan de Vega, diede il suo consenso alla fondazione di un collegio gesuita. Ad interessarsi personalmente e a presentare istanza per la creazione dell’istituto di formazione presso il papa, Paolo III, fu sant’Ignazio di Loyola in persona.

Ignazio di Loyola in un dipinto di Pieter Paul Rubens

Il religioso spagnolo, fondatore nel 1534 della Compagnia di Gesù, si trovava allora in Italia con i suoi; qui si dedicava alle opere di carità e alla predicazione, attività principali del neonato ordine religioso. In Messina, posta tra l’Occidente e l’Oriente, scorse il terreno adatto in cui creare un importante centro culturale e religioso; così, il 16 novembre del 1548, ottenne l’istituzione formale dello Studium attraverso la bolla papale “Copiosus in misericordia Dominus”. Questa prevedeva che a gestire il collegio fosse proprio la Compagnia del Gesù, mentre spettava alla città finanziarne le attività.

Ovviamente ciò portò i gesuiti e le istituzioni locali ad avere non pochi contrasti, che si sarebbero risolti nel 1550 con la divisione dello Studium in due rami: uno laico, con gli insegnamenti di diritto e medicina, retto dal Senato; l’altro gesuitico, con gli insegnamenti di teologia e filosofia, retto dalla Compagnia di Gesù. Quest’ultima poi, nel 1565, verrà addirittura estromessa totalmente dalla gestione dello Studio, il quale aderirà al modello universitario “bolognese”.

Un altro ostacolo, non di poco conto, che la neonata Università messinese si trovò ad affrontare fu l’ostilità del Siciliae Studium Generale di Catania, che, istituito nel 1445, rivendicava solo per sé il diritto di conferire titoli dottorali in Sicilia. Solamente nel 1596, grazie all’intervento del tribunale della Sacra Rota, lo Studium di Messina conferì la sua prima laurea. Nello stesso periodo la città ottenne da Filippo II una cospicua donazione di 200 mila onze, che permise la rifondazione dell’Università.

Da allora ha inizio una storia che, passando tra varie chiusure e successive riaperture dello Studium, collegate alle vicissitudini storiche della città dello Stretto, porta ai nostri giorni ed a quella che è oggi la nostra Università. La quale, diciamolo, ha avuto degli albori tanto originali quanto gloriosi!

Francesca Giofrè

Vuoi saperne di più? Leggi anche questo articolo per approfondire!

Image credits:

  1. Giulia Greco
  2. Di Pieter Paul Rubens – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6675601