L’editing genetico: il futuro per malattie su base genetica?

 

Introduzione

Come malattie cardiovascolari annoveriamo: infarto del miocardio, ischemia e scompenso al livello cardiaco. Infarto del miocardio è causato principalmente da un’ostruzione di quello che è il passaggio del sangue all’interno delle arterie non permettendo, quindi, un apporto corretto di ossigeno all’interno di quelli che sono i vasi che andranno ad irrorare il cuore. Può presentarsi in maniera acuta o subacuta, in maniera acuta nel peggiore dei casi si presenta senza i cosiddetti “segnali dall’arme” provocando in maniera istantanea la morte quindi infarto, o in maniera subacuta, quindi la fase subacuta determinata già da un’ischemia (che colpisce le arterie coronarie) protratta nel tempo che grazie alla presenza di segnali che potrebbero permetterne un riconoscimento come, dolori che possono coinvolgere il braccio sinistro e il collo, stanchezza.

Biomarcatori, elettrocardiogramma ed ecocardiogramma.

I biomarcatori che permettono il riconoscimento di infarto sono Troponina, Mioglobina e CK-MB. Gli esami come l’elettrocardiogramma ed ecocardiogramma, i quali ne consentono lo studio dell’organo in maniera differente, una sfrutta principalmente la rilevazione del ritmo anomalo che potrebbe presentarsi, l’altra riproduce l’immagine dell’organo attraverso ultrasuoni.

  1. Introduzione
  2. Biomarcatori, elettrocardiogramma ed ecocardiogramma.
  3. Fattori di rischio
  4. Cosa consigliano i medici?
  5. Cosa sono le placche aterosclerotiche?
  6. Perché Colesterolo “buono” o “cattivo”?
  7. I determinanti di salute e l’editing genetico, dove la scienza sta arrivando?
  8. L’utilizzo della tecnica CRISPR all’interno delle malattie cardiovascolari 

Fattori di rischio

Tra i fattori di rischio, si fa riferimento all’età, in età avanzata si può parlare di un decadimento fisiologico dell’organo in quanto c’è mancata produzione di fattori che permettono l’elasticità del cuore, o ancora la presenza di malattie congenite. Cattive abitudini di vita: fumo, alcol, cibo spazzatura, che promuovono la produzione delle placche arteriosclerotiche, e quindi ostruzione nel passaggio del sangue.

Fattori di rischio: https://www.studiocardiologiconangah.it/abcprevenzione.html

 

Cosa consigliano i medici?

Prevenzione e la promozione della salute, quindi andando a ridurre quelli che sono i fattori nocivi (alcol, fumo, cibo spazzatura, sedentarietà), e aumentare i fattori positivi che aumentando le condizioni favorevoli di vita, quindi uno stile di vita sano: seguire un’alimentazione corretta, sport, eliminare le sostanze nocive. Utile, inoltre, fare screening delle malattie cardiovascolari.

Prevenzione malattie cardiovascolari: https://www.ausl.pr.it/anteprima_opuscolo_cardiovasco_2016_1_1000.jpg?h=f4f5f60aab67f3791235b704bb63ed87713a5db7

Cosa sono le placche aterosclerotiche?
Le placche aterosclerotiche, nascono da continue lesioni all’interno dei vasi, dall’accumulo di colesterolo (LDL) definito “cattivo”, proprio perché invece di essere smaltito si va a depositare all’interno del lume dei vasi sanguigni riducendo il passaggio di sangue. Quindi l’ipercolesteremia può essere legata ad una predisposizione genetica che facilita l’accumulo di colesterolo e anche favorita dagli stili di vita poco sani.

Formazione delle placche all’interno dei vasi: https://www.cardiochirurgia.com/patologie/2016/aterosclerosi-prevenzione-diagnosi-trattamento

Perché Colesterolo “buono” o “cattivo”?

Il colesterolo, si scinde in HDL ed LDL, rispettivamente buono e cattivo. Buono e cattivo in base alla destinazione che “prende” il colesterolo, trasportato attraverso sacche lipoproteiche, il loro trasporto attraverso queste sacche, permettono le normali funzioni del colesterolo buono e l’esterificazione del colesterolo “cattivo”. Nel caso in cui, vi è un disequilibrio, il colesterolo “cattivo” o LDL non viene esterificato, e quindi accumulato. Questo disequilibrio viene favorito dalla genetica, e quindi ne determina l’accumulo.

I determinanti di salute e l’editing genetico, dove la scienza sta arrivando?

I determinanti di salute si suddividono in fattori modificabili (stili di vita), non modificabili la genetica e il sesso. In questa prospettiva, l’editing genetico, per quanto riguarda la predisposizione genetica nell’accumulo di colesterolo, sta contrastando “il fattore genetico” compreso all’interno di quelli che sono i fattori non modificabili. Utilizzando la tecnica Crispr, che agisce al livello del Dna con un meccanismo di taglio e di cucito, grazie all’ausilio dell’enzima Cas9, che taglia la sequenza “non corretta”, e grazie alla creazione in laboratorio della sequenza corretta, la cellula ingloba la sequenza corretta portando al funzionamento del gene stesso. La tecnica Crispr risulta essere una delle tecniche future nella correzione delle sequenze di DNA, di molte malattie. Quindi l’editing genetico, funziona attraverso due tecniche: silenziamento della sequenza scorretta, o grazie all’ausilio dell’enzima Cas9, viene identificata la sequenza e tagliata, per poi reinserire la sequenza corretta creata in laboratorio.

L’Utilizzo della tecnica CRISPR all’interno delle malattie cardiovascolari

Questo principio della tecnica CRISPR è stato applicato da uno studio condotto Verve Therapeutics di Boston, che si occupa della malattie cardiovascolari. Grazie a questa applicazione, i soggetti affetti da ipercolesteremia familiare hanno avuto un significativo abbassamento del cosiddetto colesterolo “cattivo”, ovviamente i benefici sono evidenti, ma i rischi incerti, in quanto si parla di uno studio sperimentale, ma si può sperare che getti le basi per una futura terapia.

Tecnica CRISPR: https://www.cambridge.org/core/services/aop-file-manager/file/582df76221b559de0536a2c2/CRISPR-1.jpg

                                                                                                                                                     Elisa Bentivogli 

Per approfondire

https://www.focus.it/scienza/salute/per-la-prima-volta-e-stato-usato-l-editing-genetico-per-abbassare-il-colesterolo

Malattie cardiovascolari: cosa sono e come prevenirle

https://link.springer.com/article/10.1007/s12013-015-0553-4

https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/disturbi-cardiaci-e-dei-vasi-sanguigni/aterosclerosi/aterosclerosi

https://www.nature.com/articles/s41580-019-0190-7

https://www.focus.it/scienza/scienze/editing-genetico-crispr-come-si-fa

https://it.moleculardevices.com/applications/gene-editing-with-crispr-engineering

https://www.gvmnet.it/press-news/news-dalle-strutture/ecg-o-ecocardiogramma-quali-sono-le-differenze#:~:text=Qual%20%C3%A8%20la%20principale%20differenza,quindi%20la%20morfologia%20del%20cuore.

 

Padova, medici “rivitalizzano” un cuore e lo trapiantano. Operazione unica nella storia

Lo scorso giovedì, un’equipe di medici padovani ha ricordato al mondo quanto bravi possano essere i professionisti sanitari nostrani. Compiendo un’operazione che ha dell’incredibile, unica nella storia per le sue modalità, l’equipe è riuscita a trapiantare un cuore “morto” da 20 minuti nel corpo di un cardiopatico. Ma andiamo per ordine…

Padova: in attesa da tre anni, poi il miracolo!

Riporta le informazioni Skytg24. Un uomo cardiopatico, oggi 46enne, nel 2020 aveva fatto richiesta, presso la struttura ospedaliera di Padova, per un cuore sano. Suo malgrado però, come spesso accade per penuria di “risorse anatomiche”, il suo desiderio era rimasto per tanto tempo inesaudito.

Per un lungo periodo ha sofferto ansioso in lista d’attesa, fino a quando, qualche giorno fa, è giunta  un’opportunità. È arrivato il bramatissimo bene, da mettere a frutto con un’operazione difficilissima.

Un altro uomo, colpito da “morte cardiaca”, ha lasciato in dono il suo cuore all’azienda ospedaliera di Padova: un cuore di tipo compatibile con quello del 46enne. 

L’operazione:  un cuore “vivo” da corpo a corpo

Così, senza perdere un attimo di tempo, i medici hanno messo le mani sul cuore del donatore. L’hanno riperfuso e, dopo averne valutato lo stato, l’hanno trapiantato con successo!

Hanno partecipato all’intervento, accompagnati dai rispettivi entourage: Gino Gerosa, direttore del reparto di cardiochirurgia dell’azienda ospedaliera di Padova e Paolo Zanatta, direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione di Treviso.

A onor del vero, non è la prima volta che un cuore viene “rivitalizzato” in un altro corpo. Ma è la prima volta che ciò accade dopo ben venti minuti di “stop”. 

D’altronde, in Italia nessuno avrebbe potuto agire diversamente: una legge prescrive che il prelievo da cadavere possa avvenire solo dopo che un medico ha certificato la morte attraverso l’esecuzione di un elettro-cardiogramma protratto per una durata di almeno venti minuti, trascorsi i quali si considera vi sia una irreversibile perdita delle funzioni dell’encefalo e dunque la morte dell’individuo.

Cuore
Ospedale. Fonte: Italia Informa

Il Presidente Zaia: “Una nuova pagina sul fronte del trapianto di cuore”

Il direttore Gerasa ha commentato così la buona riuscita dell’operazione:

Per primi al mondo abbiamo dimostrato che si può utilizzare per un trapianto cardiaco un cuore che ha cessato ogni attività elettrica da 20 minuti. Questo risultato straordinario potrebbe portare ad un incremento del 30% nel numero dei trapianti, in un arco di tempo relativamente breve.

Ci sono Paesi in cui l’attesa dopo lo stop del cuore è di 2, massimo 5 minuti, qui in Italia ne sono previsti 20. Quindi abbiamo studiato e lavorato intensamente per superare questo ostacolo e abbiamo dimostrato che anche in Italia si può fare questo tipo di trapianto

E anche Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, ha voluto dire la sua sulla vicenda, dimostrando enorme soddisfazione:

Si tratta di una notizia emozionante, si apre una nuova pagina di storia sul fronte del trapianto di cuore, risultato di un lavoro di squadra eccezionale portato avanti dalla sanità veneta e da questi medici professionisti di grandissimo spessore.

 

Gabriele Nostro

 

 

 

Giraffe: il segreto per un cuore sano

L’estrema lunghezza del collo delle giraffe fa sì che i loro ventricoli debbano lavorare a pressioni altissime: come fanno ad avere un cuore sano?

Elenco dei contenuti

I valori pressori umani e dei mammiferi

Negli esseri umani adulti, i valori pressori “normali”, sono di circa 130 mmHg per la pressione sistolica (quella “massima”, corrispondente alla contrazione dei ventricoli) e di 80mmHg per quella diastolica (anche detta “minima”, corrispondente al rilassamento dei ventricoli del cuore).
Esistono tuttavia certi range nei quali la pressione arteriosa è considerata normale, mentre altri in cui ci si avvicina ad una condizione di pericolosità.
In questa tabella possiamo vedere i valori pressori classificati in base alla loro pericolosità secondo le linee guida del2018 del ESC/ESH – European Society of Cardiology – European Society of Hypertension.

 

Livello Pressione sistolica (mmHg) Pressione diastolica (mmHg)
Ottimale <120 <80
Normale 120-129 80-84
Normale – Alta 130-139 85-89
Ipertensione di grado 1 140-159 90-99
Ipertensione di grado 2 160-179 100-109
Ipertensione di grado 3 ≥ 180 ≥ 110
Ipertensione sistolica isolata ≥ 140 ≤ 90

 

Oltre certi livelli pressori, il cuore si inizia a danneggiare in quanto costretto ad un lavoro maggiore, con conseguente carenza di ossigeno, danni ecc. Nel tempo ciò porta ad un rimaneggiamento del cuore stesso, che da cuore sano inizia inesorabilmente a trasformarsi in un cuore scompensato, malato. I tessuti muscolare ed elettrico iniziano a diventare tessuti fibrotici, con tutti i problemi che ne derivano (aritmie, insufficienza cardiaca ecc).
Ecco perché è importante mantenere i valori pressori entro certi target, per evitare questa evoluzione fibrotica del cuore.
Nei mammiferi di media e grossa taglia, il funzionamento del cuore e le varie pressioni sono simili, come è simile il danno che deriva da un eccesso pressorio, tranne che in un caso: nelle giraffe.

Crediti immagine: https://www.medimagazine.it/fibrosi-cardiaca-mantenere-cuore-sano-gli-acidi-biliari/

La pressione arteriosa delle giraffe

Le giraffe, spinte dalla pressione evolutiva, hanno sviluppato nel corso di migliaia di anni un collo spropositatamente lungo rispetto al resto del corpo. Certamente questo le aiuta a nutrirsi in ambienti aridi come la savana, raggiungendo cibo che nessun altro animale rivale è in grado di raggiungere.
Il rovescio della medaglia per un simile traguardo evolutivo è però quello di un’eccessiva pressione arteriosa. Per far sì che il sangue raggiunga il cervello delle giraffe, situato a oltre 2-2,5 metri dal petto, il cuore di una giraffa deve lavorare a pressioni elevatissime: 220/180 mmHg, per ottenere a livello cerebrale una pressione normale di 110/70 mmHg.
Ma come fanno allora le giraffe, nonostante questa enorme pressione a livello cardiaco, a non sviluppare patologie legate all’ipertensione come la fibrosi cardiaca, la fibrillazione atriale e lo scompenso cardiaco?

Crediti immagine: https://www.medscape.com/viewarticle/951907

Come la ricerca sulle giraffe potrebbe curare lo scompenso cardiaco

La biologa evoluzionista Barbara Natterson-Horowitz e i cardiologi dell’Università di Harvard e dell’ UCLA  (University of California, Los Angeles), incuriositi da queste caratteristiche hanno scoperto che esse possiedono dei ventricoli più spessi, ma senza rigidità nelle pareti degli stessi o fibrosi, cosa che invece hanno gli esseri umani sottoposti ad elevate pressioni arteriose per molto tempo.
Andando quindi a studiare il genoma delle giraffe, gli scienziati hanno visto come nei loro geni siano presenti 5 mutazioni nei geni che producono fibrosi (es. ACE, FGFR-L1, ecc.) rispetto agli altri mammiferi.
Ulteriori ricerche hanno dimostrato come le giraffe possiedano delle proprie varianti genetiche specifiche per geni coinvolti nei processi di fibrosi.

Crediti immagine: Did giraffe cardiovascular evolution solve the problem of heart failure with preserved ejection fraction?
June 2021Evolution Medicine and Public Health 9(1)

 

Conclusioni

Ulteriori studi da effettuare su questi animali potrebbero svelare altre meraviglie del loro sistema cardiovascolare, rappresentando così una possibile svolta per i problemi cardiaci dell’uomo. Dallo scompenso cardiaco alla fibrillazione atriale, aritmie ecc., si potrebbero curare molte patologie cardiache.
Scoperte del genere dovrebbero farci riflettere su quanto meraviglioso ed interconnesso sia il mondo della scienza. Dei fisici curiosi si saranno chiesti a che pressione lavorasse un cuore di giraffa per pompare il sangue così in alto, una biologa evoluzionista ha fatto delle ipotesi, con la genetica si sono trovate delle mutazioni ai geni della fibrosi.
Da qui, in futuro potremmo avere delle cure migliori per il cuore.

 

 

Roberto Palazzolo

Il pacemaker: con o senza fili?

Il pacemaker è un dispositivo medico in grado di stimolare la contrazione di più camere del cuore, affinché possa svolgere correttamente il suo ruolo di pompa. Il primo pacemacker è stato impiantato nel 1957 e il suo ideatore fu Rune Elmqvist, il quale lavorò sotto la direzione di Åke Senning, medico senior e cardiochirurgo presso l’Ospedale Universitario Karolinska di Solna, in Svezia.

Indice dei contenuti

  1. Cos’è il pacemaker?
  2. Differenza tra la tecnica tradizionale e la tecnica leadless, senza fili
  3. Come viene effettuato l’impianto del pacemaker?
  4. Conclusione

Cos’è il pacemaker?

Il pacemaker è un dispositivo transitorio e wireless in grado di generare degli impulsi elettrici che stimolano la contrazione di atri e/o ventricoli in caso di disturbi della genesi o della conduzione dell’impulso elettrico. In questo modo permette al cuore di poter svolgere correttamente il suo lavoro. Infatti, in condizioni di riposo, quando il cuore funziona correttamente, le camere cardiache si contraggono a una frequenza intorno ai 60/80 battiti al minuto. Quindi se tali condizioni non sono verificate, il pacemaker permette di aumentare la frequenza del battito cardiaco in base al fabbisogno del paziente basandosi su dei segnali derivanti da una rete di quattro sensori morbidi, flessibili, indossabili e unità di controllo posizionate attorno alla parte superiore del corpo.

Differenza tra la tecnica tradizionale e la tecnica leadless, senza fili

La tecnica tradizionale consiste nell’applicazione attraverso le vene dello stimolatore cardiaco.
Questa tecnica implica alcuni problemi quali complicazione correlate alla tasca (infezione, ematoma, erosione), complicazione correlate ai cateteri (ad esempio la trombosi venosa) e complicazioni legate alla difficoltà di reperire accesso venoso (ad esempio ostruzione).

Grazie alla nuova tecnica Leadless si è riusciti ad ovviare alle complicanze causate dal metodo tradizionale.  Lo scopo è aumentare l’accettazione del pacemaker da parte del paziente: nessuna cicatrice, tumefazione o elemento esterno visibile.
Inoltre, questa nuova tecnica, consiste nell’impianto di un pacemaker delle dimensioni estremamente ridotte (come quelle del tappo di una penna a sfera) e dei suoi accessori: un programmatore, un induttore, un catetere di posizionamento.
Quindi la principale differenza sta nel fatto che nella tecnica tradizionale dobbiamo estrarre il filo collegato direttamente al cuore mentre nella tecnica senza fili abbiamo un cerotto che si applica sul petto, tale da assicurare la risposta elettrica necessaria senza sensori impiantabili. Quando non serve più viene rimosso come un adesivo che si stacca dalla cute.

Fonte: tecnicaospedaliera.it

Come viene effettuato l’impianto del pacemaker?

L’intervento avviene in anestesia locale e solo in qualche caso può essere necessaria una blanda sedazione.
Il pacemaker viene posizionato grazie ad un sistema di trasporto costituito da un tubicino flessibile inserito attraverso un induttore tubulare  posizionato nella vena cava femorale, da destra. Dopo aver progressivamente dilatato la vena con un sistema di tubicini a diametro crescente, il dispositivo viene fatto avanzare fino al cuore. Per valutare la corretta posizione del dispositivo nel cuore sarà necessaria la somministrazione di piccole quantità di mezzo di contrasto iodato.
Dopo che viene impiantato, la presenza di corretti parametri di stimolazione viene controllata con un programmatore ed eventualmente verrà modificata la programmazione.
L’uso del pacemaker senza fili non richiede la somministrazione di alcun farmaco aggiuntivo durante l’operazione o in qualunque altro momento a seguire. Alla fine della procedura, il pacemaker sarà permanentemente impiantato nel cuore, il catetere di posizionamento viene rimosso e nessun’altra parte del sistema rimane nel corpo. Viene quindi chiusa l’incisione nell’inguine con una compressione manuale o con l’applicazione di un punto di sutura.
Un intervento chirurgico di questo tipo può durare in media dai 45 ai 90 minuti e può essere effettuato su pazienti in attesa di un pacemaker permanente sia in bambini e neonati con anomalie cardiache.

Fonte: www.google.com

Conclusione

Questa nuova tecnica è garante del fatto che, con il progredire della scienza e l’innovazione che portano studio e ricerca, si può sempre migliorare ciò che già è in commercio e che esiste da anni.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

Sofia Musca

Bibliografia
https://www.humanitas.it/cure/impianto-di-dispositivo-antibradicardico-pacemaker/ 
https://www.repubblica.it/salute/dossier/sportello-cuore/2022/06/21/news/in_arrivo_il_pacemaker_senza_fili_che_si_scioglie_quando_non_serve_piu-353745547/
https://www.auxologico.it/pacemaker-tecnica-tradizionale-senza-fili
https://www.humanitas-care.it/cure/impianto-di-dispositivo-antibradicardico-pacemaker/#:~:text=Quanto%20dura%20l’intervento%3F,dai%2045%20ai%2090%20minuti.

La scienza vince nuovamente: dall’impresa di Barnard all’affascinante xenotrapianto

La scienza con i suoi passi da gigante, ci apre la vista a nuove frontiere. Dal 1967 ad oggi abbiamo assistito, grazie all’intraprendenza ed alla passione degli specialisti, ad un susseguirsi di eventi che hanno portato nel 2021 al primo trapianto di rene da maiale ad uomo e il 7 gennaio 2022 al primo xenotrapianto di cuore.

  1. Cenni storici: Christiaan Barnard
  2. Fu eticamente accettabile?
  3. Conseguenze dell’intervento
  4. Il primo xenotrapianto di cuore
  5. Ostacoli
  6. Intervento della Bioetica
  7. Cosa è successo al paziente dopo l’intervento chirurgico?
  8. Conclusioni 

Cenni storici: Christiaan Barnard

Il 3 Dicembre 1967 è una data che ancora oggi viene ricordata ed ampiamente discussa a seguito di un miracoloso intervento chirurgico, reso possibile da un coraggioso medico sudafricano: Christiaan Barnard.  Egli è stato ricordato da colleghi e collaboratori come medico tecnicamente superiore a molti altri, saccente e pronto a sapere la verità, senza porsi alcuno scrupolo. Il trapianto ha riscosso innumerevoli lodi internazionali, ma non mancarono le critiche.

Fu eticamente accettabile?

Barnard eseguì l’operazione segretamente, utilizzando il cuore di una giovane ragazza in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Circa 5 ore dopo dal suo arrivo in ospedale, chiamò il direttore dell’ospedale, il Groote-Schuur di Città del Capo, per comunicargli l’esito positivo dell’intervento chirurgico. Barnard non fu considerato un omicida, nonostante avesse trapiantato il cuore ancora battente di una ragazza in uno stato particolare, definito “Coma depassè”. Mollaret e Goulon nel 1959 coniarono questo termine per poter parlare di “morte cerebrale”, con il quale si identificano in chiave insiemistica tutte quelle persone che, nonostante le loro gravi condizioni, sono tecnicamente vive per molti medici e critici della Bioetica. A lungo sono stati discussi quali fossero i termini entro i quali poter definire una persona deceduta, fino ad arrivare alla conclusione, accettata quasi a livello internazionale, che la morte sopraggiunge con la cessazione irreversibile delle normali funzioni cardiache.

Conseguenze dell’intervento

Dopo l’operazione del medico sudafricano, molti chirurghi si cimentarono nei trapianti d’organo fino a toccare lo “xenotrapianto”, ovvero l’intervento chirurgico eseguito utilizzando organi o tessuti di una specie diversa dalla nostra, e la società promosse quest’idea della donazione di organi. Si arrivò ad una sorta di regolamentazione bioetica solo nel 1968 con l’Harvard Medical School, il quale promosse una serie di linee guida accettate, quasi a livello internazionale, per permettere tali interventi.

https://lindro.it

Il primo xenotrapianto di cuore

7 Gennaio 2022. Ricorderemo anche questa data per molto tempo, poiché per la prima volta nella storia della medicina il chirurgo Bartley Griffith, insieme alla sua equipe medica all’ospedale dell’Università del Maryland negli USA, ha effettuato uno xenotrapianto a dir poco sensazionale, permettendo al 57enne David Bennett di ricevere il cuore di un maiale geneticamente modificato. In passato altri medici hanno provato un intervento simile con un cuore di babbuino, ma il paziente morì dopo appena 21 giorni. Nonostante la pericolosità della complessa operazione chirurgica, la Food And Drug Administration ha dato il concesso per poter effettuare l’intervento dopo aver ottenuto il concesso informato del 57enne. L’uomo era costretto a dover combattere tra vita e morte con pochissime possibilità di farcela senza la mano medica e, per questo motivo, avava deciso di sottoporsi comunque allo xenotrapianto.

Ostacoli

Sorgevano quattro grandi avversità: la possibilità che dopo l’intervento il cuore potesse continuare a crescere progressivamente e far contrarre numerose infezioni virali, il complicato adattamento dell’organo nella cavità toracica e, soprattutto, l’alta probabilità di rigetto dell’organo da parte del suo organismo.
La manipolazione genetica e la farmacologia hanno permesso di superare brillantemente questi problemi: l’azienda Biotech Revivicor di Blacksburg ha fornito il cuore ed è stato utilizzato un farmaco sperimentale. In questo modo, l’equipe medica ha potuto risolvere tutte le difficoltà.

Intervento della Bioetica

L’intervento fu un gran successo ed ha riscosso numerosi apprezzamenti, poiché potrebbe ufficialmente iniziare una nuova era medica, quella degli xenotrapianti. Tale operazione, però, ha smosso le acque della sfera Bioetica: sfruttare gli animali per poter ricavare componenti anatomici vorrebbe dire privarli di un qualsiasi status morale, andando a sottolineare la diversità di specie. In questo modo, il ventunesimo secolo sarebbe nuovamente caratterizzato dall’antropocentrismo. Promuovendo questo nuovo espediente, il numero di allevamenti di animali crescerebbe esponenzialmente sino ad arrivare ad uno sfruttamento più totale degli stessi; lo specismo renderebbe l’uomo caput mundi un’ulteriore volta.

Cosa è successo al paziente dopo l’intervento chirurgico?

Il coraggioso paziente, dopo quasi 2 mesi dall’intervento, ha avuto rapidi peggioramenti fino a morire l’8 Marzo. Le cause della sua morte sono ancora da scoprire: probabilmente le sue condizioni avverse hanno contribuito alla cessazione delle funzioni cardiache. Nonostante ciò, il suo ammirevole sforzo consentirà al mondo scientifico di poter trovare nuovamente una soluzione anche a questo ostacolo.

https://www.today.it

Conclusioni

In media, un paziente deve attendere circa 3 anni e 8 mesi per poter ricevere l’organo cardiaco. Se utilizzassimo organi e tessuti di specie diverse dalla nostra, potremo ridurre sensibilmente la lunga lista d’attesa o, in futuro, eliminarla quasi del tutto.
L’intervento chirurgico di Barnard e quello di Griffith hanno rivoluzionato il campo medico, permettendo alla scienza di compiere dei grandi passi in avanti. Il gesto del 57enne Bennett è stato lodevole. Era un uomo forte e coraggioso, pronto a sfidare la morte e a combatterla con ogni arma a sua disposizione, ma dalla sua parte aveva quella più forte: la scienza.

Dario Gallo

Per approfondire:

 

 

Arresto cardiaco nei giovani atleti: cosa potrebbe essere successo a Eriksen?

Non si può non rimanere colpiti dalle immagini trasmesse durante la partita Danimarca – Finlandia, valevole per i campionati europei di calcio in corso. I momenti che hanno visto perdere i sensi a Christian Eriksen, ventinovenne calciatore danese, sono stati abbondantemente ripercorsi dai media. Una delle cose che sembra più stupire è come sia possibile che il cuore di un giovane sportivo in forma e attentamente monitorato possa smettere di battere all’improvviso.

L’arresto cardiaco è un evento molto complesso: inevitabilmente si rischia di essere imprecisi quando si commenta la vicenda. In effetti, le informazioni finora a disposizione sono parziali e ci permettono solo di fare delle ipotesi. L’occasione però può essere utilizzata per chiarire il concetto di “arresto cardiaco” e per ricordarne le principali cause nel giovane sportivo.

Cosa significa arresto cardiaco

L’AHA (American Heart Association, importante organizzazione medica statunitense) definisce l’arresto cardiaco come “la cessazione improvvisa dell’attività cardiaca in una persona a cui può essere stata diagnosticata o meno una malattia cardiaca”.

Per “attività cardiaca” si fa riferimento all’attività meccanica del cuore che, agendo da pompa, garantisce la circolazione del sangue. L’attività meccanica è accoppiata a quella elettrica che fa da segnapassi e mantiene il ritmo: un’alterazione dell’attività elettrica può comportare la perdita di una contrazione meccanica efficiente.

L’AHA, nella stessa definizione, evidenzia l’importanza di “prendere rapidamente delle misure correttive”. Questo sottolinea come l’arresto cardiaco, se affrontato col giusto tempismo, non sia necessariamente una condizione irreversibile.

Cosa potrebbe essere accaduto ad Eriksen

Sulla base delle immagini trasmesse, il calciatore è stato defibrillato. Con questo termine si intende il tentativo di ripristinare il ritmo normale in un cuore che non si contrae nella maniera corretta, a causa di specifiche turbe dell’attività elettrica.

Le uniche aritmie tali da giustificare una defibrillazione in quella condizione sono una tachicardia ventricolare senza polso o una fibrillazione ventricolare. In entrambi i casi l’attività meccanica dei ventricoli non è efficiente per il mantenimento della circolazione. In pochi secondi il cervello va in sofferenza e ciò determina la perdita dei sensi. Anche gli altri organi non risultano perfusi e non possono mantenere la loro funzionalità.

Un intervento tempestivo può salvare numerosissime vite

Un importante studio su una popolazione di 1667 pazienti ha calcolato che, in seguito a un arresto cardiaco, le possibilità di sopravvivenza sono del 67% se viene prestato soccorso immediato in maniera corretta.

Tale valore scende di una percentuale fino al 5.5% per ogni minuto di ritardo. Dopo dieci minuti dall’arresto le possibilità di sopravvivenza sono drasticamente ridotte. Il tempo che passa si associa anche a una maggior incidenza di deficit neurologici dovuti alla protratta sofferenza cerebrale.

L’addestramento del personale non medico può permettere di intervenire più tempestivamente e di salvare centinaia di migliaia di persone ogni anno nel mondo. L’intervento del compagno di squadra Kjaer rappresenta un ottimo esempio di prontezza, sebbene rimanga comunque la necessità di una maggior sensibilizzazione, specie tra sportivi professionisti. In molti si sono concentrati sul gesto di “tirare fuori la lingua”, ma l’AHA già dal 2010 suggerisce di concentrarsi già da subito sul ripristino della circolazione, attraverso le compressioni, e pensare solo successivamente alle vie aeree. Una ricerca ha osservato anche come concentrarsi inizialmente sulla lingua del paziente in arresto possa peggiorare le sue chance di sopravvivenza.

Catana della sopravvivenza degli arresti cardiaci extraospedalieri – Fonte: AHA

Quali possono essere le cause di arresto cardiaco

Nella popolazione generale, la principale patologia che determina arresto cardiaco è la cardiopatia ischemica. La condizione spesso dipende da una malattia delle arterie coronarie, di solito su base aterosclerotica. Si verifica, tipicamente, nei soggetti più adulti e risulta identificabile attraverso i normali esami di routine. Non si tratta, verosimilmente, della causa alla base dell’evento che ha colpito il giovane trequartista danese, sottoposto, da sportivo, a un’attenta sorveglianza medica.

Le altre cause di arresto cardiaco improvviso, in particolare nel giovane sportivo, sono eterogenee e talvolta di difficile identificazione e diagnosi.

Cause di morte improvvisa in 314 autopsie – Fonte: European Heart Journal

Le principali cause che possono determinare morte cardiaca improvvisa nel giovane

Un lavoro scientifico italiano si è concentrato sulla trattazione delle principali cause responsabili di morte improvvisa in seguito ad arresto cardiaco nel giovane. Si evidenzia anche come nello sportivo le cause siano sovrapponibili, con un’incidenza di eventi fatali però maggiore di 2,5 volte. La spiegazione starebbe nel fatto che l’attività fisica potrebbe innescare più facilmente delle aritmie nel contesto di patologie latenti. Le cause identificate sono distinte in meccaniche ed elettriche.

Cause meccaniche

Quelle meccaniche dipendono tipicamente dalla rottura di grossi vasi come l’aorta ascendente con tamponamento cardiaco. Si tratta di eventi meccanici che non prevedono la possibilità di defibrillazione in quanto il problema non è il ritmo, e vanno quindi escluse nel caso specifico del giocatore.

Cause elettriche

Alcuni difetti strutturali del cuore o difetti funzionali dell’attività delle cellule che compongono l’organo possono predisporre allo sviluppo di aritmie, alle volte fatali. Nel giovane entrambe le eventualità sono dovute spesso ad una condizione ereditaria.

Tra le cause strutturali ci sono le cardiomiopatie, patologie molto eterogenee. Tra tutte, la cardiomiopatia ipertrofica è responsabile di più di un terzo degli eventi fatali negli USA. Nella patologia si verifica un ispessimento progressivo delle pareti del cuore, con fibrosi, sofferenza ischemica e aumentata incidenza di eventi aritmici.

Un ruolo altrettanto importante ce l’ha la cardiomiopatia aritmogena. Si tratta di un difetto complesso in cui viene progressivamente sovvertita la struttura del ventricolo, con possibile insorgenza di aritmie maligne.

Altra condizione ben nota è la sindrome di Wolff-Parkinson-White, in cui la presenza di un fascio di conduzione anomalo tra atrio e ventricolo può causare rapide tachicardie che possono degenerare in fibrillazione ventricolare.

Altre cause strutturali, più rare, sono le anomalie congenite delle arterie coronarie, la cardiomiopatia dilatativa (che assume maggior importanza nell’adulto), il prolasso della valvola mitrale (sebbene si tratti molto più spesso di una condizione assolutamente benigna).

Quelle menzionate finora sono patologie su base ereditaria. Particolare rilevanza va anche data alla miocardite, patologia invece su base acquisita che si caratterizza per un’infiammazione a carico del muscolo cardiaco con un aumentato rischio di episodi aritmici. Si tratta di una condizione che, a volte, può essere del tutto asintomatica e rappresenta spesso il coinvolgimento del cuore nel contesto di infezioni sistemiche (per esempio, dopo influenza, gastroenteriti o persino in corso di COVID-19).

Tuttavia, tra il 5 e il 25% dei giovani che vanno incontro a morte cardiaca improvvisa non presentano evidenza di una patologia strutturale del cuore. Tali condizioni vengono definite non strutturali e dipendono spesso da difetti a carico dei canali che regolano la funzione elettrica del cuore (canalopatie). Si tratta di un territorio complesso e ancora in parte inesplorato. Tra le patologie più frequenti ci sono la sindrome del QT lungo o corto, la sindrome di Brugada e la tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica.

La risposta non sta per forza nel cuore

Anche patologie extracardiache che colpiscono altri organi e apparati possono determinare l’insorgenza di gravi aritmie. Molte condizioni metaboliche (ad esempio, le alterazioni elettrolitiche), patologie infettive che non coinvolgono direttamente il cuore, alcuni farmaci, ma anche eventi neurologici, come alcune forme di epilessia o gli ictus, o addirittura alcune neoplasie possono interferire con la normale funzionalità elettrica cardiaca.

Si può fare prevenzione, ma non è sempre possibile agire d’anticipo

Molte di queste condizioni si possono evidenziare già negli esami generali o nelle indagini elettrocardiografiche o ecocardiografiche di routine in quanto presentano spesso un quadro suggestivo. Identificare la presenza di una cardiopatia nel giovane permette di seguire il paziente ed eventualmente, se il caso lo prevede, impiantare un defibrillatore automatico. Diagnosticare una patologia extracardiaca permette eventualmente di trattarla.

Altre volte, la patologia può presentarsi in maniera meno evidente o caratterizzarsi addirittura per una completa normalità degli esami diagnostici di routine. Alcuni esami, come la risonanza magnetica del cuore o i test genetici possono permettere di studiare e caratterizzare molte patologie “invisibili”. Tuttavia, non sono esami che possono essere proposti su larga scala a tutti i pazienti giovani nel contesto di una visita cardiologica di controllo. Inoltre, sarebbe impossibile riuscire a diagnosticare tutto in quanto la caratterizzazione genetica di alcune condizioni non è ancora completa.

Durante il match Danimarca – Finlandia abbiamo assistito alla conferma pratica e, in parte, drammatica del fatto che un intervento tempestivo può cambiare il destino di chi subisce un arresto cardiaco. Si tratta di eventi che, come abbiamo visto, hanno un’importanza anche nei giovani, e in particolare negli sportivi.

Non dovrebbe mai essere comprensibile l’assenza, anche in un contesto non medico, di un soggetto che sappia praticare le principali misure di primo soccorso. Comprimere un torace per qualche minuto, in attesa dei soccorsi medici, può fare la differenza tra la vita e la morte.

Antonino Micari

Riparare il cuore dopo un infarto: è possibile grazie ai microRNA

Ogni anno, in Italia, si verificano circa 120 mila casi di infarto miocardico acuto, il classico “attacco di cuore”. La mortalità per questo evento si aggira mediamente intorno all’11%, percentuale più bassa che in passato ma ancora molto preoccupante: si tratta della prima causa di morte nei Paesi occidentali.  

L’infarto miocardico acuto è dovuto ad una ostruzione delle arterie coronarie che impedisce il trasporto di ossigeno e nutrienti alle cellule causandone la morte. Si stima che in corso di infarto possano essere perse da 1 a 4 miliardi di cellule cardiache che, a differenza di altre, non possono rigenerarsi e vengono sostituite da tessuto cicatriziale. 
L’esito è quindi una perdita permanente della capacità contrattile del cuore che predispone a una lunga serie di complicanze, anche dopo l’evento acuto, prima fra tutte lo scompenso cardiaco. 

Rigenerare il tessuto cardiaco è quindi l’obiettivo principale per migliorare la funzionalità cardiaca e prevenire ulteriori rischi. Per farlo, un team guidato da ricercatori italiani dell’Icgeb (Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia) di Trieste e della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha utilizzato la terapia genica. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature. 

L’idea nasce dall’osservazione che molte specie animali come pesci e salamandre, in caso di danno muscolare, producono specifici microRNA (miRNA), piccole porzioni di RNA a singolo filamento capaci di modulare l’attività di alcuni geni. Diversi studi hanno dimostrato, ad esempio, che nel modello animale di Zebrafish alcuni miRNA portano alla riparazione del cuore danneggiato dall’infarto. Altre ricerche hanno perfino rivelato che alcuni miRNA umani possono stimolare la rigenerazione delle cellule cardiache nel topo infartuato. Ciò però non accade fisiologicamente nell’uomo. 

I ricercatori hanno quindi sperimentato se questo meccanismo fosse efficace nel maiale, modello clinicamente rilevante di grande mammifero, con un apparato cardiovascolare molto simile a quello umano. La molecola protagonista dello studio è il microRNA-199a, di origine umana. Per veicolare questa molecola nei miocardiociti dei maiali è stato sfruttato, con tecniche di ingegneria genetica, un particolare virus (virus adeno-associato di tipo 6), dentro il quale è stato trasferito il miRNA
La tecnica prevede poi che il virus, di per sé innocuo, sia inserito nei miocardiociti, dove permette l’azione del miRNA. 

A partire da un gruppo di 25 maiali, in ognuno di essi è stata indotta l’occlusione per 90 minuti di un’arteria coronaria, in modo da generare un infarto; dopo di che, il flusso sanguigno è stato ristabilito. I maiali infartuati sono stati quindi divisi in due gruppi: 

  • Il primo gruppo ha ricevuto il virus vettore del miRNA-199a; 
  • Il secondo gruppo è stato trattato invece con il virus “vuoto” ed è servito come controllo. 
10 minuti dopo la riperfusione, il virus è stato iniettato ai limiti della zona infartuata.

Due giorni dopo la procedura, le dimensioni della massa infartuata sono risultate invariate in entrambi i gruppi. Tuttavia, quattro settimane dopo, al 28° giorno, il tessuto cicatriziale nei maiali trattati con il miRNA si è ridotto di oltre il 50%. Ulteriori esami con risonanza magnetica cardiaca (cMRI) hanno inoltre dimostrato un importante recupero funzionale del cuore, con un incremento sostanziale della gittata cardiaca. 

Per avere ulteriori conferme, i ricercatori hanno studiato i miocardiociti con tecniche di biologia molecolare, e hanno dimostrato la presenza di Ki67 ed altri markers specifici di riparazione e proliferazione. Nell’insieme, questi risultati hanno rimosso ogni dubbio sull’azione rigenerativa mediata dal miRNA-199a tramite la regolazione dell’espressione genica. 
Dato ancor più importante è che le cellule in attiva moltiplicazione hanno mantenuto il contatto reciproco necessario per una corretta contrazione e per la trasmissione dell’impulso elettrico. Inoltre, non è stata rilevata l’espressione di alcuna molecola patologica (come ad esempio la β-miosina fetale, che si ritrova in caso di scompenso cardiaco). 

Questi risultati, anche fin troppo promettenti, sono stati però seguiti dalla morte improvvisa, senza alcun segno premonitore, di gran parte dei maiali trattati. In tutti i casi, dopo circa 7-8 settimane, si sono verificate delle aritmie cardiache fatali.
L’unica spiegazione plausibile a questi eventi è che l’intensa proliferazione dei miocardiociti, non uniforme nell’intero tessuto cardiaco, faciliti la formazione di circuiti di rientro. Si tratta di circuiti elettrici anomali all’interno del cuore che impediscono la trasmissione fisiologica, in un solo senso, dell’impulso elettrico, innescando una sorta di “micro-cortocircuito” che porta ad aritmie o, nei casi più gravi, ad arresto cardiaco. 

Questo effetto a lungo termine, come affermato dagli studiosi, è essenzialmente dose-dipendente, causato dall’impossibilità, attraverso l’iniezione di un virus, di controllare in modo preciso il dosaggio del miRNA. Il passo successivo, già eseguito sui topi, è l’utilizzo dei cosiddetti miRNA mimics, ovvero molecole sintetiche che possono essere dosate ed utilizzate come fossero un vero e proprio farmaco. 

I ricercatori hanno iniziato a testare questa tecnica di somministrazione nei maiali e sono fiduciosi di ottenere i primi risultati entro 6 mesi. Se tutto andrà bene, entro 5 anni potrà essere già conclusa la sperimentazione clinica sull’uomo. 

Davide Arrigo

Bibliografia:

https://www.nature.com/articles/s41586-019-1191-6

 

Cervello che batte come il cuore? Facciamo chiarezza

Vi sarà probabilmente capitato, seguendo gli aggiornamenti online delle pagine di un noto quotidiano generalista, di imbattervi nel titolo di una breve news scientifica: “La scoperta dello Stevens Institute: il cervello batte come il cuore. Ripreso per la prima volta.”

Lo scarno commento, accompagnato al video diffuso dai ricercatori dello stesso Stevens Institute of Technology del New Jersey, potrebbe farci pensare che sia la prima volta che si viene a scoprire questa interessante caratteristica del cervello. Ma è davvero così?

Facciamo un po’ di chiarezza: che il cervello abbia una sua pulsazione, in sincronia col battito cardiaco, non è affatto una novità, anzi, tutt’altro.

Quando il cuore contraendosi manda il sangue in circolo, la pressione esercitata sul sangue si trasmette attraverso le pareti elastiche delle grandi arterie a tutto il sistema vascolare. Questo fenomeno, detto “onda sfigmica”, è quello grazie al quale il vostro medico curante, poggiandovi semplicemente le dita sul polso o sul collo, riesce appunto a “prendervi il polso” valutando approssimativamente la frequenza cardiaca. Lo stesso termine, polso, viene dal latino “pulsus”, cioè pulsazione.

I vasi del cervello non fanno eccezione a questa regola: anche essi trasmettono l’onda sfigmica che  arriva loro dal cuore e che si va a manifestare come un leggerissimo spostamento ritmico che si trasmette a tutto l’encefalo attraverso il liquido che scorre nelle meningi. Il nostro cervello, però, è racchiuso in una scatola dura e inestensibile formata dalle ossa del cranio: per questo in alcune regioni dell’encefalo, come il tronco encefalico, più libero di muoversi e su cui si appoggia una arteria di grosso calibro (l’arteria basilare), il movimento si apprezza di più, mentre in altre meno; se qualcuno di voi ha mai visto il video di un intervento con craniotomia (si trovano anche su YouTube) potrà facilmente notare come, una volta rimosso l’ostacolo delle ossa craniche, la pulsazione della superficie della corteccia cerebrale sia apprezzabile a occhio nudo.

Questo fenomeno è da tempo noto anche a chi si occupa di neuroimaging; mentre le acquisizioni strutturali (per intenderci, la MRI classica che si usa nella diagnostica clinica)  non sono in grado di percepirlo, questo movimento influenza molto alcune acquisizioni particolari che si usano a scopo di ricerca, per fare MRI funzionale o anche trattigrafia; si vengono così a generare degli artefatti che potrebbero distorcere i risultati (specialmente quando si studiano quelle regioni in cui il movimento é più evidente) e che vanno quindi rimossi o minimizzati con dei complessi escamotage tecnici. Uno di questi è il cardiac gating, ossia l’acquisizione dei parametri cardiaci in contemporanea a quella della risonanza, che rende più facile l’eliminazione di questi difetti di acquisizione.

Dove sta dunque la novità nella scoperta dello Stevens Institute?

Nel fatto che, come abbiamo detto prima, la MRI convenzionale non è in grado di rilevare questi movimenti, e che per la prima volta è stato messo a punto un metodo di acquisizione strutturale che consente di “riprendere” questi movimenti e visualizzarli, o addirittura amplificarli per renderli più visibili anche nelle regioni in cui si notano di meno. Questo risultato tecnico, tutt’altro che scontanto, verosimilmente potrebbe nei prossimi anni rendere la vita più facile ai ricercatori che devono avere a che fare con la rimozione degli artefatti legati alla pulsazione, favorendo la messa a punto di metodi più sofisticati ed efficaci. Ma c’è di più: potrebbe anche aiutare i clinici nella diagnosi precoce di alcune patologie cerebrali o vascolari che alterano la pulsazione cerebrale; per questo, gli autori del lavoro hanno messo alla prova il loro metodo anche su un paziente con la sindrome di Arnold-Chiari tipo 1, mettendo in evidenza sostanziali differenze nella trasmissione della pulsazione che potrebbero, se confermate su più pazienti, aiutare la diagnosi.

Insomma una scoperta interessante che meriterebbe però qualche approfondimento in più per essere resa comprensibile al pubblico, piuttosto che essere, come spesso succede, trasformata in un fuorviante titolone da breaking news; ma questo, purtroppo, è un altro paio di maniche…

 

Gianpaolo Basile

Al latte o fondente? Adesso il “de gustibus” vale anche per la scienza

Nel corso della vostra esistenza scommetto che avrete sentito, almeno una volta, che il cioccolato
fondente sia più salutare del cioccolato al latte. E magari, giusto per essere sempre
anticonformisti, preferite comunque il tipo più dolce rispetto a quello amaro. Allora sì, significa che
vi state perdendo gli effetti benefici che cioccolato fondente ha sul cuore. Ma non disperate, le
cose potrebbero essere cambiate!                                                                                                                                                                                      

I ricercatori hanno appena capito come dare al cioccolato al latte lo stesso effetto salutare di
quello amaro. Lo hanno fatto aggiungendo un ingrediente sorprendente e, notizia ancora più
grandiosa, il processo previsto non va ad alterare in nessun modo il gusto!

Premesso che nessuno dovrebbe mangiare quantità industriali di cioccolato pensando di
mantenersi in buona salute – il cioccolato, dopo tutto, di solito contiene anche grassi e zuccheri;
tuttavia, quello fondente possiede anche alcune sostanze chimiche che sono state collegate alla
salute del cuore. Conosciute come antiossidanti, queste molecole si presentano in molti frutti,
nella verdura e nelle noci.

Gli antiossidanti possono neutralizzare gli effetti dannosi conseguenti le reazioni di ossidazione
che avvengono costantemente nel nostro corpo. Oggi è ampiamente dimostrato il nesso tra il
carico di ossidazione e diverse condizioni fisiologiche (= l’invecchiamento cellulare) e patologiche,
tra cui il cancro e le malattie cardiache.

Tutto il cioccolato è fatto con semi di cacao, che contengono antiossidanti. Per produrre
cioccolato, i semi vengono scomposti in solidi di cacao e un tipo di grasso chiamato burro di
cacao. Rimettendo insieme queste due parti si ottiene il cioccolato non zuccherato, che non ha un
gran sapore, in realtà. La successiva aggiunta di zucchero produce il più gustoso, anche se
ancora un po’ amaro, cioccolato fondente.

Il cioccolato al latte contiene solidi di cacao e burro di cacao. Tuttavia, ha più zucchero del
cioccolato fondente. Presenta, ancora, l’aggiunta di latte o crema che lo rendono più chiaro e più
tenero. Ma grammo per grammo (o oncia per oncia), il cioccolato al latte così ottenuto contiene
meno cacao del cioccolato fondente. Ciò significa che ha anche meno antiossidanti.

Eppure gli scienziati non possono semplicemente aggiungere antiossidanti per rendere il
cioccolato al latte più sano, quantomeno, non senza comprometterne il gusto. Dopotutto, queste
sostanze chimiche hanno un sapore aspro. “Ti lasciano l’amaro in bocca”, spiega Lisa L. Dean,
co-autrice del nuovo studio. Dean lavora per il Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti presso
la North Carolina State University di Raleigh.

Dean e la sua squadra di ricerca riferiscono di aver trovato un modo per rabboccare di
antiossidanti il cioccolato al latte – senza renderlo amaro. Il loro ingrediente segreto? Estratto di
pelle di arachidi. (Un estratto è una sostanza, spesso in forma concentrata, che è stata rimossa
dalla sua fonte naturale). Lei e i suoi colleghi hanno descritto la loro nuova ricetta di cioccolato sul
Journal of Food Science del mese di novembre.

Non è un’idea così pazza.

Effettivamente, i ricercatori non stavano cercando di preparare un cioccolato al latte più sano.
Stavano solo pensando ad un modo per usare le pelli di arachidi. La maggior parte delle
noccioline negli Stati Uniti vengono impiegate per la produzione del burro di arachidi. Le loro pelli
finiscono sepolte come rifiuti nelle discariche. Ricorda Dean: “Ci siamo chiesti, cosa possiamo
fare con tutto questo spreco di cibo?” Lei e il suo team hanno deciso di estrarre gli
antiossidanti dalle bucce. Quindi, per mascherare il gusto amaro dell’antiossidante,
mescolavano gli estratti di pelli di arachidi con una polvere commestibile, chiamata
maltodestrina. Quest’ultima si ricava da cibi ricchi di amido come patate, riso o grano. Con un
sapore leggermente dolce, la maltodestrina è un ingrediente comune in alcuni alimenti come
patatine e condimenti per insalate.

Quindi preparata la miscela, è stato possibile aggiungerla al cioccolato al latte, in modo tale da
arricchirlo dello stesso potere antiossidante del cioccolato fondente, lasciando inalterato il gusto.
Per sicurezza, il team ha chiesto a 100 volontari di assaggiare tre pezzi di cioccolato al latte. Solo
un pezzo su tre conteneva l’estratto di pelli di arachidi con la maltodestrina.

Otto su dieci non hanno percepito alcuni differenza nel gusto. Il restante 20 % ha riferito un
retrogusto d’amarezza (ahah!) e nell’analisi rappresentano la frazione di popolazione definita dagli
scienziati “super-testante”. Si tratta di persone particolarmente sensibili ai gusti amari. Ad ogni
modo, la verifica statistica dimostra che solo una minoranza di persone sarebbe capace di notare
o meno l’aggiunta di antiossidanti.

Suzanne Johanningsmeier studia scienze alimentari per l’USDA al North Carolina State, ma non
è stata coinvolta in questo studio, tuttavia ha osservato che circa 100 milioni di libbre di pelli di
arachidi vengono buttate via ogni anno. La nuova ricerca, pertanto, secondo la studiosa,
potrebbe: “ridurre lo spreco di cibo usando le pelli di arachidi per creare un nuovo ingrediente
alimentare che sia anche salutare”.

Una ricerca senz’altro curiosa, della serie, quello che hai è quello che hai, quello che fai con
quello che hai è più interessante!

Sarà che è vero.

                                                                                                                                                        Ivana Bringheli