Seminario articolo scientifico: processi di peer review

Relatori – ©GiuliaGreco, Aula Cannizzaro 2019

Grande opportunità, tenutasi il 26 febbraio, per gli studenti del sesto anno di medicina e psicologia e i dottorandi di ricerca, che hanno seguito il seminario sulla revisione dell’articolo scientifico, curato dal Prof. Salvatore Settineri (Editor in Chief della MJCP) e trasmesso in diretta streaming a livello nazionale.

Una ricchezza di contenuti e qualità, concentrati in pochissime ore.
Strumenti utili sono stati forniti ai giovani appassionati di ricerca scientifica, comunicando la bellezza di una scienza aperta, raccontando le diverse figure e i molteplici aspetti di una produzione scientifica e del ruolo del revisore.
Un incontro di eccellenza animato dall’entusiasmo di giovani ricercatori, l’esperienza di una rivista internazionale e Open Journal come la MJPC (Mediterranean Journal of Clinical Psychology), a cui partecipano anche i funzionari del sistema bibliotecario di ateneo. La Mediterranean Journal of Clinical Psycology è una delle poche riviste Open Journal. Numerosi sono gli spunti di riflessione forniti in relazione ai vari momenti e ai vari interventi dell’incontro, che verranno analizzati e illustrati di seguito.

All’apertura il professor Settineri ha invitato a riflettere sull’approccio in merito ai metodi con cui si svolge questo genere di lavoro.

Racconta che editare una rivista parte tutto da un sogno. Quando era giovane per lui le riviste importanti erano attaccate sulle pareti, era difficile reperirle, e cercare un articolo era come una caccia al tesoro, un gap colmato oggi tra le possibilità che si aprono davanti ai nostri occhi con la rete.
Spiega l’importanza della multidisciplinarità ringraziando la Sba (Sistema bibliotecario di Ateneo) che ha consentito lo streaming, e la docente di statistica, la prof.ssa Alibrandi, che segue il lavoro di più discipline all’interno della rivista, sottolineando l’importanza di un lavoro di gruppo in cui partecipano svariate figure, di diversi settori, varie discipline senza le quali non sarebbe possibile la realizzazione di un buon prodotto finale.

La collaborazione di tutti è necessaria ad individuare punti di forza e debolezza del lavoro. Anche noi studenti inconsciamente partecipiamo da spettatori passivi quando siamo lettori, e attivi quando effettuiamo tesi di Dottorato.
A seguire, l’interessante intervento della dottoressa Benedetta Alosi (SBA di Ateneo) sulla revisione parietaria con una prospettiva nuova di evoluzione e cambiamento per i giovani che abbraccia l’open science.
Fa una panoramica di modi alternativi di fare revisione scientifica oltre a quello tradizionale (revisione prima della pubblicazione). Il metodo di revisione tradizionale non tiene conto dell’apporto che la comunità può dare al dibattito su quei temi che tratta o sulla scienza.
L’open peer review invece è un processo di revisione aperta vissuto come dibattito e confronto. Lo scopo di una pubblicazione di una rivista, soprattutto online e open access, è la promozione della circolazione libera delle idee. Le riviste chiuse e a pagamento limitano la circolazione delle idee. Le riviste aperte la favoriscono, ovviamente con norme che la regolamentino e licenze di copyright.

Fare scienza è comunicarla. Si dice, appunto, che se un pittore fa un opera d’arte ma la tiene chiusa nella sua stanza, quest’ultima non è più arte, ma diventa arte nel momento in cui la si rende disponibile e fruibile a tutti .”

Aula Cannizzaro – ©GiuliaGreco 2019

Successivamente, si è passati alla rassegna delle varie tipologie di peer review.
L’open peer review è una sezione dell’open science che non vuole mettere a disposizione solo il prodotto finale, ma includere anche la condivisione di tutti i passaggi per dare solidità e trasparenza alla scrittura scientifica. In alcune piattaforme esiste proprio un continuum per la review.
La revisione dell’articolo scientifico è un momento dinamico, non chiuso.
Tra i vantaggi: un’opportunità per i giovani nelle tesi di dottorato con onori e oneri che aumento la qualità del prodotto. Evitare i pregiudizi e le faziosità tra chi scrive, salvaguardare l’integrità e trasparenza della scienza.
Attenzione però al rischio che si potrebbe correre. Occorre sempre distinguere tra scienza vera e falsa. La dottoressa Aloisi cita il caso della correlazione tra autismo e vaccini di Andrew Wakefield, rifiutato da un’importante rivista, polemica attuale che ancora persiste sui vaccini. Lo stesso British Medical Journal, autorità nel campo delle pubblicazioni mediche, afferma che è una grande bufala. L’impatto per la collettività e la grande responsabilità che ha il revisore verso numerose vite e sull’informazione pubblica, esiste anche in ambito farmacologico.

È intervenuto anche il dottor Nunzio Feminò (Sba di Ateneo), evidenziando “l’importanza della ricerca bibliometrica nelle fonti e delle fonti stesse come strumento rilevante per la revisione parietaria.” Ha affermato come la citazione sia come strumento di qualità, così come l’indice H (qualità e autore) e i valori citazionali facendo anche riferimento ai vantaggi e ai limiti delle più importanti banche dati: web of science, Scopus, Google scholar, Software publish or perish, Google books.

Il Professor Settineri ha ribadito che non è necessariamente vera il legame tra alto impact e qualità.
Ha condiviso e raccontato la sua esperienza di clinico, quando prima di editare il giornale si occupava di scienze nuove che anni fa non venivano prese in considerazione. La clinica è diversa dall’esattezza anche rispettando la statistica e la matematica. Il professore ha messo in guardia dalla presenza di regole da conoscere necessariamente nel mondo della ricerca scientifica, e nel mondo accademico. La mancanza di conoscenza di tali regole espone ad un grosso rischio, che è l’abbandono dell’amore per la scienza.

Inoltre, si è dibattuto il tema del referaggio dell’articolo scientifico dal punto di vista statistico, curato dalla Professoressa Angela Alibrandi.

Relatori – ©GiuliaGreco, Aula Cannizzaro 2019

“Il bello della ricerca è il continuum in cui ognuno aggiunge un mattoncino”.

La dottoressa ha fornito ottimi consigli utili per gli autori delle riviste. Ha spiegato che il metodo statistico è basato su un obiettivo: ogni autore prima di scrivere deve avere un obiettivo e chiedersi qual è il contributo aggiuntivo che apporta ai precedenti studi. Ciò presuppone una maggiore rewiew e un ulteriore approfondimento del tema che si vuole trattare.

Ha sottolineato anche l’importanza della pianificazione e dei metodi, di un ordine, di orientare la scrittura verso un senso logico che predispone ad una chiarezza che verrà percepita dal lettore. Consiglia di scrivere meno e meglio, e di prefiggersi come scopo la qualità, non la quantità.

A seguire sono intervenuti il Dottor Emanuele Maria Merlo, in qualità di Journal Manager, Fabio Frisone, in veste di assistente Journal della rivista MJCP, che ci hanno riportato la loro esperienza in questo ambito.
Il dottor Merlo si è soffermato sull’analisi dei ruoli dei diversi membri della rivista, invitando a ragionare intorno alla parola chiave riassuntiva dell’incontro: openpoiché afferma che l’1/3 dei soldi destinati alla ricerca si spendono per contributi che il 90% della gente non legge.

In chiusura, ricco di spunti e stimoli di riflessione è stato l’intervento dal titolo “La rivista come strumento di cultura, recensioni e rubriche”, curato dall’assistente Journal Fabio Frisone, volto a far capire quanto sia interessante e al contempo impegnativo il ruolo del referee. Per garantire accuratezza, completezza e originalità al nuovo contributo bisogna interiorizzare e far proprio il contributo, per poi consegnarlo al pubblico di lettori. Non è sufficiente una sola lettura del lavoro. Fare il referee non è solo curare la forma e il suo contenuto, ma anche interiorizzare la cultura.
Il secondo aspetto su cui ha posto l’accento è la potenzialità divulgativa dell’Open Journal. La parte divulgativa non è indispensabile in una rivista, ma per la MJCP lo è. Vengono fatte una o più recensioni di un libro pertinenti al numero della rivista. Nel loro ultimo numero hanno recensito il libro “The bible as dream” di Murray SteinPresidente dell’International Association for Analytical Psychology (iaap), membro della Chicago Society of Jungian Analysts, e impegnato nella pratica clinica privata. Editore di Jungian Analysis. Hanno scritto inviando a questo autore la loro recensione, instaurato dunque una corrispondenza, ed è stato lo stesso autore che si è offerto di scrivere un pezzo per la loro rivista. Ecco la prova della divulgazione come amore per la scienza e la cultura, per lo scambio di idee, e per il confronto.

Anche l’illustre Professor Sergio Baldari, direttore del dipartimento BIOMORF Messina, professore ordinario, e direttore della scuola di specializzazione di medicina nucleare ha speso delle parole in merito a una questione molto controversa, eppure molto comune. Il professore ha spiegato che in clinica molti pazienti arrivano con informazioni talvolta scorrette rilevate dal web, ed entrano nel panico quando il medico dà un’opinione diversa da quella che ci si aspettava.

I poveri pazienti finiscono con il domandarsi: “qual è l’informazione giusta? Quella dei medici o quella diffusa senza criterio online?

Desk – ©GiuliaGreco, Aula Cannizzaro 2019

Il Professor Settineri infine saluta affettuosamente gli studenti presenti in aula, con un auspicio:

“Vi auguro tanto successo; successo non significa essere importanti, avere successo significa essere felici. Ed essere felici significa rendere felici gli altri con il vostro prodotto.”

Per tutti i giovani studenti di medicina ha rappresentato un’occasione costruttiva di dialogo per l’università, che dovrebbe essere sempre un ambiente in cui fioriscano idee, in cui le persone, come fossero tante molecole, interagiscano tra loro reagendo e scambiandosi energia, idee, contenuti e, una volta avvenuto questo contatto, non essere più quelli di prima, ma migliori. Si è trattato di un’esperienza per cui essere grati, grazie alla quale si può veramente dire di “essere stati seduti sulle spalle dei giganti”, come disse Newton.

Daniela Cannistrà

Il silenzio di chi ama

Il Silenzio di chi ama è un libro scritto nel gennaio 2018 da Davide Romagnoli, ragazzo di 19 anni studente di scienze della comunicazione all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli.

Racconta una delusione d’amore molto forte, il sentire di aver dentro un sentimento e di non poterlo esternare fuori.

Un ragazzo troppo giovane per parlare di delusioni? No, semplicemente un adolescente che ha vissuto a pieno le sue emozioni.

Ho avuto il piacere di intervistare lo scrittore di questo testo di poesie.

Dopo le svariate domande fatte a Davide, tra una risposta e l’altra, posso aggiungere che questo libro sicuramente è quello che lo rappresenta di più, ed ho avuto la conferma stessa dello scrittore, aggiungendo che per lui racchiude momenti forti della sua vita.

Un ragazzo pieno di sentimento, pieno di sogni, un amante dei viaggi, che vede come un modo per ritrovare se stessi lontano dalla routine quotidiana in cui l’unico rischio che riscontra è quello di perdersi; i viaggi invece ci permettono di vedere lontano dai nostri occhi e dalle solite cose che ci circondano, per permetterci di ritrovare ciò che perdiamo ogni giorno senza accorgercene.

Con il suo modo di vivere, che definisce a colori, Davide vive “Londra”.

Un giovane ragazzo che sa ciò che vuole veramente nonostante la sua giovane età. Un ragazzo di grande sentimento, ma soprattutto grande passione per quello che scrive.

Un “piccolo Giacomo Leopardi” del ventunesimo secolo, ricco di speranza ma anche di dolore e passione.

“Il silenzio di chi ama” è privo di trama ma ricco di susseguirsi di poesie che hanno lasciato qualcosa nel suo cuore e che ha voluto condividere con tutti coloro che ancora in fondo provano un sentimento, ed è così che la trama si snoda tra le pagine.

Davide, il ragazzo dai sentimenti forti, ci fa capire che bisogna guardare dentro noi stessi e non aver paura di esprimere ciò che si nasconde nel nostro cuore.

 

 

Dalila De Benedetto                                                                                                                                                                                                         

Alda Merini, la poetessa dei Navigli

Alda Merini, una poetessa dalla sensibilità elevata, simbolo, anche, del malessere degli individui; malessere che per lei aveva come paracadute soltanto la poesia.

Alda Merini nasce il 21 marzo del 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Nelle brevi note biografiche si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere malinconico, isolata e poco compresa dai genitori.

Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico.

La storia della Merini è una storia molto particolare, la sua vita non è stata monotona, ma al contrario caratterizzata da emozioni fortissime. Il suo malessere inizia a farsi vivo con quelle che lei stessa definì nel 1947:

prime ombre della sua mente“.

Era già sposata e madre felice ma, come tutti noi esseri umani, aveva momenti di stanchezza e tristezza. Parlò di questi suoi piccoli problemi al marito che non solo non comprese nulla, ma fece ricoverare la moglie nella clinica Villa Turro di Milano.

Alda Merini soffriva di disturbo bipolare che all’epoca era considerato semplicemente un costante cambiamento d’umore. Questo problema era la “marcia” in più per lei: riusciva a vedere cose laddove gli altri non riuscivano a vedere e di conseguenza a creare poesie e aforismi impressionanti, capaci di colpire nel profondo il lettore. Il malessere di cui ha sofferto Alda Merini è stato logorante per lei. La sua vita è stata un mix di emozioni e gioie, legate però a perenni dolori. Questa sua condizione trovava sfogo, prima che sui fogli, sulle pareti delle sua camera da letto, tappezzata da frasi, aforismi e riflessioni sulla vita, sull’amore.

Scritte con il rossetto in ogni angolo, sugli specchi, vicino il letto, in ogni parte della casa.

La vita della poetessa dei Navigli non è stata molto facile in manicomio. Come disse spesso, lei non si riteneva pazza e ne era consapevole; si ribellava ai medici e alle cure a cui la sottoponevano. Il ricordo peggiore è quello dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove lo “somministravano” come un luogo terribile, dove ti saliva l’ansia e la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inerme le pene patite nella stanza vicino. La Merini però può ritenersi relativamente fortunata perché la sua reclusione, malgrado tutto, non durò molto. Quando uscì, in ogni caso la sua persona ne risentì profondamente, tanto che la sua vita ruotò attorno all’incubo del manicomio. Luoghi di tortura legalizzati, dove i “matti“ non avevano nessun rapporto con l’esterno. Luoghi in cui ancora oggi si respira la crudeltà dell’uomo. La poetessa racconta, in una delle sue interviste, che prima dell’elettroshock facevano una pre morfina e poi davano del curaro. Dopo anni in manicomio la Merini ritrovò una pace interiore per qualche tempo, ma i ricordi del passato riemergevano spesso. Lei considerava la poesia un’espressione di dolore, un dolore intimo, esclusivo del poeta, che, in quanto tale, è per natura più incline alla sofferenza. Ma accettò il dolore indossandolo “come un vestito incandescente, trasformandolo in poesia”. In una nota intervista alla domanda ‘Lei è felice?’ Alda rispose ‘La mia felicità è la mia rassegnazione. Sì, sto bene da sola, quando se ne vanno tutti e posso cominciare a pensare anche in questa piccola casa che tutti denigrano e dicono che è disordinata, non curata, polverosa. Ma questa polvere è polvere di farfalle come sono i pensieri! E se la togli non volano più.’

Ecco qualche passo delle sue poesie più belle…

Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti… Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

E poi fate l’amore
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca, sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure, baci sulle debolezze,
sui segni di una vita che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata. Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più. Ecco, fate l’amore e non vergognatevene, perché l’amore è arte, e voi i capolavori.

Solitudine
S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti.

Alda Merini visse la solitudine del malato che non è solo fisica – essere chiusi tra le quattro mura di una clinica restando esclusi dalla vita fuori – ma anche psicologica: il malato è un diverso e per questo rimane isolato dalle persone ‘normali’. A proposito della solitudine in manicomio, in Diario di una diversa la poetessa scrive: “Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio”. Ma la diversità di Alda Merini che la condanna all’isolamento non è solo quella del malato, ma anche quella dell’artista: “scrivere una poesia è un momento di grande solitudine”, disse la Merini in un’intervista a Loris Mazzetti, aggiungendo che “il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione”.

Alda Merini ha avuto amori e figli, ma la solitudine – dell’artista e della reclusa – è stata la sua vera compagna di vita, che nella poesia ‘Piccoli canti’ infatti chiama ‘solitudine mia’, parlando di lei come di una vecchia amica che l’ha fatta soffrire ma di cui ormai non può fare più a meno, e a cui infine dice ‘tornerò, stanne pur certa’.

Concludo dicendo che questa grande poetessa dalla sensibilità elevata, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. Era bella e unica perché non rassicurava nessuno, non stava da nessuna parte, non difendeva verità assolute! Viveva l’amore con semplicità, sapeva custodire e proteggere il senso della vita. Prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina, dove i suoi dubbi più belli, le sue fragilità e i suoi versi sbattevano e battevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti della sua solitudine.

A tutti i giovani Alda lasciò un grande messaggio:

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini , da < La vita facile>.

Con queste sue intense parole Alda ci spiega il senso della vita, invita ognuno di noi ad amarla, amare i poeti e i libri “per volare oltre questa triste realtà quotidiana”.

Gabriella Puccio

Al via l’annuale concorso di poesia organizzato dal liceo “Galileo Galilei”

Oramai giunto alla sua 7^ edizione, anche per l’anno scolastico 2018/2019, il Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei” di Spadafora bandisce l’annuale Concorso di Poesia intitolato all’omonimo istituto sul tema:

“un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.” (U. Saba, Trieste)

Il concorso è rivolto a tutti gli studenti universitari dell’Ateneo di Messina, agli studenti universitari presso Atenei nazionali diplomati presso un istituto di istruzione superiore di Messina e provincia, agli studenti iscritti a scuole medie o superiori di Messina e provincia.
I componimenti inediti dovranno essere presentati entro e non oltre le ore 12 del 31 gennaio 2019 secondo le seguenti modalità: tramite posta (racc. AR) all’indirizzo LICEO SCIENTIFICO-LINGUISTICO “Galileo Galilei” – concorso di poesia – Via Nuova Grangiara, 98048 Spadafora (ME) (farà fede il timbro postale), oppure consegnandoli fisicamente presso la Segreteria del Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei”.

Ogni concorrente proclamato vincitore per la propria categoria riceverà un premio di € 200,00. Saranno inoltre assegnate pergamene con menzione di merito ai concorrenti autori di componimenti ritenuti particolarmente meritevoli dalla Commissione.
Il luogo e le modalità della premiazione saranno comunicati tramite missiva o telefonicamente ai vincitori del premio e alle scuole di appartenenza.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il regolamento presente nel bando: http://www.maurolicomessina.gov.it/wp-content/uploads/2018/12/Bando-concorso-di-poesia-Liceo-Galilei-2018-2019.pdf .

 

Claudia Di Mento

Pietro Castelli: il docente che fondò a Messina il più antico Orto Botanico in Sicilia

Pietro Castelli. Questo nome, riferito al contesto messinese, in un primo momento evoca nient’altro che il nome di una via o quello dell’Orto Botanico cittadino. Eppure, soprattutto noi studenti, dovremmo sapere che il signore in questione è stato uno dei più illustri Professori del nostro Ateneo.

http://www.ortobotanico.messina.it/home_page/storia_dell_orto/00000192_PIETRO_CASTELLI__1580_1661_.html

Romano, nato intorno al 1570, è stato un medico e un botanico. Studiò medicina nella sua città, sotto le direttive di Andrea Cesalpino, di cui fu discepolo. Presso la stessa università di Roma cominciò ad insegnare sul finire del secolo. In quegli stessi anni diresse, all’interno degli Orti farnesiani (considerati il più antico orto del mondo occidentale, che sorse per volere della famiglia Farnese sul Palatino), l’orto dei semplici, ossia quella superficie ove venivano coltivate le piante medicinali per la preparazione dei farmaci. A quel periodo, precisamente al 1625, risale Hortus Farnesianus, una descrizione delle piante presenti in quell’orto, corredata da realistici disegni. Tale opera fu stampata sotto il nome del medico e direttore degli Orti farnesiani Tobia Aldini, ma in realtà secondo molti studiosi fu scritta interamente da Castelli.

Al 1631 risale il suo trasferimento nella città dello Stretto; qui, nel ruolo di Professore dell’Università, fin da subito sollecitò la realizzazione di un orto in cui fossero presenti le varie tipologie di piante medicinali. Scrisse egli stesso: «Arrivato che qui fui, considerando quanto era necessario l’Horto de’ semplici [] ne feci più volte istanza all’Ill.mo Senato; finalmente fui inteso nell’anno 1638 [] E mi fu consegnato il fosso fuori delle mura, tra i due ponti, lungo canne 72 et largo 24 et oltre il ponte canne 200…». Nacque così a Messina, nel 1638, il primo Orto Botanico della Sicilia, che successivamente verrà intitolato proprio al suo fondatore. In esso, cominciarono ad essere coltivate tantissime specie vegetali, provenienti da tutta Italia, dalla Sicilia (specialmente dalla zona dell’Etna) e anche dai vicini paesi africani. Innovativo fu anche il modo in cui Castelli procedette a dividere le varie specie, attraverso dei criteri che riflettevano le sue idee in merito alla classificazione degli organismi vegetali. In poche parole, la suddivisione da egli operata si basava sulla parentela tra le piante, che era dedotta paragonando le caratteristiche dei fiori e dei frutti di ognuna di esse. Un metodo sistemico-filogenetico, insomma, che diventò poi il punto di partenza per l’organizzazione degli orti botanici moderni.

Nel 1640 Castelli volle mettere nero su bianco quanto aveva creato e così pubblicò un’opera, dal titolo “Hortus Messanensis”, in cui descrisse minuziosamente l’orto e in particolare la suddivisione che ivi aveva attuato, in quattordici sezioni (“hortuli”) in base appunto al suo metodo di classificazione delle piante. Ognuno di questi hortuli portava il nome di un Santo e a sua volta era diviso al suo interno in numerose aiuole.

http://www.ortobotanico.messina.it/home_page/storia_dell_orto/00000030_Primo_periodo__L_antico_Orto_Botanico.html

 

Pietro Castelli avrebbe vissuto a Messina ancora per oltre un ventennio, finché la morte non lo colse proprio nella città dello stretto nel 1661, non prima però che venisse nominato Nobile della città di Messina dal Senato cittadino che riconobbe certamente i suoi grandi meriti. Dopo la sua morte, l’Orto botanico fu intitolato alla sua memoria e venne affidato alle cure e alla direzione di un altro eminente medico e botanico, Marcello Malpighi.

Francesca Giofrè

Falvetti ritorna a Messina: finisce una attesa durata oltre tre secoli

A volte ritornano. È davvero il caso di dirlo, perché spesso la memoria storica si comporta in modo strano: capita spesso di leggere di personaggi che ai loro tempi erano quasi degli sconosciuti che muoiono soli e dimenticati da tutti, ma dopo la morte ricevono la fama meritata.
Più raramente, capita anche di incontrare casi contrari: personaggi famosissimi ai loro tempi, celebrati ed acclamati come i più grandi della loro categoria, scivolare lentamente nell’oblio e restarci magari per secoli, dimenticati da tutti.
In realtà, non sappiamo a quale di queste due categorie fosse appartenuto Michelangelo Falvetti, compositore di origini calabresi che operò a Messina come maestro di cappella del Duomo, a partire dal 1682. Quello che è certo è che con lui la Storia è stata davvero impietosa: dimenticato per secoli; riemerso dalle sabbie del tempo una decina d’anni fa, con grande successo internazionale di pubblico e critica; ma ancora completamente ignoto nella sua città, la città che lo vide formarsi e scrivere alcuni dei suoi lavori più belli, Messina.
Aveva ragione il Poeta: nemo propheta in patria. Ma la ruota gira e con l’anno che viene, Messina potrebbe assistere al ritorno a casa di questo suo grande figlio dimenticato.
Noi di UniVersoMe vi avevamo già raccontato la sua storia in un nostro vecchio articolo sulla rubrica Personaggi e avevamo chiuso auspicandoci che in un futuro non troppo lontano le sue note potessero tornare a risuonare nella città dello Stretto. Adesso pare che questi auspici siano diventati realtà: domenica 6 gennaio, alle ore 18:00 al PalaCultura, nel contesto della programmazione concertistica della Filarmonica Laudamo, andrà in scena “Il Diluvio Universale”, oratorio in quattro atti considerato il capolavoro di Michelangelo Falvetti, da lui scritto in occasione del suo insediamento come Maestro della Real Cappella del duomo di Messina.
Sotto la bacchetta del Maestro Carmine Daniele Lisanti, contrabbassista, compositore e direttore ormai veterano nella scena musicale messinese, il coro polifonico “Luca Marenzio” si cimenterà nell’esecuzione di questo “dialogo a cinque”, accompagnato dagli strumentisti dell’Ensemble Orpheus, esperti in pratiche esecutive storiche, su strumenti d’epoca. Parteciperanno all’esecuzione anche il coro di voci bianche “Piccoli Cantori di Barcellona P.G.” diretti dal Maestro Salvina Miano e il coro “Note Colorate”, del Maestro Giovanni Mundo.
L’oratorio, piccola gemma del vasto repertorio di musica sacra tardo-seicentesca, si articola in quattro atti che parafrasano la vicenda biblica del Diluvio Universale, mettendola in scena senza rinunciare al gusto tutto barocco per il drammatismo e la spettacolarità. A dialogare col coro e l’orchestra, i solisti Santina Tomasello e Alessandra Foti (soprani), Caterina d’Angelo (contralto), Angelo Quartarone (tenore), Simone Lo Castro, (controtenore), e Daniele Muscolino (basso) impersoneranno i protagonisti dell’oratorio: i quattro elementi Aria, Acqua (soprani) Fuoco (tenore) e Terra (basso), la Giustizia Divina (contralto), Noè (tenore), Rad (soprano), Dio (basso), l’Humana Natura (soprano) e la Morte (contralto).
Sarà un evento di musica e cultura da non perdere, che si spera possa costituire uno dei tanti passi, per la città di Messina, verso il recupero della propria identità artistica e culturale, per secoli trascurata, ma sempre pronta a rifiorire in tutta la propria bellezza.

Gianpaolo Basile

Santi Pietro e Paolo: un monastero basiliano nell’antica valle fluviale d’Agrò

A poco più di 40 km da Messina, nella natura boschiva dei Monti Peloritani, sulla costa Jonica, sorge nella sua solitudine non ancora intaccata, una chiesa di impianto bizantino e arabo-normanno. Quasi senza dare alcun preavviso di sé appare in mezzo al verde, nei pressi di Casalvecchio Siculo, dopo avere percorso un itinerario che si inerpica su strade di campagna. La valle, abbracciata tutto intorno dal torrente Agrò, uno dei corsi d’acqua maggiori della costa, che deve il nome alla parola αγρός, terra coltivata, grazie alla presenza dei campi è stata frequentata dall’uomo fin dai tempi antichi. Ne sono una testimonianza i ritrovamenti risalenti al neolitico, ma nei secoli molti altri popoli tra cui fenici, greci, bizantini e arabi hanno coltivato e abitato le terre fertili attorno alle sue acque, disseminando nel territorio una serie di centri urbani. Dall’antica Phoinix, emporio dei fenici, al cui posto oggi sorgono i comuni di Savoca e Santa Teresa, furono prelevate anche sei colonne di granito utilizzate per riedificare la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo.

Esito della convergenza nel tempo diversi stili architettonici, il complesso si presenta oggi in discreto stato di conservazione. Dal profilo esterno, osservando la merlatura del tetto, è chiaro che ebbe un tempo il ruolo di fortezza: la sua particolare posizione permetteva ai monaci, fin dall’epoca normanna, di tenere d’occhio la valle che collegava il mar Tirreno allo Ionio. In base all’Atto di Donazione, scritto in greco nel 1116, che fu tradotto in latino da Agostino Lascaris, il conte Ruggero II D’Altavilla, durante un viaggio da Palermo a Messina, incontrò il monaco Gerasimo dell’ordine dei basiliani. Il frate chiese al sovrano normanno il consenso per edificare la chiesa e coltivare i campi nel territorio, ottenendo la facoltà anche di controllare un intero villaggio, dove oggi sorge il borgo di Forza D’Agrò. In seguito a un violento terremoto che colpì la Sicilia orientale nel 1169 la chiesa venne ristrutturata dall’architetto Gherardo il Franco, come si osserva dall’iscrizione in greco che appare nell’architrave del portale dell’edificio.

Le origini della costruzione risalgono però a epoche più remote. Il nucleo della chiesa è bizantino e può essere datato al 560 d.C. Il motivo a spina di pesce e l’alternanza del bianco e del nero delle pietre laviche dell’Etna nelle decorazioni esterne  sono alcuni degli elementi che si possono riconoscere di questo stile, evidente anche nella croce di tipo bizantino incisa nella porta di ingresso. All’elemento arabo, risalente alla fase di conquista islamica, è da ricondurre la forma caratteristica delle cupole e il disegno ad alveoli che sorregge quella che delle due copre il presbiterio. L’abside, rivolto verso est, assume all’esterno la forma di un torrione rettangolare, mentre ai lati dell’ingresso principale compaiono due torri, caratteristica, questa, delle grandi cattedrali normanne, come quelle di Cefalù e Monreale. All’interno invece la pianta si presenta a tre navate, con volta a crociera nelle navatelle e piana nella copertura centrale. Priva di elementi pittorici conservati, appare spoglia e raffinatamente decorata nella struttura in pietra. Pochi ruderi restano invece di quella che fu un tempo la biblioteca che costituiva parte dell’edifico annesso all’abbazia.

L’insieme di più stili, elemento che richiama la storia dei popoli che hanno colonizzato la Sicilia e la sua ambientazione silenziosa, oltre all’atmosfera sacrale che l’avvolge, fanno della Chiesa di San Pietro e Paolo D’Agrò un gioiello dell’architettura siciliana. Dopo che anche una richiesta ufficiale è stata avanzata per l’inserimento tra i siti UNESCO c’è da sperare che si prosegua nell’operazione di valorizzazione e promozione turistica dell’abbazia e del suo comprensorio. Attualmente la chiesa è accessibile al pubblico ed è possibile visitarla negli orari di apertura.

@FOTO DI Salvatore Cambria

Eulalia Cambria

Le opere di Antonello in una grande mostra a Palermo. Il parere contrario degli esperti

Sarà uno degli appuntamenti più attesi nell’ambito delle iniziative conclusive promosse da Palermo capitale della cultura 2018. Nel capoluogo sta per essere infatti inaugurata una mostra dedicata al famoso artista quattrocentesco. L’esposizione, dal 14 dicembre al 10 febbraio, si svolgerà a Palazzo Abatellis, dove già si trova il celebre dipinto dell’Annunciata.

La rassegna intende celebrare in un unico spazio espositivo la personalità di Antonello da Messina riunendo un percorso inedito tra tavole provenienti da diverse collezioni. Il curatore, Giovanni Carlo Federico Villa aveva promosso nel 2006 di un’iniziativa simile alle Scuderie del Quirinale a Roma.

L’idea di questa mostra antologica non è stata però accolta con eccessivo entusiasmo da parte degli esperti in Storia dell’Arte e Beni Culturali. Dopo Palermo le opere di Antonello contenute nel Museo Regionale di Messina dovrebbero essere spostate anche al Palazzo Reale di Milano; il Polittico di San Gregorio e la Tavoletta bifronte per alcuni mesi verranno quindi trasferite altrove e non saranno più disponibili ai visitatori del rinnovato plesso museale di viale Libertà.

Così un gruppo di docenti e operatori culturali ha redatto e firmato un documento per esporre le ragioni della presa di posizione avversa all’iniziativa. Secondo il parere degli esperti spostare il Polittico rappresenterebbe un rischio per lo stato di conservazione della tavola, sensibile ai cambiamenti di umidità e temperatura. Inoltre privare delle opere di Antonello il Museo Regionale di Messina non porterebbe un ritorno di immagine favorevole all’offerta culturale e turistica della città dello Stretto.

Il Prof. Roberto Cobianchi, docente di Storia dell’Arte al DICAM, si è espresso con queste parole:

Se si tratta di un’occasione di studio nuova va bene, altrimenti non ha senso spostare un’opera semplicemente perché è di un autore di grande notorietà. Mi pare che nella bibliografia recente non ci siano delle novità documentali o attributive che giustifichino una nuova mostra su Antonello. Sarebbe auspicabile che il pubblico andasse a vedere le opere nel contesto in cui si trovano e che si abituasse ad andare con regolarità al museo. Non ritengo corretto privare i visitatori del Museo di Messina di quest’opera chiave, se non a fronte di una seria operazione culturale. Purtroppo oggi il pubblico è spinto, a volte con dei sotterfugi pubblicitari, ad andare a vedere le mostre, ma non sempre le mostre danno un vero contributo alla conoscenza dei problemi intono ai quali vengono costruite. Troppo spesso propongono una sequenza di ‘capolavori’ di autori dai nomi molto noti, ma non insegnano nulla. (L’Eco del sud)

Eulalia Cambria

Messina e le sue dolci tradizioni

Siamo a Messina, terra di antiche dominazioni e influenze straniere. Terra di passaggio, grazie alla sua posizione di favore sul Mediterraneo che ne ha fatto punto di approdo per numerosi popoli, alcuni dei quali si soffermarono più a lungo di altri lasciando un po’ delle loro tradizioni anche sulle nostre tavole che ritroviamo ancora oggi, soprattutto in alcuni dolci della tradizione messinese.

A differenza del resto della Sicilia presenta influenze arabe molto minori, il che rende i suoi dolci molto meno zuccherati e melensi. Si sa, la città dello Stretto è famosa in fatto di dolci, con i quali contribuisce notevolmente al buon nome di tutta la Sicilia con cui condivide molte delle sue specialità, forte della sua antichissima storia, interessata soprattutto dall’influenza greca e spagnola.

La tradizione vuole che, a seguito della dominazione spagnola del 1600, allorquando la città stava passando un periodo di grande depressione, le monache di un convento di clausura – esistente ancora oggi – in occasione di feste popolari cominciarono a fare dolci da offrire alla popolazione, spesso da loro inventati come: Nzuddi, un biscotto mandorlato all’uovo, immancabile nella pasticceria panaria messinese. I Sospiri di Monaca, anch’essi immancabili nella piccola pasticceria delle domeniche messinesi. Si tratta di soffici savoiardi ripieni di ricotta dolce, il quale nome sembra proprio provenire dalle loro creatrici che si dice sospirassero di gioia ogni volta ne mangiassero uno.  Si racconta, inoltre, che in occasione del Carnevale offrissero quelli che risultano essere i diretti antenati della famosissima Pignolata. Si trattava, inizialmente, di mucchietti di pinoli fritti e amalgamati col miele che avevano la forma di una pigna, da cui il nome di pinolo del biscotto e pignolata dell’intero dolce. Successivamente si cominciò a mischiare insieme al frutto della pasta all’uovo; l’esperimento ebbe degli ottimi risultati e col passare del tempo la pasta all’uovo sostituì in toto i pinoli, fino a renderlo il dolce gustoso e ricoperto di glassa –  nella versione cioccolato e limone –  che ben conosciamo oggi.

Nel periodo pasquale l’aria dello stretto si profuma di cannella e semi di sesamo, e dai forni di tutto il messinese l’aroma dolce e pungente attira i cittadini in cerca dei morbidissimi Panini di cena, le cui origini si perdono nella tradizione della città. Questi dolci rappresentano il pane che Gesù condivise con gli Apostoli durante l’ultima cena e per questo tradizione vuole che si facciano il Giovedì Santo, anche se spesso ormai si trovano anche fuori periodo. Curiosa è la tradizione messinese circa la produzione di particolari dolcetti correlati alla festa dei defunti: le ossa di morto ( c.d morticini), proprio a ricordare, sia nel nome che nella forma, l’oggetto della celebrazione. Si tratta, infatti, di dolcetti composti dalla bicroma pasta garofalo bianca e nocciola. E i più allegri e colorati dolci in pasta reale che per via della loro forma, che riproduce fedelmente svariati frutti, sono comunemente conosciuti come frutta martorana.

Proseguendo nel calendario delle feste, Immacolata fa rima con Niputiddata, dolcetti dalla pronuncia tutta messinese e dalla classica forma a stella. Fatti di pasta frolla molto sottile, profumano l’aria in città nel periodo natalizio con il loro ripieno di frutta secca, fichi secchi, mandorle, canditi e cacao. Ma al di là dei periodi festivi, ci sono dei veri e propri must, che non possono mai mancare sulle tavole dei messinesi, che oltre ad essere delle delizie per il palato sono dei veri e propri momenti di sacra convivialità. E’ il caso del dolce messinese per eccellenza, quello che dopo una lunga e stressante settimana ti dice che finalmente è arrivata la domenica, quello per cui “uno spazietto libero lo trovo!” sempre, quello che non si conta in fette, pezzi o porzioni, ma “palle” è la sua unità di misura. Stiamo parlando del – rigorosamente chiamato – Bianco e Nero, il piramidale mucchietto di profitteroles ripieni di panna montata (il bianco), e ricoperti accuratamente da una crema al cioccolato (il nero), e con le immancabili scaglie di cioccolato, sottili da sciogliersi in bocca. Insomma, un vero e proprio classico immancabile. E’ la volta delle dolci salate sfinci messinesi, dolci fritti, ricoperti di zucchero semolato e tipicamente ripieni di uva passa. Il nome deriva dal latino spongia, spugna, a sua volta mutuato dal greco a indicare la loro consistenza morbida e irregolare come una spugna. Gli arabi le soprannominavano sfang.

Forse meno conosciuto a chi non è del posto, il Lulù alla messinese, un sorprendente dolce fatto di pasta choux (o pasta bignè) di solito abbastanza grande e dalla forma bizzarra e irregolare – quasi a ricordare un cavolo – ripieno di panna e talvolta anche di crema al cioccolato. A Messina, durante tutto l’anno, è possibile mangiare delle dolcissime pesche. Parliamo di un dolce dalla tipica forma ispirata fedelmente all’omonimo frutto. Si tratta di due mezze sfere di pasta brioches, tenute insieme al centro da uno spesso strato di crema chantilly e guarnite con ciliegie candite. Non sono tipiche di un momento o periodo precisi, ma vanno mangiate a sentimento, il momento giusto è esattamente quello in cui se ne ha voglia, che sia la colazione, la merenda o un qualsiasi momento della giornata.

Stilare una lista completa di tutti i dolci della tradizione messinese risulta impresa davvero ardua, ma un focus sulle specialità dedicate alla colazione è d’obbligo.
Decretata patrimonio dell’umanità direttamente dai messinesi, la Granita. Lei, l’unica e inimitabile, invidiata in tutto il mondo e oggetto di continue imitazioni che per i messinesi fa rima con profanazioni. Quella che per il resto del mondo non è altro che ghiaccio tritato guarnito con sciroppo, nella sua versione originale si tratta di una semplice miscela di acqua e purea o succo di frutta fresca di stagione o con caffè e cacao, addolcita a piacere e lasciata gelare in freezer per poi essere servita appena frullata e con aggiunta di panna appena montata nella sua versione “mezza con panna“, accompagnata dall’insostituibile brioche col tuppo, da intingere accuratamente. Anche la granita risale al periodo arabo della Sicilia e deriverebbe dal loro sherbet. In origine si usava la neve raccolta sui monti Nebrodi e la granita era chiamata rattata (grattata). Poi la neve passò da ingrediente a refrigerante. Insomma, una terra di tradizioni e storia non solo da raccontare ma anche da mangiare fatta di riti gelosamente custoditi, ma anche generosamente condivisi col resto del mondo, che hanno fatto della pasticceria siciliana una delle più famose al mondo.

 

Giusi Villa